Canova e la “villa più bella del mondo”

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Canova e la “villa più bella del mondo”
 Canova e la “villa più bella del mondo” di Fernando Mazzocca *
Mentre nel 2007 scadono i duecentocinquanta anni dalla nascita di Antonio Canova (avvenuta Possagno il 1 novembre 1757), il 2008 rappresenta due secoli dalla conclusione della statua di Paolina Borghese Bonaparte come Venere Vincitrice, una delle statue più celebri di tutti i tempi e forse il più popolare dei capolavori dello scultore che per molti anni, tra Sette e Ottocento, è stato, così come lui aveva fatto con la sua creatura, divinizzato e considerato il maggior artista del mondo occidentale. Ma il 1808 rappresenta una data fatidica anche per le raccolte della famiglia Borghese, quando i marmi antichi che ne avevano rappresentato la gloria, dopo la controversa vendita da parte del principe Camillo al cognato Napoleone Bonaparte, presero, come era già avvenuto nel 1797 in seguito al trattato di Tolentino per quelli vaticani, la via di Parigi dove furono collocati nella magnifica sezione des Antiques del Louvre, allora Musée Napoleon. In quella eccezionale circostanza ai due convogli partiti da Roma in due fasi successive furono uniti, ben custoditi in casse, alcuni capolavori di Canova destinati alla Francia e ad essere presentati al Salon di quell’anno. Si trattava della statua sedente di Letizia Ramolino Bonaparte (Madame Mère) voluta dal figlio Napoleone (oggi a Chatsworth, Devonshire Collection), arrivata col primo carico, e della prima versione, quella con la nuvola poi eliminata nella seconda, dell’Ebe realizzata per l’imperatrice Joséphine (San Pietroburgo, Ermitage) che stava nutrendo l’ambizione di diventare, come avverrà presto, il maggior collezionista di opere canoviane. Quindi la Venere Vincitrice, appena conclusa e che sarà esposta verso la metà del luglio 1808 nello studio dello scultore, restava (almeno per il momento e solo per pochi mesi, prima di essere trasferita ‐ pur contravvenendo al desiderio del pontefice che avrebbe preferito non partisse ‐ con il suo committente Camillo divenuto Governatore del Piemonte a Torino) a Roma (e vi tornerà definitivamente nel 1814) a risarcimento, almeno parziale (era certamente all’altezza dello splendido Ermafrodito cui del resto era ispirata nel motivo del nudo disteso), di quella grave perdita, avvertita dallo stesso Canova, quando nel 1810 si incontrò con Napoleone a Fontainebleau, come una incancellabile vergogna per i Borghese. Arrivò a dire “Gran orrore Maestà! Quella famiglia sarà disonorata fino a che vi sarà storia! Vendere capi d’opera di quella sorte. Una famiglia così ricca. Una famiglia che il padre avea speso un tesoro ad accomodare la villa, villa la più bella del mondo…”. *
Professore ordinario di Storia della Letteratura artistica all'Università degli Studi di Milano
Oggi la “villa più bella del mondo” rende omaggio allo scultore che tanto l’aveva amata, sin dal suo primo soggiorno a Roma quando il 15 novembre 1779 ‐come ricorda nei celebri Quaderni di viaggio era entrato in quel luogo giudicato subito “un Paradiso”, intendendo ricreare , nel dialogo tra le statue di Canova, i capolavori di Bernini e i marmi antichi, un’atmosfera simile a quella che si doveva respirare al Salon del 1808, dove la presenza di Canova era stata fortemente voluta dall’amico Quatremère de Quincy che, ponendosi come il suo più accreditato interprete, intendeva consacrare in quello che era allora il centro del mondo la fama internazionale (i numerosi apologeti avrebbero detto “universale”) dell’artista identificato come il “classico moderno”, colui che, restituendo all’Italia il suo antico primato come terra dell’arte, aveva eguagliato (se non forse superato) la perfezione degli antichi. Il curioso equivoco per cui le sculture canoviane esposte (che erano, ricordiamo, con la Madame Mére e l’Ebe, altri due capolavori come l’ Amore e Psiche stanti la replica eseguita per l’imperatrice Josephine, conservata all’Ermitage, del gruppo oggi al Louvre già acquistato da Murat e ora in mostra, e come la Maddalena penitente opera amatissima, anch’essa qui presentata, con cui si chiudeva trionfalmente il primo decennio trascorso a Roma, allora acquistata da Giovanni Battista Sommariva uno dei maggiori collezionisti di Canova) comparvero, per la mancanza di tempo nell’approntarli, senza cartellini , per cui vennero confuse con le statue antiche del Musée Napoleon presenti nelle sale vicine, alimentò la leggenda di Canova e confermò il giudizio espresso da Quatremère che, comunicando all’amico “non s’è parlato, per quasi dire, d’altro che di voi”, ribadiva “non vi conviene altro confronto” se non quello con gli antichi. Da una bella lettera inedita, conservata nell’immenso fondo epistolare canoviano di Bassano, del cardinale Joseph Fesch, zio materno di Napoleone, a Canova del 22 ottobre 1808 si conosce il desiderio di Paolina di far conoscere il proprio ritratto a Parigi: “Più di una volta la Principessa Borghese a scritto al suo marito di far venire la sua statua; ma questo Signor gli promette sempre e sempre lo dimentica. Converrebbe che ne parlaste alla principessa Borghese madre, o pure ne scriveste voi stesso al Principe”. Da una nuova missiva, del 29 aprile 1810, si capisce che la resistenza di Camillo non era stata superata, dato che “il Principe Borghese è fino ad oggi nell’intenzione di guardare la statua della moglie in Turino, e non v’è altro mezzo per falra trasportare in Parigi, che la volontà dell’Imperatore”. Napoleone aveva altri pensieri e la Venere Vincitrice non arriverà mai a Parigi, forse a scapito della sua fama e della sua comprensione presso i contemporanei, rispetto ad altre opere di Canova. Ma poi la sua popolarità, legata anche alla discutibile e leggendaria reputazione della sorella dell’imperatore, sarà inarrestabile. Dopo vari spostamenti, come se non si sapesse dove meglio collocarla e dovuti con il clima moralistico della Restaurazione anche all’imbarazzo determinato dalla poca decenza del nudo in cui la principessa era stata ritratta, la Venere troverà finalmente nel 1838, dopo la morte prima di Paolina e poi di Camillo, la sua destinazione ideale a Villa Borghese collocata nella Stanza di Elena e Paride al primo piano, circondata dai dipinti di Gavin Hamilton uno dei primi estimatori ed ispiratori di Canova relativi al mito cui lei stessa era ricollegabile, per poi passare nel 1881, disfatto questo ambiente, nella sua collocazione attuale al centro della Sala I del pianterreno (l’ex Stanza del Vaso per l’originaria presenza del famoso Cratere con Dioniso e Tiaso detto volgarmente Vaso Borghese emigrato nel 1808 al Louvre), dove dialoga, in perfetta sintonia tematica, con i cinque dipinti settecenteschi della volta di Domenico De Angelis relativi a Il giudizio di Paride, Minerva e la Parca Atropos, Giunone e Eolo, Venere e Giunione e soprattutto Enea fugge da Troia e con le antichità, tra cui la Venere e Amorino, disposte in fitta sequenza lungo le pareti. Sia nella prima disposizione che nella seconda veniva esaltato il significato dinastico nella scelta del soggetto: Venere, progenitrice di Enea, quindi divinità eponima della famiglia Borghese che da lui discendeva. Nella Galleria questa magnifica statua, creata anche con l’intento da parte dello scultore di sfidare la pittura su un motivo che a quest’arte apparteneva a partire dalla Venere dormiente ( la popolare Venere di Dresda) di Giorgione Tiziano, gareggia in bellezza con le statue di Bernini, più che con quelle antiche cui pur è associata, e soprattutto in sensualità con i capolavori di Tiziano, o le Veneri sdraiate della scuola veneta, quelle di Girolamo da Treviso e Lambert Sustris, o con la Danae di Correggio, un’altra strepitosa acquisizione di Camillo Borghese. La Villa Pinciana rappresenta dunque l’ambiente ideale per la prima grande rassegna dedicata da Roma (a quindici anni dalla mostra allestita in Palazzo Ruspoli su Canova all’Ermitage) al grande scultore. Attraverso la riconsiderazione delle fonti, dall’Ermafrodito al dipinto canoviano della Venere giacente scoperta da un satiro del 1792, e dei magnifici disegni preparatori viene chiarita la genesi della Venere Vincitrice. Mentre la presentazione, per la prima volta affiancate, della mitica Venere Italica (iniziata nel 1804 e salita nel 1812 sul piedistallo della Venere dei Medici migrata al Louvre) e della cosiddetta Venere di Leeds vede l’esaltante confronto tra due diverse soluzioni, quella precedente e quella successiva alla Venere Vincitrice a tredici anni di distanza, del motivo della Venere stante che esce dalle acque. Altri rimandi eccellenti hanno richiamato in mostra capolavori sempre relativi alle sculture canoviane di genere grazioso e, sul versante tematico, associate a Venere, come i quattro Amorini in marmo che, riuniti per la prima volta insieme dalla Polonia, dall’Inghilterra, dall’Irlanda e dalla Russia, confermano la fama internazionale di Canova. Precedenti rispetto alla nostra Venere, così come il gruppo dell’Amore e Psiche stanti del Louvre, sono seguiti dalle Grazie (la prima versione voluta dall’imperatrice Joséphine) una delle opere più emblematiche della poetica di Canova e anch’essa legata al motivo della bellezza vincitrice, civilizzatrice. Vedere allora in sequenza, come in questa mostra, la Venere Vincitrice, le Grazie, le due Veneri in piedi (da Firenze da Leeds), ma anche Amore e Psiche stanti, la Naiade del Metropolitan Museum di New York e la Ninfa dormiente del Victoria and Albert a Londra, che riprendono dall’Ermafrodito Borghese e dalla Venere Vincitrice il motivo del nudo sdraiato, viene in mente la magnifica litografia dedicata alle “statue gentili e amorose”, pubblicata nel 1840 a Parigi dal veneto Michele Fanoli all’interno di una serie di cinque magnifici fogli litografici di grande formato, ciascuno dedicato a opere di tema affine opportunamente ambientate (i soggetti religiosi in una chiesa, quegli eroici in un’arena, le tombe e i mausolei in un vasto sotterraneo, i ritratti in un panteon), destinati a rilanciare, dopo la fondamentale monografia Canova et ses ouvrages edita nel 1834 da Quatremère de Quincy, il mito dello scultore. Tra le “statue gentili e amorose, radunate in due ordini lungo il bordo di una monumetale piscina, spiccano, disposte al centro, come se sorgessero dallo specchio delle acque, in primo piano la Venere Vincitrice e subito dietro le Grazie, dunque abbinate, come già nell’interpretazione di Leopoldo Cicognara nella Storia della scultura (1813 – 1818), quale massima espressione del tema della bellezza trionfatrice, chiamata a civilizzare e dominare il mondo. La famosa Tersicore, appartenuta a Sommariva e concepita come ritratto idealizzato di Alexandrine Bleschamps moglie di Luciano Bonaparte, e La principessa Leopoldina Esterhàzy Liechtenstein, raffigurata mentre disegna come un’antica musa, tornata ed esposta per la prima volta in Italia, rappresentano, nella figura stante la prima e in quella sedente la seconda, le varietà iconografiche e formali del ritratto divinizzato, la tipologia di cui la Venere Vincitrice rappresenta l’espressione più alta. La presenza, accanto ai marmi, degli impressionanti bozzetti, dei dipinti e dei disegni, dominati dal fuoco del genio, rende questa mostra un percorso straordinario all’interno dell’officina del moderno Fidia, seguendo le mosse del genio dall’ “idea”, consegnata a pochi veloci e aggrovigliati tratti di matita, agli effetti sensuali dell’ “ultima mano”, dove la pietra diventava, come nella Venere, “vera carne”.