A Zacinto
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A Zacinto
Né più mai toccherò le sacre sponde ove il mio corpo fanciulletto giacque, Zacinto mia, che te specchi nell’onde del greco mar, da cui vergine nacque Venere, e fea quell’isole feconde col suo primo sorriso, onde non tacque le tue limpide nubi e le tue fronde l’inclito verso di colui che l’acque cantò fatali, ed il diverso esiglio per cui bello di fama e di sventura baciò la sua petrosa Itaca Ulisse. Tu non altro che il canto avrai del figlio, o materna mia terra; a noi prescrisse il fato illacrimata sepoltura. LIVELLO SINTATTICO. Rapporto ritmo-sintassi Se esaminiamo il sonetto prestando attenzione al rapporto tra la struttura sintattica dei periodi e il ritmo imposto dallo schema metrico, notiamo anzitutto la sproporzionata disposizione sintattica del materiale poetico tra le strofe in cui il sonetto si articola: un unico periodo, molto lungo e ricco di subordinate, occupa infatti entrambe le quartine e la prima terzina. Due brevissimi periodi, separati da un punto e virgola, occupano invece la seconda terzina. Nelle due quartine e nella prima terzina risulta evidente un impulso dinamico, sottolineato dai continui enjambements e dalla struttura sintattica (quasi impossibile da rendere degnamente in prosa), che fa rampollare le immagini l’una dall’interno dell’altra. Per evidenziare il fenomeno, è sufficiente compiere la parafrasi del sonetto, avendo cura di rispettare la sintassi del testo originale. Questa parafrasi sarà irrimediabilmente brutta: ma consentirà di cogliere – e ciò è importante ai fini della nostra analisi – l’originale struttura del testo. Le subordinate del primo blocco sono tutte proposizioni relative (la congiunzione «e» del v. 5 può essere logicamente intesa, infatti, come un pronome relativo). Tali relative arrivano fino al 6° grado di subordinazione. È necessario ricordare che la relativa è una proposizione che si riferisce a un sostantivo, non a un verbo. Ciò significa che l’affermazione inziale, demandata a un verbo preceduto da una triplice negazione («Né più mai toccherò le sacre sponde»), non potrà essere mutata, sul piano logico, dall’accumularsi di ulteriori proposizioni subordinate: l’azione rimane quella definita dal verbo e, rispetto al verbo, le subordinate non possono aggiungere nulla. La seconda terzina presenta invece un tono assertivo, ribadendo una situazione statica e immutabile: il poeta sembra esprimere con poche parole una sentenza inappellabile, anch’essa presentata in forma negativa, e resa ancor più lapidaria dalla struttura paratattica dei due brevi periodi. Livello stilistico: figure dell’ordine L’impulso dinamico che percorre il lungo blocco costituito dalle prime tre strofe è accentuato da alcuni espedienti formali. Oltre all’uso dell’enjambement cui si è prima accennato, da notare è la posposizione di vocativi e soggetti rispetto ai verbi (come si evidenzia nel testo sotto riportato). Quest’espediente (si tratta di una ripetuta anastrofe) conferisce fluidità al verso, obbligando a proseguire in una lettura che rompe i confini metrici canonici. Tale espediente, in effetti, si estende anche all’ultima terzina; ma in essa, data la brevità dei periodi, non produce lo stesso effetto ampio e avvolgente che si riscontra nelle strofe precedenti. Né più mai toccherò le sacre sponde ove il mio corpo fanciulletto giacque, Zacinto mia, che te specchi nell’onde del greco mar, da cui vergine nacque Venere, e fea quell’isole feconde col suo primo sorriso, onde non tacque le tue limpide nubi e le tue fronde l’inclito verso di colui che l’acque cantò fatali, ed il diverso esiglio per cui bello di fama e di sventura baciò la sua petrosa Itaca Ulisse. Tu non altro che il canto avrai del figlio, o materna mia terra; a noi prescrisse il fato illacrimata sepoltura. Livello metrico: gli accenti dell’ultimo verso Senza addentrarci in una dettagliata analisi metrica, possiamo osservare come l’ultimo verso presenti accenti marcatamente differenti dal resto della composizione («il fàto illacrimàta sepoltùra»). Risultano accentate la seconda, la sesta e la decima sillaba, il che determina un ritmo martellante, implacabile, quasi a voler ribadire anche a livello formale la crudeltà dell’affermazione su cui si chiude il sonetto. Questa particolarità metrica sottolinea ulteriormente la diversa natura della strofa finale del componimento rispetto a quelle precedenti. Livello tematico esplicito Il significato del testo appare, a prima vista, piuttosto chiaro. Zacinto rappresenta la Grecia, la patria, l’oggetto del desiderio inappagato del poeta esule. Si tratta di una patria reale (Foscolo c’era nato), ma anche di una patria mitica, perché rappresenta la terra della classicità, del mito, della bellezza. La tematica del rimpianto per la patria e quella del rimpianto per la classicità compaiono già nell’Ortis, un’opera che presenta, come sappiamo, una notevole affinità di contenuto con i sonetti, anche se le soluzioni formali adottate appaiono tra loro assai distanti. L’inizio del sonetto, segnato da una triplice negazione («Né più mai») sembra introdurre il risultato amaro di una precedente meditazione. Il poeta accetta, o sembra accettare, un distacco inevitabile, su cui ha lungamente riflettuto e al quale non trova alternativa alcuna. All’immagine del distacco segue una serie di immagini di classica bellezza, che culminano in una figura, quella di Ulisse, che rappresenta il ritorno, l’integrazione, grazie alla quale l’esule può essere risarcito delle sue sofferenze. Ma la conclusione del sonetto ripresenta, in forma disperata, la necessità dell’esclusione, contrapponendo il destino amaro del poeta a quello (travagliato ma infine felice) di Ulisse. Livello tematico implicito Bisogna ora verificare se questa esclusione sia solo esclusione dalla patria, o se – come accadeva nell’Ortis – non si sovrappongano in questo testo più sistemi di significazione. C’è una serie di indizi che suggeriscono la possibilità di una lettura profonda, non esplicita, del sonetto. Zacinto si collega infatti sistematicamente all’immagine di Venere, all’idea dell’acqua, della fecondità, nonché della maternità. Né più mai toccherò le sacre sponde ove il mio corpo fanciulletto giacque, Zacinto mia, che te specchi nell’onde del greco mar, da cui vergine nacque Venere, e fea quell’isole feconde col suo primo sorriso, onde non tacque le tue limpide nubi e le tue fronde l’inclito verso di colui che l’acque cantò fatali, ed il diverso esiglio per cui bello di fama e di sventura baciò la sua petrosa Itaca Ulisse. Tu non altro che il canto avrai del figlio, o materna mia terra; a noi prescrisse il fato illacrimata sepoltura. Zacinto sta nell’acqua, da cui nacque Venere che fecondò quelle isole. Zacinto inoltre è terra «materna». Il tema dell’acqua – che simbolicamente potrebbe richiamare l’immersione prenatale nel liquido amniotico – è sottolineato anche dalle rime delle quartine, tutte in «acque» e in «onde». Anche il participio negativo finale («illacrimata», un neologismo foscoliano) può essere collegato per contrasto al tema della fecondità: l’infelicità del destino del poeta è connotata anche come privazione di quell’elemento “liquido” che percorre gran parte del sonetto. Spingendo più a fondo l’analisi, si può rappresentare il rapporto del poeta con la sua terra madre secondo uno schema edipico. Una spia di tale rapporto può essere individuata nel verbo «giacque». Si tratta di un verbo fortemente polisemico. Esso indica propriamente la condizione infantile di abbandono e di perfetta integrazione con la madre; ma il verbo “giacere” può possedere anche una sfumatura erotica (spiegabile, appunto, all’interno del rapporto edipico); e può al tempo stesso alludere all’annullamento della vita (questo verbo si usa, infatti, anche per parlare dei morti). Se poi osserviamo il fatto che il poeta mostra di desiderare una sepoltura nella terra «materna», ci accorgiamo che la morte può essere a sua volta connotata come una forma di regressione a una condizione prenatale, come un ritorno, insomma, nel grembo materno. Ciò può contribuire a spiegare, a livello inconscio, il fascino che la morte esercita su Foscolo (fascino che risulta evidente nel sonetto Alla sera). È corretto obiettare che in questo sonetto, tuttavia, la morte viene raffigurata come definitiva e implacabile sanzione di un destino di esclusione. Ma tale obiezione è confutabile: ciò avviene, in realtà, sol perché in questo sonetto si parla di una morte che resterà «illacrimata», cioè destinata ad avvenire lontano dalla patria (come ci dice il livello delle significazioni esplicite) e dunque caratterizzata (a livello inconscio) dalla privazione dell’elemento femminile, materno, fecondante, vivificante, rappresentato nel sonetto dall’acqua. Proprio il che fatto la morte deplorata dal poeta sia «illacrimata» può spiegare il contrasto tra questo sonetto e Alla sera, poesia in cui la morte non appariva come esclusione, ma piuttosto come rifugio (di natura regressiva) dalla vita come tragedia. Quanto fin qui osservato ci induce a ritenere che l’esclusione dalla patria – oltre alla significazione storica dell’esilio – abbia anche quella edipica dell’esclusione del bambino dal possesso desiderato della madre. Si tratta di due livelli di significazione diversi ma paralleli, che si sovrappongono quasi perfettamente. Al livello delle significazioni storiche (esplicite) corrisponde perfettamente un livello di (implicite) significazioni inconsce. Il messaggio positivo a livello implicito Se ci spingiamo ancora oltre nell’analisi delle significazioni inconsce, possiamo osservare che questa poesia, proprio mentre da un lato nega – a livello logico, denotativo – la possibilità di una integrazione, di una riconquista dell’oggetto del desiderio, al tempo stesso riafferma prepotentemente – a livello connotativo – il bisogno di questa riconquista. E lo fa al punto di delineare, per il poeta, una concreta possibilità di riappropriarsi di quest’oggetto. Ciò ridimensiona fortemente il messaggio apparentemente negativo che il testo trasmette, e forse addirittura lo capovolge in un messaggio positivo. Se ci fermassimo al piano denotativo e logico, questo messaggio ci sfuggirebbe. Abbiamo infatti visto che il sonetto ha una struttura circolare che si apre sull’esclusione; e che esso poi ribadisce la definitiva realtà dell’esclusione, pur passando attraverso immagini di inclusione. Dunque, a prima vista, il discorso sembrerebbe chiuso. Eppure, come può notarsi già a una prima lettura, il rampollare di immagini positive che si espandono dinamicamente l’una dall’altra forza dall’interno, senza dubbio, la negatività delle asserzioni. Ciò che rimane nella mente del lettore sono anzitutto le immagini di bellezza, vita, limpidezza che discendono dall’invocazione «Zacinto mia». Ciò che è negato sul piano denotativo sembra dunque riaffermato su quello connotativo. Il desiderio coscientemente represso si impone lo stesso, anche se in forma indiretta e simbolica. Quali elementi consentono questa riaffermazione di ciò che, in apparenza, viene negato? - - - Il primo elemento lo abbiamo già esaminato: esso si riscontra nella struttura sintattica del primo periodo, per via del ruolo abnorme che in esso svolgono i sostantivi connotati positivamente e le relative in cui essi si espandono, e che finisce per mettere in secondo piano la lapidaria negatività del verso iniziale. Un secondo elemento può esserci indicato da un indizio formale, in sé tenue, ma non insignificante se letto nel contesto che stiamo delineando. Zacinto viene invocata con un aggettivo che ne riafferma il possesso («mia», v. 3); e quest’aggettivo è anagramma di «mai»: il poeta costruisce, potremmo dire, un’implicita riaffermazione, utilizzando (probabilmente non a caso) lo stesso materiale fonico con cui ha appena sancito la propria definitiva esclusione. Ma, soprattutto, a fornire indicazioni circa questa possibilità di lettura del sonetto è il sistema dei personaggi che in esso compaiono. Proviamo ad analizzare allora il rapporto che esiste tra ciascuno di essi e la figura del poeta. Il poeta e Venere. Tra questi due personaggi c’è un evidente parallelismo, perché entrambi sono nati a Zacinto. Questo parallelismo si condensa nell’espressione «sacre sponde»: le sponde sono sacre perché rappresentano la patria del poeta; e sono sacre anche perché rappresentano, tramite la figura di Venere, l’ideale perfezione mitica della classicità. Tuttavia il poeta, benché sia nato nella stessa patria della dea, appare escluso dal mondo di quest’ultima – come ha già mostrato l’analisi del tema dell’acqua – dal suo destino di sepoltura «illacrimata». Il poeta e Ulisse. C’è anche qui un parallelismo: entrambi i personaggi sono esuli per volere del fato (v. 9, per Ulisse, v. 14 per il poeta). Il poeta si specchia dunque nella “sventura” di Ulisse. Ma c’è anche contrapposizione, perché Ulisse rivede Itaca, anzi (e, se ha un valore la lettura edipica del testo, il particolare non è casuale) propriamente la bacia. Viceversa, il poeta è condannato all’esilio perpetuo. Il viaggio di Ulisse è insomma il viaggio teleologico dell’eroe classico. L’esilio del poeta è invece il viaggio senza meta dell’eroe romantico. La parola chiave è qui «diverso». L’aggettivo che designa l’esilio di Ulisse ha il significato del latino diversus: serve a designare un viaggio che “verte” altrove, non va dritto alla meta. Ma esso significa anche, semplicemente, che l’esilio di Ulisse è differente rispetto a quello del poeta. Il poeta e Omero. È con questo terzo personaggio, che non è nominato ma solo presentato attraverso un’ampia perifrasi, che la figura del poeta raggiunge una significativa identificazione. Essa è sottolineata dal ritorno del tema del canto: «cantò» (v. 9, verbo, riferito a Omero) - «canto» (v. 12, sostantivo, riferito al poeta). Così come il nome di Omero è taciuto, il canto del poeta è presentato, a livello logico, come ben poca cosa («tu non altro che il canto avrai»). Ma se tale canto consente, addirittura, di accostare il destino del poeta a quello di Omero, possiamo davvero dire che esso è cosa di poco rilievo? Si può pensare piuttosto, proseguendo nella lettura a livello inconscio, a un meccanismo di censura: i momenti in cui il desiderio si riafferma devono essere occultati sul piano logico, poiché il poeta non ha, per così dire, il “diritto” di affermare esplicitamente tale desiderio. Tuttavia, tale riaffermazione finisce lo stesso per forzare i limiti di questa censura. Osserviamo a tal proposito come ci viene presentato il canto di Omero, ossia dell’alter ego del poeta. Tale canto non è una scelta consapevole, bensì un istinto incoercibile, che si impadronisce dei poeti e non può essere represso dal controllo razionale. In tal senso, è significativo che Foscolo impieghi una figura retorica come la litote («non tacque», v. 6) per indicare lo sgorgare della voce poetica dsi Omero. La litote è significativa soprattutto se riflettiamo sull’identificazione tra Omero e Foscolo stesso: la volontà del canto, la necessità di usare la parola per esprimere la forza incoercibile del desiderio, viene espressa non in forma affermativa, ma attraverso la negazione della sua negazione (il verbo «tacere» è infatti, evidentemente, un verbo di significato negativo). È la forza del desiderio, potremmo dire, che travalica i limiti imposti dalla censura. L’identificazione tra il poeta e Omero appare, qui, quasi perfetta. L’istinto del canto, della parola, deve dunque essere sfogato. E ciò vale tanto per Omero quanto per Foscolo. Solo che il canto di Foscolo avrà come oggetto la terra della quale egli è figlio: dunque esattamente quel mondo materno, limpido, liquido, dal cui possesso egli si dice per sempre escluso. Ma proprio la necessità del canto potrà consentire, almeno in parte, il risarcimento di questo distacco. Il canto, la parola, insomma, riaffermano – in forma indiretta e simbolica – il possesso negato dell’oggetto del desiderio. Alla fine, dunque, la parola, la poesia, risultano l’unico modo consentito al poeta per raggiungere la propria aspirazione. Il Foscolo dei Sonetti sente il fascino della morte. Eppure, a differenza di Jacopo Ortis, egli non sceglie il suicidio. Si è aperta per lui la strada della parola, della poesia. Rimane ora da vedere cosa possa fare di concreto, la poesia, per sottrarre l’uomo alla sua condizione negativa. Quale sia l’importanza – tutt’altro che secondaria, come vedremo – che Foscolo attribuisce a questa facoltà dell’uomo. E la risposta sarà data nei Sepolcri. Un’opera che ci si presenta, fin dal suo titolo, come una poesia che parla della morte. Ma che ci si svelerà, alla fine della lettura, soprattutto come una poesia che parla della poesia.