Poeti in lingua e in dialetto

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Poeti in lingua e in dialetto
Poeti in lingua e in dialetto
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Associazione Culturale
La Guglia
Con il patrocinio di
Regione Marche
Provincia di Ancona
e
la collaborazione dei Comuni di
Agugliano - Camerata Picena
Polverigi
Si ringraziano
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POETI IN LINGUA E IN DIALETTO
a cura di Fabio M. Serpilli
LA CITTÀ DEI POETI
Poesia onesta 2007
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Definizione di poesia
È possibile definire la poesia?
Se diamo precedenza al dato etimologico, scopriamo che il greco
poièsis è un fare creativo. E storicamente la poesia è nata come narrazione. Così i tragici greci raccontavano le gesta della loro gente.
Il latino Virgilio incomincia l’Eneide con «L’armi canto e il valore del
grande eroe…» che denuncia una chiara funzione programmatica.
E quindici secoli dopo l’Orlando Furioso dell’Ariosto ha questo
avvio chiastico:
«Le donne, i cavalier, l’arme, gli amori,/ le cortesie, l’audaci imprese io canto…»
Con il tempo la parola poetica si volge alle vicende dell’uomo, alla
sua avventura interiore. Ed è un fare diverso…
… che ha tutti i caratteri del divenire. Un’efficace immagine dell’esperienza creativa è il vento. Shelley ne adotta la simbologia come elemento di creazione, di libertà, caos, sovvertimento dello status quo.
In due momenti solenni della Bibbia appare il vento (l’ebraico ruah
indica più precisamente il ‘soffio’): all’inizio «quando aleggiava sulle
acque» (Gen 1,2) nel caos che precede la creazione prima che erompi la parola fiat: ‘sia fatto’. E la parola è subito azione.
Si trova anche nella Pentecoste (Atti 2, 1-4) quando lo Spirito (gr.
Pnoès) scende sui discepoli come un vento che sconquassa casa e poi
di nuovo la Parola è presente in forma di lingue di fuoco. È la stessa dinamica che accompagna l’invasione poetica.
Nominando le cose, noi le estraiamo dal nulla. Il concetto è presente anche in Cesare Viviani: «La poesia è quella pratica che fa diventare tutte le parole nomi propri».
Uno degli incipit più alti della storia della letteratura, e non solo
religiosa, si ha nel vangelo di Giovanni (1,1): «In principio era la
Parola e la Parola era presso Dio e la Parola era Dio». Prologo che
si configura come una particolare forma di sillogismo da capogiro
teologico.
Sta di fatto che la poesia è la prima delle arti ed è la più povera, poiché con la sola parola il poeta deve creare tutto: immagini, colori,
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musica, profumi, azioni, scene… Proprio con la parola che è inodore, incolore, insapore…
È forse impossibile una definizione di poesia ma è una tentazione
comune a tanti autori contemporanei.
Per Italo Calvino, che riprende un famoso calco agostiniano, «la
poesia consiste nel far entrare il mare in un bicchiere».
«La poesia è abbandono - sostiene A. Zanzotto - ma richiede molta
accortezza e lavoro artigianale; nasce anche da ‘irruzioni’ spontanee,
che vengono dall’inconscio».
«Il poeta - approfondisce Maria L. Spaziani - registra il diario del
profondo, non può mentire e lavora sempre su materiali di verità».
Giovanni Raboni, invece, sottolinea l’inesprimibile: «Se sapessi riassumere la sostanza di quello che scrivo, avrei già rinunciato a esprimermi in versi.»
Continuando in ordine sparso in altri autori cogliamo aspetti particolari del fare poesia.
Claudio Magris: «La lirica si sporge sul ciglio del silenzio, una parola strappata al tacere e fiorita dal tacere». Non la pensa diversamente Kafka quando a un giovane poeta raccomanda meno rumore nei
versi. Dice una cosa analoga Paul Claudel: «La poesia è fatta del
bianco che resta sulla carta». (Le muse)
Montale mette la sordina: «La poesia è un prodotto assolutamente
inutile ma quasi mai nocivo e questo è uno dei suoi titoli di nobiltà, non il solo, essendo la poesia una malattia assolutamente endemica e incurabile».
J. Brodskij: «La poesia è lo scopo genetico dell’uomo. In questo
senso è l’esistenza, non la forma alternativa dell’esistenza».
Rivelatori infine i versi della Dickinson: «La bellezza non ha causa,
esiste…» e «Definizione della melodia / è che non ha definizione…»
Allo stesso modo non si può definire la poesia. Dopo di che tutti
la definiscono.
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Mario Luzi
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Ulteriori definizioni di poesia
Il presente accostamento di definizioni segue i criteri di contrapposizione e(o) contiguità semantica.
Ungaretti: «Quando trovo/ in questo mio silenzio/ una parola/ scavata è nella mia vita/ come un abisso». (Commiato da Il porto sepolto)
Su questo versante è il linguista Jakobson: «Oggetto della poesia è il
linguaggio».
Saba: «la letteratura sta alla poesia come la menzogna alla verità… La
poesia è un’azione, non una reazione».
Franz Kafka: «Il poeta… il suo canto, per lui personalmente, è soltanto un grido». (Conversazione con Gustav Janouch)
Michel E. De Montaigne: «Si può fare lo stupido dappertutto ma
non nella poesia» (Saggi)
Se Samuel T. Coleridge dice : «L’Ottavo Comandamento non fu fatto
per i poeti» (Biasimo e replica), Solone, al contrario sosteneva che «I
poeti dicono molte bugie» (Frammenti). D’accordo si mostra il cantautore F. De André: «I poeti che strane creature/ ogni volta che parlano è una truffa!»
Gottfried Benn: «La poesia si può definire l’intraducibile per eccellenza» (Problemi della lirica). Tant’è che Tonino Guerra non ama che i
suoi testi vengano tradotti dal dialetto all’italiano. Si dà il caso invece
che Robert Frost dica: «La poesia è ciò che resiste ad una traduzione!».
A favore del dialetto si pronuncia il filosofo Italo Mancini: «La nostra
lingua è bella. Ma nulla è più espressivo delle parlate dialettali». (Tre
follie)
«Con ogni parola in italiano noi mentiamo». A dirlo è il mitteleuropeo Italo Svevo.
Jorge Luis Borges: «Ogni poesia è misteriosa; nessuno sa interamente ciò che gli è stato concesso di scrivere» (Obra poetica)
Benedetto Croce: «Nella vera poesia […] le espressioni rivelano noi a
noi stessi.» (Poesia e non poesia)
«Tutto a comprendere e a prendere niente/ venne sulla terra il poeta»
(S. Esenin in Vascelli equini)
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«La poesia non tollera ipotesi, ma solo l’evidenza dei miracoli»
(Gianfranco Contini: Esercizi di lettura).
«Il poeta è veramente ladro di fuoco» (A. Rimbaud, Lettera del
veggente)
«La vera poesia può comunicare anche prima di essere capita.»
(Thomas St. Eliot in Dante)
«Tutta la poesia è un viaggio nell’ignoto» V. Majakovskij:
Conversazione con un esattore fiscale sulla poesia.
Le tesi che vanno da Borges a Majakovskij si oppongono a Gustave
Flaubert: «La poesia è una scienza esatta come la geometria». (Lettera
a Louise Colet)
A. De Lamartine sembra tentare una sintesi: «La poesia è la ragione
cantata» (I destini della poesia).
Continuiamo come su una bancarella letteraria l’esposizione di frasi.
«Una poesia ragionevole è lo stesso che dire una bestia ragionevole.»
(Leopardi in Zibaldone»)
«Poesia è malattia» (F. Kafka: op. cit.).
«La poesia è una malattia del cervello» (Alfred De Vigny in
Chatterton)
«Tutti i poeti sono pazzi» (Robert Burton: Anatomia della malinconia).
«In poesia è affatto negato di riuscire con lo studio dell’arte chiunque non vi ha la natura» (G. Vico: La scienza nuova)
«Il poeta è un grande artiere, / che al mestiere/ fece i muscoli d’acciaio.» (G. Carducci: Rime nuove)
«Se la poesia non nasce con la stessa naturalezza delle foglie sugli alberi, è meglio che non nasca neppure» (John Keats: Lettera a John
Taylor)
«Buoni poeti si diventa, oltre che si nasce» (Ben Jonson: In memoria
di Shakespeare).
«A poem should not mean but be» (Archibald Mc Leish in Ars
poetica).
«Con orrore/ la poesia rifiuta/ le glosse degli scoliasti… » (Montale:
Satura).
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Alcuni evidenziano il carattere ludico.
«Il poeta ha le sue giornate/ contate,/ come tutti gli uomini; ma
quanto/ quanto beate!» (U. Saba, Il poeta).
«Gli uomini non domandano più nulla/ ai poeti:/ e lasciatemi divertire!» (A. Palazzeschi, Lasciatemi divertire)
Per altri i poeti sono «gente irritabile» (Orazio, Epistole, II, 2, 102)
«Il poeta è il genio della rimembranza» (S. Kieerkegaard, Timore
e tremore).
«I poeti non dimenticano» (Quasimodo, La vita non è sogno).
Dalla definizione alla argomentazione
Definire la poesia dipende anche dalla situazione storica e dal ruolo
che le viene dato. La nostra attenzione si soffermerà sulla produzione
degli ultimi decenni.
Per Fabio Doplicher (1938-2003) curatore de Il pensiero, il corpo:
antologia degli ultimi venti anni della poesia italiana (Avezzano. Stllb,
1986) la poesia del Novecento finisce con il “Gruppo ‘63”. Negli
anni Settanta la poesia attraversa il vuoto, perché dopo le grandi sintesi strutturali (convenzioni tra psicologie, ideologie) di fronte ai
poeti non sta più alcuna utopia. La poesia è vista sempre più come
un laboratorio dove si cerca un senso alla funzione della lingua e della
poesia.
Al riguardo Franco Loi (n. 1930) pensa che la rivoluzione linguistica
è vasta e profonda e non coinvolge solo la televisione ma anche i bar,
gli stadi, la scuola, insomma ogni luogo dove convergono le persone.
La poesia è l’accadimento di un rapporto intenso e profondo dell’uomo con gli altri oltre che dell’uomo con se stesso.
Per Mario Luzi la poesia è viva e caotica come la società che la
esprime, e spesso si esaurisce in un parlarsi addosso come fanno gli
infermi.
La poesia è sempre stata per pochi. Solo i modelli istituzionali (Dante
e Leopardi) si salvano. Il linguaggio poetico, essendo per sua natura
innovativo, e comunque connotato al massimo grado (Lotman), si
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discosta dal linguaggio corrente. Nel Secondo Dopoguerra ha prevalso il filone anglosassone con Pound in testa, seguito da un acceso sperimentalismo. In seguito (sempre secondo Luzi) la nostra poesia ha
conosciuto molti recuperi di classicità o comunque legati alla tradizione interna, in particolare all’ermetismo. Oggi coesistono i modelli più diversi ma prevalgono quelli che alimentano l’ispirazione di una
poesia intenta alla descrizione di una realtà minuta, minimale, caratterizzata da frequenti giochi formali.
Giuseppe Conte sostiene che lo sperimentalismo è morto e sepolto.
Ha vinto il bisogno del simbolico, si affaccia un nuovo senso del
mito, della realtà al suo stato essenziale.
Una mappa del paesaggio poetico
Per la poesia degli ultimi anni Ottanta, Mario Fortunato ritiene che
gli autori hanno in comune la stessa esigenza: tornare alla tradizione.
Anche Pier Vincenzo Mengaldo ha lavorato su questa ipotesi nel
volume La tradizione del Novecento (Bollati Boringhieri. 2000).
Dopo le Avanguardie; le kermesse dei festival degli anni Settanta;
dopo lo spericolato sperimentalismo, ci si chiede se esiste un progetto della poesia italiana.
È nata così una mappa del paesaggio poetico, dove le etichette vanno
utilizzate per quel minimo di orientamento che possono offrirci.
Simbolisti. Nel solco della tradizione del Simbolismo (da
Mallarmé a Celan) si raggruppano quei poeti che intendono il loro
lavoro sul verso come confronto con il sacro: G. Conte (sul versante
mitico) Gregorio Scalise attraverso toni magici. Milo De Angelis
riflette quella traccia più propriamente neo-orfica, oracolare.
Postsimbolisti sono Mario Baudino, Roberto Mussapi.
Neo-esistenziali. La loro poesia è imbevuta delle cose della quotidianità, disseminata di oggetti, magari interiori, che possono dar
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luogo a un alto grido o a un dolore contenuto. Così è Dario Bellezza
in Serpenta (Mondadori 1987) che si allontana dal tono maledettistico e sublime. Sono del Gruppo anche Jolanda Insana, Elio Pecora per
il quale «Oggi non ci sono più grande scuole, ognuno ha il suo laboratorio…» D’altro canto anche in Montale ci sono simboli e allegorie ma rintracciati da oggetti. Nell’ambito romano vanno ricordati
Patrizia Cavalli, Biancamaria Frabotta e Renzo Paris. A Milano c’è
Maurizio Cucchi.
Manieristi. La tendenza più eterogenea che riannoda forme della
tradizione novecentesca a formule più remote: Patrizia Valduga, che
tenta un recupero del Seicento. Secondo Fortini questi sono dei
«Post-moderni che sentono il passato storico come un enorme supermarket in cui si possono scegliere forme tradizionali in modo ironico».
Così anche Valentino Zeichen (Museo interiore. Guanda, 1987) autore ironico e un po’ bohemien: «Sono passato attraverso l’inferno
dell’Avanguardia, riutilizzando i linguaggi della tecnologia e piegandoli alla metafora e ricercando il recupero della narratività e del
senso». Così anche Roberto Pazzi e Paolo Ruffilli.
Valerio Magrelli con la sua formula diario, più che post-moderno si
può chiamare neo-moderno. Il suo nocciolo duro consiste nel desiderio di comunicazione cui le avanguardie avevano rinunciato.
Neo-romantici. Forse rappresentano la tendenza più provvisoria.
È la più vicina al filone post-moderno indicato da Fortini. I nomi
sono quelli di Marco Papa, Arnoldo Colasanti e Gabriella Sica.
Hanno il tono alto.
Sperimentalisti. È la tendenza più vicina agli anni Settanta: per
lei la partita non è ancor conclusa sul fronte del linguaggio, sulla possibilità di scardinarlo, individuando nuove modalità espressive. Fa
capo alla rivista bolognese Dispacci, che secondo Roberto Roversi, «si
oppone a tanta poesia di oggi, di buona qualità ma che non scuote il
lettore e non produce sorprese».
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A questo Gruppo appartengono Tommaso Kemeny, Cesare Viviani,
che dopo anni di sperimentalismo, è approdato (con Merisi. 1986)
«All’osservazione della concretezza quotidiana, dell’esperienza».
I canoni della letteratura del Novecento
Giovanni Raboni (Corriere della Sera, 5 giugno 2001) prendendo lo
spunto da un’ipotesi di possibile antologia del Novecento, stila un
proprio personale canone di undici poeti (Saba, Palazzeschi, Tessa,
Rebora, Ungaretti, Montale, Betocchi, Sereni, Zanzotto, Luzi,
Giudici) e ne seleziona altri venti a suo parere di secondo piano.
Grandi esclusi: Caproni e Pasolini.
Le polemiche si sono fatte sentire il giorno dopo e proprio dalle
colonne dello stesso Corriere. Renzo Paris lamenta l’assenza totale in
questo canone di donne come la Pozzi, Rosselli, Merini.
Raboni si difende dicendo che il suo panorama si limitava agli anni
Settanta.
Puntuale nel 2001 è uscita l’antologia (Ed. Garzanti) di Franco Loi e
Davide Rondoni: Il pensiero dominante. Poesia italiana (1970-2000)
e il vuoto appare colmato con la pubblicazione di decine di poeti che
compongono il vasto panorama che mette in discussione schemi già
consolidati, e suggerisce approfondimenti.
Parte dal 1960 il giovane scalpitante Daniele Piccini, curatore dell’antologia del 2005 La poesia italiana dal 1960 a oggi.
Altri poeti esprimono una antologia domestica a proprio uso e consumo, talora per bilanciare con nuove presenze, singoli e gruppetti
dimenticati da compilatori distratti. Così accade che gli esclusi da
precedenti compilazioni a loro volta escludono gli esclusori, mostrando un pizzico di vendetta.
Appartenere a una delle tante antologie diventa un modo per non
apparire un emarginato della letteratura italiana ed esporre il marchio
PDOC: poeta a denominazione controllata.
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Lavori in corso…
Fa notare Roberto Carnero che aumenta la voglia di canone nell’ambito della poesia. La volontà di sistematizzazione delle “poesie” del
Novecento. Ma c’è anche la tendenza a rivedere il canone già esistente, quello considerato ‘ufficiale’.
Alcune riletture del Novecento propongono nomi dimenticati mentre vengono esclusi gli intoccabili, i consacrati. Alcune pubblicazioni
espongono con uno sguardo nuovo e originale, la produzione poetica del Novecento.
Così Il canto strozzato. Poesia italiana del Novecento, a cura di
Giuseppe Langella ed Enrico Elli (Interlinea, 2004) intende offrire
una panoramica della poesia italiana contemporanea da Pascoli a
Zanzotto.
I poeti antologizzati sono oltre cento e ogni volume si distingue per
il tentativo di superare luoghi comuni storiografici, aprendosi a
nuove prospettive di interpretazione, non esclusa la religiosa.
Ha un carattere più militante l’antologia ‘critica’ di Giorgio
Manacorda (La poesia italiana oggi – Castelvecchi, 2004) che limita
lo sguardo all’ultimo cinquantennio e inserisce quarantuno poeti che
rispondono a predefinite categorie laiche. Per dovere di cronaca vengono studiati Conte, Cucchi, Luzi, Zanzotto.
Sempre nel 2004 appare in versione aggiornata l’antologia Il pubblico della poesia (Castelvecchi) curata da Alfonso Belardinelli e Franco
Cordelli. In questo volume gli scrittori si autopresentano esponendo
le loro idee sulla propria poetica, il rapporto con il pubblico, la percezione del mercato editoriale e l’industria culturale.
Altri criteri informano Il Novecento in versi (Il Saggiatore, 2004) dove
Franco Forti non sfrutta un canone costruito a tavolino, ma un criterio ‘empirico’, basato cioè sull’esperienza quotidiana di un lettore
chiamato a scegliere le nuove voci della poesia italiana, partendo dai
classici per approdare alle esperienze più recenti, come quelle di
Conte, Cucchi, Viviani.
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Proprio Cesare Viviani in La voce inimitabile (Il melangolo, 2004) si
mostra in polemica con certa critica ufficiale sostenendo che «il canone letterario è una delle mortificazioni a cui la critica sottopone la
poesia». Per Viviani «In poesia si tratta di fare l’esperienza dell’intraducibilità della parola» per cui questa esperienza è radicale, non
ammette alcuna misura intermedia in quanto «è canto inimitabile,
voce inimitabile».
Come si vede, intorno alla poesia i lavori sono ancora in corso.
Nelle Marche…
La situazione si è presentata spesso come una roccaforte di poeti e critici che hanno blindato la poesia e, come in una sorta di Sant’Uffizio
laico, forti di cattedre universitarie, riviste letterarie, case editrici,
appoggi di istituzioni basate sul conformismo politico e ideologico,
hanno annesso (quasi mai) e sconnesso (quasi sempre) poeti e poesie
non in linea con i loro canoni e interessi.
Si distingue questa produzione per un ritorno alla poesia neomelica,
a parte qualche eccezione sperimentalista in Ercole Bellucci, l’ultimo
Paolo Volponi e il primo De Signoribus. Si assiste quindi a un accomodamento su rassicuranti moduli cantabili sull’aroma di ariette
pascoliane, caproniane. Molti hanno vissuto di questa epigonìa. Per
il cane sciolto Massimo Ferretti di Chiaravalle e per Plinio
Acquabona invece scende il silenzio. Così per il padre della ‘marchigianità’ lo scomparso Carlo Antognini (critico e storico letterario)
continua la “cultura dell’oblio”, come nota Fabio Ciceroni. Altri,
dopo aver sfruttato il nome di Scataglini e raggiunta la gloria, si tengono la gloria e dimenticano Scataglini.
I poeti ‘laureati’, di montaliana memoria, si convocano tra di loro, si
pubblicano e si premiano, si beatificano a vicenda, canonizzandosi.
Conventìcolano.
Quando entra il potere anche in poesia la poesia perde potere. E con
questa antanaclasi ribadisco la necessità di una poesia onesta.
Fabio Maria Serpilli
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Studio per la testa dell’angelo della «Vergine delle Rocce»
Leonardo
«La bellezza non ha causa. Esiste»
Emily Dickinson
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SILLOGI in ITALIANO
1
Chi siede a capotavola, di Michela Monferrini (Roma)
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Il silenzio dell’erba, di Gabriella Garofalo (Milano)
3 Muti i riflessi, di Roberto Borghetti (Ancona)
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Sette poesie, di Domenico Luiso (Bitonto, Ba)
Segnalazioni
Questi giorni, di Claudia Arena (Falconara M.ma - AN)
Quotidianamente i giorni, di Iaia Lorenzoni (Pesaro)
Unisono, di Anna Piro (Gallipoli)
Di santuari e sacrari, di Alessandro Tacconi (Dairago - MI)
SILLOGI in DIALETTO
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Dadlà dal ténp, di Ornella Fiorini (dial lombardo/mantovano)
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Semo fati de sogni sbregài, di Francesco Sassetto (dial veneziano)
3 Tretippe & Martìdde, di Vincenzo Mastropirro
(dial Ruvo di Puglia)
4
Sgrìsoi, di Guido Leonelli (dial Trento)
Segnalazioni
Mary, di Armando Giorgi (dial genovese)
Al spec, al coer e la fumana, di Vanni Giovanardi (Luzzara - MN)
‘Ita, di Alessandro Mordini (dial portorecanatese)
U galanu, di Alfredo Panetta (dial calabrese)
Giuria: Fabio M. Serpilli (presidente);
Germana Duca Ruggeri; Gastone Mosci;
Mario Narducci; Davide Rondoni.
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POETI in ITALIANO
La poesia è ricerca libera, avventurosa, di un legame fra la vita e la parola
segnaletica, vale a dire indicatrice di una via anche quando, per dirla con
Dante, questa sembra “smarrita”; è il cammino ostacolato, eppure privilegiato,
di una lingua che desidera immettere la realtà nella fantasia per riscriverla, con
la speranza di renderla leggibile, forse comprensibile, un poco più amabile.
Germana Duca Ruggeri
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Michela Monferrini
Chi siede a capotavola
Michela Monferrini - Nasce nel 1986 a Roma dove vive. Studia Lettere
all’Università Roma Tre.
Nel 2006 pubblica in collettanee testi poetici. Un haiku “Oltre l’autunno” è
edito dalla De Art Multimedia edizioni.. La rivista PopCorner di Bologna gli
pubblica due poesie. Altri testi vengono inseriti nelle antologie: “Sempre caro
mi fu… quest’ermo frigo” e “Subway – Poeti italiani Underground” (Il
Saggiatore).
I racconti “Mentite spoglie” e “Uscita di scena” sono pubblicati rispettivamente in “Niente è per niente – 59 ultimi respiri” e nell’antologia “San Gennoir”.
Nonostante la giovanissima età ha già numerosi interessi linguistici e giornalistici, attività attigue alla composizione poetica.
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Michela Monferrini
Ho bevuto il tuo vino
per non vedere più la bottiglia
ma il vino non è forse come l’accappatoio,
come lo spazzolino?
Perché lasciarci
col livello del rosso sempre uguale
e senza speranza nell’evaporazione,
costringermi alle labbra?
Ubriaca ho proceduto
al cambio della lampadina
nella stanza che matematicamente, ora,
a rotazione resta vuota
poi tutta la notte, come una forsennata
ho aspettato la calma in cucina
e quando non è arrivata
ho trovato la mattina sulla tavola.
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Michela Monferrini
Suo figlio racconta
che la donna delle pulizie
venne il giorno dopo il funerale
che lavò i piatti ed alzò i letti
ridendo nell’auricolare,
che i muri ne furono scossi
e si chiesero se per caso
non avessero sbagliato casa:
credevano fosse tempo di silenzio.
Poi fu la donna che chiese
se dovesse stirare anche quelli
e vennero fuori i maglioni
e le gonne al ginocchio
dal tempo delle foto ormai.
Raccontano che la donna
non fu mai perdonata
per aver pensato
di togliere le pieghe
all’ultimo indirizzo
delle gambe d’una madre.
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Michela Monferrini
Ti avevano insegnato
che a un figlio si misura l’acqua col gomito
e la febbre sulla fronte con un bacio,
dal soppalco erano piovute
magliette bonsai e odor di canfora,
il leone Armando e la storia di Codina,
e tra tutti i nomi uno, già aveva quasi gli occhi,
ma poi non è servito.
In soggiorno è venuta giù la parete a specchio
quando tutti – e anche lui – hanno steso
una tovaglia di puro menomale bianco
sulla tavola della tua pancia in lutto.
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Michela Monferrini
Mi dicono che senso
non han più le tue parole.
Io busso, piano entro,
arrivo, con la mela cotta,
accanto al letto macchiato:
ti cambio canale
e aspetto di vederti dormire
e nel petto respirare.
Mi dicono che a tratti
mancherà l'ossigeno,
non mi devo preoccupare
ma io domani torno
perché il miele è finito
e l'amore pure,
- sul comodino ma torno e te lo porto
in un foglio di giornale
buono ad esser barca
per lasciare
questa luce d'ospedale:
diranno di vedere
un cappello da muratore
mentre noi navigheremo
dove senso
veramente
non c'è più nelle parole.
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Michela Monferrini
Nel giardino di Van Gogh
Accessibile ai pochi
sui balconi senza luna,
nelle stelle unite dall’1 al 36,
tra le combinazioni ce n’è una
– tuo profilo rugoso ed orecchino –
per credere ancora nel cielo.
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Michela Monferrini
La mattina del martedì arriva la ditta
e alza i zerbini contro le porte
e apre gli abbaini allo scambio
piccioni – polvere.
Fa corrente per la bocca delle scale
fin nel tunnel dell’ascensore,
fa una spirale
dalla colonna dei bagni al portone
che, guasta la molla, con gran rumore si chiude
e si chiuse
quando di lì passarono
le tue trenta camicie
d’azzurro uguale.
Di lunedì, da anni,
sappiamo che se ne andrà domani
- nella corrente l’esercito dei mari senza ombre
e senza spalle
anni che sappiamo che tornerà domani sera,
inghiottendo a grandi onde
il pianerottolo pulito di giornata.
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Michela Monferrini
Siedono a capotavola opposti
tenendo di mezzo trent’anni e la tavola
coi gomiti.
Io le ho viste baciare il pane avanzato prima di buttarlo
come baciano la mano dopo la croce
come tracciano la croce dopo l’acqua santa,
sfiorando.
Hanno avuto case dentro questa,
uomini che sono stati donne pure loro
e corone di sapone di Marsiglia
incrostate all’anulare, attorno all’oro,
perdute nel notturno strofinio delle federe
e ogni giorno rapprese di nuovo.
Così, le ho scoperte regine bianche:
alzando i letti e l’acqua di colonia una mattina.
Solo da allora mi pare di osservarle,
alla tavola non siedo ancora.
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Gabriella Garofalo
Il silenzio dell’erba
Gabriella Garofalo - Nativa di Foggia vive a Milano. Esordisce nel 1986 col
volume di poesie Lo sguardo di Orfeo, cui fa seguito L’inverno di vetro nel 1995
che si muove attorno a parole chiave, a ossessioni tematiche. La sua terza raccolta viene pubblicata nel 2004 e ha come titolo Di altre stelle polari dove al
cielo blu cobalto si accompagnano gli “astri che sfrenano di luce”. Quella di
Gabriella Garofalo è una poesia solitaria, impossibile da collocare all’interno di
scuole, tendenze o generazioni, giocata con vigore drammatico tra il fuoco di
un forte disagio interno e il chiudersi in momenti di glaciale immobilità. Per
questi tratti della sua scrittura la poetessa fu segnalata da Amelia Rosselli.
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Gabriella Garofalo
27/10/’05
Autunno, nevrastenia del cielo,
di una città se la città esistesseinutile pensarsi lontananza
ordire trame se perfidi gli odori
se corpi rischiano percorrerticome se non bastasse
Luna consegna
frammenti di vita alla parola:
sono indifesi sono la rossa tazza
il blu del cielo che lasci cadere senza pensarci,
per distrazione, certo,
scheggiati.
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Gabriella Garofalo
01/11/’05
Stasera l’anima è più congestionata
di una stazione all’ora di punta
sogni assembrati insistono
perché tu presti ascolto,
ma farai bene a diffidarepuò esploderti tuo cielo
sconvolte stelle non avranno mai rifugio
si finge Luna trasognata, ma sua luce
ti corre notte alla ricerca
di sguardi invadentiteme che la sorprendano,
è già nuda.
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Gabriella Garofalo
18/11/’05
a C.
Forse un modo come un altro
per chiamarti, Dio,
torcerti contro le parole
di parole dilaniare cielo
splendidamente assemblatoma non governa l’anima suo fuoco
rischia bruciare ardono le dita
di silenzio che l’esistenza sperdese pure guarda l’esistenza,
se mai ferma.
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Gabriella Garofalo
23/06/’06
a Michael
Sia un cielo livido di stelle
a fermare il tempoalbero non abbatta
non cada foglia
non ceda luna
acqua non intorbidigrembi grembi soprattutto
stanno per disperdere,
libero campo di ristoppie
per l’Angelo che ti acceca
scrivere.
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Gabriella Garofalo
02/08/’06
Le solite domande, capita, ti chiedi,
se l’anima sarà già andata
in cerca di rifugio per la lucema non promette bene cielo che si sfalda
e rosso-arancio di Luna
assolutamente fuori luogo:
non vuol dartela vinta notte
fame antica la sua
fame di seconda stagione che insegue
annusando l’aspro di sudore.
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Gabriella Garofalo
08/08/’06
a dl
Attesa che verde di un’intensa luce muovanon accade.
Comunque, verde di tuoi rami getta,
molto più forte di altre tue esistenze
mentre provocano un certo fastidio
i giorni di seconda stagione,
non hanno fine si disperdono
in mille particolari inutili:
in genere il tuo smangiato desiderio,
la bianca risposta di una fame.
35
Gabriella Garofalo
08/08/’06
a dl
Forse inaspettate, certo non più antiche
le prime apparizioni della lucema sempre più ridotta la tua razione di anima,
città, il vento più non muove
odori anime di eretici
e tu non sai ancora negarti
fresca oscurità di muri, quadri,
finestre in corridoiolà dove incontri seme che ti è avverso.
36
Roberto Borghetti
Muti i silenzi
Roberto Borghetti - Di anni 43, nato e residente ad Ancona, si dedica alla
poesia e alle letture umanistiche sin dall’età adolescenziale. Scrive a periodi
alterni poesie in versi liberi, traendo ispirazione da autori del ‘900 italiano di
correnti letterarie diverse, come Montale, Bertolucci, Pavese, Sereni, Penna,
Raboni.
Solo da due anni circa partecipa a concorsi nazionali ricevendo riconoscimenti e menzioni speciali. Primo ai concorsi “Città di Bari”, “Giovanni da
Sanpiero” ed altri ancora.
Soprattutto Borghetti ama lavorare in profondità sulla scrittura poetica che
appare matura e ricca di suggestioni.
37
Roberto Borghetti
Alba
Assorto e solo. Ero rimasto appoggiato all’alba
la città vuota, piena di teneri addii.
Invano cerco le strade che mai si raccontano
e tralasciano lo spuntare d’ortiche
negli squarci d’asfalto.
Salgo tre scalini
si fa remoto il mio passo, fra rare luci
le chiare tenebre restano. Il sole desiste
si confonde con la malinconia d’un bucato.
Non amo più le pareti di questa stanza
mi nascondo dai cari volti
e fra le fontane del mattino ritrovo l’oblio.
E vi sosto a lungo
perché tutto è dissoluzione di piazze
lentezza di nubi.
Poi, qualcuno verrà
passando fuggiasco col bastone a frugare
gli angoli inerti del giorno, ed io nell’ora incerta
transiterò nei pallori più estremi
sino a tornare in un letto non mio..
38
Roberto Borghetti
Tremula la notte
Trepida linea di silenzi, potresti
misurarla con l’eco della pioggia che scroscia
sopra il grembo dischiuso, rosso d’argilla.
Disteso dove il pensiero è piaga dell’infinito
serbi la ferita che più non sanguina, e piangi
di quanto sia ridicolo scrivere lettere d’amore
quando le stelle socchiudono
gli occhi come gatte tradite.
È solo tua l’umiltà di sterrare altrove
le radici d’un sangue malato e ancora la gioia
d’esser affamato per assaporarne l’aspra miseria;
nebbia che beve il mattino e tace della notte
assetata, luce d’un cielo umido di candele.
Poi ti sorprenderà la solitudine d’una marea,
che segna la sua traccia di sale sul fasciame marcito
di barche sconosciute alla morte.
39
Roberto Borghetti
Non è più il limitare
So di mulattiere che delimitano
prode tra serragli e prati
d'un ocra che nemmeno immagini
e dei tuoi passi in solitaria
a calcare il disordine di lidi invernali.
Poche curve ancora
scendiamo il dolceamaro declivio
verso i soggiorni venturi,
tra vecchie querce e radici dissotterrate
dal turbinare di rivoli sfuggiti alla piena.
Ma talvolta non so dove ha inizio
la nostra notte e se la fine del giorno
è solo un grumo di buio rappreso.
Ed ora dimmi
se tu conosci il nervo che acuto
alimenta il guizzo del predatore:
Il mio è forse il tradire del falco che artiglia
il polso benevolmente proteso?
40
Roberto Borghetti
Risonanze
Volgono recinti d'antiche aiuole
i casamenti spezzati, ricordano
il fiato clandestino di pietre verticali e oblique
che alita tra fiori esangui,
per quanto le stagioni
facciano talvolta fatica a sfarinarsi lievi.
Nel buio inatteso, fu l'invemo iniziato allora
che oggi ancora perdura
nella neve dei tuoi occhi, a ricoprire
i brevi anni sfioriti
sulle macerie della polveriera.
È il ricordo del latrare del faro
del vento che non ebbe requie sulle tombe
e i tuoi capelli, uno ad uno, umidi, genuflessi
sulla sottana di quella interminabile preghiera.
Abbiamo coltivato a lungo il tempo
per arrivare qui, al compimento delle fenditure
fermi sull'argine del baratro azzurro
dove le tracce cessano in un punto precipitato a mare
e il cielo è la sottile linea che schiera sepolcri.
41
Roberto Borghetti
Il peso dell'aria
Spesso mi chiedo
delle nervature che ha la foglia
quando il verde trasuda alla mano
e del peso dell'aria che in respiro
non andrà a formare nuvole.
E del giorno, tiepido che sguscia dalla via
dove la tempesta ha storto rami e spaventi
chiedo del vuoto che non è più vuoto
l'hai colmato con la mia stupidità
e la voglia di parlarti senza aprire bocca.
Sarebbe triste morire un poco alla volta
e non deteriorare
sconfinare nel lembo di letto più caldo,
allungarsi e scoprirti già in cammino
speranza che divieni voce e non sei pagina
e nemmeno rara luce
che fa brillare tegole ingrigite.
Adesso, è solo mia questa casa
che a sera esce dall'ombra
mia la fame che non soddisfo
nonostante le dispense piene
unico margine, la direzione dello sguardo
per chi ancora resta, e per chi va
l'aridità è vita che s'infiltra sotto il palato.
42
Roberto Borghetti
Camminare è anche smarrirsi
È forse un gioco per queste strade
inseguire passi e ritrovarsi altrove
sotto una pallida stella salire le scale
e vederti china sui libri, dissetarti
con le pagine bianche che scrissi.
Non hai paura della notte
che senti sgusciare fuori della soglia
la brezza scuote la pelle, terge lacrime
sfoglia rapida cartoline mai imbucate.
Distinguo lievemente le foto alle pareti
di te mi basta poco: sapere che ancora
ti guardi i piedi quando cammini
e che non riesci a trattenere le parole
anche quelle prive di sottolineatura.
Ti ho sempre incontrato per caso
ma ora ti respirerò accanto,
ritorniamo nella nostra prima casa
due stanze e nessun ritratto
sarà impossibile smarrirsi.
43
Roberto Borghetti
Da una panchina presso la stazione
Non lontano
dove si macera la carne
e le ansie attanagliano tempie
dimora ciò che non so della pioggia
che stringe il lume e a tracimarmi
è il tuo sorriso silenzioso
nell'affondare lento del mio lago.
Vago per non restare, ogni cigolio di treno
è un tuo sguardo, ogni sandalo
a frantumare ghiaia è passo
che mi allunghi dietro.
Dove saremo un giorno
a ricordare le soste e delle nostre dita
lo sfiorarsi sotto un sole
che mormora ombre alle panchine.
44
Domenico Luiso
Sette Poesie
Domenico Luiso - Luiso è nato a Bari e risiede a Bitonto. Laureato in
Giurisprudenza ha coltivato con gran passione sia la musica sinfonica e da
camera che la poesia.
Ha pubblicato finora quattro raccolte di liriche: La condizione del cuore Bari
1986; Il discorso del fiume Milano 1997; Concerto barocco Bari 1998; L’arsura
delle ali Foggia 2004, oltre ad altre tre come premi editoriali.
Luiso è risultato vincitore in circa ottanta Premi letterari.
Non è assente nella tematica trattata dal poeta pugliese una certa urgenza metafisica.
45
Domenico Luiso
Dei giorni bianchi il costeggiare lento
Dei giorni bianchi il costeggiare lento
lungo le rive non lambite
il canto,
delle stagioni naviganti il vuoto
dissolto il gelo nei crepacci
il caldo
che non si stampa sulle pietre
e l’ombra
di un sole secco di campane
e suoni
senza l’arpeggio delle distinzioni
noi conoscemmo tutto e non chiediamo
il tempo dopo il tempo e un’acqua nuova
temiamo forse le risposte o siamo
vessati dall’assenza di risposte
non trilleranno le ali alle cicale
fatte di gesso all’incessante pianto
senza risposte d’echi dei perdenti
e al sangue che cementa i nostri rovi
se tu mi ascolti chiuso nella torre
di carne magra con le volte esangui
sappi che non ho più domande in gola
le ho murate tra le connessure
di questa casa senza vetri
per paura
che al giorno bianco che lontano scorre
possano fare segni di richiamo.
46
Domenico Luiso
C’è sempre un’ora
C’è sempre un’ora, forse la sua ombra,
per il tuo cielo che si scioglie in vento
per le mie mani appese alla finestra.
C’è sempre un’ora, forse l’ho sognata,
che si decanta nella mia bottiglia
alla deriva.
E il mare non ha tempo.
È un’ora eterna o un attimo dorato
che sparge occhi sulle mie macerie
e insemina di sole la tua forma.
Un’ora fatta di quaranta carte,
spiegate a schiera sul mio tavolino
che ha una gamba zoppa e un chiodo in testa.
Un’ora la mia storia un fante ansante
sul tetto una regina con il cono
e un re con il bastone consumato.
C’è sempre un’ora, forse un grumo d’aria,
che si scolora nei tuoi occhi grigi
e poi ritorna col pennello in mano.
E la mia storia passa.
Tra le dune
solo una palma. La mia ora folle
ha silenziose grida.
La sua eco
s’insabbia e muore sopra il tuo orologio.
47
Domenico Luiso
Mi son vestito da pagliaccio
Mi son vestito da pagliaccio, un cono
in testa e una grossa mela al naso,
ho ritagliato in due la luna bianca
e al sole ho regalato una risata,
ai piedi le babbucce di Selim
con gli alluci arricciati a semicerchio.
Mi son fatto due solchi di farina
dal labbro fino agli angoli degli occhi
e ho esposto il pianto dentro la vetrina.
Mi comprerà qualcuno tra i passanti,
un uomo rincasato per Natale
o un bimbo già più vecchio di sua madre.
Mi lascerò comprare, costo poco,
due strisce in croce una camicia a quadri
un paio di calzoni con le toppe
un rotolo di skotch e un po’ di colla.
E me ne andrò diviso in cento passi
lungo le strade dense e nei palazzi
m’istrionerò con l’ultima poesia.
Sono un pagliaccio telecomandato,
rido a richiesta e piango all’occasione
e tutti ci facciamo compagnia.
Domani all’alba la vetrina vuota
mi cercherà ma io sarò lontano
forse già chiuso in uno sgabuzzino
a garrire la mia parte di silenzio.
48
Domenico Luiso
Siamo ore sparse
Siamo ore sparse, attimi in subbuglio
col petto nudo e un rosario in bocca
anagrammiamo ombre sui computer
e ci inventiamo somme senza addendi.
Sui palchi conficcati nella nebbia
legati al cappio delle avemarie
gridiamo solo acerbe geometrie
parafrasando stanche filastrocche.
E siamo damerini scalzi siamo
occhi rapaci infissi dentro il buio
bruciamo torce tra i mattoni sparsi
dell’ultima rovina dei pensieri.
Nel cielo lacerato siamo tutto,
un bricco dorato e un’anfora di gesso
un’astronave e carta di barchette
un quadro cartesiano e un amuleto.
Siamo cervelli con le porte arse
siamo finestre cigolanti siamo
storie già raccontate e messe a nuovo.
Magri di sangue ci leviamo sazi
di improbabili venti e di illusioni.
E siamo forse solo un asterisco
posto fra due parentesi e un richiamo
che ci rimanda a nota “troppo tardi”.
49
Domenico Luiso
Il vento ha cento madri
Schiodatele le porte, il gallo è morto
appeso ai fili col suo canto aguzzo
larve di suoni in cerca di un accordo,
qui non si sente l’aria di novembre
nel tramestio di accordi senza suoni.
Il vento ha cento madri
col seno sfatto e il latte avvelenato,
la sua canzone vecchia si sfilaccia
in nugoli di refoli
sparsi folletti
e il cielo non ha echi.
Apritele le vostre mani gonfie
di bestemmie, le vostre bocche acidule
d’isteriche risate
e trenodie di pianti sterminati.
Ah questo vento senza soste stridulo
sui bassi calcinati
nidifica e germoglia sopra i grassi
mucchi delle miserie luccicanti
tra i panni stesi e il logoro santino
una corona e un ferro di cavallo
e l’ultimo ammazzato appeso al muro.
Sfiata la nenia e torna sui suoi passi
sul pentagramma bianco si distende
un canto senza segni.
Il gallo giace a pezzi,
l’ultimo sangue l’ha seccato il vento.
50
Domenico Luiso
Oltre la mia finestra un orologio
Oltre la mia finestra un orologio
ha strascichi di tempo fatto a pezzi
sul cornicione un gatto di velluto
si stampa silenzioso dentro il sole
grida un bambino fra le bocche aperte
dei due leoni a guardia del portale
alla fermata aspettano la morte
la morte piccola che non si vede
la morte dal percorso ripetuto
stanco e annoiato come un giorno grigio
la morte scialba gira per le strade
in mezzo ai capannelli tra le gambe
solitarie di una vecchietta lenta
si mescola con l’aria dei megafoni
ha lo stridio delle anime in affanno
lenzuoli bianchi stesi sulle volte
Oltre la mia finestra l’orologio
suona nel vento con le dita rotte
parole senza inchiostro
un ticchettio
di voci acute di maledizioni
d’affilati sorrisi
di coltelli
di ruggine nascosti in mezzo ai fiori
è piccola la morte non si sente
si è fatta oscena come l’armonia
dei numeri sconvolti ha il viso bianco
la bocca muta di risposte il passo
alla ricerca di un approdo un palo
un impiccato senza nome un nodo
una domanda stritolata un vento
senza sorgenti un nugolo di vuoto
51
Oltre la mia finestra ha chiuso gli occhi
sulle sue piaghe l’orologio vecchio
avrò paura in questa notte insonne
se all’ultimo rintocco biascicato
udrò la morte piccola al portone
pigiare a occhi chiusi un campanello
e dire che non sa perché è venuta.
52
Domenico Luiso
Hymne
Dopo il gaudio la gloria ed il dolore
ecco la luce (non scoperta prima)
e gli angeli con la ramazza in mano
e creme e cere per le macchie d’unto.
Si creperà il cunicolo dei sensi
e tutti i quadri appesi alle pareti
si polverizzeranno sui mattoni
e l’aria densa si diraderà.
Benedirò le mie finestre antiche
le grate a croce con la fioca luce
gli spigoli dei vetri e i chiodi neri
che mi aprivano il sangue dei pensieri.
Non li ho chiamati gli angeli spazzini
venuti a sgomberare la mia stanza.
Me la faranno vuota con la luce
mi spariranno i corni e gli alambicchi
i libri la chitarra ed il cappello.
Che fare in tanta luce? Sarò inerte
come una pietra o un raglio di somaro.
Aspetterò la mezzanotte quando
anche la luce cascherà dal sonno
e mi farò candela accesa che si libra
sorretta da un fantasma inesistente.
Andrò frugando tra gli avanzi e i resti
delle mie gioie e delle lunghe pene
e li nasconderò dentro la bocca.
Per dare un senso all’imminente alba.
53
SEGNALAZIONI
Claudia Arena
Non sono avvezza
a facili entusiasmi
né studiate sentenze.
Io lascio scorrere tutto
lento
come una lastra di vetro.
Io lascio ballare
la lingua degli stolti.
E giocare le mani
degli ingordi.
Negli angoli
mi incollo alle inconsistenti
idee dei geni,
ammirando il coraggio
dei folli.
54
Iaia Lorenzoni
Senza titolo
Da un po’ di tempo
c’è tanta di quella realtà in giro
– troppa –
che bisogna andare nell’irrealtà.
Solo dall’irrealtà
arriva qualcosa di buono
per lo spirito.
Sulla cima dei tetti bisogna passeggiare.
Ci sono visionari silenzi di nuvole
a forma di gatti volanti,
accenti di pensieri
felici.
È proprio il senso della felicità
e non d’altro.
Sulla cima dei tetti devo passeggiare
perché ho bisogno di nuvole streghe
di gatti volanti
di orizzonti leggeri
di fate che muovono sogni
fino all’innocenza,
fino al sommesso stupore
dello spirito.
Di questi tempi c’è tanta di quella realtà in giro
che non c’è posto per l’istante,
per il lampo che tratteggia percezioni oltre la parola…
e quel battito
- solo quello –
del mistero.
55
Anna Piro
(L’insonnia)
L’insonnia
s’arrampicava sul soffitto,
come ragno.
Dormivamo senza mai
chiudere gli occhi
e le palpebre ci si arrugginirono.
Calò la notte
sul nostro “non t’amo più”.
Avevamo mani sudate,
ancora l’una nell’altra strette.
56
Alessandro Tacconi
Moloch dedicato
appena fuori
dal moloch dedicato
la croce prescelta vien subito
intagliata graffitata impacchettata
spalmata da un capo all’altro
del terreno bazar mondo
lunghissima filigrana di boccette
d’acqua santa
santini benedetti
cestini ultracomfort
prego-dare prego-offertare,
crocefissi e statuine
un arsenale intero
al servizio di un credo eterno.
Quanta semplicità
per issare la fune fin sulla fronte
del divin signore
seduto all’ombra
dell’imponente monolite.
Guai, a chi alza la voce!
57
Madonna col bambino (particolare)
Leonardo
«Tra un fiore colto e l’altro donato
l’inesprimibile nulla”
Giuseppe Ungaretti
58
POETI in DIALETTO
La poesia, come atto di libertà creativa, può scegliere (e a volte sceglie) il
dialetto per esprimersi, riunendo la parola scritta da una singola persona alla
parola parlata, in contemporanea, da una comunità più o meno numerosa. Nei
casi più felici il linguaggio locale, altrimenti confinato nell’ambito affettivofamiliare, fra voci perdute o in via di perdersi, si rinnova: il lessico ne trae nutrimento e si rende disponibile a re-inventare persino la discussione intellettuale,
il confronto civile, quasi confidasse di sopravvivere coi suoi mutamenti a una
globalità sempre più impervia, ora verbalistica, ora afasica.
Germana Duca Ruggeri
59
60
Ornella Fiorini
Dadlà dal ténp
(Al di là del tempo)
dialetto lombardo / mantovano
Ornella Fiorini - Nasce ad Ostiglia (Mn) dove vive e lavora. Poetessa, pittrice e cantautrice in dialetto lombardo-ostigliese; ha vinto numerosi premi di
poesia. Ha pubblicato la raccolta di poesie Ci vorrà silenzio (Tedioli stampatore, Mantova 1995) con introduzione di Tolmino Baldassari. In collaborazione del musicista ostigliese Mauro Conforti, ha pubblicato il CD Brisi ‘d
lüna (Moby Dick, Faenza 1998).
Sue liriche e racconti appaiono in numerose antologie e riviste tra le quali Il
quaderno di Natale Keltia Editrice – Aosta 1993; Testo a fronte (Marcos y
Marcos, Milano, 1999). Ha partecipato a molte trasmissioni radiofoniche e
televisive.
61
Ornella Fiorini
Zibramonda
Che nòt
Stanòt
Déntar in dal négar
Söga niuli bianchi
E la lüna las quàcia
E las disquàcia
Druand na quèrta
Ad vel
L’aria la möv
Al cél
E al silenzio
Al bufa
Pian
Zibramonda
Déntar in dal négar: dentro al nero. Söga niuli..: giocano nuvole.. Las quàcia e las disquàcia:
si copre e si scopre. Druand na quèrta ad vel: usando una coperta di velo. La möv al cél: muove
il cielo. Al bufa: respira.
62
Ornella Fiorini
Frescüra d’istà
Vus
A dla nòt
Eco
Ad silensi
Inpregnà
In du’ casca
Al vent
Déntar l’udur
Dla menta
In sl’àrsan
Sufià.
Frescura d’estate
Vus a dla nòt: voci della notte. Ad.. Al…: del… il. In sl’àrsan sufià: sull’argine soffiato.
63
Ornella Fiorini
Sera ad mars
L’aria
La gh’ha al saur
A dl’erba spagna
Déntar
‘Sta sera.
Gh’è mars
Cha sa ‘d campagna
E ‘d primaéra.
Chi
Sota i pòrtagh
I scür
I siga al vent
E i foi ad giurnal
I ‘ula
Pièn ad paròli
Scriti
Cha ‘n sa da gnént.
Sera di marzo
La gh’ha al saur: ha il sapore. Spagna: medica. Cha: che. Pòrtagh: portici. I siga: gridano.
‘Ula: volano.
64
Ornella Fiorini
Fii d’erba
Fii d’erba
Trési d’istà
Liga cöv
Ad furmént
Culgà
Déntar ai bras
Fii d’erba
Slà
Vel sü li rii di fòs
Pugià
In du’ salta
Al pasarìn
Déntar al giardin
Dl’inveran
Fii d’erba
Suta al cél
Dli grü
Strada ad silenzio
Par i mé pé
Cume tapé
Par gòdaran
Al susor.
Fili d’erba
Trési: trecce. Liga cöv: legano covoni. Culgà… bras: coricato… braccia. Slà Vell…rii: gelati
velo…rive. Inveran: inverno. Suta: sotto. Par i mé pé: per i miei piedi. Tapé… gòdaran.. susor:
tappeto..goderne..fruscio.
65
Ornella Fiorini
Nadal ‘85
La vus
La s’è fermàda
Sü la feriàda
Rusna
Da ‘sta fnèstra
La casa
L’è arbaltada
Con al su mar
In tòch
I pin a dla Boschina
Sensa li rüghi
Dal ténp
Gh’è pién
Ad vent
E ‘ula
Li falistri.
Natale ‘85
Vus: voce. Rusna: arrugginita. In tòch: a pezzi. Pin.. rüghi: pini..rughe. ‘Ula..falistri: vola polvere di vento. Boschina: isola del Po in territorio ostigliese.
66
Ornella Fiorini
In mès ai lòt
Quand
Saltarà föra
Li steli
A vestir
La sera
As sarà pugià
Par tèra
Al vent
E in sima
Ai fiur ‘d marasca
La paròla
La s’ farà gnal par
I òc
Cha spècia
La fadiga
Intant la bala
L’as sarà
Fermada.
Dentro le zolle
Li steli: le stelle. As sarà pugià: si sarà posato. Sima: cima. Gnal par i òc: nido per gli occhi.
Spècia..bala: riflettono.. palla.
67
Ornella Fiorini
Dadlà dal ténp
Dadlà dal ténp
Lasarò al mé respir
E al sarà fià
Par la nòt
Sensa paròli
Restarà al mé mar
Vöd
Ad marèi
Col supiar
Dal garbin
As pugiarà i culur
In sla punta
Dli stèli
In du’ li farfali
Li gh’ha sénpar
I fior
E
I rundànin
I sbüsarà al cél
In gir rutond
In sla curva dal Po.
Al di là del tempo
fià: fiato. Vöd ad marèi: vuoto di maree. Supiar: soffio. Sénpar: sempre. Rundànin i sbusarà:
rondini bucheranno.
68
Francesco Sassetto
Semo fati de sogni sbregài
(Siamo fatti di sogni spezzati)
dialetto veneziano
Francesco Sassetto - Risiede a Venezia dove è nato nel 1961.
Laurea in lettere nel 1987, ha conseguito nel 1998 il titolo di dottore di ricerca in “Filologia e tecniche” dell’interpretazione”. Scrive sia in lingua che in
dialetto veneziano e ha iniziato solo negli ultimi anni a partecipare a Concorsi
locali e nazionali di Poesia con esiti lusinghieri.
Dalla sua poesia traspare un sentimento di vuoto e di abbandono, di solitudine di uomini e cose, e l’ambiente di Venezia diventa, nelle sue liriche, dolorosa metafora esistenziale.
69
Francesco Sassetto
In rada
Ti vardi ‘sta barca che l’onda caressa
co ‘l legno che poco a poco s’immarsisse:
passarà ‘l tempo e no sarà più la stessa
come tute le robe che more e che finisse.
La vita xe ‘sto flusso d’acqua scura
che sbate su i pagioi e li destaca,
xe ‘sta topa che no sa altra ventura
che ‘l palo che la liga, l’onda che la straca.
In rada
Ti vardi: tu guardi. Xe: è. Pagioi: paglioli, tavole dell’imbarcazione. Topa: piccola imbarcazione.
70
Francesco Sassetto
Quando fa scuro
Sentai viçini quando fa scuro
su un masegno de la riva,
strensarse forte fra i brassi,
parlar sotovose
ne la pase de la sera,
sentir tuti do che ‘l solo
vero ben che gavemo
nel caminar su ‘sta tera
xe vardarse ne i oci,
caressarse i cavei
dopo le corse, i sighi del giorno,
xe serar domande e paure
ne i basi che desso se demo,
xe ‘na casa che queta
speta ‘l nostro ritorno.
Quando...
Sentai: seduti. Masegno: pietra. Tuti do: tutti due. Oci: occhi. Cavei: capelli. Sighi: Le grida.
Serar: chiudere.
71
Francesco Sassetto
Omeni
Semo fati de carne e de sangue,
de suòr, de fadiga e stanchessa,
de lagrime, de vogia de amor,
de ‘na sola caressa.
Semo fati de sogni sbregài,
de cari visi andai via,
de giorni butài,
de ricordi co ‘l tempo
sempre un fià più sfogài.
Ne supia in boca el calìgo
de prima matina,
de note ne varda la luna
rifar i passi segnài
da la strica de ciaro
che manda i fanali.
Tante domande ne rodola
in testa,
risposte nissuna.
Do pìe ne tien fermi
tacài a ‘sta tera,
ma co i oci andemo nel cielo
a spiar de sera
corar alti i cocài.
Uomini
Suòr: sudore. Un fià più: un po’ più. Ne supia.. el calìgo: Ci soffia.. la nebbia. Strica de ciaro:
striscia di chiaro. Ne rodola: ci rotolano. Do pìi ne..: due piedi ci... Corar.. i cocài: correre.. i
gabbiani.
72
Francesco Sassetto
Bassa marea
Xe un pocio d’acqua ferma la laguna
soto la capa de siroco
stamatina.
Muci de gransi se rampega
a fadiga sul fango
de le velme tagiàe
da ghebi che rancura
strisse d’acqua fiaca
che sa de marso.
Rompe l’aria che ristagna
sighi de cocài
alti
su le brombole de i pessi.
Sul velo de calìgo
va grigie petroliere lente
in lontananza.
Se sfanta ‘na barca ne la seca.
Bassa marea
Pocio: pozza. Muci de gransi: mucchi di granchi. Velme tagiàe: velme tagliate. Ghebi che rancura: ghebi che raccolgono. Sighi de cocài: grida di gabbiani. Brombole de i pessi: bolle dei pesci.
Se sfanta: si perde.
73
Francesco Sassetto
Piere
‘Ste piere lassàe dal mar
su ‘sta crosta de sabia
indurìa, sugàe da l’istà,
cussì rosegàe
cussì svodàe
scure de spuncioni e de busi,
cussì dure
cussì dolçi a tastarle,
a passarle fra i dei
che sente tute le so ponte
lissàe da ani de vento e de sal,
‘ste vecie piere de mar
‘desso che xe passà
tanto tempo da quando zogavo
co la redina e ‘l secielo,
putèo che voleva ciapàr
i gransi co la paura d’essar becà,
‘ste piere de mar
xe compagne al me cuor
che ‘desso tase
come tase
in alto el cielo
e l’aria e ‘l puntin bianco de la vela
alta
sul mar.
Pietre
Sugàe: asciugate. Spuncioni e .. busi: punte e.. buchi. Fra i dei: fra le dita. Lissàe: lisciate.
Redina.. secielo, putèo.. ciapar: retina.. secchiello, bambino.. prendere. Tase: tace.
74
Francesco Sassetto
No ti ghe geri
Dove ti geri co sofegava
strucài drento le doce
li agneli notài al gas?
No ti ga visto ridar i bechèri?
No mia mama quela note lontana
parlar pian a mio papà
stanco sul leto,
e no sentir più la so vose
i oci vodi sbarài al sofito
fermà par sempre el respiro?
No ti ghe geri e no ti xe qua
stanote che giro
da solo le cale
senza meta né amor,
i oci bassi al fis-cio d’un vento
de vero che giassa ‘l cuor e la pele,
serà soto ‘l to cielo
nero
muto de stele.
Non c’eri
Co sofegava: quando soffocavano. Strucài: schiacciati. Notài: assegnati. Ridar i bechèri: ridere i
macellai. So vose: sua voce. No ti xe qua: non sei qui. Le cale: le calli. De vero che giassa: di
vetro che gela. Serà: chiuso.
75
Francesco Sassetto
E mi scrivo le poesie
E mi scrivo le poesie, parole cusìe a stento
ne le mez’ore rosegàe al mar de robe
che ne strossa da matina a sera
a far finta che la vita sia più vera.
Ma no ga vose par noialtri el mar e tien ben
sconti l’onda i so segreti e ghe xe alora
de tentar de girar in versi quel gropo
che ne ciapa in gola co vardemo el mar
e no savemo dove e perché navega
el cocàl al largo e se ghe xe davero
un largo o tuto xe calìgo che va via.
Scrivi alora, anima mia, scrivi ancora,
dopo le corse, i sighi, i tanti saludi
che no xe tornài, scrivi ne la stanza
de ‘sta sera co la boca amara
de i chissà, co quel poco de sogno
che te vansa, scrivi par ti e par la gente
che varda el mar e fa finta de gnente.
Perché poesia no xe per riposar,
no xe magnar da cavar la fame,
ma bocón duro che rumega ne la pansa.
Xe ocio svegio che se varda intorno,
tien conto e scarabocia su ‘na carta,
vose che no se sfanta ma se sforza
gratar la scorza che coverze un grumo
de sostanza, canto che se slarga
fora de la rede streta che ne imborsa.
E io…
Cusìe: cucite. Ne strossa: ci strozzano. No ga vose par: non ha voce per.. Sconti.. i so: nascosti..
i suoi. Ne ciapa: ci prende. Co vardemo: quando guardiamo. No savemo: non sappiamo. Sighi:
le grida. Te vansa: ti avanza. Magnar da cavar: cibo da togliere. Rumega: rumina. Ocio svegio:
occhio sveglio. Se sfanta: si perde. Coverze: copre. Rede che ne imborsa: rete che ci imborsa.
76
Vincenzo Mastropirro
Tretìppe & Martìdde
(Questo & Quest’altro)
dialetto di Ruvo di Puglia
Vincenzo Mastropirro - Nato a Ruvo di Puglia (1960) vive a Bitonto (Ba).
Dopo un’intensa e fortunata attività di flautista e compositore che lo ha portato a suonare, con il Trio “Mauro Giuliani”, in vari paesi del mondo (Egitto,
Francia, Inghilterra, Austria, Germania, ecc) ed aver inciso cinque CD con la
FonitCetra, ed altre case editrici. L’amore per la poesia lo porta a musicare i
testi di Alda Merini. Su testi di Vittorino Curci, compone Songs e poi Mater
Dolorosa. Egli scrive: «… lavorando con la parola ho finito per scriverla.» Così
ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie nel 2007 con il LietoColle ed.
Faloppio (Co): Nudosceno.
77
Vincenzo Mastropirro
Le crestudd
u venerdì sande
vàite le meninne apprìsse a la pregissiàune
vestiute da crestudd ‘nanze a gesùcalvarie
‘nge métte nu picche e me vaite
ben’intése
pe maiche er ‘na fieste
le clìure, la banne, la gìente
assè
I piccoli Gesù
il venerdì santo / vedo i piccoli sfilare in processione / vestiti da piccoli gesù davanti al calvario / ci metto un attimo e mi rivedo// ben’inteso / per me era una festa / i colori, la banda, la
gente / tanta.
78
Vincenzo Mastropirro
Stoche a pizz’, proprie a pizz’
cume re furme strone fatte da mamme
prònte pe d’esse mangiòte
da vocche stròne
cu’ le dinte malòte.
Cange guste a secùonde de la fùorme ca s’ mange,
ogn’ e tre pizz’ de cutegnòte
sté ‘na sorprése
nan addemannàteme qual è
nan la sacce ‘mangh’ ej.
Mamme è cundìente,
è fatte ‘na bella feghìure cu la gìente,
me chiome e nan ‘machie chìue
…”addò sté u meninne,
addò sté u meninne Madonna miaie!!”
Sono a pezzi, cioè materialmente a pezzi / nelle forme improbabili scolpite da mia madre /
pronto per essere mangiato / da fauci variopinte / con denti pieni di carie. // Cambio gusto
a seconda della forma che si addenta, / ogni tre pezzi di cotognata / riservo una sorpresa,/ non
chiedetemi qual è / non la so neanch’io. // Mia madre è contenta, / ha fatto una bella figura
con gli ospiti, / mi chiama e non mi trova più /… “dov’è il bambino, / dov’è il bambino
Madonna mia!!”.
79
Vincenzo Mastropirro
Iedde è contre de màiche
ma è tutte normòle.
Totte re capre so contre de màiche,
specie chere salvagge.
Stambesciescene e nan me vùolene béne
ma nan me rembròveraisce nudde.
Ogn’e vùolte ‘ca volene fò, r’accundìente
e sole tanne se calmene.
Po’ repigghene a damme ‘mazzòte.
Nan sacce picc’è,
stoche ‘chiéne de livede
e me sfuòrze de capèie
la lore negativitò.
All’imbrovvéise te vaite reire
fin’a sckattò
e te divirte a re spadde maie.
Lei è contro di me / ma è tutto normale. // Tutte le capre sono contro me, / specie quelle selvatiche. / Scalciano e mi odiano / ma non mi rimprovero niente. // Ogni volta che vogliono fare l’amore le accontento / e solo allora s’acquietano. // Poi riprendono a massacrarmi.
// Non capisco, / sono pieno di lividi / e mi sforzo di comprendere il loro diniego. //
All’improvviso ti vedo / ridere a crepapelle / e ti diverti alle mie spalle.
80
Vincenzo Mastropirro
“… è colpa mia, è colpa mia… non lo faccio più”.
Mamme, viste e nan viste, vene vicine au litte e me deisce:
“Sei il solito Pinocchio, urli e ti disperi
ma poi ritorni da essere discolo come sempre”.
A disce la vertòo
nan m’arrecurdaie ‘na parlòte acchessì féine da mamme.
Difatte, stai a ‘sennò:
“Strunze, viiine ‘ddo ca t’à strippiò de mazzòte”
ovvero
“Stronzo, vieni qua che ti devo massacrare di botte”.
Mo è tutte normòle.
… Mamma, compare all’improvviso al mio capezzale e mi dice: / … // A dire il vero / non
mi ricordavo un eloquio così perfetto da parte di mamma. // Infatti, stavo sognando: /
“Stronzo, vieni qua che ti devo massacrare di botte”. // Ora è tutto normale.
81
Vincenzo Mastropirro
Me vaite nu fiàure de carte, fùorte e coloròte.
Stoche chiandòte ind’a la tìerre
‘nanze a la tòmbe d’attaneme
ca se sté a pisciò sùotte da re resòte
L’addemanne: “peccè stè a réire?”
ed idde spicce de réire subete.
Senza parlò vogghie sdradecamme e scappò
ma m’arrecùorde ca nan pùozze.
U terrene me mange a picche a picche.
La paghiure me pigghie ma,
pe fertìune m’arrecùorde d’esse nu fiàure de carte
e nan pozze meréie.
Mò capisce re resòte d’attàneme.
Mi rivedo in un fiore di carta, rigoglioso e colorato. / Sono piantato nella terra / davanti alla
tomba del mio unico padre che si scompiscia dalle risate, / gli domando: “perché ridi?” / e lui
smette di ridere immediatamente. // Senza parlare vorrei sradicarmi e andar via / ma mi
accorgo che non posso. // Il terreno mi ingoia millimetro dopo millimetro. / Il terrore mi
assale ma, / fortunatamente ricordo di essere un fiore di carta/ e non posso morire. // Ora
capisco le risate di mio padre.
82
Vincenzo Mastropirro
La murge
Sapaie acchiò le funge
ma mò la murge nan è chìue cume na vùolte.
La murge è cangiòte pe colpa maie.
Da quanne nan scibbe chìue l’ònne cangiòte,
se la stònne a mangiò.
Er nu paravéise,
àrede e chitràuse in ogn’e stagiòne,
er frìede ma bielle.
Dà, le ‘penzire scappàine. Cammnaie,
cammnaie ed’ogn’e ‘ttande assàine le funge.
Ber’fatte, cardengìdde ber’fatte.
Er brave ad acchialle.
Colpa maie, mo nan voche chiue
e nan riesce chiu’ a ‘penzò, ad acchiò, a sennò.
Sapevo cercare i funghi / ma ora la mia murgia non è come una volta. / La murgia è un mutata per colpa mia. / Da quando cominciai a non frequentarla più / l’hanno trasformata. / Se
la stanno mangiando. / Era un paradiso, arida e brulla in tutte le stagioni, / era asettica ma
meravigliosa. / Lì i pensieri galoppavano. Camminavo, / camminavo e ogni tanto sbucavano
funghi. / Bellissimi, cardoncelli bellissimi. / Ero bravo a trovarli. / Colpa mia, ora non vado
più / e non riesco più a pensare, a cercare, a sognare.
83
Vincenzo Mastropirro
La paròle giùste è stetò.
‘Nesciùne ‘ngéine inde u cile è stòte ‘nvendòte,
la prove è la cadìute irresistibile de l’angele
ca’ cadene ‘nndìerre cume chelumere sfatte.
R’illussiòne s’allundànene sembe de cchìju,
nan ne remone ‘ca la finta’ resòte,
‘metténne la tavue esteive addò nu bune pìatte
de gronegréis-patòne-e-cùozze
spénge abbasce u muzzeche amòre du delàure.
Il verbo giusto è spegnere. // Nessun gancio nel cielo è stato inventato, / la riprova è la caduta irrefrenabile degli angeli / che si schiantano a terra come fioroni sfatti. // Le chimere si
allontanano sempre più, / non ci rimane che la finta allegria, / apparecchiando la mensa estiva dove il magnifico piatto / di riso-patate-e-cozze / spinge giù l’amaro boccone del dolore.
84
Guido Leonelli
Sgrìsoi
(Brividi)
dialetto di Trento
Guido Leonelli - Nato nel 1939 a Rasùn Valdaora in Alto Adige, risiede
a Calceranica al Lago, Trento.
Laureato in sociologia, scrive versi esclusivamente nel dialetto di Trento.
Opere di poesia: nel 2000 Rèfoi de destràni (Grafiche Futura. Matterello di
Trento). Presso le Nuove Arti Grafiche di Trento ha pubblicato Uce che spónze (2000) e Sgéve de vita (2002). Nel 2004 ha pubblicato un’altra raccolta
Amór en zìnzorla (Ed. Osiride). Nel 2007 presso le Edizioni31 è uscito il volume Sól e nùgole ‘n riva al lach.
Ha collaborato a riviste letterarie e è risultato vincitore in importanti Premi
nazionali di poesia.
85
Guido Leonelli
Carolina Kostner
Na colana de nòte a mesedón
che la se deszóla su ‘nté ‘n rigo,
na mùsica dólza a ghirigòri
su la giaz tirada a lustrofìn.
L’encolóra n’orditùra ‘n filigrana
en panevèl spuzzét
che ‘l méte ensèma na trama
‘nté ‘n balét de pirècole, salti,
pirli e schiramèle, en sgolar lizér
sénza orbiròle, con eleganza,
na danza a ondezón tant che baiarèle.
Ai zòghi bianchi de Olimpia
enté ‘n costumìn de lusentìni
la pirla la nossa Carolina
pòch pu che na popìna
perfìn a farghe góla
a grili e cavaléte.
Na véra artista de mùsica e bal
a ‘mbastir dólza na sintonìa
che la se fa sùbit superba poesia.
A mesedón: alla rinfusa. Deszóla: scioglie. Su la giaz … a lustrofìn: sul ghiaccio … a lucido.
L’encolóra: dipinge. En panevèl spuzzét: una lucciola smorfiosetta. Pirècole… pirli… schiramèle: capriole… trottole… piroette. En sgolàr lizér… orbiròle… a ondezón tant che baiarèle: un
volare leggero… vertigini… ondeggiando come allodole. Lusentìni: lustrini. La pirla: rotea.
Popìna: bambina. Farghe góla: fare invidia.
86
Guido Leonelli
Soliènta
(derelitta)
Arìva balòte de canti
da lontàn
rudolàndo ‘nté na lum
che ancór la sténta.
La fadìga a farse ‘n là
la nòt
col sol cargo de ‘nsòni
bosiàdri.
E mi me svòltolo ancór
soliènta
entrà le fizze de linzòi
che i conós mèio de ti
sta vècia stòria
‘nmagonada
de tute le me vòie.
Balòte: scampoli. Rudolando: rotolando. La sténta: indugia. ‘Nsòni bosiàdri: sogni bugiardi.
Svòltolo: mi rigiro. Fizze de lenzòi: pieghe di lenzuola. Conós: conoscono. ‘Nmagonada: accorata.
87
Guido Leonelli
El zògh de la vita
(Il gioco della vita)
Quan che se ‘ncùcia la séra
sót a le ale ciaùsche de la nòt
me sénto pèrs,
stranià
e come ‘n matelòt
no so se piànzer
per n’altro fòi cascà dal calandàri,
o se rìder contènt
per el bèl che ‘l porterà
el dì che vèn.
L’è ‘l vècio zògh de la ròda
che tant che na zìnzorla ‘ntrigóna
el se divèrte
a portarne ‘n su bèn alt
entrà slusóri sémpre nòvi
e làude che se ‘ntòna
per pò lassarne nar de cólp
sót a le ociàre bròlde
de na meridiana ‘ngremenìda
che tuti i dì la spèta ‘l sól
sperando che la stòria
no la sia zamài finìda.
‘Ncùcia: accuccia. Ciaùsche: spettinate. Matelòt: bambino. Zìnzorla ‘ntrigóna: altalena impicciona. Entrà slusóri: fra splendori. Nar de cólp: andare di colpo. Ociàre bròlde: occhiate smorte. ‘Ngremenìda: intirizzita.
88
Guido Leonelli
Sgrìsoi de primavéra
(brividi di primavera)
Gh’è colóri nòvi ancòi
en l’ària
e profumi mai sentìdi.
Sformìgola su la me pèl
sgrìsoi de primavéra
recami de séda
che desbròia vòie antiche.
Desmissià da na stagión
che la me ciàpa dént,
el méte ale nòve
‘l còr:
bugàt che ‘l ciàpa ‘l sgól
lassàndo al vènt
lizéra la galéta.
Gh’è… ancòi: Ci sono… oggi. Desbròia: liberano. Desmissià: risvegliato. Ciàpa dént: prende
dentro. Ale nove: ali nuove. Bugàt ch’el ciàp ‘l sgól: larva che prende il volo. Lizéra la galéta:
leggero il bozzolo.
89
Guido Leonelli
Demò vòie
(Soltanto voglie)
Te védo ciàr
fantàsma ‘nté l’orbèra
sfrabotolar silènzi;
te sénto ancór
tornar a cà
da le to nòt balzane.
Te tróvi sémpre
davèrt el restelét
ma frét quél lèt
che ‘l scónde demò vòie.
Ensòni smarìdi
tant che fòie
‘ntéi cantóni de la via
de na primavéra de prèssa
fruàda
che no l’èi pu mia.
‘Nté l’orbèra: nelle tenebre. Sbratolar: farfugliare. Davèrt el restelét: aperto il cancelletto. Frét
quel lèt: freddo quel letto. De prèssa: di fretta. Fruàda: consumata. L’èi pu: è più.
90
Guido Leonelli
Zòghi d’amór
(giochi d’amore)
Na bòzza ‘ngiazzada che bóie.
Dó calici lustri de cristal.
En bòt séch dessiguàl.
En la nòt de i amóri
se slónga man
su cópe che ‘nvida.
Slusóri.
Òci che parla
sénza dir gnènt.
Rozàl frét
saóri
per góle che brusa.
Lóre de còri famadi.
Augùri
e po’ via a tacar zòghi.
Zòghi de amór.
Na bòzza ‘ngiazzada che bóie: una bottiglia gelata che bolle. En bòt séch dessiguàl: Un botto
secco contemporaneamente. Se slónga man: si allungano mani. Cópe che ‘nvida: coppe che invitano. Slusóri: bagliori. Rozàl frét: ruscello freddo. Brusa: ardono. Lóre de còri: imbuti di cuori.
Tacar: cominciare.
91
Guido Leonelli
En but desmentegà
(Una gemma dimenticata)
Gò dént
na vòia fónda
che te gai anca ti
che qualchedùn me zérca
che ‘l ciàma
che ‘l me tóca
che tant che na marmòta
el cuca fòr dal bus
che ‘l zògh del scondiléver
l’è oramai del tut sgaùs.
Vorìa gavér la fòrza
de ciamarte mi per prim
de róterghe sta grósta
a ‘n but
desmentegà
che ‘l mòre da so pòsta
su ‘nté ‘n rosar
embrumà.
Gò dént: ho dentro. Te gai anca ti: hai anche tu. Ciàma: chiama. Cuca.. bus: sbirci… buco.
Scondiléver… sgaùs: nascondino… vuoto. Gavér: avere. Róterghe sta grósta: rompere questa
crosta. Da so posta: per conto proprio. Su ‘nté ‘n rosar embrumà: su un rosaio coperto di brina.
92
Portovenere
«Tendono alla chiarità le cose oscure»
Eugenio Montale
93
SEGNALAZIONI
Armando Giorgi
Ostaia
(Osteria)
(dial Genova)
Posan e biciclette in ta ciassa,
giè verso l’ostaia, o berretto cegou.
Zeugan a-a biscambiggia,
fan brindisi quande guagnan a-e carte
e-o dexideo de beive ö disegna
in scià toa, riondi de tasse de caffè.
Aspetan a coverta da neûtte
pe pedalà verso o paise
dove gatti strangoan l’amò
e-o crescentin da sbrazzoa
a schitta in te l’aia
tra scciuppon de foggiammo.
Quande mescian e reue,
repiggian regalli de memoia,
aguiettan a fornaxe numero trei
che-a descarega sciopi de sciamme rubin
in to çestin do corzeu.
- Posano le biciclette nella piazzola, / girate verso l’osteria, il berretto piegato. / Giocano alla
briscola, / brindano quando guadagnano a carte / e il desiderio di bere disegna, /sulla tavola,
rotondi delle tazze di caffè. / Aspettano la coperta della notte / per pedalare verso il paese, /
dove gatti strangolano l’amore / e il singhiozzo della civetta / salta nell’aria tra scoppi di
fogliame. / Quando muovono le ruote,/riprendono doni di memoria, / scrutano la fornace
numero tre / che scarica sciroppi di fiamme rubino / dentro al cestino del crogiolo.
94
Vanni Giovanardi
Sensa cumpagnia
(Senza compagnia)
(dial reggiano/mantovano)
Am senti l’aria cla ma sta d’inturan
prègna ad cal silensi
ca sa smorsa in dal pigar dla pèl
quand i oc ad coi
ch’im dgea da star peù ben
lugà daddrè al me coer
i sa smantes cul moevar intristì
dli steeli spersi in mesz al ciel.
E al vivar dli paroli
cl’era un sul
da fam slargà la vusz cumpagn
na finestra impiada la matina
in facia al nasar dli campagni
l’è sul un vèl dastesz
in long al pieuvar dla memoria
quand la sira l’at cumpagna
sota al preum luszur
d’na luna smorta ad displaszèr
e sensa compagnia.
- Sento l’aria che sta intorno / pregna di quel silenzio / che si spegne nel piegare della pelle /
quando gli occhi di quelli / che mi dicevano di stare meglio / nascosti dietro al mio cuore / si
affievoliscono col movimento intristito / delle stelle disperse in mezzo al cielo. / E il vivere delle
parole / ch’era un sole / da farmi larga la voce come / una finestra accesa la mattina / in faccia al
nascere delle campagne / è solo un velo disteso / lungo la pioggia della memoria / quando la sera
ti accompagna / sotto al primo luminare / di una luna smorta di dispiacere / e senza compagnia
95
Alessandro Mordini
‘Ita
(Vita)
(dial Porto Recanati, Mc)
La ‘ita se sghiòma
o in bunazze ‘ndurmite
in dù che le cumtentezze
‘nciarma el sentementu
o in gorghi fónni
in dù se ‘ffòga
de cursa
tutt’i ‘nzògni…
- La vita si dipana / o in dormenti bonacce / dove la gioia / cinge il sentimento / o in gorghi
profondi / dove annegano / veloci / tutti i sogni…
96
Alfredo Panetta
U galanu
(Il rigogolo)
(dial calabrese)
U cchjiappai, ‘nci llisciai i pinni
cu ‘na manu, cu ll’autra ‘nci stujai
u sangu mbiscatu a coccia i chjiumbu.
‘mbicinai i labbra a ja pagura
virdi, ‘nc’i rricchjiai u trentulu:
parìanu ‘ngusci i figghjioleju.
M’axxanca’ a ‘na mastra
d’abbivaratizziu, u dagià’ ‘nta
‘na petra d’armacera….
‘nc’appojai vicinu a testiceja
‘na junta d’erba frisca
e m’a fujìi.
- L’ho catturato, gli ho lisciato le piume / con una mano, con l’altra gli ho pulito / il sangue
impregnato di piombo. // Ho avvicinato le labbra a quella paura / verde, ho ascoltato il tremito: / sembravano i gemiti di un neonato. // Mi sono accostato a un canale / d’irrigazione,
l’ho adagiato su / una pietra di un muro a secco… // gli ho posato vicino alla piccola testa /
un ciuffo d’erba fresca // e sono scappato.
97
Raimondo Rossi
“Paesaggio”
98
LA CITTÀ NEI POETI
Questa sezione prevede cinque interventi sul tema della “Città” nei versi dei
poeti, i quali hanno sempre avuto con i luoghi – di nascita o d’elezione – un
rapporto di tipo coniugale e parentale in senso ampio. In ogni caso d’amore
che non esclude talora particolari difficoltà di rapporto.
Dopo il breve (as)saggio del prof. Gastone Mosci sullo scritto “Urbino, la città
dell’anima” di Carlo Bo, che ha considerato la città ducale sua terra ideale, i
poeti e critici Fabio M. Serpilli, Germana Duca Ruggeri, Mario Narducci e
Davide Rondoni, faranno un omaggio in versi alle città di Ancona, Urbino,
L’Aquila (e l’Abruzzo) e Milano (e dintorni).
Sono tutti testi inediti che rendono più prezioso questo volume, data la valenza letteraria degli autori.
99
Germana Duca Ruggeri
(dialetto urbinate)
De ma quasò
Urbin-cità par
un frut pien, san,
chius com ’na noc’
t’na scorsa:
punt tajent
e rotondità de vas
tocate, t’un quant,
da le al dj angiol.
Urbin-cità è
’na copia d’uva
rugolata giò
da ’n car celest,
tacata sò fra cost
e dirup amatonati,
mès’indormentati.
Urbin sta aspetand,
sal su’ fil de cometa
vrichiat t’na trama
futura, el ritme giust
p’intrida art e natura.
100
Spasi amalati
stasion aletata
svincol ralentati
butiglie svoide
(coc’ infilsat t’i costic’
ma ’n ragas)
èn le note moderne.
C’è qualco’ ch’én va.
Vasta è la distanza
che qui si impara
e mai si chiude il cerchio:
ai collegi-università
a badilate
hanno ucciso una donna
una madre
Floride di nome
di professione custode.
Giallo insoluto
special-tv (Blu notte).
E buone nottate.
Largo alle teppe
che vanno svellendo
rigando spezzando
imbrattando
il rinascimento scemato
nel fare tardi
nel parlare dopo.
Che strasi’
che lament
Urbin
el tu’ declin.
C’è qualco’
ch’én va?
La città è firmata,
oggetto di design
sublime,
superstar dell’architettura,
veste su veste
101
su corpo di luce,
gioco di pura energia:
toh canella!
Giva a stroppacerquella.
Che tanacca! ’N arbaltatic’. Cut.
Toca stè a la grilla. Pancot.
La coperta de pignòl.
En se pò sempre dormì t’i alòr…
L’ora esitante scolpisce
sui muri labbra divise
fra baci muti e grido
e il ricordo di parole
incise alle radici
attraversa come un contatto
i volti che le lingue lega:
rassolin de seta
ribiscin
persciutin
caramèla
brendolina…
O Urbin, ma chi t’ha fat
era un birb opur un mat?
E ’ste tu’ dialet che s’ parla
ch’è ’n piacer
perché quant s’ascolta
par un mister? I’ arprov
a scriv’le, me fac’corag’,
me do speransa,
mo a leg’le ce vol
’na gran pasiensa.
Se ce pens, me vien
el mal fin ma’l stommoc.
En voj fè la compostura,
arvag ma l’italian adiritura.
Ansi, t’na giornata dacsé bella,
sa ’l ciel tut particolar,
se podria pur gi’ via da Urbin…
102
Mo sé, gim a caminè ma la Cesana!
A veda el Conero com’ s’indrissa
tel mès dle Marc. Gim a chiamè
fort la mi’ Ancona. A chiamè,
da ma quasò, el mar.
Da quassù - Urbino-città sembra / un frutto pieno, sano, / racchiuso come noce / in una
scorza: / punte taglienti / e rotondità di vaso / sfiorate, all’improvviso, / da ali di angeli. /
Urbino-città è / una coppia d’uva / scivolata giù / da un carro celeste, / appesa fra erte / e
dirupi ammattonati, / semiaddormentati. / Urbino sta aspettando, / col suo filo di cometa /
avvolto in trama / futura, il ritmo giusto / per legare arte e natura. //
Spazi ammalati / stazione inferma / svincoli rallentati / bottiglie vuote / (coccio infilzato nel
costato / a un ragazzo) / sono le note moderne / C’è qualcosa che non va. //
Che strazio / che lamento / Urbino / il tuo declino. / C’è qualcosa / che non va? //
complimenti! / Andava a rompicollo. / Che colpo! Una confusione. Bubusèttéte. / Si deve
stare all’erta. Pancotto. / La coperta di lana tessuta al telaio. / Non si può sempre dormire
sugli allori… / uccellino di seta / follettino / prosciuttino / caramella / farfallina… / O
Urbino, ma chi ti ha fatto / era uno astuto o uno pazzo? //
E questo tuo dialetto che si parla / che è un piacere / perché quando si ascolta / sembra un
mistero? Io riprovo / a scriverlo, mi faccio coraggio, / mi do speranza, / ma a leggerlo ci vuole
/ grande pazienza. / Se ci penso, mi viene / il mal sottile allo stomaco. / Non voglio fare indigestione, / torno all’italiano direttamente. / Anzi, in una giornata così bella, / col cielo tutto
particolare, / si potrebbe pure andare via da Urbino… / Ma sì: andiamo a camminare alla
Cesana! / A vedere il Conero come si inarca / a mezzo delle Marche. Andiamo a chiamare /
forte la mia Ancona. / A chiamare, da quassù, il mare.
103
Fabio Maria Serpilli
(dialetto anconetano)
Cità de le parole
C’è na cosa al mondo che ce cosa
e nun possi fà de meno,
che t’intaca
l’idea de Lù
a fior de bóca,
‘ncó si nun credi,
guai chi ‘l tóca
e
n’altra cosa che intrìga
è ‘l nome de Lìa
madre moje fiola
donna antiga
e
n’altra cosa che te cosa
è ‘l ronzo de sono
che va in parola
e se fa canto
in fojo bianco
(s)matita
e
n’altra cosa ancora che fadìga
è la pasió pel sito
indó sei nato
el dialeto
che hai suchiato
104
È
tut’i munumenti,
dislogati sentimenti
rima ai scòi
indó acqua
sempre a riva
‘riva da l’ère
ch’era in prencipio
e ‘ncó l’omega
parole in lota
grega
o
visió fatidiga che lega
el corpo a na pietra
avorio Dòmo
a n omo
n’o
o
sprovìdiga maestà
a
‘ndà ‘ndó?
Dies irae diasilla
scioje secolo,
‘ndó porta la scintilla
illa
la
diapasòn
son
el sono gnente più
uh
gu t
urazió
animando in-voluzió
nevròtigo bisillibo
ìllibo
boh
Jahvè
Io so’ colui che c’è
in sta cità
105
in stu logos
che perché
nun trovo logo
me eca la rima
me sponda
es onda un giogo
giostr-rotatoria
luna park
penzieri mii
rìtim’in blu
trombe palazi
clarini viguli
grondoni penzoli
da Piaza in su
sul sacro Còtano
Santo Ceriàgo
apoteosi
chi è stato el mago
c’ha meso lì
cupola e torre
scampanazió
ucel’è ‘l celo
d’in dó din do
Sono
Nun sei che ‘n sono
Peppe ‘ntun porto
dicea sepolto
folg or azió,
smastigamento
lingua da lengua
dio da io
o
oh!
Stupefazió
Quando che tuto
che lasceremo
106
ce lascerà
ombra e corpo
el celo mare
muntane tere
st’abiss’amore
ciarmàne solo
cità parole
ne manco più
107
Raimondo Rossi
“Paesaggio”
108
Carlo Bo: Urbino, la città dell’anima
di Gastone Mosci
«Per capire Urbino non basta una vita»
Lo dice Carlo Bo in apertura di un suo libro speciale, “Parole sulla
città dell’anima”, a cura di Gilberto Santini (Urbino 1997), un vero
e proprio livre de chevet, che invita a dodici letture per entrare nello
spirito di una “città dell’anima”. Questo aforisma suggella la chiusura di un’opera che rappresenta una riflessione sulla bellezza e sulla
spiritualità della città. I testi di Carlo Bo vanno dal 1959 - il giorno della sua cittadinanza onoraria urbinate - al 1997, durante i suoi
cinquant’anni di rettorato. L’opera ha un valore di testimonianza
culturale ma anche di itinerario di civiltà e di spiritualità.
Il Palazzo Ducale
In questo testo Carlo Bo si pone di fronte all’immagine della città,
nell’intento di leggerla e di interpretarla: cercare di capire vuol dire
entrare prima nello spirito della città, della gente, poi nell’ordine
della storia: «qui batte il cuore dell’Italia, c’è qualcosa che miracolosamente è stato realizzato nei secoli passati e che adesso è riassumibile, è simboleggiato dal Palazzo Ducale». La città dell’anima passa
attraverso la centralità del Palazzo Ducale, «che è un’idea d’arte,
un’idea di bellezza, di poesia».
Ecco dunque una lettura, come sogno diurno, per comprendere il
senso di questa città, relegata a isola, a mondo separato, e quindi saltata dalla storia, ma difesa nella sua essenza da un progetto misterioso, come le Marche “isola di poesia nel cuore dell’Italia”.
Questa città dell’anima vive in un sistema di “isolamento” che la
definisce, ma che diventa anche “piccolo osservatorio” di ciò che
accade nell’ambito nazionale: «stando così separati, così distanti,
così arroccati su un colle, uno che ci viva, che ci sia nato, che abbia
passato qui la sua vita e che sia stato dotato di capacità poetiche –
per esempio Volponi – ecco che un individuo di questa specie è in
grado di andare al di là della storia e di vedere quello che si sarebbe
potuto fare, quello che si è fatto, quello che si è perduto nei secoli e
quello che, nonostante tutto, permane, resiste, respira».
109
Urbino, dimora delle Muse
Ma non basta, la città non è solo il Palazzo Ducale ma un luogo che
si arricchisce «nella bellezza del paesaggio, delle colline, di questa
luce stupenda che c’è nei giorni più limpidi, più chiari».
La città vive, poi, una specie di magia, che è nutrita dal tempo, non
solo “una città del silenzio” ma una “dimora delle Muse”, una casa
accogliente, il «simbolo del Rinascimento e della vittoria
dell’Umanesimo».
«In fondo Urbino è un’invenzione poetica, della natura, del
Creatore e di quello che in passato hanno saputo fare i grandi artisti che qui hanno lavorato, che hanno vissuto la città…» Piero della
Francesca, Francesco di Giorgio Martini, il Castiglione, ma anche
gli umili artigiani e costruttori che hanno rispettato l’architettura ed
il paesaggio.
Ancora un dato cui Bo tiene molto: una città dell’anima è una “eredità ideale”, è una grazia ricevuta per chi è del luogo: per chi giunge a Urbino sembra un miracolo, per chi vi è nato è un “dono quotidiano, naturale”.
Città universitaria
Nell’orizzonte di Carlo Bo la città dell’anima non è solo espressione di ricchezza artistica e storica ma anche la città universitaria: nel
suo insieme Urbino educa lui stesso sul piano umano, gli organizza
una “buona intelligenza della vita”. E quindi il rapporto con la cultura, con lo studio si trasferisce al dialogo con i colleghi, il personale non docente, i cittadini, ma soprattutto gli studenti che sono il
cuore dell’ateneo: la scuola è in rapporto con la vita, come la cultura che è parte integrante del sistema umanistico. Gli studenti stessi,
che sono più degli abitanti, contribuiscono a creare una città tutta
particolare, a rappresentare una “sorgente viva”, a stabilire un’alleanza fra una città d’arte ed una popolazione di giovani, che esprime il
senso della vita. Ma quale Università? Una Università come scuola
particolare, con l’idea di libertà e con il sostegno dei diritti dell’uomo; una cultura «come segno della continuità e di una speranza che
possa vincere lo spettro della morte».
110
Un paesaggio incantato
In uno degli interventi, Carlo Bo pone un’altra domanda prediletta: “Siete mai venuti a Urbino?” E continua: «Se continuerete a
rispondere di no, dovrete sentirvi in colpa, perché vi mancherà una
dimensione della civiltà italiana». La questione nasce nel 1965,
quando interviene per sostenere una legge speciale del parlamento a
favore di Urbino, che crolla. Lancia un grido d’allarme e porge un
invito per scoprire Urbino e la bellezza del suo territorio: “Urbino
è un paesaggio incantato”, perché è rimasto intatto ancor oggi.
Questo volumetto, “Parole sulla città dell’anima” (1997), rivolto
principalmente all’idea di città, come l’ha maturata interiormente e
come l’ha veduta e vissuta, fin dal suo arrivo nell’ottobre 1938,
sotto il segno del Palazzo Ducale, è un’anticipazione dell’opera maggiore, che comprende anche i volti di Urbino e delle Marche, i poeti
e gli scrittori, gli amici ed i testimoni di una civiltà dello spirito:
“Città dell’anima. Scritti sulle Marche e i marchigiani”, a cura di
Ursula Vogt, che esce postuma nel novembre 2001. Il mio intervento è rimasto circoscritto a Urbino, affascinato da “Una visione libera e aperta”, suggestiva e feconda idea da cui muovono l’invenzione
e la creazione del Palazzo Ducale, ma anche modello di un nuovo
umanesimo con le voci della pace, della musica e della poesia, in
una città dello spirito, che tiene vibrante la forma dell’utopia.
111
Davide Rondoni
(IneditiCittà)
Milano, notte.
È finita la pioggia stanotte
ma non la sospensione
di qualcosa tra il cielo così di luminoso
argento e le strade
non è la luce, non è
la materia aerea
del giorno…
non è la prima nebbia a fine sera, né il leggero
silenzio di settembre, né il finestrino aperto
al ritorno sul vagone finalmente vuoto.
Che suggerimento ignoto,
che strana bandiera
vederti passare nell’ora che si dovrebbe
dormire, e invece con gli occhi di brace
resto a fissare l’aria
e il suo lampo muto che più di ogni cosa
mi piace, la memoria piena
di prodigi, e
sì, vedere Milano nell’acqua…
112
Vieni ti prego, ma prima del sonno e sii
la sua porta, poiché dopo non ricordo
più niente
e non voglio andare nel buio
senza un volto negli occhi - -
113
Spanish harlem
Riparaci da questo frastuono
per il resto della notte riparami
mi diceva stringendo le mani
non lasciarmi andare via
anche lei
ha l’apocalisse negli occhi belli
tutto quello che ho amato
e una croce nella gola –
poi al mio sguardo s’invola
e bruciano sull’asfalto bagnato di pioggia
le lame della notte
i cavalli di luce che fuggono
le danno un manto di fiamme, regina
e così magra, sola
114
Regina a Ponte Libia
(a Lucio Dalla)
I
E lei
che per una sclèrosi
o cosa
cammina a salti, giovane e qualche
capello bianco sulla fronte
e il viso si sporge come una parola
che si cerca
è mattina, poca mattina
quando la vedo
tra i semafori a ponte Libia
un altro ritmo tra le accelerazioni,
viso contratto e aperto, slacciata
al freddo di dicembre
tra gli occulti che nelle giubbe nei caschi
filano per l’aria sugli scooter- E mentre tutto va
dove deve andare
le notizie di ieri, i modelli
d’automobile, il colore
delle tue labbra, amore
e quel che si chiude
nessuno può far niente
per aprire
- lei
115
cosa porta, cosa raggiunge
in quel ritmo
strappato e obbediente…
II
Poi una mattina la rivedo
appoggiata di schiena ad un’auto in sosta
quasi rovesciata guarda il cielo bianco, parla
e non ha voce
ha la giacca aperta degli ubriachi,
le scende di molto da un lato
come se quella mattina non ci fosse
da fare altro che stare buttati
sulla fila di auto
e cianciare al cielo, dare il petto
magro
dire agli angeli o a chi:
venitemi a prendere, io ero dei vostri
116
Mario Narducci
(Abruzzo: città, poeti, parole)
Ju core de la gente
“Settembre, andiamo. È tempo di migrare”:
ci stesse unu che non sa a memoria,
sta puisia che avrà fattu storia,
dajiu prufissiunista alla commare.
Ogni vota che ‘ico: sò abruzzese,
accome recomenza la canzone,
ecco le pecorelle e ju montone
e ji tratturi e la gente cortese.
D’Annunzio ci ha frecati a tutti quanti
prima de issu non ci sta gnisciunu,
dopu de issu, trova quallicunu
che te rresce a accocchià nu poch’ ‘e canti.
Ice: e Uvidiu che stane tra ji grandi?
Ma che sta a dì? Sulmona, co’ rispettu,
è chiù famosa mo pe ju confettu
che pe’ chi se ‘nventette l’”ars amandi”
Quandu a Sallustiu dell’Aquila me,
(che pe’ la verità trattea de storia),
ju sannu ancora, scì, tutti a memoria
no pe’ com’era, ma pe’ accome è:
117
j’annu fattu nu bejjiu munumentu
che tutti quanti tanna guardà spessu:
però peccatu che ju basamentu
sta rengriccatu ajiu pubblicu cessu.
Chi se recorda de Porto ju rossu
de Robberto Coletti e Cavalieri:
poru dialettu me, pori pensieri
d’amore che se sò ridotti aj’ossu.
Chi se recorda de prufissiunisti
che hannu cantata l’Aquila in dialettu
co’ verzi senza mancu nu difettu:
“L’ellera verde”, che te struje ju pettu
“Quando all’ave Maria la campanella
resona co’ na voce fioca fioca
e Ju Gran Sassu guarda la Macella…”
…e Collemaggiu pare che se ‘nfoca.
D’Annunziu e basta, dunque, ma se salva
pe’ la pubblicità fatta in dialettu
ajiu Parrozzu che dentro ajiu pettu
te mette pace, come fosse malva.
Ju Vate, in virità, coprea ju costi
dello campà, co’ quesso e le canzoni,
come “’a vucchella”, piena d’emozioni,
musica de Francesco Paolo Tosti.
E a Chieti? Ice: ci sta ju Marrucinu,
nu teatru famusu e co’ stagioni
de prosa, de operetta e, me cojioni,
de lirica e ballettu sopraffinu.
Tuttu l’atru non conta, non importa;
e “Ju trombone d’accompagnamente”?
118
Ji giovinotti, mo non sannu gnente
se chi era Modesto della Porta.
Non sannu che quiss’ome pe’ campà
fecea ju sartu nella Capitale
sognennose la notte Guardiagrele
e ju trombone da poté sonà.
La pruvincia de Teramo, se sa,
confina colle Marche (j’ascolani),
ju dialettu, ‘mpo’ simile, tè mmani
l’anima popolare e se refà
aji usi della gente, la cchiù mejjio:
respunnu ajiu timballu de ste zone
ji tajiulini de Campufilone
e l’aria fresca che te fa sta sveglio.
E ji poeti? Vatteji a trovà
anche se sti paesi ne so pieni:
tu fatte cuntu Ermanno Magazzeni
che atru non ha fattu che cantà
la vita, ji miraculi e la morte
de nu Santu che stea ajiu Gran Sassu
addo’ ji pilligrini, passu passu
ancora vannu e piedi colle scorte
pe’ magna: ju Santu che la gente
ancora canta spieghenno le vele:
“Viva la coccia de San Gabriele”,
mentre ju core cchiù bbonu se sente.
Ji poeti abruzzesi, a ben guardà
sò addaeru na morra, sò na schiera,
pe’ ju dialettu è sempre primavera,
anche se poca elitte ce lo sa.
119
Unu de quisti, Serri Pasqualino
te j’annu missu all’enciclopedia
pe’ “U cacabozze”, che è na puisia
pe’ nu ggirinu e invece è ju distino.
“Eppure issu spera che nu jiorne,
guanne sarrà ranocchia, potarrà
da la pescolle ‘scì, guardasse ‘ntorne
e pe’ ju munne mettese a zumpa’”.
Quanta dolcezza stu dialettu nostru,
che sia della montagna o la marina:
tenemocejiu bonu come prima,
e a memoria com’ ju padrenostru.
Portemoju alle scole collo pa’
e la minestra dejiu misujornu,
se tane respirane ‘ntornu ‘ntornu
come fosse prufumu da fiatà.
Na ‘ote, ma ji tembi sò cagnati,
se solu icii domà e non domani,
tella spezzea, ju maestru, mmani
la verga e te cagnea ji connotati.
Quanta gnoranza, quanta cecità!
come se te levessero lo latte,
e non ci stea, vicinu a ti, a commatte
gnisciunu pe’ non fattelo levà.
Mo che semo scoperta sta sorgente,
fecemo de non falla reseccà.
Ju dialettu è ju core della gente,
la cchiù mijiore nostra identità.
Mario Narduccci
120
Cattedra del vescovo Elia,
Basilica di San Nicola, Bari
«Credi, non è la gravezza dei pesi,
è l’inutilità della fatica»
Umberto Saba
STUDENTI
Scuola Primaria di secondo grado
Poesia singola in italiano
1 Polverigi, di Andria Massei (Polverigi)
2 Il vento, di Sarah Cerioni (Polverigi)
3 Il vento, di Tiziana Manzotti (Agugliano)
Segnalazioni:
Trapano, Irene Baldoni - Agugliano
La nebbia, Diego Cardellini - Polverigi
La sega, Filippo Lucchetti – Agugliano
L’ombra, Sofia Marconi – Polverigi
La città di luna, Elettra Pierelli – Filottrano
Silenzio, Alice Santini – Polverigi
Poesia singola in dialetto
Segnalazioni:
Io so’ proprio cuscì, Nicolas Baldini - Agugliano
La culazió, Luca Carbonari - Polverigi
Giuria:
F. M. Serpilli
Silvia Candelaresi
Anna Cerioni
122
Polverigi
Collina verde
cielo nuvoloso
casa vecchia
Campi arati
righe profonde
ombre coperte
Campi grandi
terra scura
righe dritte
Campi verdi
terra chiara
alberi forti
Alberi alti
rami robusti
ombre scure
Olivi verdi
ombre corte
foglie piccole
Stradina di terra
discesa ripida
sentiero con un po’ d’ombra
Traliccio di ferro
pali lontani
fili fini
Andria Massei
123
Il vento
Il vento scese,
soffiò forte all’improvviso
verso la luce del sole
che stava uscendo tra le nuvole.
Il vento si fece sentire
nel giardino;
i bambini entrarono
di corsa in casa
dove li avvolse
il calore del camino acceso
e l’odore della legna bruciata.
Il vento si stancò di aspettarli.
Sarah Cerioni
Il vento
Simile a respiro
sibila tra gli alberi.
Singhiozza tra le case.
Silenzioso aspetta
di diventare il
signore della sinfonia.
Tiziana Manzotti
124
Il trapano
Sto per fare un gran trambusto
trafelato prendo il fusto.
Ecco il trapano, mio amato,
in soffitta già scordato.
Lo trafiggo contro il muro
bucarlo sarà duro.
Trrrrr, trrrrr…
Tredici trilli la parete sussulta,
trionfo di polvere, la terra insulta.
Trasloco terminato
trapano depositato.
- a presto amico mio col cuore dico io
e il cuore del trapano traballante
è trafitto da una tremenda
ondata di felicità
Irene Baldini
La città di luna
Città di luna,
e di filtri,
luce abbagliante volante.
Luna, illumina tutto
fermando il tempo.
Elettra Pierelli
125
STUDENTI
Scuola Secondaria di primo grado
Poesia singola in italiano
1 L’isola, Claudio Cervo - Agugliano
2 Il tifo, Filippo Pieroni - Agugliano
3 Il tempo si è fermato, Benedetta Battaglini - Recanati (Mc)
Segnalazioni:
Emozione, Valentina Casoni Perinetti - Agugliano
Il futuro, Michele Pollonara - Agugliano
Alla finestra, Carlo Senigagliesi - Recanati (Mc)
Sotto il lampione, Martina Zenobi - Agugliano
Poesia singola in dialetto
1 A primavera de ‘na vota, Michela Cefola - Petritoli (Ap)
Scuola Secondaria di secondo grado
Poesia singola in italiano
Segnalazioni:
Alba di vita, Francesco Cingolani - Jesi (An)
Quando crescerai, Giorgia Giordano - Montemarciano (An)
Chi sono?, Michela Fabiani - Ancona
Poesia singola in dialetto
1 Me present…, Eros Serafini - Urbino (Pu)
2 … de strada n’ha fata mbel po’
Giorgia Giordano - Montemarciano (An)
126
L’isola
Eccola là,
ferma ed immobile
come un gatto in agguato,
tra il vociare dei gabbiani
ed il rumore delle onde:
l’isola.
Eccola là
sotto il mio sguardo
balla col suo mare.
Claudio Cervo
127
Il tifo
Prendila,
prendila,
prendila,
la palla è qua!
Almeno un punto in partita
lo devi fà.
Prendila,
prendila,
prendila,
la palla è qua!
Se lo fai
vinciamo anche questa qua.
Prendila,
prendila,
prendila,
la palla è qua!
Filippo Pieroni
Il tempo si è fermato
Il tempo si è fermato!
Chissà chi l’ha bloccato?
Forse la bambina
che gioca con la tazzina.
O forse il ragazzo
che gioca nel terrazzo.
O forse il vecchino
con in bocca lo stecchino.
O forse tutti quanti
perché sono contenti
in quegli istanti!
Benedetta Battaglini
128
‘A primavera de ‘na vota
(dialetto di Petritoli)
Iera so’ visto ‘na farfalla.
Era jalla, tutta jalla,
de ‘nu jallo canarino villittu
che vrillava come lu cillittu.
Ma de ‘sti tempi ‘nze ne strova tante
de farfalle da lu colore cuscì vrillante.
‘Na vota ce ne statìa de tutti li colori
che svolacchiava ‘llegre tra li fiori:
a righe vanghe e blu sfumate,
oppure rosce mmoccó ‘rangionate,
ciuchette vianghe a volli celeste o lo contrajo,
po’ ce statia ciuchette viola… ‘mo non ci sta più che guaju!
Potemo colorà li fiuri come volemo
Ma comme dè quilli veri no’ lo sapemo.
E ce penzi, tutti li tipi de muschitti,
co’ ‘sti veleni mòre tutti, puritti!
M’è stato ditto che a Londra ‘na farfalla
se lu fiore era jallu essa era jalla,
s’era de ‘natru colore essa lo copiava
cuscì nisciuna la vidia e tranquilla stava.
Oggi che de fiuri ‘nce ne sta più:
mo’ adè grigia come lo fumo…
a resorve ‘stu problema ce vò penzà caduna?!?
Michela Cefola
Jalla: gialla. Villittu… vrillava… cillittu: bello… brillava… uccellino. Vota… ce ne statia:
volta… ce n’era. Vianghe: bianche. Mmoccó ‘rangionate: un po’ aranciate. Ciuchette… volli:
piccole… bolli. Comme dè quilli: come sono quelli. Muschitti: insetti. Vidia: vedeva. Adè…
caduna: è… qualcuno.
129
Me present…
Me present, ecc' me machè,
e per chi '1 vlessa savè
i' so' Eros d' San Marin,
un paesin vicin a Urbin.
El studi enn è la mi pasion:
vag a scola a Fosombron,
per dventè, almen el sper,
fta qualc'ann un ragionier.
Quel ch' me piec ma me è '1 sport,
i' el guard de tott le sort:
calcio, tennis, biciclett
e chi più c' ha più ne mett.
Gioc alle bocc e anc' alle cart,
per 'ste robb c’ho propi n'art
e, se ancora en v' I'ho dett,
scriv anca i vers in dialett.
So 'n tennista d' profesion,
so per totti 'n' amicon,
per gì 'n gir so' sempre pront,
mo se '1 Prof m'interroga ... so mort!
Eros Serafini
Ecc’ me machè: eccomi qui. Vlessa savè: volesse sapere. El studi enn è: lo studio non è. Quel ch’
me piec ma me…: quello che piace a me… Per totti: per tutti. Per gì ‘n gir: per andare in giro.
130
… de strada n’ha fata mbel po’
Cu la testa sbiancata
cume la bufa de l’onda
se fa sentì
c’un rifulu de vento.
T’envuricchia cum el destì
che ntel ieri ce vede el dumà
de l’ogi che sta a gambià.
Giorgia Giordano
131
«Gira la trottola viva
sotto la sferza, mercé la sferza;
lasciata a sé giace priva,
stretta alla terra, odiando la terra;
…
Sculture di F. Messina
132
«Il cerchio massimo è in alto
se erige il capo, se regge il corpo;
nell’aria tersa è in risalto
se leva il corpo, se eleva il capo;
…
Vive la trottola e gira,
la sferza Iddio, la sferza è il tempo:
così la trottola aspira
dentro l’amore, verso l’eterno»
C. Rebora
133
134
INDICE
Definizione di poesia
pag.
6
POETI IN ITALIANO
pag.
19
Segnalazioni
pag.
54
POETI IN DIALETTO
pag.
59
Segnalazioni
pag.
94
LA CITTÀ NEI POETI
pag.
99
“Da ma quasò”
pag. 100
(Fabio Maria Serpilli)
(Germana Duca Ruggeri)
“Cità de le parole”
pag. 104
(Fabio Maria Serpilli)
“Carolo Bo: Urbino la città dell’anima”
pag. 109
(Gastone Mosci)
“InediCittà”
pag. 112
(Davide Rondoni)
“Ju core de la gente”
pag. 117
(Mario Narducci)
STUDENTI (classifica Sc. primaria)
pag. 122
STUDENTI (classifica Sc. secondaria)
pag. 126
135
Finito di stampare nel mese di Maggio 2007
dalla Tipografia-Litografia Tarabelli
Chiaravalle (Ancona)
Impaginazione Renzo Canafoglia
Di questa edizione sono state stampate n. 700 copie
136