Poeti in lingua e in dialetto
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Poeti in lingua e in dialetto
Poeti in lingua e in dialetto 1 Associazione Culturale La Guglia Con il patrocinio di Regione Marche Provincia di Ancona e la collaborazione dei Comuni di Agugliano - Camerata Picena Polverigi Si ringraziano 2 POETI IN LINGUA E IN DIALETTO a cura di Fabio M. Serpilli LA CITTÀ DEI POETI Poesia onesta 2007 3 4 Definizione di poesia È possibile definire la poesia? Se diamo precedenza al dato etimologico, scopriamo che il greco poièsis è un fare creativo. E storicamente la poesia è nata come narrazione. Così i tragici greci raccontavano le gesta della loro gente. Il latino Virgilio incomincia l’Eneide con «L’armi canto e il valore del grande eroe…» che denuncia una chiara funzione programmatica. E quindici secoli dopo l’Orlando Furioso dell’Ariosto ha questo avvio chiastico: «Le donne, i cavalier, l’arme, gli amori,/ le cortesie, l’audaci imprese io canto…» Con il tempo la parola poetica si volge alle vicende dell’uomo, alla sua avventura interiore. Ed è un fare diverso… … che ha tutti i caratteri del divenire. Un’efficace immagine dell’esperienza creativa è il vento. Shelley ne adotta la simbologia come elemento di creazione, di libertà, caos, sovvertimento dello status quo. In due momenti solenni della Bibbia appare il vento (l’ebraico ruah indica più precisamente il ‘soffio’): all’inizio «quando aleggiava sulle acque» (Gen 1,2) nel caos che precede la creazione prima che erompi la parola fiat: ‘sia fatto’. E la parola è subito azione. Si trova anche nella Pentecoste (Atti 2, 1-4) quando lo Spirito (gr. Pnoès) scende sui discepoli come un vento che sconquassa casa e poi di nuovo la Parola è presente in forma di lingue di fuoco. È la stessa dinamica che accompagna l’invasione poetica. Nominando le cose, noi le estraiamo dal nulla. Il concetto è presente anche in Cesare Viviani: «La poesia è quella pratica che fa diventare tutte le parole nomi propri». Uno degli incipit più alti della storia della letteratura, e non solo religiosa, si ha nel vangelo di Giovanni (1,1): «In principio era la Parola e la Parola era presso Dio e la Parola era Dio». Prologo che si configura come una particolare forma di sillogismo da capogiro teologico. Sta di fatto che la poesia è la prima delle arti ed è la più povera, poiché con la sola parola il poeta deve creare tutto: immagini, colori, 5 musica, profumi, azioni, scene… Proprio con la parola che è inodore, incolore, insapore… È forse impossibile una definizione di poesia ma è una tentazione comune a tanti autori contemporanei. Per Italo Calvino, che riprende un famoso calco agostiniano, «la poesia consiste nel far entrare il mare in un bicchiere». «La poesia è abbandono - sostiene A. Zanzotto - ma richiede molta accortezza e lavoro artigianale; nasce anche da ‘irruzioni’ spontanee, che vengono dall’inconscio». «Il poeta - approfondisce Maria L. Spaziani - registra il diario del profondo, non può mentire e lavora sempre su materiali di verità». Giovanni Raboni, invece, sottolinea l’inesprimibile: «Se sapessi riassumere la sostanza di quello che scrivo, avrei già rinunciato a esprimermi in versi.» Continuando in ordine sparso in altri autori cogliamo aspetti particolari del fare poesia. Claudio Magris: «La lirica si sporge sul ciglio del silenzio, una parola strappata al tacere e fiorita dal tacere». Non la pensa diversamente Kafka quando a un giovane poeta raccomanda meno rumore nei versi. Dice una cosa analoga Paul Claudel: «La poesia è fatta del bianco che resta sulla carta». (Le muse) Montale mette la sordina: «La poesia è un prodotto assolutamente inutile ma quasi mai nocivo e questo è uno dei suoi titoli di nobiltà, non il solo, essendo la poesia una malattia assolutamente endemica e incurabile». J. Brodskij: «La poesia è lo scopo genetico dell’uomo. In questo senso è l’esistenza, non la forma alternativa dell’esistenza». Rivelatori infine i versi della Dickinson: «La bellezza non ha causa, esiste…» e «Definizione della melodia / è che non ha definizione…» Allo stesso modo non si può definire la poesia. Dopo di che tutti la definiscono. 6 A L O L A A L T A P A R O V Mario Luzi 7 Ulteriori definizioni di poesia Il presente accostamento di definizioni segue i criteri di contrapposizione e(o) contiguità semantica. Ungaretti: «Quando trovo/ in questo mio silenzio/ una parola/ scavata è nella mia vita/ come un abisso». (Commiato da Il porto sepolto) Su questo versante è il linguista Jakobson: «Oggetto della poesia è il linguaggio». Saba: «la letteratura sta alla poesia come la menzogna alla verità… La poesia è un’azione, non una reazione». Franz Kafka: «Il poeta… il suo canto, per lui personalmente, è soltanto un grido». (Conversazione con Gustav Janouch) Michel E. De Montaigne: «Si può fare lo stupido dappertutto ma non nella poesia» (Saggi) Se Samuel T. Coleridge dice : «L’Ottavo Comandamento non fu fatto per i poeti» (Biasimo e replica), Solone, al contrario sosteneva che «I poeti dicono molte bugie» (Frammenti). D’accordo si mostra il cantautore F. De André: «I poeti che strane creature/ ogni volta che parlano è una truffa!» Gottfried Benn: «La poesia si può definire l’intraducibile per eccellenza» (Problemi della lirica). Tant’è che Tonino Guerra non ama che i suoi testi vengano tradotti dal dialetto all’italiano. Si dà il caso invece che Robert Frost dica: «La poesia è ciò che resiste ad una traduzione!». A favore del dialetto si pronuncia il filosofo Italo Mancini: «La nostra lingua è bella. Ma nulla è più espressivo delle parlate dialettali». (Tre follie) «Con ogni parola in italiano noi mentiamo». A dirlo è il mitteleuropeo Italo Svevo. Jorge Luis Borges: «Ogni poesia è misteriosa; nessuno sa interamente ciò che gli è stato concesso di scrivere» (Obra poetica) Benedetto Croce: «Nella vera poesia […] le espressioni rivelano noi a noi stessi.» (Poesia e non poesia) «Tutto a comprendere e a prendere niente/ venne sulla terra il poeta» (S. Esenin in Vascelli equini) 8 «La poesia non tollera ipotesi, ma solo l’evidenza dei miracoli» (Gianfranco Contini: Esercizi di lettura). «Il poeta è veramente ladro di fuoco» (A. Rimbaud, Lettera del veggente) «La vera poesia può comunicare anche prima di essere capita.» (Thomas St. Eliot in Dante) «Tutta la poesia è un viaggio nell’ignoto» V. Majakovskij: Conversazione con un esattore fiscale sulla poesia. Le tesi che vanno da Borges a Majakovskij si oppongono a Gustave Flaubert: «La poesia è una scienza esatta come la geometria». (Lettera a Louise Colet) A. De Lamartine sembra tentare una sintesi: «La poesia è la ragione cantata» (I destini della poesia). Continuiamo come su una bancarella letteraria l’esposizione di frasi. «Una poesia ragionevole è lo stesso che dire una bestia ragionevole.» (Leopardi in Zibaldone») «Poesia è malattia» (F. Kafka: op. cit.). «La poesia è una malattia del cervello» (Alfred De Vigny in Chatterton) «Tutti i poeti sono pazzi» (Robert Burton: Anatomia della malinconia). «In poesia è affatto negato di riuscire con lo studio dell’arte chiunque non vi ha la natura» (G. Vico: La scienza nuova) «Il poeta è un grande artiere, / che al mestiere/ fece i muscoli d’acciaio.» (G. Carducci: Rime nuove) «Se la poesia non nasce con la stessa naturalezza delle foglie sugli alberi, è meglio che non nasca neppure» (John Keats: Lettera a John Taylor) «Buoni poeti si diventa, oltre che si nasce» (Ben Jonson: In memoria di Shakespeare). «A poem should not mean but be» (Archibald Mc Leish in Ars poetica). «Con orrore/ la poesia rifiuta/ le glosse degli scoliasti… » (Montale: Satura). 9 Alcuni evidenziano il carattere ludico. «Il poeta ha le sue giornate/ contate,/ come tutti gli uomini; ma quanto/ quanto beate!» (U. Saba, Il poeta). «Gli uomini non domandano più nulla/ ai poeti:/ e lasciatemi divertire!» (A. Palazzeschi, Lasciatemi divertire) Per altri i poeti sono «gente irritabile» (Orazio, Epistole, II, 2, 102) «Il poeta è il genio della rimembranza» (S. Kieerkegaard, Timore e tremore). «I poeti non dimenticano» (Quasimodo, La vita non è sogno). Dalla definizione alla argomentazione Definire la poesia dipende anche dalla situazione storica e dal ruolo che le viene dato. La nostra attenzione si soffermerà sulla produzione degli ultimi decenni. Per Fabio Doplicher (1938-2003) curatore de Il pensiero, il corpo: antologia degli ultimi venti anni della poesia italiana (Avezzano. Stllb, 1986) la poesia del Novecento finisce con il “Gruppo ‘63”. Negli anni Settanta la poesia attraversa il vuoto, perché dopo le grandi sintesi strutturali (convenzioni tra psicologie, ideologie) di fronte ai poeti non sta più alcuna utopia. La poesia è vista sempre più come un laboratorio dove si cerca un senso alla funzione della lingua e della poesia. Al riguardo Franco Loi (n. 1930) pensa che la rivoluzione linguistica è vasta e profonda e non coinvolge solo la televisione ma anche i bar, gli stadi, la scuola, insomma ogni luogo dove convergono le persone. La poesia è l’accadimento di un rapporto intenso e profondo dell’uomo con gli altri oltre che dell’uomo con se stesso. Per Mario Luzi la poesia è viva e caotica come la società che la esprime, e spesso si esaurisce in un parlarsi addosso come fanno gli infermi. La poesia è sempre stata per pochi. Solo i modelli istituzionali (Dante e Leopardi) si salvano. Il linguaggio poetico, essendo per sua natura innovativo, e comunque connotato al massimo grado (Lotman), si 10 discosta dal linguaggio corrente. Nel Secondo Dopoguerra ha prevalso il filone anglosassone con Pound in testa, seguito da un acceso sperimentalismo. In seguito (sempre secondo Luzi) la nostra poesia ha conosciuto molti recuperi di classicità o comunque legati alla tradizione interna, in particolare all’ermetismo. Oggi coesistono i modelli più diversi ma prevalgono quelli che alimentano l’ispirazione di una poesia intenta alla descrizione di una realtà minuta, minimale, caratterizzata da frequenti giochi formali. Giuseppe Conte sostiene che lo sperimentalismo è morto e sepolto. Ha vinto il bisogno del simbolico, si affaccia un nuovo senso del mito, della realtà al suo stato essenziale. Una mappa del paesaggio poetico Per la poesia degli ultimi anni Ottanta, Mario Fortunato ritiene che gli autori hanno in comune la stessa esigenza: tornare alla tradizione. Anche Pier Vincenzo Mengaldo ha lavorato su questa ipotesi nel volume La tradizione del Novecento (Bollati Boringhieri. 2000). Dopo le Avanguardie; le kermesse dei festival degli anni Settanta; dopo lo spericolato sperimentalismo, ci si chiede se esiste un progetto della poesia italiana. È nata così una mappa del paesaggio poetico, dove le etichette vanno utilizzate per quel minimo di orientamento che possono offrirci. Simbolisti. Nel solco della tradizione del Simbolismo (da Mallarmé a Celan) si raggruppano quei poeti che intendono il loro lavoro sul verso come confronto con il sacro: G. Conte (sul versante mitico) Gregorio Scalise attraverso toni magici. Milo De Angelis riflette quella traccia più propriamente neo-orfica, oracolare. Postsimbolisti sono Mario Baudino, Roberto Mussapi. Neo-esistenziali. La loro poesia è imbevuta delle cose della quotidianità, disseminata di oggetti, magari interiori, che possono dar 11 luogo a un alto grido o a un dolore contenuto. Così è Dario Bellezza in Serpenta (Mondadori 1987) che si allontana dal tono maledettistico e sublime. Sono del Gruppo anche Jolanda Insana, Elio Pecora per il quale «Oggi non ci sono più grande scuole, ognuno ha il suo laboratorio…» D’altro canto anche in Montale ci sono simboli e allegorie ma rintracciati da oggetti. Nell’ambito romano vanno ricordati Patrizia Cavalli, Biancamaria Frabotta e Renzo Paris. A Milano c’è Maurizio Cucchi. Manieristi. La tendenza più eterogenea che riannoda forme della tradizione novecentesca a formule più remote: Patrizia Valduga, che tenta un recupero del Seicento. Secondo Fortini questi sono dei «Post-moderni che sentono il passato storico come un enorme supermarket in cui si possono scegliere forme tradizionali in modo ironico». Così anche Valentino Zeichen (Museo interiore. Guanda, 1987) autore ironico e un po’ bohemien: «Sono passato attraverso l’inferno dell’Avanguardia, riutilizzando i linguaggi della tecnologia e piegandoli alla metafora e ricercando il recupero della narratività e del senso». Così anche Roberto Pazzi e Paolo Ruffilli. Valerio Magrelli con la sua formula diario, più che post-moderno si può chiamare neo-moderno. Il suo nocciolo duro consiste nel desiderio di comunicazione cui le avanguardie avevano rinunciato. Neo-romantici. Forse rappresentano la tendenza più provvisoria. È la più vicina al filone post-moderno indicato da Fortini. I nomi sono quelli di Marco Papa, Arnoldo Colasanti e Gabriella Sica. Hanno il tono alto. Sperimentalisti. È la tendenza più vicina agli anni Settanta: per lei la partita non è ancor conclusa sul fronte del linguaggio, sulla possibilità di scardinarlo, individuando nuove modalità espressive. Fa capo alla rivista bolognese Dispacci, che secondo Roberto Roversi, «si oppone a tanta poesia di oggi, di buona qualità ma che non scuote il lettore e non produce sorprese». 12 A questo Gruppo appartengono Tommaso Kemeny, Cesare Viviani, che dopo anni di sperimentalismo, è approdato (con Merisi. 1986) «All’osservazione della concretezza quotidiana, dell’esperienza». I canoni della letteratura del Novecento Giovanni Raboni (Corriere della Sera, 5 giugno 2001) prendendo lo spunto da un’ipotesi di possibile antologia del Novecento, stila un proprio personale canone di undici poeti (Saba, Palazzeschi, Tessa, Rebora, Ungaretti, Montale, Betocchi, Sereni, Zanzotto, Luzi, Giudici) e ne seleziona altri venti a suo parere di secondo piano. Grandi esclusi: Caproni e Pasolini. Le polemiche si sono fatte sentire il giorno dopo e proprio dalle colonne dello stesso Corriere. Renzo Paris lamenta l’assenza totale in questo canone di donne come la Pozzi, Rosselli, Merini. Raboni si difende dicendo che il suo panorama si limitava agli anni Settanta. Puntuale nel 2001 è uscita l’antologia (Ed. Garzanti) di Franco Loi e Davide Rondoni: Il pensiero dominante. Poesia italiana (1970-2000) e il vuoto appare colmato con la pubblicazione di decine di poeti che compongono il vasto panorama che mette in discussione schemi già consolidati, e suggerisce approfondimenti. Parte dal 1960 il giovane scalpitante Daniele Piccini, curatore dell’antologia del 2005 La poesia italiana dal 1960 a oggi. Altri poeti esprimono una antologia domestica a proprio uso e consumo, talora per bilanciare con nuove presenze, singoli e gruppetti dimenticati da compilatori distratti. Così accade che gli esclusi da precedenti compilazioni a loro volta escludono gli esclusori, mostrando un pizzico di vendetta. Appartenere a una delle tante antologie diventa un modo per non apparire un emarginato della letteratura italiana ed esporre il marchio PDOC: poeta a denominazione controllata. 13 Lavori in corso… Fa notare Roberto Carnero che aumenta la voglia di canone nell’ambito della poesia. La volontà di sistematizzazione delle “poesie” del Novecento. Ma c’è anche la tendenza a rivedere il canone già esistente, quello considerato ‘ufficiale’. Alcune riletture del Novecento propongono nomi dimenticati mentre vengono esclusi gli intoccabili, i consacrati. Alcune pubblicazioni espongono con uno sguardo nuovo e originale, la produzione poetica del Novecento. Così Il canto strozzato. Poesia italiana del Novecento, a cura di Giuseppe Langella ed Enrico Elli (Interlinea, 2004) intende offrire una panoramica della poesia italiana contemporanea da Pascoli a Zanzotto. I poeti antologizzati sono oltre cento e ogni volume si distingue per il tentativo di superare luoghi comuni storiografici, aprendosi a nuove prospettive di interpretazione, non esclusa la religiosa. Ha un carattere più militante l’antologia ‘critica’ di Giorgio Manacorda (La poesia italiana oggi – Castelvecchi, 2004) che limita lo sguardo all’ultimo cinquantennio e inserisce quarantuno poeti che rispondono a predefinite categorie laiche. Per dovere di cronaca vengono studiati Conte, Cucchi, Luzi, Zanzotto. Sempre nel 2004 appare in versione aggiornata l’antologia Il pubblico della poesia (Castelvecchi) curata da Alfonso Belardinelli e Franco Cordelli. In questo volume gli scrittori si autopresentano esponendo le loro idee sulla propria poetica, il rapporto con il pubblico, la percezione del mercato editoriale e l’industria culturale. Altri criteri informano Il Novecento in versi (Il Saggiatore, 2004) dove Franco Forti non sfrutta un canone costruito a tavolino, ma un criterio ‘empirico’, basato cioè sull’esperienza quotidiana di un lettore chiamato a scegliere le nuove voci della poesia italiana, partendo dai classici per approdare alle esperienze più recenti, come quelle di Conte, Cucchi, Viviani. 14 Proprio Cesare Viviani in La voce inimitabile (Il melangolo, 2004) si mostra in polemica con certa critica ufficiale sostenendo che «il canone letterario è una delle mortificazioni a cui la critica sottopone la poesia». Per Viviani «In poesia si tratta di fare l’esperienza dell’intraducibilità della parola» per cui questa esperienza è radicale, non ammette alcuna misura intermedia in quanto «è canto inimitabile, voce inimitabile». Come si vede, intorno alla poesia i lavori sono ancora in corso. Nelle Marche… La situazione si è presentata spesso come una roccaforte di poeti e critici che hanno blindato la poesia e, come in una sorta di Sant’Uffizio laico, forti di cattedre universitarie, riviste letterarie, case editrici, appoggi di istituzioni basate sul conformismo politico e ideologico, hanno annesso (quasi mai) e sconnesso (quasi sempre) poeti e poesie non in linea con i loro canoni e interessi. Si distingue questa produzione per un ritorno alla poesia neomelica, a parte qualche eccezione sperimentalista in Ercole Bellucci, l’ultimo Paolo Volponi e il primo De Signoribus. Si assiste quindi a un accomodamento su rassicuranti moduli cantabili sull’aroma di ariette pascoliane, caproniane. Molti hanno vissuto di questa epigonìa. Per il cane sciolto Massimo Ferretti di Chiaravalle e per Plinio Acquabona invece scende il silenzio. Così per il padre della ‘marchigianità’ lo scomparso Carlo Antognini (critico e storico letterario) continua la “cultura dell’oblio”, come nota Fabio Ciceroni. Altri, dopo aver sfruttato il nome di Scataglini e raggiunta la gloria, si tengono la gloria e dimenticano Scataglini. I poeti ‘laureati’, di montaliana memoria, si convocano tra di loro, si pubblicano e si premiano, si beatificano a vicenda, canonizzandosi. Conventìcolano. Quando entra il potere anche in poesia la poesia perde potere. E con questa antanaclasi ribadisco la necessità di una poesia onesta. Fabio Maria Serpilli 15 Studio per la testa dell’angelo della «Vergine delle Rocce» Leonardo «La bellezza non ha causa. Esiste» Emily Dickinson 16 SILLOGI in ITALIANO 1 Chi siede a capotavola, di Michela Monferrini (Roma) 2 Il silenzio dell’erba, di Gabriella Garofalo (Milano) 3 Muti i riflessi, di Roberto Borghetti (Ancona) 4 Sette poesie, di Domenico Luiso (Bitonto, Ba) Segnalazioni Questi giorni, di Claudia Arena (Falconara M.ma - AN) Quotidianamente i giorni, di Iaia Lorenzoni (Pesaro) Unisono, di Anna Piro (Gallipoli) Di santuari e sacrari, di Alessandro Tacconi (Dairago - MI) SILLOGI in DIALETTO 1 Dadlà dal ténp, di Ornella Fiorini (dial lombardo/mantovano) 2 Semo fati de sogni sbregài, di Francesco Sassetto (dial veneziano) 3 Tretippe & Martìdde, di Vincenzo Mastropirro (dial Ruvo di Puglia) 4 Sgrìsoi, di Guido Leonelli (dial Trento) Segnalazioni Mary, di Armando Giorgi (dial genovese) Al spec, al coer e la fumana, di Vanni Giovanardi (Luzzara - MN) ‘Ita, di Alessandro Mordini (dial portorecanatese) U galanu, di Alfredo Panetta (dial calabrese) Giuria: Fabio M. Serpilli (presidente); Germana Duca Ruggeri; Gastone Mosci; Mario Narducci; Davide Rondoni. 17 18 POETI in ITALIANO La poesia è ricerca libera, avventurosa, di un legame fra la vita e la parola segnaletica, vale a dire indicatrice di una via anche quando, per dirla con Dante, questa sembra “smarrita”; è il cammino ostacolato, eppure privilegiato, di una lingua che desidera immettere la realtà nella fantasia per riscriverla, con la speranza di renderla leggibile, forse comprensibile, un poco più amabile. Germana Duca Ruggeri 19 20 Michela Monferrini Chi siede a capotavola Michela Monferrini - Nasce nel 1986 a Roma dove vive. Studia Lettere all’Università Roma Tre. Nel 2006 pubblica in collettanee testi poetici. Un haiku “Oltre l’autunno” è edito dalla De Art Multimedia edizioni.. La rivista PopCorner di Bologna gli pubblica due poesie. Altri testi vengono inseriti nelle antologie: “Sempre caro mi fu… quest’ermo frigo” e “Subway – Poeti italiani Underground” (Il Saggiatore). I racconti “Mentite spoglie” e “Uscita di scena” sono pubblicati rispettivamente in “Niente è per niente – 59 ultimi respiri” e nell’antologia “San Gennoir”. Nonostante la giovanissima età ha già numerosi interessi linguistici e giornalistici, attività attigue alla composizione poetica. 21 Michela Monferrini Ho bevuto il tuo vino per non vedere più la bottiglia ma il vino non è forse come l’accappatoio, come lo spazzolino? Perché lasciarci col livello del rosso sempre uguale e senza speranza nell’evaporazione, costringermi alle labbra? Ubriaca ho proceduto al cambio della lampadina nella stanza che matematicamente, ora, a rotazione resta vuota poi tutta la notte, come una forsennata ho aspettato la calma in cucina e quando non è arrivata ho trovato la mattina sulla tavola. 22 Michela Monferrini Suo figlio racconta che la donna delle pulizie venne il giorno dopo il funerale che lavò i piatti ed alzò i letti ridendo nell’auricolare, che i muri ne furono scossi e si chiesero se per caso non avessero sbagliato casa: credevano fosse tempo di silenzio. Poi fu la donna che chiese se dovesse stirare anche quelli e vennero fuori i maglioni e le gonne al ginocchio dal tempo delle foto ormai. Raccontano che la donna non fu mai perdonata per aver pensato di togliere le pieghe all’ultimo indirizzo delle gambe d’una madre. 23 Michela Monferrini Ti avevano insegnato che a un figlio si misura l’acqua col gomito e la febbre sulla fronte con un bacio, dal soppalco erano piovute magliette bonsai e odor di canfora, il leone Armando e la storia di Codina, e tra tutti i nomi uno, già aveva quasi gli occhi, ma poi non è servito. In soggiorno è venuta giù la parete a specchio quando tutti – e anche lui – hanno steso una tovaglia di puro menomale bianco sulla tavola della tua pancia in lutto. 24 Michela Monferrini Mi dicono che senso non han più le tue parole. Io busso, piano entro, arrivo, con la mela cotta, accanto al letto macchiato: ti cambio canale e aspetto di vederti dormire e nel petto respirare. Mi dicono che a tratti mancherà l'ossigeno, non mi devo preoccupare ma io domani torno perché il miele è finito e l'amore pure, - sul comodino ma torno e te lo porto in un foglio di giornale buono ad esser barca per lasciare questa luce d'ospedale: diranno di vedere un cappello da muratore mentre noi navigheremo dove senso veramente non c'è più nelle parole. 25 Michela Monferrini Nel giardino di Van Gogh Accessibile ai pochi sui balconi senza luna, nelle stelle unite dall’1 al 36, tra le combinazioni ce n’è una – tuo profilo rugoso ed orecchino – per credere ancora nel cielo. 26 Michela Monferrini La mattina del martedì arriva la ditta e alza i zerbini contro le porte e apre gli abbaini allo scambio piccioni – polvere. Fa corrente per la bocca delle scale fin nel tunnel dell’ascensore, fa una spirale dalla colonna dei bagni al portone che, guasta la molla, con gran rumore si chiude e si chiuse quando di lì passarono le tue trenta camicie d’azzurro uguale. Di lunedì, da anni, sappiamo che se ne andrà domani - nella corrente l’esercito dei mari senza ombre e senza spalle anni che sappiamo che tornerà domani sera, inghiottendo a grandi onde il pianerottolo pulito di giornata. 27 Michela Monferrini Siedono a capotavola opposti tenendo di mezzo trent’anni e la tavola coi gomiti. Io le ho viste baciare il pane avanzato prima di buttarlo come baciano la mano dopo la croce come tracciano la croce dopo l’acqua santa, sfiorando. Hanno avuto case dentro questa, uomini che sono stati donne pure loro e corone di sapone di Marsiglia incrostate all’anulare, attorno all’oro, perdute nel notturno strofinio delle federe e ogni giorno rapprese di nuovo. Così, le ho scoperte regine bianche: alzando i letti e l’acqua di colonia una mattina. Solo da allora mi pare di osservarle, alla tavola non siedo ancora. 28 Gabriella Garofalo Il silenzio dell’erba Gabriella Garofalo - Nativa di Foggia vive a Milano. Esordisce nel 1986 col volume di poesie Lo sguardo di Orfeo, cui fa seguito L’inverno di vetro nel 1995 che si muove attorno a parole chiave, a ossessioni tematiche. La sua terza raccolta viene pubblicata nel 2004 e ha come titolo Di altre stelle polari dove al cielo blu cobalto si accompagnano gli “astri che sfrenano di luce”. Quella di Gabriella Garofalo è una poesia solitaria, impossibile da collocare all’interno di scuole, tendenze o generazioni, giocata con vigore drammatico tra il fuoco di un forte disagio interno e il chiudersi in momenti di glaciale immobilità. Per questi tratti della sua scrittura la poetessa fu segnalata da Amelia Rosselli. 29 Gabriella Garofalo 27/10/’05 Autunno, nevrastenia del cielo, di una città se la città esistesseinutile pensarsi lontananza ordire trame se perfidi gli odori se corpi rischiano percorrerticome se non bastasse Luna consegna frammenti di vita alla parola: sono indifesi sono la rossa tazza il blu del cielo che lasci cadere senza pensarci, per distrazione, certo, scheggiati. 30 Gabriella Garofalo 01/11/’05 Stasera l’anima è più congestionata di una stazione all’ora di punta sogni assembrati insistono perché tu presti ascolto, ma farai bene a diffidarepuò esploderti tuo cielo sconvolte stelle non avranno mai rifugio si finge Luna trasognata, ma sua luce ti corre notte alla ricerca di sguardi invadentiteme che la sorprendano, è già nuda. 31 Gabriella Garofalo 18/11/’05 a C. Forse un modo come un altro per chiamarti, Dio, torcerti contro le parole di parole dilaniare cielo splendidamente assemblatoma non governa l’anima suo fuoco rischia bruciare ardono le dita di silenzio che l’esistenza sperdese pure guarda l’esistenza, se mai ferma. 32 Gabriella Garofalo 23/06/’06 a Michael Sia un cielo livido di stelle a fermare il tempoalbero non abbatta non cada foglia non ceda luna acqua non intorbidigrembi grembi soprattutto stanno per disperdere, libero campo di ristoppie per l’Angelo che ti acceca scrivere. 33 Gabriella Garofalo 02/08/’06 Le solite domande, capita, ti chiedi, se l’anima sarà già andata in cerca di rifugio per la lucema non promette bene cielo che si sfalda e rosso-arancio di Luna assolutamente fuori luogo: non vuol dartela vinta notte fame antica la sua fame di seconda stagione che insegue annusando l’aspro di sudore. 34 Gabriella Garofalo 08/08/’06 a dl Attesa che verde di un’intensa luce muovanon accade. Comunque, verde di tuoi rami getta, molto più forte di altre tue esistenze mentre provocano un certo fastidio i giorni di seconda stagione, non hanno fine si disperdono in mille particolari inutili: in genere il tuo smangiato desiderio, la bianca risposta di una fame. 35 Gabriella Garofalo 08/08/’06 a dl Forse inaspettate, certo non più antiche le prime apparizioni della lucema sempre più ridotta la tua razione di anima, città, il vento più non muove odori anime di eretici e tu non sai ancora negarti fresca oscurità di muri, quadri, finestre in corridoiolà dove incontri seme che ti è avverso. 36 Roberto Borghetti Muti i silenzi Roberto Borghetti - Di anni 43, nato e residente ad Ancona, si dedica alla poesia e alle letture umanistiche sin dall’età adolescenziale. Scrive a periodi alterni poesie in versi liberi, traendo ispirazione da autori del ‘900 italiano di correnti letterarie diverse, come Montale, Bertolucci, Pavese, Sereni, Penna, Raboni. Solo da due anni circa partecipa a concorsi nazionali ricevendo riconoscimenti e menzioni speciali. Primo ai concorsi “Città di Bari”, “Giovanni da Sanpiero” ed altri ancora. Soprattutto Borghetti ama lavorare in profondità sulla scrittura poetica che appare matura e ricca di suggestioni. 37 Roberto Borghetti Alba Assorto e solo. Ero rimasto appoggiato all’alba la città vuota, piena di teneri addii. Invano cerco le strade che mai si raccontano e tralasciano lo spuntare d’ortiche negli squarci d’asfalto. Salgo tre scalini si fa remoto il mio passo, fra rare luci le chiare tenebre restano. Il sole desiste si confonde con la malinconia d’un bucato. Non amo più le pareti di questa stanza mi nascondo dai cari volti e fra le fontane del mattino ritrovo l’oblio. E vi sosto a lungo perché tutto è dissoluzione di piazze lentezza di nubi. Poi, qualcuno verrà passando fuggiasco col bastone a frugare gli angoli inerti del giorno, ed io nell’ora incerta transiterò nei pallori più estremi sino a tornare in un letto non mio.. 38 Roberto Borghetti Tremula la notte Trepida linea di silenzi, potresti misurarla con l’eco della pioggia che scroscia sopra il grembo dischiuso, rosso d’argilla. Disteso dove il pensiero è piaga dell’infinito serbi la ferita che più non sanguina, e piangi di quanto sia ridicolo scrivere lettere d’amore quando le stelle socchiudono gli occhi come gatte tradite. È solo tua l’umiltà di sterrare altrove le radici d’un sangue malato e ancora la gioia d’esser affamato per assaporarne l’aspra miseria; nebbia che beve il mattino e tace della notte assetata, luce d’un cielo umido di candele. Poi ti sorprenderà la solitudine d’una marea, che segna la sua traccia di sale sul fasciame marcito di barche sconosciute alla morte. 39 Roberto Borghetti Non è più il limitare So di mulattiere che delimitano prode tra serragli e prati d'un ocra che nemmeno immagini e dei tuoi passi in solitaria a calcare il disordine di lidi invernali. Poche curve ancora scendiamo il dolceamaro declivio verso i soggiorni venturi, tra vecchie querce e radici dissotterrate dal turbinare di rivoli sfuggiti alla piena. Ma talvolta non so dove ha inizio la nostra notte e se la fine del giorno è solo un grumo di buio rappreso. Ed ora dimmi se tu conosci il nervo che acuto alimenta il guizzo del predatore: Il mio è forse il tradire del falco che artiglia il polso benevolmente proteso? 40 Roberto Borghetti Risonanze Volgono recinti d'antiche aiuole i casamenti spezzati, ricordano il fiato clandestino di pietre verticali e oblique che alita tra fiori esangui, per quanto le stagioni facciano talvolta fatica a sfarinarsi lievi. Nel buio inatteso, fu l'invemo iniziato allora che oggi ancora perdura nella neve dei tuoi occhi, a ricoprire i brevi anni sfioriti sulle macerie della polveriera. È il ricordo del latrare del faro del vento che non ebbe requie sulle tombe e i tuoi capelli, uno ad uno, umidi, genuflessi sulla sottana di quella interminabile preghiera. Abbiamo coltivato a lungo il tempo per arrivare qui, al compimento delle fenditure fermi sull'argine del baratro azzurro dove le tracce cessano in un punto precipitato a mare e il cielo è la sottile linea che schiera sepolcri. 41 Roberto Borghetti Il peso dell'aria Spesso mi chiedo delle nervature che ha la foglia quando il verde trasuda alla mano e del peso dell'aria che in respiro non andrà a formare nuvole. E del giorno, tiepido che sguscia dalla via dove la tempesta ha storto rami e spaventi chiedo del vuoto che non è più vuoto l'hai colmato con la mia stupidità e la voglia di parlarti senza aprire bocca. Sarebbe triste morire un poco alla volta e non deteriorare sconfinare nel lembo di letto più caldo, allungarsi e scoprirti già in cammino speranza che divieni voce e non sei pagina e nemmeno rara luce che fa brillare tegole ingrigite. Adesso, è solo mia questa casa che a sera esce dall'ombra mia la fame che non soddisfo nonostante le dispense piene unico margine, la direzione dello sguardo per chi ancora resta, e per chi va l'aridità è vita che s'infiltra sotto il palato. 42 Roberto Borghetti Camminare è anche smarrirsi È forse un gioco per queste strade inseguire passi e ritrovarsi altrove sotto una pallida stella salire le scale e vederti china sui libri, dissetarti con le pagine bianche che scrissi. Non hai paura della notte che senti sgusciare fuori della soglia la brezza scuote la pelle, terge lacrime sfoglia rapida cartoline mai imbucate. Distinguo lievemente le foto alle pareti di te mi basta poco: sapere che ancora ti guardi i piedi quando cammini e che non riesci a trattenere le parole anche quelle prive di sottolineatura. Ti ho sempre incontrato per caso ma ora ti respirerò accanto, ritorniamo nella nostra prima casa due stanze e nessun ritratto sarà impossibile smarrirsi. 43 Roberto Borghetti Da una panchina presso la stazione Non lontano dove si macera la carne e le ansie attanagliano tempie dimora ciò che non so della pioggia che stringe il lume e a tracimarmi è il tuo sorriso silenzioso nell'affondare lento del mio lago. Vago per non restare, ogni cigolio di treno è un tuo sguardo, ogni sandalo a frantumare ghiaia è passo che mi allunghi dietro. Dove saremo un giorno a ricordare le soste e delle nostre dita lo sfiorarsi sotto un sole che mormora ombre alle panchine. 44 Domenico Luiso Sette Poesie Domenico Luiso - Luiso è nato a Bari e risiede a Bitonto. Laureato in Giurisprudenza ha coltivato con gran passione sia la musica sinfonica e da camera che la poesia. Ha pubblicato finora quattro raccolte di liriche: La condizione del cuore Bari 1986; Il discorso del fiume Milano 1997; Concerto barocco Bari 1998; L’arsura delle ali Foggia 2004, oltre ad altre tre come premi editoriali. Luiso è risultato vincitore in circa ottanta Premi letterari. Non è assente nella tematica trattata dal poeta pugliese una certa urgenza metafisica. 45 Domenico Luiso Dei giorni bianchi il costeggiare lento Dei giorni bianchi il costeggiare lento lungo le rive non lambite il canto, delle stagioni naviganti il vuoto dissolto il gelo nei crepacci il caldo che non si stampa sulle pietre e l’ombra di un sole secco di campane e suoni senza l’arpeggio delle distinzioni noi conoscemmo tutto e non chiediamo il tempo dopo il tempo e un’acqua nuova temiamo forse le risposte o siamo vessati dall’assenza di risposte non trilleranno le ali alle cicale fatte di gesso all’incessante pianto senza risposte d’echi dei perdenti e al sangue che cementa i nostri rovi se tu mi ascolti chiuso nella torre di carne magra con le volte esangui sappi che non ho più domande in gola le ho murate tra le connessure di questa casa senza vetri per paura che al giorno bianco che lontano scorre possano fare segni di richiamo. 46 Domenico Luiso C’è sempre un’ora C’è sempre un’ora, forse la sua ombra, per il tuo cielo che si scioglie in vento per le mie mani appese alla finestra. C’è sempre un’ora, forse l’ho sognata, che si decanta nella mia bottiglia alla deriva. E il mare non ha tempo. È un’ora eterna o un attimo dorato che sparge occhi sulle mie macerie e insemina di sole la tua forma. Un’ora fatta di quaranta carte, spiegate a schiera sul mio tavolino che ha una gamba zoppa e un chiodo in testa. Un’ora la mia storia un fante ansante sul tetto una regina con il cono e un re con il bastone consumato. C’è sempre un’ora, forse un grumo d’aria, che si scolora nei tuoi occhi grigi e poi ritorna col pennello in mano. E la mia storia passa. Tra le dune solo una palma. La mia ora folle ha silenziose grida. La sua eco s’insabbia e muore sopra il tuo orologio. 47 Domenico Luiso Mi son vestito da pagliaccio Mi son vestito da pagliaccio, un cono in testa e una grossa mela al naso, ho ritagliato in due la luna bianca e al sole ho regalato una risata, ai piedi le babbucce di Selim con gli alluci arricciati a semicerchio. Mi son fatto due solchi di farina dal labbro fino agli angoli degli occhi e ho esposto il pianto dentro la vetrina. Mi comprerà qualcuno tra i passanti, un uomo rincasato per Natale o un bimbo già più vecchio di sua madre. Mi lascerò comprare, costo poco, due strisce in croce una camicia a quadri un paio di calzoni con le toppe un rotolo di skotch e un po’ di colla. E me ne andrò diviso in cento passi lungo le strade dense e nei palazzi m’istrionerò con l’ultima poesia. Sono un pagliaccio telecomandato, rido a richiesta e piango all’occasione e tutti ci facciamo compagnia. Domani all’alba la vetrina vuota mi cercherà ma io sarò lontano forse già chiuso in uno sgabuzzino a garrire la mia parte di silenzio. 48 Domenico Luiso Siamo ore sparse Siamo ore sparse, attimi in subbuglio col petto nudo e un rosario in bocca anagrammiamo ombre sui computer e ci inventiamo somme senza addendi. Sui palchi conficcati nella nebbia legati al cappio delle avemarie gridiamo solo acerbe geometrie parafrasando stanche filastrocche. E siamo damerini scalzi siamo occhi rapaci infissi dentro il buio bruciamo torce tra i mattoni sparsi dell’ultima rovina dei pensieri. Nel cielo lacerato siamo tutto, un bricco dorato e un’anfora di gesso un’astronave e carta di barchette un quadro cartesiano e un amuleto. Siamo cervelli con le porte arse siamo finestre cigolanti siamo storie già raccontate e messe a nuovo. Magri di sangue ci leviamo sazi di improbabili venti e di illusioni. E siamo forse solo un asterisco posto fra due parentesi e un richiamo che ci rimanda a nota “troppo tardi”. 49 Domenico Luiso Il vento ha cento madri Schiodatele le porte, il gallo è morto appeso ai fili col suo canto aguzzo larve di suoni in cerca di un accordo, qui non si sente l’aria di novembre nel tramestio di accordi senza suoni. Il vento ha cento madri col seno sfatto e il latte avvelenato, la sua canzone vecchia si sfilaccia in nugoli di refoli sparsi folletti e il cielo non ha echi. Apritele le vostre mani gonfie di bestemmie, le vostre bocche acidule d’isteriche risate e trenodie di pianti sterminati. Ah questo vento senza soste stridulo sui bassi calcinati nidifica e germoglia sopra i grassi mucchi delle miserie luccicanti tra i panni stesi e il logoro santino una corona e un ferro di cavallo e l’ultimo ammazzato appeso al muro. Sfiata la nenia e torna sui suoi passi sul pentagramma bianco si distende un canto senza segni. Il gallo giace a pezzi, l’ultimo sangue l’ha seccato il vento. 50 Domenico Luiso Oltre la mia finestra un orologio Oltre la mia finestra un orologio ha strascichi di tempo fatto a pezzi sul cornicione un gatto di velluto si stampa silenzioso dentro il sole grida un bambino fra le bocche aperte dei due leoni a guardia del portale alla fermata aspettano la morte la morte piccola che non si vede la morte dal percorso ripetuto stanco e annoiato come un giorno grigio la morte scialba gira per le strade in mezzo ai capannelli tra le gambe solitarie di una vecchietta lenta si mescola con l’aria dei megafoni ha lo stridio delle anime in affanno lenzuoli bianchi stesi sulle volte Oltre la mia finestra l’orologio suona nel vento con le dita rotte parole senza inchiostro un ticchettio di voci acute di maledizioni d’affilati sorrisi di coltelli di ruggine nascosti in mezzo ai fiori è piccola la morte non si sente si è fatta oscena come l’armonia dei numeri sconvolti ha il viso bianco la bocca muta di risposte il passo alla ricerca di un approdo un palo un impiccato senza nome un nodo una domanda stritolata un vento senza sorgenti un nugolo di vuoto 51 Oltre la mia finestra ha chiuso gli occhi sulle sue piaghe l’orologio vecchio avrò paura in questa notte insonne se all’ultimo rintocco biascicato udrò la morte piccola al portone pigiare a occhi chiusi un campanello e dire che non sa perché è venuta. 52 Domenico Luiso Hymne Dopo il gaudio la gloria ed il dolore ecco la luce (non scoperta prima) e gli angeli con la ramazza in mano e creme e cere per le macchie d’unto. Si creperà il cunicolo dei sensi e tutti i quadri appesi alle pareti si polverizzeranno sui mattoni e l’aria densa si diraderà. Benedirò le mie finestre antiche le grate a croce con la fioca luce gli spigoli dei vetri e i chiodi neri che mi aprivano il sangue dei pensieri. Non li ho chiamati gli angeli spazzini venuti a sgomberare la mia stanza. Me la faranno vuota con la luce mi spariranno i corni e gli alambicchi i libri la chitarra ed il cappello. Che fare in tanta luce? Sarò inerte come una pietra o un raglio di somaro. Aspetterò la mezzanotte quando anche la luce cascherà dal sonno e mi farò candela accesa che si libra sorretta da un fantasma inesistente. Andrò frugando tra gli avanzi e i resti delle mie gioie e delle lunghe pene e li nasconderò dentro la bocca. Per dare un senso all’imminente alba. 53 SEGNALAZIONI Claudia Arena Non sono avvezza a facili entusiasmi né studiate sentenze. Io lascio scorrere tutto lento come una lastra di vetro. Io lascio ballare la lingua degli stolti. E giocare le mani degli ingordi. Negli angoli mi incollo alle inconsistenti idee dei geni, ammirando il coraggio dei folli. 54 Iaia Lorenzoni Senza titolo Da un po’ di tempo c’è tanta di quella realtà in giro – troppa – che bisogna andare nell’irrealtà. Solo dall’irrealtà arriva qualcosa di buono per lo spirito. Sulla cima dei tetti bisogna passeggiare. Ci sono visionari silenzi di nuvole a forma di gatti volanti, accenti di pensieri felici. È proprio il senso della felicità e non d’altro. Sulla cima dei tetti devo passeggiare perché ho bisogno di nuvole streghe di gatti volanti di orizzonti leggeri di fate che muovono sogni fino all’innocenza, fino al sommesso stupore dello spirito. Di questi tempi c’è tanta di quella realtà in giro che non c’è posto per l’istante, per il lampo che tratteggia percezioni oltre la parola… e quel battito - solo quello – del mistero. 55 Anna Piro (L’insonnia) L’insonnia s’arrampicava sul soffitto, come ragno. Dormivamo senza mai chiudere gli occhi e le palpebre ci si arrugginirono. Calò la notte sul nostro “non t’amo più”. Avevamo mani sudate, ancora l’una nell’altra strette. 56 Alessandro Tacconi Moloch dedicato appena fuori dal moloch dedicato la croce prescelta vien subito intagliata graffitata impacchettata spalmata da un capo all’altro del terreno bazar mondo lunghissima filigrana di boccette d’acqua santa santini benedetti cestini ultracomfort prego-dare prego-offertare, crocefissi e statuine un arsenale intero al servizio di un credo eterno. Quanta semplicità per issare la fune fin sulla fronte del divin signore seduto all’ombra dell’imponente monolite. Guai, a chi alza la voce! 57 Madonna col bambino (particolare) Leonardo «Tra un fiore colto e l’altro donato l’inesprimibile nulla” Giuseppe Ungaretti 58 POETI in DIALETTO La poesia, come atto di libertà creativa, può scegliere (e a volte sceglie) il dialetto per esprimersi, riunendo la parola scritta da una singola persona alla parola parlata, in contemporanea, da una comunità più o meno numerosa. Nei casi più felici il linguaggio locale, altrimenti confinato nell’ambito affettivofamiliare, fra voci perdute o in via di perdersi, si rinnova: il lessico ne trae nutrimento e si rende disponibile a re-inventare persino la discussione intellettuale, il confronto civile, quasi confidasse di sopravvivere coi suoi mutamenti a una globalità sempre più impervia, ora verbalistica, ora afasica. Germana Duca Ruggeri 59 60 Ornella Fiorini Dadlà dal ténp (Al di là del tempo) dialetto lombardo / mantovano Ornella Fiorini - Nasce ad Ostiglia (Mn) dove vive e lavora. Poetessa, pittrice e cantautrice in dialetto lombardo-ostigliese; ha vinto numerosi premi di poesia. Ha pubblicato la raccolta di poesie Ci vorrà silenzio (Tedioli stampatore, Mantova 1995) con introduzione di Tolmino Baldassari. In collaborazione del musicista ostigliese Mauro Conforti, ha pubblicato il CD Brisi ‘d lüna (Moby Dick, Faenza 1998). Sue liriche e racconti appaiono in numerose antologie e riviste tra le quali Il quaderno di Natale Keltia Editrice – Aosta 1993; Testo a fronte (Marcos y Marcos, Milano, 1999). Ha partecipato a molte trasmissioni radiofoniche e televisive. 61 Ornella Fiorini Zibramonda Che nòt Stanòt Déntar in dal négar Söga niuli bianchi E la lüna las quàcia E las disquàcia Druand na quèrta Ad vel L’aria la möv Al cél E al silenzio Al bufa Pian Zibramonda Déntar in dal négar: dentro al nero. Söga niuli..: giocano nuvole.. Las quàcia e las disquàcia: si copre e si scopre. Druand na quèrta ad vel: usando una coperta di velo. La möv al cél: muove il cielo. Al bufa: respira. 62 Ornella Fiorini Frescüra d’istà Vus A dla nòt Eco Ad silensi Inpregnà In du’ casca Al vent Déntar l’udur Dla menta In sl’àrsan Sufià. Frescura d’estate Vus a dla nòt: voci della notte. Ad.. Al…: del… il. In sl’àrsan sufià: sull’argine soffiato. 63 Ornella Fiorini Sera ad mars L’aria La gh’ha al saur A dl’erba spagna Déntar ‘Sta sera. Gh’è mars Cha sa ‘d campagna E ‘d primaéra. Chi Sota i pòrtagh I scür I siga al vent E i foi ad giurnal I ‘ula Pièn ad paròli Scriti Cha ‘n sa da gnént. Sera di marzo La gh’ha al saur: ha il sapore. Spagna: medica. Cha: che. Pòrtagh: portici. I siga: gridano. ‘Ula: volano. 64 Ornella Fiorini Fii d’erba Fii d’erba Trési d’istà Liga cöv Ad furmént Culgà Déntar ai bras Fii d’erba Slà Vel sü li rii di fòs Pugià In du’ salta Al pasarìn Déntar al giardin Dl’inveran Fii d’erba Suta al cél Dli grü Strada ad silenzio Par i mé pé Cume tapé Par gòdaran Al susor. Fili d’erba Trési: trecce. Liga cöv: legano covoni. Culgà… bras: coricato… braccia. Slà Vell…rii: gelati velo…rive. Inveran: inverno. Suta: sotto. Par i mé pé: per i miei piedi. Tapé… gòdaran.. susor: tappeto..goderne..fruscio. 65 Ornella Fiorini Nadal ‘85 La vus La s’è fermàda Sü la feriàda Rusna Da ‘sta fnèstra La casa L’è arbaltada Con al su mar In tòch I pin a dla Boschina Sensa li rüghi Dal ténp Gh’è pién Ad vent E ‘ula Li falistri. Natale ‘85 Vus: voce. Rusna: arrugginita. In tòch: a pezzi. Pin.. rüghi: pini..rughe. ‘Ula..falistri: vola polvere di vento. Boschina: isola del Po in territorio ostigliese. 66 Ornella Fiorini In mès ai lòt Quand Saltarà föra Li steli A vestir La sera As sarà pugià Par tèra Al vent E in sima Ai fiur ‘d marasca La paròla La s’ farà gnal par I òc Cha spècia La fadiga Intant la bala L’as sarà Fermada. Dentro le zolle Li steli: le stelle. As sarà pugià: si sarà posato. Sima: cima. Gnal par i òc: nido per gli occhi. Spècia..bala: riflettono.. palla. 67 Ornella Fiorini Dadlà dal ténp Dadlà dal ténp Lasarò al mé respir E al sarà fià Par la nòt Sensa paròli Restarà al mé mar Vöd Ad marèi Col supiar Dal garbin As pugiarà i culur In sla punta Dli stèli In du’ li farfali Li gh’ha sénpar I fior E I rundànin I sbüsarà al cél In gir rutond In sla curva dal Po. Al di là del tempo fià: fiato. Vöd ad marèi: vuoto di maree. Supiar: soffio. Sénpar: sempre. Rundànin i sbusarà: rondini bucheranno. 68 Francesco Sassetto Semo fati de sogni sbregài (Siamo fatti di sogni spezzati) dialetto veneziano Francesco Sassetto - Risiede a Venezia dove è nato nel 1961. Laurea in lettere nel 1987, ha conseguito nel 1998 il titolo di dottore di ricerca in “Filologia e tecniche” dell’interpretazione”. Scrive sia in lingua che in dialetto veneziano e ha iniziato solo negli ultimi anni a partecipare a Concorsi locali e nazionali di Poesia con esiti lusinghieri. Dalla sua poesia traspare un sentimento di vuoto e di abbandono, di solitudine di uomini e cose, e l’ambiente di Venezia diventa, nelle sue liriche, dolorosa metafora esistenziale. 69 Francesco Sassetto In rada Ti vardi ‘sta barca che l’onda caressa co ‘l legno che poco a poco s’immarsisse: passarà ‘l tempo e no sarà più la stessa come tute le robe che more e che finisse. La vita xe ‘sto flusso d’acqua scura che sbate su i pagioi e li destaca, xe ‘sta topa che no sa altra ventura che ‘l palo che la liga, l’onda che la straca. In rada Ti vardi: tu guardi. Xe: è. Pagioi: paglioli, tavole dell’imbarcazione. Topa: piccola imbarcazione. 70 Francesco Sassetto Quando fa scuro Sentai viçini quando fa scuro su un masegno de la riva, strensarse forte fra i brassi, parlar sotovose ne la pase de la sera, sentir tuti do che ‘l solo vero ben che gavemo nel caminar su ‘sta tera xe vardarse ne i oci, caressarse i cavei dopo le corse, i sighi del giorno, xe serar domande e paure ne i basi che desso se demo, xe ‘na casa che queta speta ‘l nostro ritorno. Quando... Sentai: seduti. Masegno: pietra. Tuti do: tutti due. Oci: occhi. Cavei: capelli. Sighi: Le grida. Serar: chiudere. 71 Francesco Sassetto Omeni Semo fati de carne e de sangue, de suòr, de fadiga e stanchessa, de lagrime, de vogia de amor, de ‘na sola caressa. Semo fati de sogni sbregài, de cari visi andai via, de giorni butài, de ricordi co ‘l tempo sempre un fià più sfogài. Ne supia in boca el calìgo de prima matina, de note ne varda la luna rifar i passi segnài da la strica de ciaro che manda i fanali. Tante domande ne rodola in testa, risposte nissuna. Do pìe ne tien fermi tacài a ‘sta tera, ma co i oci andemo nel cielo a spiar de sera corar alti i cocài. Uomini Suòr: sudore. Un fià più: un po’ più. Ne supia.. el calìgo: Ci soffia.. la nebbia. Strica de ciaro: striscia di chiaro. Ne rodola: ci rotolano. Do pìi ne..: due piedi ci... Corar.. i cocài: correre.. i gabbiani. 72 Francesco Sassetto Bassa marea Xe un pocio d’acqua ferma la laguna soto la capa de siroco stamatina. Muci de gransi se rampega a fadiga sul fango de le velme tagiàe da ghebi che rancura strisse d’acqua fiaca che sa de marso. Rompe l’aria che ristagna sighi de cocài alti su le brombole de i pessi. Sul velo de calìgo va grigie petroliere lente in lontananza. Se sfanta ‘na barca ne la seca. Bassa marea Pocio: pozza. Muci de gransi: mucchi di granchi. Velme tagiàe: velme tagliate. Ghebi che rancura: ghebi che raccolgono. Sighi de cocài: grida di gabbiani. Brombole de i pessi: bolle dei pesci. Se sfanta: si perde. 73 Francesco Sassetto Piere ‘Ste piere lassàe dal mar su ‘sta crosta de sabia indurìa, sugàe da l’istà, cussì rosegàe cussì svodàe scure de spuncioni e de busi, cussì dure cussì dolçi a tastarle, a passarle fra i dei che sente tute le so ponte lissàe da ani de vento e de sal, ‘ste vecie piere de mar ‘desso che xe passà tanto tempo da quando zogavo co la redina e ‘l secielo, putèo che voleva ciapàr i gransi co la paura d’essar becà, ‘ste piere de mar xe compagne al me cuor che ‘desso tase come tase in alto el cielo e l’aria e ‘l puntin bianco de la vela alta sul mar. Pietre Sugàe: asciugate. Spuncioni e .. busi: punte e.. buchi. Fra i dei: fra le dita. Lissàe: lisciate. Redina.. secielo, putèo.. ciapar: retina.. secchiello, bambino.. prendere. Tase: tace. 74 Francesco Sassetto No ti ghe geri Dove ti geri co sofegava strucài drento le doce li agneli notài al gas? No ti ga visto ridar i bechèri? No mia mama quela note lontana parlar pian a mio papà stanco sul leto, e no sentir più la so vose i oci vodi sbarài al sofito fermà par sempre el respiro? No ti ghe geri e no ti xe qua stanote che giro da solo le cale senza meta né amor, i oci bassi al fis-cio d’un vento de vero che giassa ‘l cuor e la pele, serà soto ‘l to cielo nero muto de stele. Non c’eri Co sofegava: quando soffocavano. Strucài: schiacciati. Notài: assegnati. Ridar i bechèri: ridere i macellai. So vose: sua voce. No ti xe qua: non sei qui. Le cale: le calli. De vero che giassa: di vetro che gela. Serà: chiuso. 75 Francesco Sassetto E mi scrivo le poesie E mi scrivo le poesie, parole cusìe a stento ne le mez’ore rosegàe al mar de robe che ne strossa da matina a sera a far finta che la vita sia più vera. Ma no ga vose par noialtri el mar e tien ben sconti l’onda i so segreti e ghe xe alora de tentar de girar in versi quel gropo che ne ciapa in gola co vardemo el mar e no savemo dove e perché navega el cocàl al largo e se ghe xe davero un largo o tuto xe calìgo che va via. Scrivi alora, anima mia, scrivi ancora, dopo le corse, i sighi, i tanti saludi che no xe tornài, scrivi ne la stanza de ‘sta sera co la boca amara de i chissà, co quel poco de sogno che te vansa, scrivi par ti e par la gente che varda el mar e fa finta de gnente. Perché poesia no xe per riposar, no xe magnar da cavar la fame, ma bocón duro che rumega ne la pansa. Xe ocio svegio che se varda intorno, tien conto e scarabocia su ‘na carta, vose che no se sfanta ma se sforza gratar la scorza che coverze un grumo de sostanza, canto che se slarga fora de la rede streta che ne imborsa. E io… Cusìe: cucite. Ne strossa: ci strozzano. No ga vose par: non ha voce per.. Sconti.. i so: nascosti.. i suoi. Ne ciapa: ci prende. Co vardemo: quando guardiamo. No savemo: non sappiamo. Sighi: le grida. Te vansa: ti avanza. Magnar da cavar: cibo da togliere. Rumega: rumina. Ocio svegio: occhio sveglio. Se sfanta: si perde. Coverze: copre. Rede che ne imborsa: rete che ci imborsa. 76 Vincenzo Mastropirro Tretìppe & Martìdde (Questo & Quest’altro) dialetto di Ruvo di Puglia Vincenzo Mastropirro - Nato a Ruvo di Puglia (1960) vive a Bitonto (Ba). Dopo un’intensa e fortunata attività di flautista e compositore che lo ha portato a suonare, con il Trio “Mauro Giuliani”, in vari paesi del mondo (Egitto, Francia, Inghilterra, Austria, Germania, ecc) ed aver inciso cinque CD con la FonitCetra, ed altre case editrici. L’amore per la poesia lo porta a musicare i testi di Alda Merini. Su testi di Vittorino Curci, compone Songs e poi Mater Dolorosa. Egli scrive: «… lavorando con la parola ho finito per scriverla.» Così ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie nel 2007 con il LietoColle ed. Faloppio (Co): Nudosceno. 77 Vincenzo Mastropirro Le crestudd u venerdì sande vàite le meninne apprìsse a la pregissiàune vestiute da crestudd ‘nanze a gesùcalvarie ‘nge métte nu picche e me vaite ben’intése pe maiche er ‘na fieste le clìure, la banne, la gìente assè I piccoli Gesù il venerdì santo / vedo i piccoli sfilare in processione / vestiti da piccoli gesù davanti al calvario / ci metto un attimo e mi rivedo// ben’inteso / per me era una festa / i colori, la banda, la gente / tanta. 78 Vincenzo Mastropirro Stoche a pizz’, proprie a pizz’ cume re furme strone fatte da mamme prònte pe d’esse mangiòte da vocche stròne cu’ le dinte malòte. Cange guste a secùonde de la fùorme ca s’ mange, ogn’ e tre pizz’ de cutegnòte sté ‘na sorprése nan addemannàteme qual è nan la sacce ‘mangh’ ej. Mamme è cundìente, è fatte ‘na bella feghìure cu la gìente, me chiome e nan ‘machie chìue …”addò sté u meninne, addò sté u meninne Madonna miaie!!” Sono a pezzi, cioè materialmente a pezzi / nelle forme improbabili scolpite da mia madre / pronto per essere mangiato / da fauci variopinte / con denti pieni di carie. // Cambio gusto a seconda della forma che si addenta, / ogni tre pezzi di cotognata / riservo una sorpresa,/ non chiedetemi qual è / non la so neanch’io. // Mia madre è contenta, / ha fatto una bella figura con gli ospiti, / mi chiama e non mi trova più /… “dov’è il bambino, / dov’è il bambino Madonna mia!!”. 79 Vincenzo Mastropirro Iedde è contre de màiche ma è tutte normòle. Totte re capre so contre de màiche, specie chere salvagge. Stambesciescene e nan me vùolene béne ma nan me rembròveraisce nudde. Ogn’e vùolte ‘ca volene fò, r’accundìente e sole tanne se calmene. Po’ repigghene a damme ‘mazzòte. Nan sacce picc’è, stoche ‘chiéne de livede e me sfuòrze de capèie la lore negativitò. All’imbrovvéise te vaite reire fin’a sckattò e te divirte a re spadde maie. Lei è contro di me / ma è tutto normale. // Tutte le capre sono contro me, / specie quelle selvatiche. / Scalciano e mi odiano / ma non mi rimprovero niente. // Ogni volta che vogliono fare l’amore le accontento / e solo allora s’acquietano. // Poi riprendono a massacrarmi. // Non capisco, / sono pieno di lividi / e mi sforzo di comprendere il loro diniego. // All’improvviso ti vedo / ridere a crepapelle / e ti diverti alle mie spalle. 80 Vincenzo Mastropirro “… è colpa mia, è colpa mia… non lo faccio più”. Mamme, viste e nan viste, vene vicine au litte e me deisce: “Sei il solito Pinocchio, urli e ti disperi ma poi ritorni da essere discolo come sempre”. A disce la vertòo nan m’arrecurdaie ‘na parlòte acchessì féine da mamme. Difatte, stai a ‘sennò: “Strunze, viiine ‘ddo ca t’à strippiò de mazzòte” ovvero “Stronzo, vieni qua che ti devo massacrare di botte”. Mo è tutte normòle. … Mamma, compare all’improvviso al mio capezzale e mi dice: / … // A dire il vero / non mi ricordavo un eloquio così perfetto da parte di mamma. // Infatti, stavo sognando: / “Stronzo, vieni qua che ti devo massacrare di botte”. // Ora è tutto normale. 81 Vincenzo Mastropirro Me vaite nu fiàure de carte, fùorte e coloròte. Stoche chiandòte ind’a la tìerre ‘nanze a la tòmbe d’attaneme ca se sté a pisciò sùotte da re resòte L’addemanne: “peccè stè a réire?” ed idde spicce de réire subete. Senza parlò vogghie sdradecamme e scappò ma m’arrecùorde ca nan pùozze. U terrene me mange a picche a picche. La paghiure me pigghie ma, pe fertìune m’arrecùorde d’esse nu fiàure de carte e nan pozze meréie. Mò capisce re resòte d’attàneme. Mi rivedo in un fiore di carta, rigoglioso e colorato. / Sono piantato nella terra / davanti alla tomba del mio unico padre che si scompiscia dalle risate, / gli domando: “perché ridi?” / e lui smette di ridere immediatamente. // Senza parlare vorrei sradicarmi e andar via / ma mi accorgo che non posso. // Il terreno mi ingoia millimetro dopo millimetro. / Il terrore mi assale ma, / fortunatamente ricordo di essere un fiore di carta/ e non posso morire. // Ora capisco le risate di mio padre. 82 Vincenzo Mastropirro La murge Sapaie acchiò le funge ma mò la murge nan è chìue cume na vùolte. La murge è cangiòte pe colpa maie. Da quanne nan scibbe chìue l’ònne cangiòte, se la stònne a mangiò. Er nu paravéise, àrede e chitràuse in ogn’e stagiòne, er frìede ma bielle. Dà, le ‘penzire scappàine. Cammnaie, cammnaie ed’ogn’e ‘ttande assàine le funge. Ber’fatte, cardengìdde ber’fatte. Er brave ad acchialle. Colpa maie, mo nan voche chiue e nan riesce chiu’ a ‘penzò, ad acchiò, a sennò. Sapevo cercare i funghi / ma ora la mia murgia non è come una volta. / La murgia è un mutata per colpa mia. / Da quando cominciai a non frequentarla più / l’hanno trasformata. / Se la stanno mangiando. / Era un paradiso, arida e brulla in tutte le stagioni, / era asettica ma meravigliosa. / Lì i pensieri galoppavano. Camminavo, / camminavo e ogni tanto sbucavano funghi. / Bellissimi, cardoncelli bellissimi. / Ero bravo a trovarli. / Colpa mia, ora non vado più / e non riesco più a pensare, a cercare, a sognare. 83 Vincenzo Mastropirro La paròle giùste è stetò. ‘Nesciùne ‘ngéine inde u cile è stòte ‘nvendòte, la prove è la cadìute irresistibile de l’angele ca’ cadene ‘nndìerre cume chelumere sfatte. R’illussiòne s’allundànene sembe de cchìju, nan ne remone ‘ca la finta’ resòte, ‘metténne la tavue esteive addò nu bune pìatte de gronegréis-patòne-e-cùozze spénge abbasce u muzzeche amòre du delàure. Il verbo giusto è spegnere. // Nessun gancio nel cielo è stato inventato, / la riprova è la caduta irrefrenabile degli angeli / che si schiantano a terra come fioroni sfatti. // Le chimere si allontanano sempre più, / non ci rimane che la finta allegria, / apparecchiando la mensa estiva dove il magnifico piatto / di riso-patate-e-cozze / spinge giù l’amaro boccone del dolore. 84 Guido Leonelli Sgrìsoi (Brividi) dialetto di Trento Guido Leonelli - Nato nel 1939 a Rasùn Valdaora in Alto Adige, risiede a Calceranica al Lago, Trento. Laureato in sociologia, scrive versi esclusivamente nel dialetto di Trento. Opere di poesia: nel 2000 Rèfoi de destràni (Grafiche Futura. Matterello di Trento). Presso le Nuove Arti Grafiche di Trento ha pubblicato Uce che spónze (2000) e Sgéve de vita (2002). Nel 2004 ha pubblicato un’altra raccolta Amór en zìnzorla (Ed. Osiride). Nel 2007 presso le Edizioni31 è uscito il volume Sól e nùgole ‘n riva al lach. Ha collaborato a riviste letterarie e è risultato vincitore in importanti Premi nazionali di poesia. 85 Guido Leonelli Carolina Kostner Na colana de nòte a mesedón che la se deszóla su ‘nté ‘n rigo, na mùsica dólza a ghirigòri su la giaz tirada a lustrofìn. L’encolóra n’orditùra ‘n filigrana en panevèl spuzzét che ‘l méte ensèma na trama ‘nté ‘n balét de pirècole, salti, pirli e schiramèle, en sgolar lizér sénza orbiròle, con eleganza, na danza a ondezón tant che baiarèle. Ai zòghi bianchi de Olimpia enté ‘n costumìn de lusentìni la pirla la nossa Carolina pòch pu che na popìna perfìn a farghe góla a grili e cavaléte. Na véra artista de mùsica e bal a ‘mbastir dólza na sintonìa che la se fa sùbit superba poesia. A mesedón: alla rinfusa. Deszóla: scioglie. Su la giaz … a lustrofìn: sul ghiaccio … a lucido. L’encolóra: dipinge. En panevèl spuzzét: una lucciola smorfiosetta. Pirècole… pirli… schiramèle: capriole… trottole… piroette. En sgolàr lizér… orbiròle… a ondezón tant che baiarèle: un volare leggero… vertigini… ondeggiando come allodole. Lusentìni: lustrini. La pirla: rotea. Popìna: bambina. Farghe góla: fare invidia. 86 Guido Leonelli Soliènta (derelitta) Arìva balòte de canti da lontàn rudolàndo ‘nté na lum che ancór la sténta. La fadìga a farse ‘n là la nòt col sol cargo de ‘nsòni bosiàdri. E mi me svòltolo ancór soliènta entrà le fizze de linzòi che i conós mèio de ti sta vècia stòria ‘nmagonada de tute le me vòie. Balòte: scampoli. Rudolando: rotolando. La sténta: indugia. ‘Nsòni bosiàdri: sogni bugiardi. Svòltolo: mi rigiro. Fizze de lenzòi: pieghe di lenzuola. Conós: conoscono. ‘Nmagonada: accorata. 87 Guido Leonelli El zògh de la vita (Il gioco della vita) Quan che se ‘ncùcia la séra sót a le ale ciaùsche de la nòt me sénto pèrs, stranià e come ‘n matelòt no so se piànzer per n’altro fòi cascà dal calandàri, o se rìder contènt per el bèl che ‘l porterà el dì che vèn. L’è ‘l vècio zògh de la ròda che tant che na zìnzorla ‘ntrigóna el se divèrte a portarne ‘n su bèn alt entrà slusóri sémpre nòvi e làude che se ‘ntòna per pò lassarne nar de cólp sót a le ociàre bròlde de na meridiana ‘ngremenìda che tuti i dì la spèta ‘l sól sperando che la stòria no la sia zamài finìda. ‘Ncùcia: accuccia. Ciaùsche: spettinate. Matelòt: bambino. Zìnzorla ‘ntrigóna: altalena impicciona. Entrà slusóri: fra splendori. Nar de cólp: andare di colpo. Ociàre bròlde: occhiate smorte. ‘Ngremenìda: intirizzita. 88 Guido Leonelli Sgrìsoi de primavéra (brividi di primavera) Gh’è colóri nòvi ancòi en l’ària e profumi mai sentìdi. Sformìgola su la me pèl sgrìsoi de primavéra recami de séda che desbròia vòie antiche. Desmissià da na stagión che la me ciàpa dént, el méte ale nòve ‘l còr: bugàt che ‘l ciàpa ‘l sgól lassàndo al vènt lizéra la galéta. Gh’è… ancòi: Ci sono… oggi. Desbròia: liberano. Desmissià: risvegliato. Ciàpa dént: prende dentro. Ale nove: ali nuove. Bugàt ch’el ciàp ‘l sgól: larva che prende il volo. Lizéra la galéta: leggero il bozzolo. 89 Guido Leonelli Demò vòie (Soltanto voglie) Te védo ciàr fantàsma ‘nté l’orbèra sfrabotolar silènzi; te sénto ancór tornar a cà da le to nòt balzane. Te tróvi sémpre davèrt el restelét ma frét quél lèt che ‘l scónde demò vòie. Ensòni smarìdi tant che fòie ‘ntéi cantóni de la via de na primavéra de prèssa fruàda che no l’èi pu mia. ‘Nté l’orbèra: nelle tenebre. Sbratolar: farfugliare. Davèrt el restelét: aperto il cancelletto. Frét quel lèt: freddo quel letto. De prèssa: di fretta. Fruàda: consumata. L’èi pu: è più. 90 Guido Leonelli Zòghi d’amór (giochi d’amore) Na bòzza ‘ngiazzada che bóie. Dó calici lustri de cristal. En bòt séch dessiguàl. En la nòt de i amóri se slónga man su cópe che ‘nvida. Slusóri. Òci che parla sénza dir gnènt. Rozàl frét saóri per góle che brusa. Lóre de còri famadi. Augùri e po’ via a tacar zòghi. Zòghi de amór. Na bòzza ‘ngiazzada che bóie: una bottiglia gelata che bolle. En bòt séch dessiguàl: Un botto secco contemporaneamente. Se slónga man: si allungano mani. Cópe che ‘nvida: coppe che invitano. Slusóri: bagliori. Rozàl frét: ruscello freddo. Brusa: ardono. Lóre de còri: imbuti di cuori. Tacar: cominciare. 91 Guido Leonelli En but desmentegà (Una gemma dimenticata) Gò dént na vòia fónda che te gai anca ti che qualchedùn me zérca che ‘l ciàma che ‘l me tóca che tant che na marmòta el cuca fòr dal bus che ‘l zògh del scondiléver l’è oramai del tut sgaùs. Vorìa gavér la fòrza de ciamarte mi per prim de róterghe sta grósta a ‘n but desmentegà che ‘l mòre da so pòsta su ‘nté ‘n rosar embrumà. Gò dént: ho dentro. Te gai anca ti: hai anche tu. Ciàma: chiama. Cuca.. bus: sbirci… buco. Scondiléver… sgaùs: nascondino… vuoto. Gavér: avere. Róterghe sta grósta: rompere questa crosta. Da so posta: per conto proprio. Su ‘nté ‘n rosar embrumà: su un rosaio coperto di brina. 92 Portovenere «Tendono alla chiarità le cose oscure» Eugenio Montale 93 SEGNALAZIONI Armando Giorgi Ostaia (Osteria) (dial Genova) Posan e biciclette in ta ciassa, giè verso l’ostaia, o berretto cegou. Zeugan a-a biscambiggia, fan brindisi quande guagnan a-e carte e-o dexideo de beive ö disegna in scià toa, riondi de tasse de caffè. Aspetan a coverta da neûtte pe pedalà verso o paise dove gatti strangoan l’amò e-o crescentin da sbrazzoa a schitta in te l’aia tra scciuppon de foggiammo. Quande mescian e reue, repiggian regalli de memoia, aguiettan a fornaxe numero trei che-a descarega sciopi de sciamme rubin in to çestin do corzeu. - Posano le biciclette nella piazzola, / girate verso l’osteria, il berretto piegato. / Giocano alla briscola, / brindano quando guadagnano a carte / e il desiderio di bere disegna, /sulla tavola, rotondi delle tazze di caffè. / Aspettano la coperta della notte / per pedalare verso il paese, / dove gatti strangolano l’amore / e il singhiozzo della civetta / salta nell’aria tra scoppi di fogliame. / Quando muovono le ruote,/riprendono doni di memoria, / scrutano la fornace numero tre / che scarica sciroppi di fiamme rubino / dentro al cestino del crogiolo. 94 Vanni Giovanardi Sensa cumpagnia (Senza compagnia) (dial reggiano/mantovano) Am senti l’aria cla ma sta d’inturan prègna ad cal silensi ca sa smorsa in dal pigar dla pèl quand i oc ad coi ch’im dgea da star peù ben lugà daddrè al me coer i sa smantes cul moevar intristì dli steeli spersi in mesz al ciel. E al vivar dli paroli cl’era un sul da fam slargà la vusz cumpagn na finestra impiada la matina in facia al nasar dli campagni l’è sul un vèl dastesz in long al pieuvar dla memoria quand la sira l’at cumpagna sota al preum luszur d’na luna smorta ad displaszèr e sensa compagnia. - Sento l’aria che sta intorno / pregna di quel silenzio / che si spegne nel piegare della pelle / quando gli occhi di quelli / che mi dicevano di stare meglio / nascosti dietro al mio cuore / si affievoliscono col movimento intristito / delle stelle disperse in mezzo al cielo. / E il vivere delle parole / ch’era un sole / da farmi larga la voce come / una finestra accesa la mattina / in faccia al nascere delle campagne / è solo un velo disteso / lungo la pioggia della memoria / quando la sera ti accompagna / sotto al primo luminare / di una luna smorta di dispiacere / e senza compagnia 95 Alessandro Mordini ‘Ita (Vita) (dial Porto Recanati, Mc) La ‘ita se sghiòma o in bunazze ‘ndurmite in dù che le cumtentezze ‘nciarma el sentementu o in gorghi fónni in dù se ‘ffòga de cursa tutt’i ‘nzògni… - La vita si dipana / o in dormenti bonacce / dove la gioia / cinge il sentimento / o in gorghi profondi / dove annegano / veloci / tutti i sogni… 96 Alfredo Panetta U galanu (Il rigogolo) (dial calabrese) U cchjiappai, ‘nci llisciai i pinni cu ‘na manu, cu ll’autra ‘nci stujai u sangu mbiscatu a coccia i chjiumbu. ‘mbicinai i labbra a ja pagura virdi, ‘nc’i rricchjiai u trentulu: parìanu ‘ngusci i figghjioleju. M’axxanca’ a ‘na mastra d’abbivaratizziu, u dagià’ ‘nta ‘na petra d’armacera…. ‘nc’appojai vicinu a testiceja ‘na junta d’erba frisca e m’a fujìi. - L’ho catturato, gli ho lisciato le piume / con una mano, con l’altra gli ho pulito / il sangue impregnato di piombo. // Ho avvicinato le labbra a quella paura / verde, ho ascoltato il tremito: / sembravano i gemiti di un neonato. // Mi sono accostato a un canale / d’irrigazione, l’ho adagiato su / una pietra di un muro a secco… // gli ho posato vicino alla piccola testa / un ciuffo d’erba fresca // e sono scappato. 97 Raimondo Rossi “Paesaggio” 98 LA CITTÀ NEI POETI Questa sezione prevede cinque interventi sul tema della “Città” nei versi dei poeti, i quali hanno sempre avuto con i luoghi – di nascita o d’elezione – un rapporto di tipo coniugale e parentale in senso ampio. In ogni caso d’amore che non esclude talora particolari difficoltà di rapporto. Dopo il breve (as)saggio del prof. Gastone Mosci sullo scritto “Urbino, la città dell’anima” di Carlo Bo, che ha considerato la città ducale sua terra ideale, i poeti e critici Fabio M. Serpilli, Germana Duca Ruggeri, Mario Narducci e Davide Rondoni, faranno un omaggio in versi alle città di Ancona, Urbino, L’Aquila (e l’Abruzzo) e Milano (e dintorni). Sono tutti testi inediti che rendono più prezioso questo volume, data la valenza letteraria degli autori. 99 Germana Duca Ruggeri (dialetto urbinate) De ma quasò Urbin-cità par un frut pien, san, chius com ’na noc’ t’na scorsa: punt tajent e rotondità de vas tocate, t’un quant, da le al dj angiol. Urbin-cità è ’na copia d’uva rugolata giò da ’n car celest, tacata sò fra cost e dirup amatonati, mès’indormentati. Urbin sta aspetand, sal su’ fil de cometa vrichiat t’na trama futura, el ritme giust p’intrida art e natura. 100 Spasi amalati stasion aletata svincol ralentati butiglie svoide (coc’ infilsat t’i costic’ ma ’n ragas) èn le note moderne. C’è qualco’ ch’én va. Vasta è la distanza che qui si impara e mai si chiude il cerchio: ai collegi-università a badilate hanno ucciso una donna una madre Floride di nome di professione custode. Giallo insoluto special-tv (Blu notte). E buone nottate. Largo alle teppe che vanno svellendo rigando spezzando imbrattando il rinascimento scemato nel fare tardi nel parlare dopo. Che strasi’ che lament Urbin el tu’ declin. C’è qualco’ ch’én va? La città è firmata, oggetto di design sublime, superstar dell’architettura, veste su veste 101 su corpo di luce, gioco di pura energia: toh canella! Giva a stroppacerquella. Che tanacca! ’N arbaltatic’. Cut. Toca stè a la grilla. Pancot. La coperta de pignòl. En se pò sempre dormì t’i alòr… L’ora esitante scolpisce sui muri labbra divise fra baci muti e grido e il ricordo di parole incise alle radici attraversa come un contatto i volti che le lingue lega: rassolin de seta ribiscin persciutin caramèla brendolina… O Urbin, ma chi t’ha fat era un birb opur un mat? E ’ste tu’ dialet che s’ parla ch’è ’n piacer perché quant s’ascolta par un mister? I’ arprov a scriv’le, me fac’corag’, me do speransa, mo a leg’le ce vol ’na gran pasiensa. Se ce pens, me vien el mal fin ma’l stommoc. En voj fè la compostura, arvag ma l’italian adiritura. Ansi, t’na giornata dacsé bella, sa ’l ciel tut particolar, se podria pur gi’ via da Urbin… 102 Mo sé, gim a caminè ma la Cesana! A veda el Conero com’ s’indrissa tel mès dle Marc. Gim a chiamè fort la mi’ Ancona. A chiamè, da ma quasò, el mar. Da quassù - Urbino-città sembra / un frutto pieno, sano, / racchiuso come noce / in una scorza: / punte taglienti / e rotondità di vaso / sfiorate, all’improvviso, / da ali di angeli. / Urbino-città è / una coppia d’uva / scivolata giù / da un carro celeste, / appesa fra erte / e dirupi ammattonati, / semiaddormentati. / Urbino sta aspettando, / col suo filo di cometa / avvolto in trama / futura, il ritmo giusto / per legare arte e natura. // Spazi ammalati / stazione inferma / svincoli rallentati / bottiglie vuote / (coccio infilzato nel costato / a un ragazzo) / sono le note moderne / C’è qualcosa che non va. // Che strazio / che lamento / Urbino / il tuo declino. / C’è qualcosa / che non va? // complimenti! / Andava a rompicollo. / Che colpo! Una confusione. Bubusèttéte. / Si deve stare all’erta. Pancotto. / La coperta di lana tessuta al telaio. / Non si può sempre dormire sugli allori… / uccellino di seta / follettino / prosciuttino / caramella / farfallina… / O Urbino, ma chi ti ha fatto / era uno astuto o uno pazzo? // E questo tuo dialetto che si parla / che è un piacere / perché quando si ascolta / sembra un mistero? Io riprovo / a scriverlo, mi faccio coraggio, / mi do speranza, / ma a leggerlo ci vuole / grande pazienza. / Se ci penso, mi viene / il mal sottile allo stomaco. / Non voglio fare indigestione, / torno all’italiano direttamente. / Anzi, in una giornata così bella, / col cielo tutto particolare, / si potrebbe pure andare via da Urbino… / Ma sì: andiamo a camminare alla Cesana! / A vedere il Conero come si inarca / a mezzo delle Marche. Andiamo a chiamare / forte la mia Ancona. / A chiamare, da quassù, il mare. 103 Fabio Maria Serpilli (dialetto anconetano) Cità de le parole C’è na cosa al mondo che ce cosa e nun possi fà de meno, che t’intaca l’idea de Lù a fior de bóca, ‘ncó si nun credi, guai chi ‘l tóca e n’altra cosa che intrìga è ‘l nome de Lìa madre moje fiola donna antiga e n’altra cosa che te cosa è ‘l ronzo de sono che va in parola e se fa canto in fojo bianco (s)matita e n’altra cosa ancora che fadìga è la pasió pel sito indó sei nato el dialeto che hai suchiato 104 È tut’i munumenti, dislogati sentimenti rima ai scòi indó acqua sempre a riva ‘riva da l’ère ch’era in prencipio e ‘ncó l’omega parole in lota grega o visió fatidiga che lega el corpo a na pietra avorio Dòmo a n omo n’o o sprovìdiga maestà a ‘ndà ‘ndó? Dies irae diasilla scioje secolo, ‘ndó porta la scintilla illa la diapasòn son el sono gnente più uh gu t urazió animando in-voluzió nevròtigo bisillibo ìllibo boh Jahvè Io so’ colui che c’è in sta cità 105 in stu logos che perché nun trovo logo me eca la rima me sponda es onda un giogo giostr-rotatoria luna park penzieri mii rìtim’in blu trombe palazi clarini viguli grondoni penzoli da Piaza in su sul sacro Còtano Santo Ceriàgo apoteosi chi è stato el mago c’ha meso lì cupola e torre scampanazió ucel’è ‘l celo d’in dó din do Sono Nun sei che ‘n sono Peppe ‘ntun porto dicea sepolto folg or azió, smastigamento lingua da lengua dio da io o oh! Stupefazió Quando che tuto che lasceremo 106 ce lascerà ombra e corpo el celo mare muntane tere st’abiss’amore ciarmàne solo cità parole ne manco più 107 Raimondo Rossi “Paesaggio” 108 Carlo Bo: Urbino, la città dell’anima di Gastone Mosci «Per capire Urbino non basta una vita» Lo dice Carlo Bo in apertura di un suo libro speciale, “Parole sulla città dell’anima”, a cura di Gilberto Santini (Urbino 1997), un vero e proprio livre de chevet, che invita a dodici letture per entrare nello spirito di una “città dell’anima”. Questo aforisma suggella la chiusura di un’opera che rappresenta una riflessione sulla bellezza e sulla spiritualità della città. I testi di Carlo Bo vanno dal 1959 - il giorno della sua cittadinanza onoraria urbinate - al 1997, durante i suoi cinquant’anni di rettorato. L’opera ha un valore di testimonianza culturale ma anche di itinerario di civiltà e di spiritualità. Il Palazzo Ducale In questo testo Carlo Bo si pone di fronte all’immagine della città, nell’intento di leggerla e di interpretarla: cercare di capire vuol dire entrare prima nello spirito della città, della gente, poi nell’ordine della storia: «qui batte il cuore dell’Italia, c’è qualcosa che miracolosamente è stato realizzato nei secoli passati e che adesso è riassumibile, è simboleggiato dal Palazzo Ducale». La città dell’anima passa attraverso la centralità del Palazzo Ducale, «che è un’idea d’arte, un’idea di bellezza, di poesia». Ecco dunque una lettura, come sogno diurno, per comprendere il senso di questa città, relegata a isola, a mondo separato, e quindi saltata dalla storia, ma difesa nella sua essenza da un progetto misterioso, come le Marche “isola di poesia nel cuore dell’Italia”. Questa città dell’anima vive in un sistema di “isolamento” che la definisce, ma che diventa anche “piccolo osservatorio” di ciò che accade nell’ambito nazionale: «stando così separati, così distanti, così arroccati su un colle, uno che ci viva, che ci sia nato, che abbia passato qui la sua vita e che sia stato dotato di capacità poetiche – per esempio Volponi – ecco che un individuo di questa specie è in grado di andare al di là della storia e di vedere quello che si sarebbe potuto fare, quello che si è fatto, quello che si è perduto nei secoli e quello che, nonostante tutto, permane, resiste, respira». 109 Urbino, dimora delle Muse Ma non basta, la città non è solo il Palazzo Ducale ma un luogo che si arricchisce «nella bellezza del paesaggio, delle colline, di questa luce stupenda che c’è nei giorni più limpidi, più chiari». La città vive, poi, una specie di magia, che è nutrita dal tempo, non solo “una città del silenzio” ma una “dimora delle Muse”, una casa accogliente, il «simbolo del Rinascimento e della vittoria dell’Umanesimo». «In fondo Urbino è un’invenzione poetica, della natura, del Creatore e di quello che in passato hanno saputo fare i grandi artisti che qui hanno lavorato, che hanno vissuto la città…» Piero della Francesca, Francesco di Giorgio Martini, il Castiglione, ma anche gli umili artigiani e costruttori che hanno rispettato l’architettura ed il paesaggio. Ancora un dato cui Bo tiene molto: una città dell’anima è una “eredità ideale”, è una grazia ricevuta per chi è del luogo: per chi giunge a Urbino sembra un miracolo, per chi vi è nato è un “dono quotidiano, naturale”. Città universitaria Nell’orizzonte di Carlo Bo la città dell’anima non è solo espressione di ricchezza artistica e storica ma anche la città universitaria: nel suo insieme Urbino educa lui stesso sul piano umano, gli organizza una “buona intelligenza della vita”. E quindi il rapporto con la cultura, con lo studio si trasferisce al dialogo con i colleghi, il personale non docente, i cittadini, ma soprattutto gli studenti che sono il cuore dell’ateneo: la scuola è in rapporto con la vita, come la cultura che è parte integrante del sistema umanistico. Gli studenti stessi, che sono più degli abitanti, contribuiscono a creare una città tutta particolare, a rappresentare una “sorgente viva”, a stabilire un’alleanza fra una città d’arte ed una popolazione di giovani, che esprime il senso della vita. Ma quale Università? Una Università come scuola particolare, con l’idea di libertà e con il sostegno dei diritti dell’uomo; una cultura «come segno della continuità e di una speranza che possa vincere lo spettro della morte». 110 Un paesaggio incantato In uno degli interventi, Carlo Bo pone un’altra domanda prediletta: “Siete mai venuti a Urbino?” E continua: «Se continuerete a rispondere di no, dovrete sentirvi in colpa, perché vi mancherà una dimensione della civiltà italiana». La questione nasce nel 1965, quando interviene per sostenere una legge speciale del parlamento a favore di Urbino, che crolla. Lancia un grido d’allarme e porge un invito per scoprire Urbino e la bellezza del suo territorio: “Urbino è un paesaggio incantato”, perché è rimasto intatto ancor oggi. Questo volumetto, “Parole sulla città dell’anima” (1997), rivolto principalmente all’idea di città, come l’ha maturata interiormente e come l’ha veduta e vissuta, fin dal suo arrivo nell’ottobre 1938, sotto il segno del Palazzo Ducale, è un’anticipazione dell’opera maggiore, che comprende anche i volti di Urbino e delle Marche, i poeti e gli scrittori, gli amici ed i testimoni di una civiltà dello spirito: “Città dell’anima. Scritti sulle Marche e i marchigiani”, a cura di Ursula Vogt, che esce postuma nel novembre 2001. Il mio intervento è rimasto circoscritto a Urbino, affascinato da “Una visione libera e aperta”, suggestiva e feconda idea da cui muovono l’invenzione e la creazione del Palazzo Ducale, ma anche modello di un nuovo umanesimo con le voci della pace, della musica e della poesia, in una città dello spirito, che tiene vibrante la forma dell’utopia. 111 Davide Rondoni (IneditiCittà) Milano, notte. È finita la pioggia stanotte ma non la sospensione di qualcosa tra il cielo così di luminoso argento e le strade non è la luce, non è la materia aerea del giorno… non è la prima nebbia a fine sera, né il leggero silenzio di settembre, né il finestrino aperto al ritorno sul vagone finalmente vuoto. Che suggerimento ignoto, che strana bandiera vederti passare nell’ora che si dovrebbe dormire, e invece con gli occhi di brace resto a fissare l’aria e il suo lampo muto che più di ogni cosa mi piace, la memoria piena di prodigi, e sì, vedere Milano nell’acqua… 112 Vieni ti prego, ma prima del sonno e sii la sua porta, poiché dopo non ricordo più niente e non voglio andare nel buio senza un volto negli occhi - - 113 Spanish harlem Riparaci da questo frastuono per il resto della notte riparami mi diceva stringendo le mani non lasciarmi andare via anche lei ha l’apocalisse negli occhi belli tutto quello che ho amato e una croce nella gola – poi al mio sguardo s’invola e bruciano sull’asfalto bagnato di pioggia le lame della notte i cavalli di luce che fuggono le danno un manto di fiamme, regina e così magra, sola 114 Regina a Ponte Libia (a Lucio Dalla) I E lei che per una sclèrosi o cosa cammina a salti, giovane e qualche capello bianco sulla fronte e il viso si sporge come una parola che si cerca è mattina, poca mattina quando la vedo tra i semafori a ponte Libia un altro ritmo tra le accelerazioni, viso contratto e aperto, slacciata al freddo di dicembre tra gli occulti che nelle giubbe nei caschi filano per l’aria sugli scooter- E mentre tutto va dove deve andare le notizie di ieri, i modelli d’automobile, il colore delle tue labbra, amore e quel che si chiude nessuno può far niente per aprire - lei 115 cosa porta, cosa raggiunge in quel ritmo strappato e obbediente… II Poi una mattina la rivedo appoggiata di schiena ad un’auto in sosta quasi rovesciata guarda il cielo bianco, parla e non ha voce ha la giacca aperta degli ubriachi, le scende di molto da un lato come se quella mattina non ci fosse da fare altro che stare buttati sulla fila di auto e cianciare al cielo, dare il petto magro dire agli angeli o a chi: venitemi a prendere, io ero dei vostri 116 Mario Narducci (Abruzzo: città, poeti, parole) Ju core de la gente “Settembre, andiamo. È tempo di migrare”: ci stesse unu che non sa a memoria, sta puisia che avrà fattu storia, dajiu prufissiunista alla commare. Ogni vota che ‘ico: sò abruzzese, accome recomenza la canzone, ecco le pecorelle e ju montone e ji tratturi e la gente cortese. D’Annunzio ci ha frecati a tutti quanti prima de issu non ci sta gnisciunu, dopu de issu, trova quallicunu che te rresce a accocchià nu poch’ ‘e canti. Ice: e Uvidiu che stane tra ji grandi? Ma che sta a dì? Sulmona, co’ rispettu, è chiù famosa mo pe ju confettu che pe’ chi se ‘nventette l’”ars amandi” Quandu a Sallustiu dell’Aquila me, (che pe’ la verità trattea de storia), ju sannu ancora, scì, tutti a memoria no pe’ com’era, ma pe’ accome è: 117 j’annu fattu nu bejjiu munumentu che tutti quanti tanna guardà spessu: però peccatu che ju basamentu sta rengriccatu ajiu pubblicu cessu. Chi se recorda de Porto ju rossu de Robberto Coletti e Cavalieri: poru dialettu me, pori pensieri d’amore che se sò ridotti aj’ossu. Chi se recorda de prufissiunisti che hannu cantata l’Aquila in dialettu co’ verzi senza mancu nu difettu: “L’ellera verde”, che te struje ju pettu “Quando all’ave Maria la campanella resona co’ na voce fioca fioca e Ju Gran Sassu guarda la Macella…” …e Collemaggiu pare che se ‘nfoca. D’Annunziu e basta, dunque, ma se salva pe’ la pubblicità fatta in dialettu ajiu Parrozzu che dentro ajiu pettu te mette pace, come fosse malva. Ju Vate, in virità, coprea ju costi dello campà, co’ quesso e le canzoni, come “’a vucchella”, piena d’emozioni, musica de Francesco Paolo Tosti. E a Chieti? Ice: ci sta ju Marrucinu, nu teatru famusu e co’ stagioni de prosa, de operetta e, me cojioni, de lirica e ballettu sopraffinu. Tuttu l’atru non conta, non importa; e “Ju trombone d’accompagnamente”? 118 Ji giovinotti, mo non sannu gnente se chi era Modesto della Porta. Non sannu che quiss’ome pe’ campà fecea ju sartu nella Capitale sognennose la notte Guardiagrele e ju trombone da poté sonà. La pruvincia de Teramo, se sa, confina colle Marche (j’ascolani), ju dialettu, ‘mpo’ simile, tè mmani l’anima popolare e se refà aji usi della gente, la cchiù mejjio: respunnu ajiu timballu de ste zone ji tajiulini de Campufilone e l’aria fresca che te fa sta sveglio. E ji poeti? Vatteji a trovà anche se sti paesi ne so pieni: tu fatte cuntu Ermanno Magazzeni che atru non ha fattu che cantà la vita, ji miraculi e la morte de nu Santu che stea ajiu Gran Sassu addo’ ji pilligrini, passu passu ancora vannu e piedi colle scorte pe’ magna: ju Santu che la gente ancora canta spieghenno le vele: “Viva la coccia de San Gabriele”, mentre ju core cchiù bbonu se sente. Ji poeti abruzzesi, a ben guardà sò addaeru na morra, sò na schiera, pe’ ju dialettu è sempre primavera, anche se poca elitte ce lo sa. 119 Unu de quisti, Serri Pasqualino te j’annu missu all’enciclopedia pe’ “U cacabozze”, che è na puisia pe’ nu ggirinu e invece è ju distino. “Eppure issu spera che nu jiorne, guanne sarrà ranocchia, potarrà da la pescolle ‘scì, guardasse ‘ntorne e pe’ ju munne mettese a zumpa’”. Quanta dolcezza stu dialettu nostru, che sia della montagna o la marina: tenemocejiu bonu come prima, e a memoria com’ ju padrenostru. Portemoju alle scole collo pa’ e la minestra dejiu misujornu, se tane respirane ‘ntornu ‘ntornu come fosse prufumu da fiatà. Na ‘ote, ma ji tembi sò cagnati, se solu icii domà e non domani, tella spezzea, ju maestru, mmani la verga e te cagnea ji connotati. Quanta gnoranza, quanta cecità! come se te levessero lo latte, e non ci stea, vicinu a ti, a commatte gnisciunu pe’ non fattelo levà. Mo che semo scoperta sta sorgente, fecemo de non falla reseccà. Ju dialettu è ju core della gente, la cchiù mijiore nostra identità. Mario Narduccci 120 Cattedra del vescovo Elia, Basilica di San Nicola, Bari «Credi, non è la gravezza dei pesi, è l’inutilità della fatica» Umberto Saba STUDENTI Scuola Primaria di secondo grado Poesia singola in italiano 1 Polverigi, di Andria Massei (Polverigi) 2 Il vento, di Sarah Cerioni (Polverigi) 3 Il vento, di Tiziana Manzotti (Agugliano) Segnalazioni: Trapano, Irene Baldoni - Agugliano La nebbia, Diego Cardellini - Polverigi La sega, Filippo Lucchetti – Agugliano L’ombra, Sofia Marconi – Polverigi La città di luna, Elettra Pierelli – Filottrano Silenzio, Alice Santini – Polverigi Poesia singola in dialetto Segnalazioni: Io so’ proprio cuscì, Nicolas Baldini - Agugliano La culazió, Luca Carbonari - Polverigi Giuria: F. M. Serpilli Silvia Candelaresi Anna Cerioni 122 Polverigi Collina verde cielo nuvoloso casa vecchia Campi arati righe profonde ombre coperte Campi grandi terra scura righe dritte Campi verdi terra chiara alberi forti Alberi alti rami robusti ombre scure Olivi verdi ombre corte foglie piccole Stradina di terra discesa ripida sentiero con un po’ d’ombra Traliccio di ferro pali lontani fili fini Andria Massei 123 Il vento Il vento scese, soffiò forte all’improvviso verso la luce del sole che stava uscendo tra le nuvole. Il vento si fece sentire nel giardino; i bambini entrarono di corsa in casa dove li avvolse il calore del camino acceso e l’odore della legna bruciata. Il vento si stancò di aspettarli. Sarah Cerioni Il vento Simile a respiro sibila tra gli alberi. Singhiozza tra le case. Silenzioso aspetta di diventare il signore della sinfonia. Tiziana Manzotti 124 Il trapano Sto per fare un gran trambusto trafelato prendo il fusto. Ecco il trapano, mio amato, in soffitta già scordato. Lo trafiggo contro il muro bucarlo sarà duro. Trrrrr, trrrrr… Tredici trilli la parete sussulta, trionfo di polvere, la terra insulta. Trasloco terminato trapano depositato. - a presto amico mio col cuore dico io e il cuore del trapano traballante è trafitto da una tremenda ondata di felicità Irene Baldini La città di luna Città di luna, e di filtri, luce abbagliante volante. Luna, illumina tutto fermando il tempo. Elettra Pierelli 125 STUDENTI Scuola Secondaria di primo grado Poesia singola in italiano 1 L’isola, Claudio Cervo - Agugliano 2 Il tifo, Filippo Pieroni - Agugliano 3 Il tempo si è fermato, Benedetta Battaglini - Recanati (Mc) Segnalazioni: Emozione, Valentina Casoni Perinetti - Agugliano Il futuro, Michele Pollonara - Agugliano Alla finestra, Carlo Senigagliesi - Recanati (Mc) Sotto il lampione, Martina Zenobi - Agugliano Poesia singola in dialetto 1 A primavera de ‘na vota, Michela Cefola - Petritoli (Ap) Scuola Secondaria di secondo grado Poesia singola in italiano Segnalazioni: Alba di vita, Francesco Cingolani - Jesi (An) Quando crescerai, Giorgia Giordano - Montemarciano (An) Chi sono?, Michela Fabiani - Ancona Poesia singola in dialetto 1 Me present…, Eros Serafini - Urbino (Pu) 2 … de strada n’ha fata mbel po’ Giorgia Giordano - Montemarciano (An) 126 L’isola Eccola là, ferma ed immobile come un gatto in agguato, tra il vociare dei gabbiani ed il rumore delle onde: l’isola. Eccola là sotto il mio sguardo balla col suo mare. Claudio Cervo 127 Il tifo Prendila, prendila, prendila, la palla è qua! Almeno un punto in partita lo devi fà. Prendila, prendila, prendila, la palla è qua! Se lo fai vinciamo anche questa qua. Prendila, prendila, prendila, la palla è qua! Filippo Pieroni Il tempo si è fermato Il tempo si è fermato! Chissà chi l’ha bloccato? Forse la bambina che gioca con la tazzina. O forse il ragazzo che gioca nel terrazzo. O forse il vecchino con in bocca lo stecchino. O forse tutti quanti perché sono contenti in quegli istanti! Benedetta Battaglini 128 ‘A primavera de ‘na vota (dialetto di Petritoli) Iera so’ visto ‘na farfalla. Era jalla, tutta jalla, de ‘nu jallo canarino villittu che vrillava come lu cillittu. Ma de ‘sti tempi ‘nze ne strova tante de farfalle da lu colore cuscì vrillante. ‘Na vota ce ne statìa de tutti li colori che svolacchiava ‘llegre tra li fiori: a righe vanghe e blu sfumate, oppure rosce mmoccó ‘rangionate, ciuchette vianghe a volli celeste o lo contrajo, po’ ce statia ciuchette viola… ‘mo non ci sta più che guaju! Potemo colorà li fiuri come volemo Ma comme dè quilli veri no’ lo sapemo. E ce penzi, tutti li tipi de muschitti, co’ ‘sti veleni mòre tutti, puritti! M’è stato ditto che a Londra ‘na farfalla se lu fiore era jallu essa era jalla, s’era de ‘natru colore essa lo copiava cuscì nisciuna la vidia e tranquilla stava. Oggi che de fiuri ‘nce ne sta più: mo’ adè grigia come lo fumo… a resorve ‘stu problema ce vò penzà caduna?!? Michela Cefola Jalla: gialla. Villittu… vrillava… cillittu: bello… brillava… uccellino. Vota… ce ne statia: volta… ce n’era. Vianghe: bianche. Mmoccó ‘rangionate: un po’ aranciate. Ciuchette… volli: piccole… bolli. Comme dè quilli: come sono quelli. Muschitti: insetti. Vidia: vedeva. Adè… caduna: è… qualcuno. 129 Me present… Me present, ecc' me machè, e per chi '1 vlessa savè i' so' Eros d' San Marin, un paesin vicin a Urbin. El studi enn è la mi pasion: vag a scola a Fosombron, per dventè, almen el sper, fta qualc'ann un ragionier. Quel ch' me piec ma me è '1 sport, i' el guard de tott le sort: calcio, tennis, biciclett e chi più c' ha più ne mett. Gioc alle bocc e anc' alle cart, per 'ste robb c’ho propi n'art e, se ancora en v' I'ho dett, scriv anca i vers in dialett. So 'n tennista d' profesion, so per totti 'n' amicon, per gì 'n gir so' sempre pront, mo se '1 Prof m'interroga ... so mort! Eros Serafini Ecc’ me machè: eccomi qui. Vlessa savè: volesse sapere. El studi enn è: lo studio non è. Quel ch’ me piec ma me…: quello che piace a me… Per totti: per tutti. Per gì ‘n gir: per andare in giro. 130 … de strada n’ha fata mbel po’ Cu la testa sbiancata cume la bufa de l’onda se fa sentì c’un rifulu de vento. T’envuricchia cum el destì che ntel ieri ce vede el dumà de l’ogi che sta a gambià. Giorgia Giordano 131 «Gira la trottola viva sotto la sferza, mercé la sferza; lasciata a sé giace priva, stretta alla terra, odiando la terra; … Sculture di F. Messina 132 «Il cerchio massimo è in alto se erige il capo, se regge il corpo; nell’aria tersa è in risalto se leva il corpo, se eleva il capo; … Vive la trottola e gira, la sferza Iddio, la sferza è il tempo: così la trottola aspira dentro l’amore, verso l’eterno» C. Rebora 133 134 INDICE Definizione di poesia pag. 6 POETI IN ITALIANO pag. 19 Segnalazioni pag. 54 POETI IN DIALETTO pag. 59 Segnalazioni pag. 94 LA CITTÀ NEI POETI pag. 99 “Da ma quasò” pag. 100 (Fabio Maria Serpilli) (Germana Duca Ruggeri) “Cità de le parole” pag. 104 (Fabio Maria Serpilli) “Carolo Bo: Urbino la città dell’anima” pag. 109 (Gastone Mosci) “InediCittà” pag. 112 (Davide Rondoni) “Ju core de la gente” pag. 117 (Mario Narducci) STUDENTI (classifica Sc. primaria) pag. 122 STUDENTI (classifica Sc. secondaria) pag. 126 135 Finito di stampare nel mese di Maggio 2007 dalla Tipografia-Litografia Tarabelli Chiaravalle (Ancona) Impaginazione Renzo Canafoglia Di questa edizione sono state stampate n. 700 copie 136