Cassazione civile, sez. I, 4 maggio 2009, n. 10218 LA CORTE

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Cassazione civile, sez. I, 4 maggio 2009, n. 10218 LA CORTE
Cassazione civile, sez. I, 4 maggio 2009, n. 10218
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CARNEVALE Corrado - Presidente
Dott. CECCHERINI Aldo - Consigliere
Dott. RAGONESI Vittorio - rel. Consigliere
Dott. DIDONE Antonio - Consigliere
Dott. SALVATO Luigi - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 3931/2005 proposto da:
CA. S.P.A. (P.I. (OMESSO)), gia' CA. S.a.s., in persona del legale rappresentante pro
tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA TEODOSIO MACROBIO 3, presso
l'avvocato NICCOLINI GIUSEPPE, rappresentata e difesa dagli avvocati PARINI ERMINIO,
MUGNOZ ALESSANDRA, giusta procura a margine del ricorso; - ricorrente contro
GI. GR. S.P.A. (P.I. (OMESSO)), gia' PE. CA. S.P.A., in persona del legale rappresentante
pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PANAMA 12, presso l'avvocato
PERSICHELLI CESARE, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati TESTA
PAOLINA, FUSI MAURIZIO, giusta procura a margine del controricorso; -controricorrenteavverso la sentenza n. 609/2004 della CORTE D'APPELLO di BOLOGNA, depositata il
13/04/2004;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13/03/2009 dal Consigliere
Dott. VITTORIO RAGONESI;
udito, per la ricorrente, l'Avvocato A. MUGNOZ che ha chiesto l'accoglimento del ricorso;
udito, per la controricorrente, l'Avvocato C. PERSICHELLI che ha chiesto il rigetto del
ricorso in subordine, in via principale l'inammissibilita';
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udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ABBRITTI Pietro, che ha
concluso per il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato il 10-10-1986, la Ca. s.a.s. di Ca. Eu. e. C. conveniva in
giudizio avanti al Tribunale di Reggio Emilia la Pe. Ca. s.p.a. chiedendo dichiararsi la nullita'
del brevetto per marchio d'impresa " Pe. Ca. " depositato dalla convenuta presso l'ufficio
Centrale Brevetti in data 6-7-1982 e concesso in data 28-1-1985 con il n. (OMESSO) in
quanto lesivo dei diritti spettanti ad essa attrice in base ai marchi contenenti il nome " Ca. " di
cui era titolare e protetti rispettivamente dai brevetti n. (OMESSO) (depositato il 25-10-1967
e concesso il 9-1-1968), n. (OMESSO) (depositato il 9-12-1969 e concesso il 9-12-1971) e n.
(OMESSO) (depositato il 15-6-1982 e concesso il 31-8-1982).
Chiedeva, altresi', dichiararsi che l'utilizzazione del marchio "Pellicce Canali" costituiva
contraffazione del propri marchi registrati nonche' atto di concorrenza sleale e violazione dei
diritti riguardanti la propria ragione sociale e, conseguentemente, inibirsi alla convenuta l'uso
del predetto marchio con condanna al risarcimento dei danni da liquidarsi in separato
giudizio.
Assumeva, invero, la societa' attrice di essere, dal 1936, un'industria leader nel settore delle
confezioni ove aveva costantemente operato sotto una ditta che, pur avendo subito nel tempo
alcune variazioni, aveva sempre contenuto il patronimico " Ca. " ed esponeva di essere venuta
a conoscenza, nel 1982, dell'esistenza, sul mercato, di una ditta concorrente che operava sotto
la denominazione di " Pe. Ca. s.r.l.".
Nei confronti di quest'ultima, pertanto, con citazione, notificata il 26-1-1982, aveva gia'
instaurato davanti al Tribunale di Milano una causa, avente ad oggetto l'accertamento, con
ogni pronuncia conseguente, che l'uso, da parte della ditta concorrente, del marchio
contenente il nome " Ca. " costituiva violazione dei diritti esclusivi spettanti ad essa attrice in
base al precedente uso, di fatto, del marchio "Canali" nonche' atto di concorrenza sleale.
Successivamente all'instaurazione di detta causa, e precisamente in data 6-7-1982, la
controparte aveva depositato presso l'Ufficio Centrale Brevetti il marchio "Pellicce Canali"
conseguendo la relativa concessione in data 28-1-1985 con il n. (OMESSO) talche' era
divenuto interesse di essa esponente ottenere,anche con riferimento rispettivi marchi registrati
l'accertamento delle violazioni, gia' lamentate avanti al Tribunale i Milano con riferimento ai
marchi di fatto usati dalle due parti.
L'atto di citazione veniva altresi', in data 3-10-1986, notificato da Ca. , ai sensi del Regio
Decreto n. 929 del 1942, articolo 60, all'Ufficio Centrale Brevetti.
La Pe. Ca. s.p.a. si costituiva in giudizio eccependo, preliminarmente, l'esistenza di un
rapporto di litispendenza o, quanto meno, di continenza tra la causa cosi instaurata e quella
pendente tra le stesse parti davanti al Tribunale di Milano e, rilevando, comunque, l'assoluta
pregiudizialita' di quest'ultima.
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Nel merito contestava, poi, la fondatezza delle pretese ex adverso avanzate sostenendo che,
come risultava anche dal tenore letterale dei rispettivi brevetti per marchio d'impresa e, in
particolare, dall'oggetto delle relative dichiarazioni, di protezione, le due societa' operavano
rispettivamente, l'una, nel campo delle confezioni in stoffa per uomo e, l'altra, nel campo della
pellicceria e, quindi, in due settori merceologici che, pur rientrando nel piu' vasto genere
dell'abbigliamento, presentavano, quanto alla clientela ed alle modalita' di realizzazione e
commercializzazione dei rispettivi prodotti, differenze tali da escludere che dal
contemporaneo uso dei rispettivi marchi potessero derivare conseguenze pregiudizievoli.
Nella causa interveniva il P.M..
Con ordinanza in data 15-4-1989, il Tribunale di Reggio Emilia, ravvisando un rapporto di
continenza tra i due giudizi, disponeva, ai sensi dell'articolo 295 c.p.c., la sospensione del
processo in attesa della definizione della causa pendente avanti al Tribunale di Milano.
Il giudizio veniva quindi riassunto da Ca. con ricorso depositato il 19-11-1993 e, quindi, dopo
vari rinvii, deciso dal Tribunale con sentenza in data 11-1-2001 contenente il rigetto delle
domande attrici e la condanna dell'attrice a rifondere alla controparte le spese di lite.
A tale decisione il Giudice di prime grado perveniva rilevando che, pur riguardando la
presente causa la lamentata contraffazione dei marchi registrati di Ca. ad opera del marchio
successivamente registrato da Pe. Ca. mentre, invece, il giudizio precedentemente instaurato
dalla stessa Ca. avanti al Tribunale di Milano e definito con sentenza della Corte d'Appello di
Milano n. 1222/1992, concerne va le lamentate interferenze tra i due marchi di fatto usati
dalle parti, le due decisioni presupponevano, entrambe, la soluzione di una identica questione
e,cioe', l'accertamento dell'effettiva confondibilita' tra i rispettivi marchi ed i prodotti dagli
stessi contraddistinti talche' il giudicato negativo formatosi al riguardo tra le parti nell'ambito
del giudizio concluso dalla Corte milanese doveva ritenersi preclusivo anche dell'
accoglimento della domande successivamente avanzate da Ca. in questa causa.
Avverso tale sentenza Ca. s.p.a. (cosi divenuta, gia' nel corso del giudizio di prime grado, la
Ca. s.a.s. di Ca. dr. Eu. e. C. ) interponeva appello davanti alla Corte felsinea censurando la
decisione impugnata per non avere il Tribunale considerate la diversita' dei criteri che
presiedono alla tutela, rispettivamente, dei marchi di fatto e di quelli registrati, con
conseguente irrilevanza, nella presente causa, dell' accertamento negativo sulla confondibilita'
dei prodotti operato dalla Corte milanese e per avere, altresi', il primo Giudice omesso di
pronunciare in ordine alla lamentata violazione del diritti spettanti ad essa appellante in ordine
alla propria ragione sociale.
Pertanto richiedeva, in totale riforma della sentenza impugnata, l'accoglimento delle domande
gia' avanzate in prime grado.
La Gi. Gr. s.p.a. con sede in (OMESSO) (cosi divenuta la precedente Pe. Ca. s.p.a.) si
costituiva in giudizio, resistendo al gravame di controparte e proponendo, a sua volta, appello
incidentale avverso la stessa sentenza per non avere il Tribunale considerato che, come aveva
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rilevato la Corte milanese, per effetto della sentenza del Tribunale di Milano, non impugnata
sul punto, si era formato il giudicato anche in ordine all'inesistenza della pretesa
contraffazione del marchio registrato di Ca. s.a.s. poi divenuta Ca. s.p.a..
La Corte d'appello di Bologna, con sentenza del 13.4.04, respingeva sia l'appello principale
che quello incidentale sia pure con motivazione in parte diversa rispetto a quella del giudice
di primo grado, avendo escluso l'applicabilita' del giudicato formatosi tra le parti per effetto
della sentenza del tribunale di Milano perche' la confondibilita' tra i marchi va valutata non in
riferimento ai prodotti commercializzati ma a quelli inclusi nella dichiarazione di protezione.
Avverso tale sentenza ricorre per cassazione la Ca. spa sulla base di cinque motivi, illustrati
con memoria,cui resiste con controricorso la Gi. Gr. spa.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso la societa' ricorrente assume che erroneamente la sentenza
impugnata ha effettuato il giudizio sulla confondibilita' in riferimento ai prodotti
effettivamente commercializzati invece che ai prodotti indicati nella dichiarazione di
protezione alla base della domanda di rilascio del brevetto.
Con il secondo motivo contesta la sentenza impugnata laddove ha ritenuto che,nel caso di
specie,essa ricorrente avesse rinunciato per non uso al proprio marchio in relazione ai prodotti
dell'abbigliamento femminile.
Con il terzo motivo lamenta che la Corte d'appello abbia ritenuto che tra i prodotti di
abbigliamento tessile e i prodotti di pellicceria non vi fosse affinita'.
Con il quarto motivo di duole del mancato riconoscimento del carattere notorio del marchio
Canali.
Con il quinto motivo lamenta la mancanza di pronuncia o quanto meno una insufficiente
motivazione in riferimento alla dedotta violazione della ragione sociale.
I primi tre motivi di ricorso possono essere esaminati congiuntamente proponendo essi delle
questioni tra loro strettamente connesse.
La Corte d'appello,dopo avere escluso l'applicabilita' al presente giudizio del giudicato
formatosi in virtu' della sentenza del tribunale di Milano in ordine alla non confondibilita' dei
marchi di fatto usati dalle due parti in causa, e, dopo avere accertato la somiglianza esistente
tra il marchio "Pellicceria Canali" registrato dalla attuale resistente,e relativo a prodotti inclusi
nelle classi 18 e 25 (riguardanti, come specificato nella dichiarazione di protezione, "pellicce
e pelli di animali grezze o preparate, conciate e trattate; articoli di pellicceria e pelletteria
semilavorati, lavorati, semiconfezionati e confezionati, valige in pelliccia"), e quelli " Ca. ", "
Fr. Ca. , In. co. " e " Ca. Mi. " registrati dalla attuale ricorrente, riguardanti capi di
abbigliamento in tessuto, ha escluso che tra gli stessi esistesse rischio di confusione in base
alla considerazione che si riferivano a prodotti non affini.
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In particolare, la Corte d'appello ha osservato che l'attuale ricorrente aveva limitato la propria
produzione fin dal 1969 ai soli capi di abbigliamento maschile, onde doveva ritenersi che la
stessa aveva di conseguenza rinunciato alla protezione dei propri marchi in riferimento
all'abbigliamento femminile, in tal senso necessariamente limitando, sia pure in via implicita,
i prodotti inclusi nella dichiarazione di protezione.
La Corte milanese ha, poi, rilevato che tra le confezioni di abbigliamento tessile destinate al
sesso maschile e le pellicce destinate al pubblico femminile, a parte la differenza esistente tra
le rispettive organizzazioni produttive e distributive, esiste, nell'opinione del consumatori, una
sostanziale differenza che impedisce di considerare i prodotti in questione come affini.
Tale differenza a maggior ragione deve ritenersi sussistente per i prodotti di pelletteria inclusi
nella classe 18.
Tale motivazione resiste alle censure mosse dalla societa' ricorrente.
Occorre premettere che, secondo il costante orientamento giurisprudenziale di questa Corte,
l'apprezzamento sulla confondibilita' va compiuto dal giudice di merito accertando, non
soltanto l'identita' o almeno la confondibilita' dei due segni, ma anche l'identita' e la
confondibilita' tra i prodotti, sulla base quanto meno della loro affinita'. Tali giudizi,infatti,
non possono essere considerati tra loro indipendenti, ma sono entrambi strumenti che
consentono di accertare la cosiddetta "confondibilita' tra imprese", (da ultimo v Cass.
24909/08).
Ben puo', pertanto, escludersi la contraffazione di un marchio nel caso in cui il marchio ad
esso simile (come accertato di specie) si riferisca a prodotti non affini.
Fatta questa premessa, occorre ribadire il principio ripetutamente affermato da questa Corte
secondo cui "si intendono ... affini quei prodotti che per la loro natura, la loro destinazione
alla medesima clientela o alla soddisfazione del medesimo bisogno, risultano in misura
rilevante fungibili e pertanto in concorrenza, cosicche' la mancanza della distinzione precisa
tra i segni che li identificano nel mercato comporta, per l'appunto, il rischio della confusione
e, dunque, dell'illecita aggressione all'altrui avviamento ed all'altrui clientela. E' conseguente
che tale affinita' pertanto debba implicare la comunanza di una qualita' ontologica dei prodotti
in questione e non tanto la mera appartenenza dei medesimi ad un ambito, di origine culturale
o di costume". (Cass. 23787/04 ;Cass. 4295 del 1997; 1424 del 2000; 6244 dei 1983).
E' appena il caso di aggiungere che - come correttamente osservato dalla sentenza impugnata l'inclusione di due prodotti nella stessa classe non e' idonea a provarne l'affinita', cosi' come,
al contrario, non puo' l'affinita' essere esclusa per il fatto che due prodotti siano indicati in
classi diverse. (Cass. 442/72, Cass. 4104/74, Cass. 1808/60). La tabella C infatti, annessa alla
legge sui marchi approvata con Regio Decreto 21 giugno 1942, n. 929, e sostituita con la
tabella di cui alla Legge 10 aprile 1954, n. 129, ha preminente finalita' fiscale, per cui, si deve
escludere per altri aspetti il suo carattere tassativo.
La sentenza impugnata si e' correttamente attenuta a tali principi.
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Anzitutto, come gia' esposto, la stessa ha ritenuto che la societa' ricorrente aveva
implicitamente rinunciato alla protezione dei propri marchi per i prodotti dell'abbigliamento
femminile.
Tale affermazione risulta conforme all'orientamento piu' volte espresso da questa Corte
secondo cui la rinuncia ad un diritto, quale manifestazione di autonomia negoziale privata,
puo' presentarsi come tacita, ove emergente da comportamenti che evidenzino senza margine
di dubbio l'effettiva volonta' abdicativa, non anche come presunta. (Cass. 5871/79, Cass.
3938/74, Cass. 5131/85).
In particolare, la rinuncia puo' desumersi dal prolungato non uso del marchio per molti anni
da parte del suo titolare (nonche' dalla tolleranza consapevole dello stesso titolare che altri
produttori usassero il suo marchio). (Cass. 3953/79).
E' quanto correttamente ritenuto dalla Corte d'appello che ha rilevato come la circostanza che
la societa' ricorrente non avesse piu' prodotto dal 1969 capi di abbigliamento femminile
lasciava presumere la rinuncia al marchio per detti prodotti.
Tale valutazione diretta a stabilire se sussistono in concreto circostanze idonee a far ritenere
verificato il tacito abbandono, puo' essere, in primo luogo, effettuata d'ufficio trattandosi di un
giudizio che riguarda l'accertamento in concreto della sussistenza del diritto fatto valere e, in
secondo luogo - involgendo l'accertamento e la valutazione di elementi di fatto ed essendo
quindi riservata ai giudici del merito - e' incensurabile in sede di legittimita' se adeguatamente
e correttamente motivata, come avvenuto nel caso di specie. (Cass. 3953/79).
A tale proposito deve rilevarsi come del tutto irrilevanti siano le argomentazioni contenute nel
ricorso, ove ci si lamenta del fatto che la Corte d'appello abbia emesso sul punto una
pronuncia di decadenza senza che vi fosse domanda da parte della parte interessata, in quanto
la sentenza chiaramente afferma che, nel caso di specie,si trattava di una rinuncia parziale al
proprio diritto e non di una decadenza essendo stata questa, tra l'altro, tardivamente invocata
dalla attuale resistente.
Altrettanto corretto, ancorche' sintetico, e' il passaggio successivo della motivazione della
Corte d'appello, laddove ha rilevato che, nell'opinione dei consumatori, le confezioni di
abbigliamento tessile per uomo e i prodotti di pellicceria prevalentemente destinata ad una
clientela femminile non sono dei prodotti affini.
Anche a prescindere,infatti, dalla distinzione di sesso dei destinatari dei prodotti in esame,
corrisponde ad un dato di esperienza comune che,ancorche' anche i capi di pellicceria e di
pelletteria rientrino in generale nei capi di abbigliamento, gli stessi non sono destinati alla
medesima clientela ed a rispondere ai medesimi bisogni cui sono destinati i capi di
abbigliamento in tessuto. I capi di pellicceria, destinati ad un pubblico prevalentemente
femminile, rispondono infatti alla esigenza di ripararsi da un freddo particolarmente pungente
nel periodo invernale e, in alcuni casi, rispondono a particolari esigenze di eleganza di una
certa categoria di consumatori. Gli stessi sono, in altri termini, capi di abbigliamento che
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tendono a soddisfare esigenze particolari e che non entrano quindi in concorrenza con i
normali capi di abbigliamento.
Altrettanto deve dirsi per i prodotti di pelletteria e, in particolare, per quelli, quali borse valige
e quant'altro, che non costituiscono capi di vestiario in senso stretto.
Vale a questo proposito la pena di rammentare l'esempio gia' fatto da questa Corte,
riprendendo una citazione dottrinaria, e che cioe' "la destinazione alla medesima esigenza
alimentare non rende affini i fagioli e le patate, restando essi prodotti diversi, in quanto
destinati a soddisfare specifiche e non generiche esigenze alimentari, quali pervengono al
consumatore attraverso filiere di mercato che ne escludono anch'esse la reciproca
concorrenza" (Cass. 23787/04 v. altresi' Cass. 4295/97 in ordine alla non affinita' tra formaggi
e salumi).
Sotto tale ultimo profilo la correttezza della valutazione della Corte d'appello risulta
adeguatamente rafforzata dalla constatazione che, di regola, i prodotti di pellicceria rientrano
in circuiti commerciali del tutto distinti sia sotto il profilo della produzione che sotto quello
della distribuzione, onde non possono essere posti in concorrenza con i normali capi di
abbigliamento.
La adeguata motivazione fornita dalla Corte d'appello la rende non suscettibile di censura in
questa sede di legittimita', onde devono ritenersi inammissibili quelle censure, contenute nei
motivi in esame (utilizzo delle pellicce anche nei capi di abbigliamento tessile, esistenza di
capi di abbigliamento in pelle e stoffa etc.), che ne contestano il fondamento tendendo a
prospettare una diversa valutazione rispetto a quella posta a base della decisione (Cass.
2578/95; Cass. 9720/92 Cass. 4107/74, Cass. 442/72; Cass. 3029/69, Cass. 659/78).
Il quarto motivo e' inammissibile.
La Corte d'appello ha invero fondato la propria pronuncia su una duplice ratio decidendi: la
prima costituita dalla constatazione che nessuna domanda del riconoscimento del carattere
notorio o celebre del marchio era stata avanzata nel giudizio di primo grado e la seconda dal
fatto, anche a volere ritenere che detta domanda fosse stata effettivamente proposta sulla base
dell'affermazione contenuta in citazione secondo cui "il nome Canali ha oggi raggiunto una
indiscutibile celebrita'", il mancato esame di detta domanda da parte del giudice di primo
grado non aveva costituito motivo di appello.
La societa' ricorrente censura la prima ratio decidendi assumendo che l'accertamento della
notorieta' del marchio non necessitava di apposita domanda e che, comunque, non erano
necessarie indagini ulteriori rispetto a quelle gia' espletate in causa.
Quanto invece alla seconda ratio decidendi, la ricorrente si limita ad affermare che aveva con
l'appello integralmente riproposto le proprie domande di merito ivi compreso il motivo
inerente la celebrita' del marchio.
Tale affermazione risulta del tutto generica e priva di specificita'.
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La ricorrente avrebbe,infatti,dovuto espressamente specificare, in virtu' del principio di
autosufficienza del ricorso,il contenuto del proprio motivo di appello sul punto riportandone il
contenuto al fine di consentire a questa Corte, cui e' inibita la presa in esame degli atti
processuali della fase di merito,di valutare l'erroneita' o meno della valutazione della Corte
d'appello in ordine al mancato proponimento di un motivo di appello sul punto.
Da tutto cio' discende che non potendosi ritenere proponibile la censura relativa alla
esaminata seconda ratio decidendi della sentenza, che e' in grado di costituire di per se'
adeguato fondamento alla decisione di ritenere non esaminabile la questione della notorieta'
del marchio, la censura svolta avverso la prima ratio decidendi deve ritenersi non sostenuta da
alcun interesse per la parte perche', anche nella ipotesi in cui la stessa dovesse ritenersi
fondata, non potrebbe comunque dar luogo all'accoglimento del motivo.
Il quinto motivo e' manifestamente infondato.
Per quanto concerne la censura di omessa motivazione, e' sufficiente osservare che nella
sentenza impugnata (pg. 26) si rinviene specifico esame del motivo di appello inerente la
ragione sociale,ove se ne rileva l'infondatezza in ragione del fatto che l'esclusione di ogni
possibilita' di confusione tra di due segni distintivi costituiti dai marchi necessariamente
faceva escludere anche la possibilita' di confusione tra il marchio "Pellicceria Canali" e la
ragione sociale " Ca. ".
Per quanto concerne,invece, l'insufficienza della motivazione,va rilevato che quest'ultima
appare del tutto adeguata e corretta,sia in punto di fatto che sotto il profilo giuridico, alla luce
della costante giurisprudenza di questa Corte secondo cui il divieto di usare nel marchio
l'altrui ditta o ragione sociale, posto dal Regio Decreto 21 giugno 1942, n. 929, articolo 14,
non e' assoluto, ma e' sempre condizionato alla possibilita' di confusione dei prodotti. (Cass.
659/78, Cass. 1178/76, Cass. 814/75, 9230/93; Cass. 241/84).
Il ricorso va pertanto respinto.
Il ricorrente va di conseguenza condannato al pagamento delle spese processuali liquidate
come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio liquidate in
euro 6.000,00 per onorari oltre euro 200,00 per esborsi oltre spese generali e accessori di
legge.
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