leggi un estratto

Transcript

leggi un estratto
6
iL
LAURANA EDITORE
direzione editoriale:
Calogero Garlisi
redazione e comunicazione:
Gabriele Dadati
grafica e interni:
Daniele Ceccherini
utili consigli:
Giulio Mozzi
Collana Decibel
realizzazione grafica e editoriale:
Dario Rossi
Laurana Editore è un marchio Novecento media s.r.l.
Copyright © 2014 Novecento media s.r.l.
via Carlo Tenca, 7 – 20124 Milano
www.laurana.it – [email protected]
ISBN 978-88-98451-04-3
cristina
d’avena
50 anni di sogni
a cura di
gabriele dadati
iL
LAURANA EDITORE

ci venite alla festa?
introduzione
Cristina D’Avena compie cinquant’anni e, tutto sommato, nessuno di noi è disposto a crederci. Ne aveva
tre e mezzo quando allo Zecchino d’oro cantava Il valzer del moscerino, poi è stata arruolata per qualche
tempo nel Piccolo Coro dell’Antoniano e dopo esserne
uscita, alle soglie dell’adolescenza, s’è infilata dritta
nella porta striminzita di un successo tutto suo che
in seguito non ha mai abbandonato. Come ha fatto?
Be’, forse il segreto è questo: ha traslocato armi e bagagli dentro una dimensione senza tempo, quella del
cartone animato. Prestando la sua voce a un numero
impressionante di sigle per i più piccoli, a poco a poco
s’è lasciata contagiare e per osmosi l’eterna giovinezza
garantita alle creazioni fantastiche l’ha permeata.
Col risultato di garantirle quella voce sempre fresca,
quello sguardo guizzante, quella fisionomia elastica.
All’apparenza, per sempre. Salvo poi arrivare ai cinquant’anni a cui, in un modo o nell’altro, contro ogni
evidenza, dovremo rassegnarci a credere.
E allora, se vogliamo credere del tutto a questo
traguardo, tanto vale la pena di attrezzarsi per i fe-
steggiamenti. Festeggiamenti ai quali siete invitati
tutti. Presumibilmente si mangeranno caramelle
gommose e merendine, si berrà te freddo e coca
cola. Gli ospiti d’onore si chiameranno Gargamella
e Licia, Creamy e Pollyanna, Mila e Shiro, D’Artagnan, Conte Dacula, Alvin rock’n’roll, Papà Gambalunga, Peter Pan, Sailor Moon, Magica Emy, David
Gnomo, Doremì e altri come questi, che riemergeranno dall’incavo della memoria, dove non sono
davvero mai sprofondati del tutto. Ci saranno festoni alle pareti (sempre ammesso che si scopra cosa
vuol dire, questa strana parola italiana che non sembra corrispondere più a niente), piatti e bicchieri di
plastica bianca sui tavoli, pennarelli per scriverci su
i nomi, tovagliolini di carta. Non è escluso che sul
pavimento si radunino montagnole di coriandoli
sporchi, un po’ sotto i tavoli un po’ tra i nostri piedi.
E in mezzo a tutto questo, a legare motivare armonizzare tutto questo, la voce di Cristina D’Avena che,
una sigla dopo l’altra, passa in rassegna le schiere dei
nostri sogni di bambini, pur a rischio di interrompersi da un momento all’altro: alla festa dei suoi cinquant’anni infatti useremo solo musicassette e si sa,
a volte saltano, i nastri incisi vengono risucchiati e
poi sparacchiati malamente tutt’attorno.
A lavorare per questa festa ci hanno pensato le scrittrici che troverete tra le pagine seguenti. Ognuna di
loro ha fatto il suo omaggio a Cristina D’Avena, tra
commozione e ironia, rimettendo in sella la propria
parte bambina ma poi prendendola anche in giro.
Sono – in rigoroso, rispettoso ordine alfabetico –
Pao­la Cerri, Irene Chias, Chiara Ferrari, Lucia Tilde
6
Ingrosso, Paola Jacobbi, Sara Loffredi, Silvia Messa,
Silvia Montemurro, Marianna Natale, Sarah Spinazzola, Barbara Tagliaferri e Irene Vella.
Quindi, se vi va…
Gabriele Dadati
p.s. Un grazie a Marco Drago, che ha dato una bella
mano ad allestire la festa.
7
cristina d’avena
50 anni di sogni

Sposerò Cristina D’Avena
paola cerri
“Dovete fare pensieri dolci e meravigliosi”, spiegò
loro Peter, “saranno loro a sollevarvi in aria”.
J. M. Barrie, Peter Pan
Ha smesso di piovere: peccato. Vorrà dire che anche
oggi il prof di ginnastica, in vista dei prossimi giochi
della gioventù, ci accompagnerà a correre sul terrapieno alberato intorno ai bastioni. Dobbiamo allenarci per la campestre, dice. E giù a parlare di resistenza, velocità, durata. Mi vedo già arrancare nella
nebbiolina fitta che avvolge la città, con la felpa e i
calzoncini corti, mentre l’umidità filtra dappertutto
e il fango gelido delle pozzanghere mi schizza i polpacci nudi. Le nuvolette di fiato sono più dense della
nebbia e non riesco a distinguere se è il sudore a colarmi sugli occhi oppure l’acqua che gocciola dalle foglie degli alberi.
Le ragazze ridacchiano, cercano di perdere terreno
per fermarsi a sedere sulle panchine del viale, ma il
prof, che corre davanti a noi per coordinare il fartlek,
fa finta di non vederle e scrolla la testa.
“Sono soltanto donne”, mugugna.
Tiene la schiena dritta, la testa alta, le braccia piegate con i gomiti che sfiorano le costole, i pugni chiusi.
Grida i comandi per farci passare dall’andatura lenta e
costante al passo accelerato.
“Alzate quelle ginocchia!”
Nel tono mi ricorda il sergente istruttore dei marines di un vecchio film di guerra che guardavano i miei
l’altra sera. Mi aspetto che da un momento all’altro
urli “Muoviti, Palla di Lardo” al povero Rossetti, che è
soltanto un po’ sovrappeso e ha rallentato la corsa per
soffiarsi il naso.
Il peggio arriva quando si rientra in classe, con il
fiato corto e le mani talmente intirizzite per il freddo
da non riuscire ad aprire la cerniera dell’astuccio. Di
solito mi metto d’impegno a prendere appunti sul
quaderno, ma la Castellani quando spiega un nuovo
capitolo di Storia apre parentesi su parentesi e in genere si dimentica di chiuderle. Così perdo il filo e rimango con la penna a mezz’aria, decidendo che tanto
poi ricopierò gli appunti della Marzioli, la mia compagna di banco, che non solleva mai la testa dalla pagina e scrive fitto.
Non avrei voluto alzarmi questa mattina, anzi, non
avrei proprio voluto svegliarmi. Neanche per andare
in bagno a fare la pipì o per mangiare latte al cioccolato e cereali.
Adesso invece sto camminando veloce sul marciapiede viscido, piegato un po’ in avanti per bilanciare
12
il peso dello zaino. Guardo l’asfalto bagnato, i palazzi
con i muri sbiaditi, gli alberi senza foglie e mi sembra
che tutto abbia le stesse sfumature grigie del cielo.
Eppure io mi sento ancora imbozzolato in una sensazione piacevole che, se ci penso, mi fa venire voglia
di canticchiare.
Se potessi chiudere gli occhi avrei l’impressione di
essere ancora dentro al mio sogno a colori.
Luca mi aspetta già alla fermata. Mastica il chewinggum e tiene le mani sprofondate nelle tasche dei pantaloni della tuta, spingendo verso il basso la cintura e
portando così la cucitura del cavallo quasi all’altezza
delle ginocchia. In testa ha il solito berretto da gnomo
di lana sintetica. Le goccioline di pioggia trasparenti
che ci sono cadute sopra adesso luccicano sospese e
non vengono assorbite dal tessuto. Da sotto il bordo
spuntano i fili degli auricolari che vanno a sparire nel
taschino del giaccone, dove tiene nascosto il lettore
mp3. Ci salutiamo con un cenno mentre arriva l’autobus e saliamo, passiamo la tessera dell’abbonamento
nella macchinetta che la risputa con un sibilo e restiamo in piedi, con la schiena appoggiata alla parete
posteriore per non cadere.
Dopo un centinaio di metri l’autobus è di nuovo
fermo in coda al primo semaforo.
Mi decido ad attaccare discorso: “Non immagini
che sogno strano ho fatto questa notte”.
In realtà Luca non sembra molto interessato, però
mi guarda e si sfila un auricolare. Almeno è disposto
ad ascoltarmi.
13
“C’erano prati tagliati da un lungo fiume azzurro,
erano lisci come il velluto. E sembrava che qualcuno
ci avesse dipinto sopra dei fiori usando i colori primari, tanto erano sgargianti il giallo, il rosso, il blu.
Mi lasciavo trasportare sull’acqua dentro a una barchetta a forma di foglia e osservavo gli scoiattoli che
correvano sull’erba con ghiande più grosse di loro tra
le zampe. Le farfalle avevano ali grandi come quelle
degli uccelli, le nuvole sembravano pecorelle di lana
appese sullo sfondo del cielo”.
Luca adesso mi osserva con una certa curiosità,
tant’è che toglie dall’orecchio anche l’altro auricolare.
“Ero dentro a un cartone animato, capisci?”
Luca sbuffa, alzando gli occhi al cielo.
“Ale, scusa, ma cosa ti sei fumato ieri sera prima di
andare a letto?”
La signora con i capelli grigi di fianco a noi si aggrappa con una mano alla sbarra di metallo e con l’altra cerca di tenere in equilibrio la borsa piena d’arance
che ha appoggiato davanti ai piedi. Ci guarda aggrottando la fronte e stringendo le labbra disegnate con il
rossetto rosa.
Senza farci caso vado avanti: a qualcuno questa storia devo pure raccontarla.
“La foglia scivolava senza pilota sul fiume, ma non
ero preoccupato, preso com’ero ad ascoltare i pettirossi appollaiati sui rami e il ronzio delle api a strisce nere e gialle che volavano da un fiore all’altro. I
pesci argentati uscivano a salutare a pelo d’acqua. A
un certo punto mi è apparso davanti il villaggio: case
a forma di fungo con i tetti rossi a puntini bianchi,
i portoni di legno, gli abbaini, le imposte con i cuo14
ricini ritagliati, le staccionate dipinte di bianco e gli
orti pieni di zucche dorate e di pomodori grossi come
cocomeri. La barchetta ha rallentato e mi ha lasciato
sulla riva. E finalmente sono arrivati loro”.
“Loro chi?” Luca comincia ad agitarsi sulle gambe.
“I Puffi, no?”
“Vuoi dire gli omini azzurri con il berretto bianco
che parlano in modo strano?”
“C’erano Puffo Vanitoso, con il fiore sul cappello,
Puffetta dalle trecce bionde, Puffo Goloso col copricapo da cuoco, Puffo Inventore con la matita sull’orecchio, Puffo Quattrocchi e Puffo Tontolone, il mio
preferito. Davanti a tutti camminava il Grande Puffo,
vestito rosso e barba bianca”.
“Hanno capito subito che eri un intruso e ti hanno
cacciato via”.
“Macché! Anzi, mi hanno detto: ‘Vieni a puffare con
noi’”.
“A fare cosa?”
“Nel giardino del Grande Puffo c’era una festa con
la tavola imbandita e montagne di cibo. Così mi sono
seduto e ho puffato in compagnia degli altri. C’erano
festoni appesi e palloncini colorati e un grande palco
dove Puffo Musicista suonava la pianola accompagnato dall’orchestrina. Una musica allegra, una specie
di marcetta. Mentre mi abbuffavo di bignè mi sembrava tutto vero: sentivo sulla lingua il sapore della
crema al pistacchio”.
Un ingorgo sulla strada principale che conduce in
centro ci fa procedere lentamente attraverso il traffico
della città.
15
Luca guarda fuori dal vetro, sbadiglia. Poi si volta di
nuovo verso di me.
“Tutto qui?”
“A un certo punto una voce che gracchiava attraverso il megafono ha annunciato: ‘Signore e signori,
adesso pufferà per noi la Regina della festa! La puffiamo per avere reso indimenticabili le nostre storie’”.
“Non capisco”.
“È arrivata lei, è salita sul palco e ha iniziato a cantare”.
“Lady Gaga!”
“Ma no, scemo. Una ragazza bellissima: piccolina,
con il viso liscio e l’espressione dolce da bambina, gli
occhi grandi, il naso proporzionato. E il sorriso che
vorresti incontrare tutti i giorni, appena sveglio, e che
ti fa pensare che sarà una bella giornata”.
“Non ti sarai mica innamorato di un cartone animato?”
“Era una ragazza in carne e ossa. Praticamente perfetta e con un’aria familiare. Cantava ‘Puffa un po’
d’arcobaleno / con un pezzetto di sereno / per regalarlo a chi si sente un po’ giù’. La sua voce mi metteva
allegria e mi faceva stare bene”.
“Così sei rimasto ad ascoltarla per tutto il tempo”.
“Sì, finché improvvisamente non è sbucato dal boschetto il perfido Gargamella con Birba, quel suo gatto
pestifero. E tutto è andato all’aria: la tavola apparecchiata, il palco, gli strumenti dei musicisti. Un fuggi
fuggi generale per non essere catturati. Poco dopo si è
sentito un gran fracasso, tipo quello che fa un carrarmato stritolando i sassi sulla strada. Era Puffo Inventore alla guida di un trattore col rimorchio con sopra
16
un cucchiaio gigante. In un attimo gli altri Puffi sono
sbucati fuori dai loro nascondigli e hanno iniziato a
caricare la catapulta con quello che capitava: piatti,
pentole, vassoi ancora pieni di budino. Sorpreso dalla
pioggia di oggetti che cadevano dall’alto, Gargamella
è scappato”.
“E la ragazza?”
“L’ho persa di vista. È suonata la sveglia e il sogno si
è sciolto in una pozzanghera di colori che sono spariti
appena ho aperto gli occhi”.
Scendiamo alla fermata a due passi dalla scuola, saliamo di corsa i gradini davanti all’ingresso ed entriamo.
Ci accoglie Teresa-dal-grembiule-verde, la regina
del corridoio: “Luca, Alessandro, sbrigatevi, che è già
suonata”.
Adesso che siamo in terza ci conosce tutti per nome
e non perde occasione per rimproverarci. Ma chi ci è
già passato assicura che a fine anno, alla consegna dei
diplomi, ci saluterà con le lacrime agli occhi e ci raccomanderà di non dimenticarla, quando saremo alle
superiori.
Prima di entrare in aula bisbiglio a Luca, che è dietro di me: “Non riesco a non pensare a lei, ma devo
farmi venire in mente dove l’ho già incontrata”.
Con la coda dell’occhio lo vedo che alza le spalle. Fa
sempre così, ma di solito si preoccupa per me e alla
fine cerca di aiutarmi.
Dopo quasi un’ora passata a rimuginare senza riuscire a concentrarmi sulla lezione di matematica, ri17
schiando grosso armeggio sotto il banco per inviare a
Luca, che è seduto nella fila di banchi dall’altra parte
dell’aula, un messaggio con WhatsApp.
“Ci sono”, cerco di digitare il più veloce possibile,
“adesso ricordo. Cantava le sigle dei cartoni. Non solo
dei Puffi, ma di molti altri, come Kiss me Licia, una
cosa da femmine. Non mi viene in mente però come
si chiama L”.
Luca legge il messaggio e inizia a scrivere, ma il mio
smartphone tace.
Passano cinque minuti e finalmente si accende il
simbolino verde della notifica.
“Ho chiesto a mia sorella”, ha scritto Luca, “e lei dice
che la cantante è Cristina D’Avena J”.
Dopo la campanella corriamo nell’atrio, dove ci
aspetta il prof di ginnastica.
Mi sento leggero perché adesso la ragazza del sogno
ha un nome.
Un suono che rotola sul palato, dolce come una caramella. Cristina.
Finito il pranzo i compiti possono aspettare. Accendo il computer e appena si apre la pagina iniziale
di Google scrivo nella barra di ricerca “Cristina D’Avena”: dopo dieci secondi sto navigando nel suo sito
ufficiale. Vado direttamente alla fotogallery e comincio a sfogliarla. Ci sono dei primi piani da urlo:
lei è veramente come l’ho sognata, forse anche meglio. I suoi capelli lunghi e castani sono folti e lucidi
e sembrano morbidissimi. In alcuni scatti ha l’abito
da sera e gli orecchini pendenti che assomigliano a
grappoli di pietre colorate. È la fata che per qualche
18
misteriosa magia ha preso sembianze umane o la
principessa della favola. In altri indossa i jeans e la
camicia come una ragazza normale e sta benissimo
comunque.
Dopo aver dato un’occhiata alla pagina della discografia passo tutto il tempo su YouTube a cercare i video delle sigle: la voce di Cristina mette in moto la
macchina dei ricordi con i colori e le musiche dei miei
cartoni animati preferiti. Con loro ho passato i momenti più belli durante le elementari, soprattutto al
pomeriggio, appena uscito da scuola. Arrivavo a casa
accompagnato dalla nonna e mi sedevo davanti alla
televisione. Le canzoni e le immagini, assieme al profumo della cioccolata densa e calda dove inzuppavo
i biscotti, stavano a significare che la mia giornata di
lavoro era conclusa.
C’è un ragazzo seduto alla scrivania, ma non sta studiando. Ha le braccia incrociate appoggiate sul ripiano, la testa abbandonata su un cuscino immaginario. La stanza ha il pavimento rivestito di piastrelle
verde chiaro, una libreria con i libri allineati e la finestra che si affaccia sui tetti da una specie di abbaino.
Dietro i vetri vedo le cime degli alberi con i contorni
stilizzati, una uguale all’altra sullo sfondo del cielo
pastello.
Ha tutto un aspetto irreale, come se fosse disegnato.
Ho la sensazione che quel ragazzino addormentato stia perdendo il suo tempo: forse qualcuno lo sta
aspettando ed è in ritardo all’appuntamento. Qualcosa mi spinge ad avvicinarmi alla sua schiena curva,
a scuoterlo per una spalla: “Svegliati!”
19
Lui prima sussulta, poi si stiracchia sbadigliando e si
volta lentamente verso di me. Non sembra per niente
spaventato. Solleva la testa rotonda e mi guarda strizzando i piccoli occhi scuri dietro a lenti tonde che
gli coprono buona parte del viso, sotto una frangetta
corta e compatta di capelli neri. Adesso lo riconosco,
è quel pigrone di Nobita Nobi, e d’impulso mi giro per
vedere se lì attorno c’è anche il gatto robot che lo accompagna sempre nelle sue avventure. Eccolo infatti
che esce dal cassetto della scrivania, il portale che attraversa per viaggiare tra presente e futuro: Doraemon, muso bianco e mantello azzurro, campanellino
appeso al collo e copter di bambù in testa.
Nobita urla e strepita, saltellando infuriato per la
stanza. Si è accorto che mancano solo pochi minuti
all’incontro fissato con la sua Shizouka di fronte al
chiosco dei gelati, e lui sta rischiando di fare una pessima figura.
Usciamo di casa correndo, Nobita e io, mentre Doraemon ci segue viaggiando a mezz’aria con l’elica che
gira a tutta velocità sul suo testone rotondo.
Nel vicolo però ci sbarrano la strada i tre bulli del
quartiere, quelli che di solito bersagliano Nobita con
i loro scherzi.
Lasciatelo in pace, no? Sarà pure pigro e svogliato,
ma è un bravo ragazzo. O forse è proprio questo fatto
che vi attira come mosche sulla gelatina di lamponi?
A questo punto interviene Doraemon, che atterra
sul marciapiede ed estrae dalla tasca quadridimensionale uno dei suoi ciuschi, i dispositivi super-tecnologici in grado di risolvere qualsiasi situazione che
arrivano direttamente dal futuro. Gli Omini-del-sol20
letico, un esercito di robot in miniatura, assaltano i
bulli e li stuzzicano dappertutto: sotto i piedi, sotto le
ascelle, dietro le orecchie. I tre ragazzi si buttano per
terra, rotolano di qua e di là nel tentativo di scacciarli
e ridono fino alle lacrime, finché rimangono senza
fiato. Siamo liberi di proseguire in direzione dei giardini pubblici.
Shizouka è un personcina dal carattere dolce e vuole
bene a Nobita: lo perdonerà per quei pochi istanti di
ritardo.
Ma la ragazza non è sola vicino al chiosco dove il
gelataio sta riempiendo i coni con creme di colore diverso.
C’è anche lei, Cristina, non posso sbagliare. Riconosco la sua voce che canta “Doraemon, Doraemon /
sei il gatto ideale / ma il tuo mini padrone / è un vero
pigrone”.
Metto a fuoco il suo viso: sta guardando proprio me
e mi sorride. Mi aspetto che da un momento all’altro
mi dica qualcosa.
La luce del sole penetra tra le foglie degli alberi e
riscalda l’asfalto.
Allora perché sento freddo?
La superficie dura e liscia sotto la mia guancia mi rivela che anch’io mi sono addormentato con la testa
sulla scrivania, proprio come il mio amico Nobita
Nobi.
Intorno a me è buio, anche dietro i vetri della finestra con le serrande ancora sollevate. L’unica cosa che
illumina debolmente la stanza è lo schermo del computer, in standby ormai da un paio d’ore.
21
Apro l’armadio e trovo il gattone bianco e azzurro che
mi ha regalato mia cugina Rossella per il mio quarto
compleanno: da quando ero piccolo è sempre stato il
mio eroe preferito, il mio Doraemon di peluche.
Tra meno di mezzora la mamma uscirà dall’ufficio e dopo circa dieci minuti arriverà a casa. La sentirò mentre apre il portone del garage e parcheggia,
quando fa scattare la serratura elettrica del cancello e
sale le scale. Si arrabbierà se non avrò finito i compiti:
è meglio che prenda il libro di sintassi e ripassi le subordinate, altrimenti come la metterò con gli esercizi
di analisi del periodo?
Non è facile mantenere la concentrazione quando
gli occhi sono pieni di colori e nelle orecchie risuonano musiche diverse e una sola voce. Cristina.
Anche se tutte le sere vado a letto presto e spengo la
luce sperando di addormentarmi, da più di una settimana la ragazza dei miei sogni non mi viene a trovare.
È sabato pomeriggio e assieme ai miei compagni di
classe ho deciso di accettare l’invito del prof di ginnastica: una partita di pallavolo contro la 3aB.
Non abbiamo molti spettatori nella palestra della
scuola, neanche una delle ragazze a fare il tifo. Nonostante questo sono carico di energia e m’impegno al
massimo: il bagher non mi riesce granché bene, ma
me la cavo come alzatore e a fare il muro sotto rete.
Una mia schiacciata ci porta in vantaggio e una debole ovazione si alza dal pubblico: “Grande, Ale!”
Giro lo sguardo e vedo Luca, che neanche in
quest’occasione si è tolto il berretto da Puffo, mentre
mi fa segno con il pugno chiuso e il pollice alzato.
22
La sfida va avanti per due ore e siamo pari con due
set vinti a testa. Al quinto, quello decisivo, chiudiamo
tre a due per noi. Grandioso. È stata dura, ma sono
soddisfatto e mi accorgo che per quasi tutto il tempo
non ho pensato a lei. Anche se adesso vorrei che fosse
qui, a vedere quando i miei compagni di classe mi salutano dandomi delle gran pacche sulle spalle.
A casa ho tempo appena per fare una doccia e mettermi il pigiama.
Vado a dormire un altro sonno senza sogni.
C’è una folla intorno a me, la luce amplificata dalle
pareti bianche, un boato di voci e slogan che si sovrappongono. Gli spalti del palazzetto dello sport ondeggiano come un grande mare di puntini colorati, le
persone che si agitano una vicina all’altra sembrano
api nell’alveare.
In campo ci sono le Dragon Ladies, ma le cose per
loro non vanno bene. Sono in svantaggio rispetto le
avversarie, e per giunta Vera, nel ricevere la palla, si
è fatta male al polso: è evidente che almeno per oggi
non potrà giocare. Shiro, l’allenatore, si alza dalla sua
postazione, si avvicina a una bella ragazza con i capelli rossi e corti e grandi occhi verdi che finora è rimasta in panchina, le parla per pochi istanti all’orecchio e lei fa cenno di sì con la testa. Sarà proprio lei,
Mila, a sostituire la compagna infortunata e a prendere posizione sotto la rete, mentre le altre ruotano
in senso antiorario.
Vicino a me, poco lontano dal mio orecchio, sento
una voce che ormai conosco bene, una canzone che
ancora una volta accende i miei ricordi: “Guarda,
23
guarda in campo c’è / una nuova giocatrice / Mila il
suo nome è / e talento ha per tre”.
Rimango muto e immobile, quasi paralizzato, ma
ho il cuore che fa i mille all’ora: Cristina è seduta in
tribuna nella fila appena dietro di me e quando si
muove mi sembra di sentire il profumo che si solleva
dai suoi vestiti.
In campo l’azione si sta facendo serrata: dopo una
veloce serie di passaggi, Mila si alza come volando sopra la rete e con una schiacciata micidiale segna il suo
primo punto.
Riconosco il grido di battaglia: “Attack!”
Travolto dall’entusiasmo mi giro e vedo Cristina che
applaude: ha le labbra socchiuse, le guance arrossate.
Senza pensarci su l’abbraccio e anche lei mi abbraccia: i suoi capelli mi sfiorano il viso.
Poi tutto intorno a me evapora e si dissolve.
Perché i sogni devono finire, proprio sul più bello?
“Altrimenti non sarebbero sogni”, direbbe Luca.
Siccome, anche se cerco di tenere gli occhi chiusi ancora per un po’, non riesco a riaddormentarmi, tiro un
calcio a lenzuola e coperte e infilo i piedi nelle ciabatte.
Realizzo che è domenica mattina quando in cucina
trovo la mamma che prepara la colazione, in pigiama
e con i capelli arruffati. Mi sorride: “Buongiorno,
campione”.
L’osservo per un po’ mentre toglie dal fornello il
bollitore del latte e infila una brioche nel microonde.
“Sai mamma”, le dico d’impulso mentre sposto la sedia per sistemarmi a tavola, “ho deciso che da grande
sposerò Cristina D’Avena”.
24
Lei mi guarda come se mi vedesse per la prima volta:
credo d’averla impressionata.
“La cantante?”
“Magari dopo le superiori. Facciamo dopo i primi
tre anni d’università”.
“Ottima scelta”. Commenta seria. Stranamente mi
dà corda senza sollevare polemiche.
“Sei d’accordo con me?”
“È una bella donna, una lavoratrice tenace, una professionista impeccabile”.
“Me la ricordo fin da allora”, prosegue, “avrò avuto
quattro anni e guardavo lo Zecchino d’Oro. Lei aveva
all’incirca la mia età e cantava ‘Ullallà, ullallalà, questo è il valzer del moscerino’. Solo che pronunciava
‘moccerrino’ e ogni volta io scoppiavo a ridere”.
Intanto che la mamma racconta mi gratto il mento
perplesso: i conti non tornano.
“Ma come”, protesto, “io ho quasi quattordici anni
e Chicco ormai ne ha venti, va all’università. E tu hai
l’età di… una mamma!”
Senza parlare sparisce per qualche istante in salotto. Torna con due riviste, di quelle che legge “per
rilassarsi”, come dice lei. Me le mette davanti, mi mostra alcuni titoli: Cristina D’Avena, una carriera lunga
quasi mezzo secolo. E ancora: Sarò una cinquantenne
eternamente giovane.
Un altro articolo mi toglie ogni dubbio: Nel 2014
Cristina D’Avena compirà cinquant’anni.
Mentre leggo la mamma mi osserva: ha paura che ci
sia rimasto male.
Be’, un po’ deluso forse lo sono. L’immaginavo appena un po’ più grande di una bambina.
25
Rimango in silenzio con la testa china e con il cucchiaio continuo a mescolare il liquido bollente dentro
la tazza. In effetti per me è un po’ presto per pensare
al matrimonio. Ci dev’essere un’alternativa, qualcosa
di meno impegnativo, che mi permetta di stare con
lei e di sognarla ancora.
Devo farmi venire un’idea. Se ne parlassi con Luca
non mi prenderebbe sul serio.
Poi mi viene in mente che la soluzione potrebbe essere a portata di mano. Alzo la testa.
“Cosa dici, mamma: credi che, se glielo chiedo, almeno mi darà l’amicizia su Facebook?”
26