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C’è un grosso problema di comunicazione sull’immigrazione. Le cifre, i dati, la descrizione
del fenomeno sono spesso incredibilmente falsati e la percezione che se ne ha non
corrisponde quasi mai alla realtà. La comunicazione ha un ruolo determinante nel guidare
l’opinione pubblica e di conseguenza le strategie politiche: quella che riguarda
l’immigrazione può essere definita come una delle più fuorvianti. Ovviamente il mio
intervento si riferirà in gran parte all’Italia, ma, come vedremo, si può parlare di
comunicazione deformata riguardo il fenomeno migratorio, in molti Paesi d’Europa e del
mondo.
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Secondo una ricerca demoscopica britannica molto interessante condotta da Ipsos Mori, gli
italiani si collocano ai vertici dell’ “Index of Ignorance”, uno studio sulle false percezioni
in merito a varie e differenti tematiche, tra le quali l’immigrazione e la presenza islamica
nei vari paesi in esame. L’italiano ritiene che il 30% della popolazione sia composta da
immigrati (in realtà è intorno all’8 %) e che il 20% di questi siano musulmani (sono circa il
4%). Il direttore di questa ricerca Bobby Duffy ha così dichiarato: "Queste errate percezioni
rappresentano una questione cruciale all’interno del dibattito pubblico e nell’indirizzare
le strategie politiche. Ad esempio, le priorità pubbliche possono avere un impatto assai
differente se potessimo disporre di una visione più chiara e aderente alla realtà delle
dimensioni del fenomeno dell’immigrazione”.
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Non solo l’Italia esce male da questa indagine, un dato che colpisce è che gli immigrati, in
genere, sono percepiti come una minaccia in tutte le nazioni interessate dall’inchiesta. Ma
è ancora più interessante notare che più piccola è la percentuale di immigrati, più grande
è la sopravvalutazione del fenomeno. Prendiamo a esempio la Polonia: la percentuale di
immigrati presenti nel Paese è minima, 0.4%, ma la gente pensa che sia ben 35 volte più
grande, cioè il 14%, l’Ungheria che ha il 2% di immigrati, pensa che siano 8 volte di più, il
16%. C’è poi una recente indagine dell’Osservatorio Europeo di giornalismo (EJO), svolta
in 8 Paesi, che parte dalla scelta della stampa di pubblicare la foto o parlare di Aylan, il
bambino siriano trovato morto sulle coste turche. L’inchiesta dimostra come gli Stati
dell’est (Lettonia, Cechia, Ucraina e Polonia), abbiano scelto sostanzialmente di ignorare il
fatto, come per timore di sollevare campagne positive riguardo lo spostamento che
proprio in quel periodo avveniva di 750 mila persone in quell’area d’Europa.
Molti organi di stampa, televisivi, radiofonici o della rete, a volte anche quelli noti per
posizioni più progressiste, diffondono dati falsi, immagini eccessive, raccontano storie
inesistenti. Prendiamo il fenomeno dei rifugiati
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Come si può osservare dalle slide, la maggior parte dei rifugiati sono accolti da Paesi in
via di sviluppo. In genere, infatti, chi scappa da conflitti o persecuzioni, sceglie Paesi
limitrofi nella speranza di tornare a casa un giorno. In Italia i rifugiati accolti sono circa
78.000, un po’ più di uno ogni 1000 abitanti. Parlare di invasione in Italia, se fossimo seri e
rigorosi, farebbe sorridere. Ma anche parlare di invasione in Europa è piuttosto
imbarazzante.
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In tutto, su 500 milioni di abitanti circa, nella UE accogliamo 2 milioni tra rifugiati e
richiedenti asilo, poco più della Turchia o del Pakistan, poco più del Libano. In
percentuale, lo 0,50 della popolazione.
Ci sono Paesi dall’antica tradizione democratica e che conoscono da molto tempo il
fenomeno dell’immigrazione che sono toccati seriamente dal problema di una copertura
fuorviante. Prendiamo la Gran Bretagna. Secondo un’indagine promossa da ARTICLE 19
in collaborazione con la Cardiff University School of Journalism e con il contributo della
BBC, il 31% dei titoli e il 53% dei testi che riguardo l’asilo in tutti i giornali ha connotazioni
negative. Il linguaggio utilizzato per descrivere l’immigrazione è altamente ostile e oltre al
problema del ‘misreporting’ c’è anche quello dell’over-reporting’, l’amplificazione, cioè,
del fenomeno che fa credere a tutti che sia enorme visto che se ne parla così tanto. Tutto
ciò ha portato John Grayson dell’Institute of Race Relations a sostenere che negli ultimi 15
anni i politici e i media hanno attivamente contribuito a formare un elettorato razzista e a
inserire il razzismo in politica.
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Greg Philo, Emma Briant, Pauline Donald hanno invece scritto un interessante testo dal
titolo evocativo ‘Bad news for Refugees’ che dimostra come negli ultimi anni rifugiati e
richiedenti asilo siano stati stigmatizzati nella retorica politica e nella copertura mediatica.
Da quando ho cominciato a occuparmi di questo tema come giornalista, ho scelto la strada
del giornalismo narrativo, quello cioè che prova a spiegare i fenomeni a partire da chi li
vive attraverso l’incontro diretto e continuo.
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Ho scritto due libri, uno sul fenomeno delle migrazioni forzate al femminile e uno sui
migranti minori non accompagnati - che uscirà a dicembre - e moltissimi articoli a partire
dalla storie, nei quali il mio intervento è prettamente giornalistico nella parte che attiene
alle domande e stilistico nella parte che attiene all’editing. Per il resto, è l’intervistato a
parlare.
Questo metodo, che non ho certo inventato io, permette di operare in modo rigoroso e
scientifico, di dare dati citando le fonti dirette e promuovere riflessioni reali sul fenomeno,
partendo dal particolare e giungendo all’universale.
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Facciamo l’esempio dei viaggi che molti profughi affrontano per giungere in Europa. Ho
raccolto oltre 100 testimonianze di uomini, donne, adolescenti che li hanno affrontati
provenendo da Sud e giungendo a Lampedusa o in Sicilia o da est e giungendo in Grecia o
in Italia attraverso i Balcani.
Tutti, attraverso le loro vicende personali, mi hanno fatto comprendere macrofenomeni
come l’enorme arricchimento delle mafie transnazionali che prendono per ogni viaggio da
un minimo di 3-4000 euro a un massimo di 12/13mila. Mi hanno fatto comprendere cosa
significhi, dopo aver pagato simili somme, attraversare alcuni dei Paesi più pericolosi al
mondo, rischiare la vita più e più volte, venire violentati, torturati, picchiati, morire. Sì
perché una delle cose che risalta dalle inchieste e di cui non molti parlano, è che si muore
molto e forse di più nel tratto di viaggio prima di arrivare sulle rive del Mediterraneo o nei
viaggi via terra. Tutti gli intervistati mi hanno raccontato di aver visto almeno un
compagno morto nel corso del viaggio, perché caduto dai pick up stracarichi, torturato nei
campi di raccolta in Libia, perché gettato in mare o tra le sabbie del deserto o perché nei
sentieri di montagna al confine tra Mali e Algeria, scivola o cade finendo, tra l’indifferenza
più totale, la propria esistenza.
Inoltre mi hanno permesso di comprendere e quindi comunicare i motivi per cui queste
persone fuggono dalle proprie terre. Facciamo un esempio pratico: nel corso del mio
lavoro per scrivere il libro si MSNA, dovunque andassi in Italia, mi imbattevo in giovani
gambiani, la cosa mi inquietava molto:
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il Gambia è il più piccolo paese d’Africa, con due milioni scarsi di abitanti e un’estensione
territoriale di appena 11 mila Km². Come è possibile che siano quasi tutti qui? Beh,
approfondendo ho scoperto che negli ultimi anni sono scappate 300mila persone. Il
Presidente Yahya Jammeh in carica da oltre 20 anni, è uno dei peggiori dittatori sulla
faccia della terra. Nell’ultimo periodo sono aumentate la repressione verso i dissidenti e le
restrizioni verso la libertà d'espressione e di orientamento sessuale ed è stato introdotto il
reato di ‘omosessualità aggravata’ che può comportare pene fino all’ergastolo. Il Gambia,
oltre a essere tristemente noto per i dati riguardanti lo sfruttamento sessuale, è poi una
delle nazioni più povere al mondo con un alto tasso di lavoro minorile.
Un’altra cosa che risulta sempre più chiara dall’incontro e l’inchiesta in questo mondo, è
che la differenza tra cosiddetti migranti economici e forzati, va sempre più
assottigliandosi. Un siriano che arriva in Europa e che chiede asilo è certamente
riconosciuto rifugiato, ci mancherebbe. Ma un gambiano, per esempio, no. Un bengalese,
no. Eppure scappa da uno dei Paesi più poveri al mondo, in cui ogni anno circa il 18%
della superficie terrestre (26.000 km2), viene sommerso da acque. Il fenomeno, ricorrente e
atteso ma difficilmente risolvibile, comporta la morte di oltre 5.000 persone e la
distruzione di oltre 7 milioni di abitazioni.
È ovvio che per descrivere un fenomeno così consistente e complesso non si possa adottare
solo ed esclusivamente il metodo della raccolta di storie o quello che ho chiamato
giornalismo narrativo: è una tecnica giornalistica che richiede tempo e non può essere
praticabile su vasta scala ovviamente. Dico però che non è neanche possibile fare il
contrario. Non si può definire un fenomeno che riguarda milioni di persone escludendole,
non ascoltando la loro voce, i loro pareri, non soffermandosi sulle loro storie.
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Ascoltare e riportare storie vere, spesso meravigliose oltre che drammatiche, fa cambiare il
cuore e la mente della gente e, di conseguenza, le strategie politiche.