FRANCHINI_magistero e critica

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FRANCHINI_magistero e critica
CAMILLO BOITO E LA ROVERETO ASBURGICA
Nella complessa biografia di Camillo Boito trova spazio una breve parentesi trascorsa a
Rovereto allora compresa nel Tirolo meridionale sotto il dominio asburgico. La sua presenza è in un
certo modo connessa alla situazione sociopolitica locale allo scorcio del XIX secolo: va premesso,
infatti, che le fortissime ricadute della seconda Guerra d’Indipendenza nella realtà del Trentino, le
aspirazioni autonomiste prima e poi il movimento irredentista a cavallo dei due secoli, aprirono
nuovi orizzonti in tutti i sensi per il Tirolo italiano per cui qualsiasi azione pubblica doveva avere
valore simbolico di (corretta) rivalsa nei confronti del governo di Vienna. Emblematica a tale
proposito l’erezione in Trento del monumento a Dante inaugurato nel 1896. Le direttrici di interesse
forzatamente volte in precedenza per motivi politici a nord delle Alpi, mutarono progressivamente
direzione verso i centri italiani e particolarmente verso Milano, la “metropoli” più vicina – 7 ore
ferroviarie – in forte espansione industriale, commerciale e culturale, unica in grado di competere
con i centri industriali dell’Impero. Nel secondo Ottocento e in tale contesto si osserva il
moltiplicarsi a Rovereto di inviti estesi ad artisti e professionisti del capoluogo lombardo per quanto
riguarda incarichi artistici e problemi di architettura relativi a importanti realizzazioni pubbliche.
Un elenco potrebbe limitarsi ad Antonio Tantardini, Carlo Taverna, Antonio Soldini, Giuseppe Didioni,
Girolamo Sizzo, Abbondio Sangiorgio, Carlo Maciachini, Luigi Cavenaghi, Pietro Calori, Luca
Beltrami, ecc. e, per quanto qui interessa, a Camillo Boito.
Alla fine del secolo si rese necessaria nel capoluogo lagarino la costruzione di un apposito
edificio scolastico per le classi elementari maschili che fu deliberata dalla civica Rappresentanza
comunale nel 1898. Per rispondere nel migliore dei modi alla destinazione e senza dimenticare «il
decoro della città», i dirigenti bandirono per la prima volta un concorso internazionale che fu
pubblicato sulle riviste specializzate “Il Politecnico” di Milano, “Ingegneria Sanitaria” di Torino,
“Neubauten und Konkurrenzen” di Vienna. L’anno seguente venne decisa la giuria del concorso
composta di tre persone a capo della quale fu invitato Camillo Boito, «quella fulgida gloria
dell’architettura italiana», che avrebbe esaminato gli elaborati inviati da ventidue concorrenti. Il
«Commendatore, architetto insigne, presidente dell’Accademia di Brera in Milano» era noto a
Rovereto in generale per la fama del personaggio, in particolare per le realizzazioni “venete”, le
partecipazioni in questioni pratiche di architettura, nonché per la conoscenza di sue pubblicazioni di
carattere sia letterario sia tecnico che sappiamo essere presenti negli elenchi delle biblioteche
pubbliche e scolastiche.
In conclusione dei lavori Boito lasciò manoscritta una puntuale relazione dalla quale emerge la
figura del docente e del ben noto teorico della nuova architettura italiana. Il ponderato giudizio
risultò favorevole al progetto che il milanese Daniele Donghi aveva presentato in collaborazione
con il padovano ingegnere Antonio Melati. Donghi, personalità di estremo interesse e notevole
rilevanza nella formazione della cultura progettuale italiana del primo Novecento e conosciuto
soprattutto per essere l’autore dell’enciclopedico Manuale dell’Architetto, è già stato considerato
quale allievo “indiretto” del Professore di architettura. Infatti il progetto della scuola popolare di
Rovereto, apprezzato per la complessiva organicità, mostra anche nell’essenziale “simbolismo” la
lezione boitiana, tanto che viene da chiedersi se Boito (se non già al corrente della partecipazione di
Donghi al concorso) abbia subito identificato dietro l’anonimia del motto («D.U.O.») l’esperienza
del concorrente – il cui curriculum vantava fino a quel momento la costruzione di sei edifici
scolastici a Torino e di uno a Padova – conoscendone le idee e i lavori almeno dal tempo della
Prima Esposizione italiana di Architettura del 1890 a Torino. Il nuovo edificio, inaugurato il 15
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ottobre 1901, si mostrò consono al carattere locale tradizionalmente legato alle superfici intonacate
e tuttavia nel tentativo di proporre uno «stile moderno» il progettista non rinunciò, con discrezione,
ad «elementi architettonici e decorativi di sentimento medioevale» che non è difficile rintracciare
nell’ospedale di Gallarate e nelle scuole di Reggia Carrarese (allora Donghi era a capo dell’Ufficio
tecnico di Padova), così come la distribuzione planimetrica e funzionale degli spazi conduce alla
scuola di via Galvani dalla quale riprende l’atrio d’ingresso e gli spogliatoi, progettati ma poi
abbandonati a vantaggio di più ampi e luminosi corridoi.
La permanenza a Rovereto del «celebre architetto italiano», arrivato il 29 gennaio del 1899, si
protrasse fino al 1 di febbraio con grande risonanza sulla stampa locale che sottolineò come prima
di partire per Milano egli avesse voluto visitare «il nostro Castello e rimase assai soddisfatto della
posizione della nostra città e diverse cose interessanti che essa offre». Relativamente a questo
desiderio vale segnalare la testimonianza di chi l’accompagnò nella visita e che ne colse i tratti
caratteriali e l’importanza da lui data alla conoscenza storica, fondamentale per l’apprezzamento e
quindi per la tutela e conservazione, esortando allo studio della fortificazione veneta poiché solo
così «Il vostro castello può aver diritto ancora ad una lunga esistenza […] In caso diverso subirà
anch’esso le sorti di tutti i suoi confratelli». È ipotizzabile che tra le altre «cose interessanti» che
possono averlo incuriosito vi siano stati i lavori attuati o programmati in città da amici o figure di
sua conoscenza: le decorazioni del Teatro Sociale ad opera di Antonio Ermolao Paoletti e di Carlo
Matscheg (1871) già suo collaboratore nel raffinato arredo di palazzo Franchetti sul Canal Grande;
il progetto di “restauro artistico” della chiesa arcipretale proposto dall’amico Luigi Cavenaghi con i
suoi affreschi tra gli stucchi rocaille di Pietro Calori. Sicuramente osservò – senza lasciare qualsiasi
commento – il “restauro pittorico-decorativo” in atto nella sala consigliare del municipio – dove
s’era svolto l’esame dei progetti di concorso – condotto da Augusto Sezanne, allora professore al
regio Istituto di Belle Arti di Venezia, in uno pseudo stile neo quattrocentesco presunto veneziano.
Il rapporto con la città trentina non si concluse tuttavia con il breve soggiorno, poiché il podestà
Malfatti tornò a Boito nel 1902 per invitarlo a progettare le sole facciate del nuovo ufficio postale le
cui planimetrie erano state imposte dall’amministrazione governativa austriaca in quanto edificio
statale. L’illusione di Rovereto di avere una costruzione firmata da un importante architetto italiano
e, da parte di Boito, il «desiderio di soddisfare alla gentile richiesta» lasciando «un lavoro mio,
anche modesto, in una provincia italiana, che amo sin da fanciullo», furono di breve durata così che
la mancata realizzazione ci ha privato di un suo ultimo lavoro dopo la Casa di riposo per Musicisti.
Subentrò nell’incarico, benevolmente e a titolo gratuito, Luca Beltrami che però, davanti ai
problemi che lo stesso Boito aveva richiamato a giustificazione della sua rinuncia, fornì il solo
disegno dei prospetti ma senza ulteriori dettagli; progetto poi variato per ragioni di economia e per
lungaggini burocratiche.
Boito ricompare un’ultima volta nella cronaca cittadina del 1904 a motivo di una sua lettera
nella quale approva l’assunzione nel ruolo di ingegnere municipale di Ettore Gilberti da lui definito
«uno de’ miei eccellenti allievi». Nelle righe l’anziano professore non riporta soltanto il meccanico
giudizio del docente di architettura e relatore di laurea: in essa traspaiono un senso di nostalgia e un
commovente affetto per cui non trascura di mettere in evidenza, al di là delle capacità professionali,
il valore etico e le qualità morali del giovane. Conclude quindi affermando che per la scelta fatta «il
colto e bel Comune […] non avrebbe altro che a lodarsene».
LUCIO FRANCHINI
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