Istituto MEME: Dalla parafilia al crimine

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Istituto MEME: Dalla parafilia al crimine
UNIVERSITE EUROPEENNE JEAN MONNET
ASSOCIATION INTERNATIONALE SANS BUT LUCRATIF
BRUXELLES - BELGIQUE
THESE FINALE EN
“SCIENCES CRIMINOLOGIQUES”
DALLA PARAFILIA AL CRIMINE
STORIE DI SEXUAL SERIAL KILLERS
Specializzando: Lidia Fiscer
Matr. 3189
Bruxelles, ottobre 2013
ISTITUTO MEME S.R.L. - MODENA ASSOCIATO UIVERSITÉ EUROPÉENNE JEAN MONNET A.I.S.B.L. BRUXELLES
Lidia Fiscer – Scuola di Specializzazione Triennale in Scienze Criminologiche (Terzo Anno) A.A. 2012/2013
INDICE DEI CONTENUTI
1. Introduzione
pag. 4
2. Nati per uccidere
2.1. Meccanismi psicologici e classificazione dei serial killers
pag. 6
2.2. Il ruolo delle fantasie
pag. 16
2.3. Dalla fantasia all’omicidio
pag. 17
2.3.1. La fase totemica: trofei e souvenirs
pag. 18
2.4. La scena del crimine
pag. 20
2.4.1. Caratteristiche della scena del crimine associate alle
differenti tipologie dei serial killers
pag. 24
3. Il mondo perverso dei sexual serial killers
3.1. Cosa si intende con il termine “perversione”
pag. 25
3.2. I Disturbi Sessuali
pag. 27
3.3. La classificazione di Mac Cary
pag. 29
4. Dalla parafilia al crimine
4.1. L’Impero di Thanathos: i Necrofili
pag. 33
4.2. Una parte vale più di tutto il resto: i Feticisti
pag. 36
4.3. Le donne anziane vittime della perversione: i Gerontofili
pag. 39
4.4. Il piacere di infliggere sofferenza: i Sadici Sessuali
pag. 44
4.5. Alcuni casi di interesse criminologico
pag. 48
5. Gianfranco Stevanin: il “mostro di Terrazzo” tra sesso e morte
5.1. La storia della sua vita
pag. 51
5.2. Il materiale sequestrato nel “casolare degli orrori”
pag. 54
5.3. L’esame delle perizie
pag. 58
5.3.1. Le perizie d’ufficio
pag. 58
5.3.1.1. Esame psichico
pag. 63
5.3.1.2. Inquadramento diagnostico
pag. 69
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5.3.2. La perizia dell’accusa
pag. 77
5.3.3. La perizia della difesa: un processo sul filo dell’infermità
pag. 79
5.4. Il processo davanti la Corte d’Assise
pag. 81
5.4.1. Anche Stevanin sale sul banco dei testimoni
pag. 86
5.4.2. Il pubblico ministero chiede il massimo della pena
pag. 91
5.4.3. La sentenza della Corte d’Assise
pag. 92
5.5. Il processo davanti la Corte d’Assise d’Appello
pag. 94
5.5.1. La sentenza della Corte d’Assise d’Appello
pag. 97
5.6. La revisione del processo d’Appello
pag. 100
5.7. Le vittime di Stevanin
pag. 103
5.8. Stevanin: l’ultima intervista
pag. 106
6. Destino e futuro dei serial killers
6.1. Problemi inerenti l’imputabilità
pag. 110
6.2. Ipotesi di trattamento psicofarmacologico
pag. 113
6.3. Ipotesi di trattamento psicoterapico preventivo e non
pag. 114
7. Le 100 parafilie più bizzarre
7.1. Classificazione
pag. 115
Conclusioni
pag. 119
BIBLIOGRAFIA
pag. 122
SITOGRAFIA
pag. 126
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1. Introduzione
Gli Stati Uniti, dove risiede il 5% della popolazione mondiale, annoverano annualmente
il più alto tasso di serial killers dell’intero globo, attestandosi intorno al 76% del totale,
seguiti dall’Europa, che ne conta il 17% - di cui il 28% di nazionalità inglese ed il 27%
tedesca.
All’interno del territorio americano, è lo stato della California a detenere il primato,
seguito da New York, Texas e Illinois, mentre il più basso indice di criminalità spetta al
Maine.
Il 90% degli assassini seriali, oltre ad essere di sesso maschile e di razza bianca,
proviene dal ceto medio basso. Si tratta solitamente di individui intelligenti, ma
mediocri nei risultati scolastici, con un’infanzia contrassegnata da violenze e
maltrattamenti, sia fisici che psicologici. Per lo più, essi sono il frutto di relazioni
instabili, con genitori che, a loro volta, possono vantare un passato criminale, problemi
psichiatrici, di alcolismo o di tossicodipendenza. È dimostrato che i bambini cresciuti in
un tale contesto familiare, oltre a trascorrere in solitudine la maggior parte del loro
tempo, riversano rabbia e frustrazione, accumulate nell’ambito domestico, sugli animali,
che ne diventano vittime e cavie predilette.
Nonostante vi siano moltissime persone che, a dispetto di una fanciullezza colma di
soprusi, riuscendo a superare i traumi, conducono una vita serena, alcune (tra queste
John Cannan, Kenneth Bianchi e John Gacy) replicano su altri, non appena fatto
ingresso nel mondo degli adulti, le sofferenze sperimentate su loro stessi, elevando però
a livello esponenziale la soglia delle proprie atrocità.
Questi individui, cui viene in qualche modo impedita la crescita psicologica necessaria
al passaggio dall’infanzia all’adolescenza, si ritrovano di conseguenza incapaci di
accedere in modo equilibrato alla vita adulta: percepiscono se stessi come persone
incomprese, ma speciali; appaiono ossessionati dal desiderio di esercitare un qualche
controllo, di imporsi sugli altri piegandoli alla propria volontà e, non riuscendo ad
ottenere alcun risultato soddisfacente agendo nella legalità, finiscono per uccidere,
torturare, stuprare e macellare le proprie vittime, ricevendo da tali atti criminali un
immenso, quanto effimero appagamento.
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Il loro incredibile gusto per la caccia all’uomo, l’eccitazione provata nell’ordire un
agguato, nel sequestrare e torturare la preda, unita all’esaltazione percepita nel
sopprimere, rende questi serial killers, il cui aspetto appare per lo più ordinario,
particolarmente pericolosi e letali.
Criminali come Ted Bundy, Kenneth Bianchi, Gianfranco Stevanin e molti altri,
sembrano trarre piacere dalla sofferenza altrui e questo li induce a prolungarla il più
possibile, arrivando a considerare se stessi quali creature superiori.
Il 60% delle vittime di omicidi seriali è costituito da donne: negli Usa si parla di almeno
duecento delitti annui a sfondo sessuale.
Un numero che, per quanto elevato, appare minimo se paragonato ai 18.000 assassini
commessi nell’ambito domestico, lavorativo o conseguenti alle frequenti risse nei locali.
Ciò nonostante, i massacri seriali suscitano maggiore sconcerto, probabilmente a causa
del forte squilibrio nel rapporto tra vittime e carnefici.
Inoltre, la componente sadica, spesso assente nei misfatti non imputabili a particolari
contesti, risulta pressoché immancabile in quelli di natura seriale: Randy Kraft,
narcotizzate le proprie prede e inseriti acuminati bastoncini da cocktail nei loro organi
genitali o maniglie di portiere di automobili nelle loro membra, vi appiccava il fuoco,
godendo nell’udire gli atroci lamenti emessi da coloro che lui stesso aveva mutato in
vere e proprie torce umane. Allo stesso modo John Wayne Gacy, Kenneth Bianchi,
Angelo Buono, Ted Bundy inflissero crudeli e prolungati supplizi a quanti ebbero la
sfortuna di incrociare il loro cammino.
È proprio questo istinto sadico a caratterizzare il fragile ego dei serial killers sessuali, i
quali bramano disperatamente il raggiungimento di una posizione di potere nella società
civile, che diversamente non riuscirebbero ad ottenere.
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2. NATI PER UCCIDERE
2.1. Meccanismi psicologici e classificazione dei serial killers
Il termine serial killer ha una storia relativamente recente, e d’altra parte è solo dagli
anni Cinquanta che i ricercatori hanno cominciato a distinguere le varie forme di
omicidio. È il criminologo James Reinhardt1, in un suo libro del 1957, Sex Perversion
and Sex Crimes, ad utilizzare per primo la definizione di chain killer per indicare
l’assassino che lascia dietro di sé, appunto una catena di omicidi.
Alcuni anni più tardi, nel 1966, John Brophy, uno studioso inglese, identifica lo stesso
fenomeno con il termine serial murderer, definizione ripresa dallo psichiatra forense
Donald Lunde2 circa dieci anni dopo, nel suo testo Murder and Madness.
Nel 1988 il National Institute of Justice statunitense elabora una prima descrizione di
ciò che, in concreto, si intende per omicidio seriale: l’uccisione di una serie di due o più
soggetti, delitti separati e commessi generalmente, ma non sempre, da un unico autore.
I crimini possono essere attuati con un intervallo di tempo che varia da poche ore sino a
molti anni, ed il movente va ricercato non tanto in un guadagno immediatamente
identificabile, quanto nella gratificazione di un bisogno psicologico profondo
dell’assassino. Le caratteristiche della scelta del crimine, il comportamento
dell’omicida, il rapporto con la vittima e le violenze agite su di essa riflettono
componenti sadiche e sessuali dell’autore.
Nel 1994 Robert Ressler3, agente speciale dell’FBI, pubblica Whoever Fights Monster.
Il libro viene presentato come l’autobiografia del più celebre cacciatore di assassini
seriali, un faccia a faccia con alcuni fra i più terribili killers statunitensi, un manuale
frutto dell’esperienza di vent’anni, per imparare ad “identificare e riconoscere il mostro
sconosciuto che ci cammina accanto”. Al di là delle usuali enfatizzazioni pubblicitarie,
il testo ha il merito di riportare alcune testimonianze preziose sulla personalità del
criminale che, d’ora innanzi, sarà universalmente chiamato “serial killer”.
Sempre Robert Ressler4, con la collaborazione dell’altrettanto celebre John Douglas e
1
REINHARDT J. J., Sex Perversions and Sex Crimes, C. Thomas, Springfield, I11, 1992.
LUNDE D. T., Murder and Madness, San Francisco Book Company, San Francisco, CA, 1976.
3
RESSLER R. K., SHAHTMAN T., Whoever Fights Monsters, St. Martin’s Press, New York, 1994.
4
RESSLER R., DOUGLAS J. E., BURGESS A. W., BURGESS A. G., Crime Classification Manual,
Jossey Bass Publishers, San Francisco, 1992.
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della psichiatra Ann Burgess, pubblica nel 1992 il Crime Classification Manual, vero e
proprio trattato sui delitti violenti, dove la proposta di classificazione si basa sul
movente del criminale. Anche il CCM dà una propria definizione di serial killer: “Tre o
più eventi omicidiari, commessi in tre luoghi differenti, separati da un intervallo di
raffreddamento emozionale (cooling-off period).
Il concetto di cooling-off permette di comprendere come l’assassino seriale sia un
predatore soggetto ad un ciclo, che inizia con una progressiva eccitazione, si muove
dalla preparazione dell’evento in forma di fantasia sino alla sua realizzazione e si
conclude con un momento, successivo al delitto, di scarico emozionale. Può essere un
periodo di durata variabile, a cui fa seguito il nuovo imporsi di una fantasia sadica, di
una fase di progettazione, di identificazione della vittima, di appostamento, di
pedinamento, cattura, morte.
Negli ultimi anni, anche l’unità specializzata dell’FBI si è allineata alla commissione
del National Institute of Justice, nel ritenere sufficienti due vittime e non più tre per
poter parlare di serialità omicida.
Tra i delicati argomenti da affrontare in relazione all’allarmante fenomeno dei serial
killers, vi troviamo innanzitutto:
1) la classificazione dei soggetti responsabili di omicidio multiplo fornita dall’FBI in
relazione alle modalità esecutive del reato;
2) la classificazione dei serial killers in relazione alla motivazione a compiere l’atto;
3) la classificazione delle componenti psicodinamiche e comportamentali comuni;
4) la classificazione delle fasi dell’omicidio seriale.
Per quanto riguarda il I punto, vi troviamo:
a) Serial Killer (o assassino seriale) che si caratterizza per la commissione di delitti
plurimi con caratteristiche di mostruosità, intervallati l’uno dall’altro con caratteristiche
di ciclicità temporale;
b) Spree Killer (o assassino compulsivo) che si distingue per le modalità esecutive, a mò
di orge omicide, verso 2 o più persone in un lasso di tempo molto breve, in luoghi
differenti però contigui in un unico evento, come se fosse stato colto da un raptus
omicida;
c) Mass Murder (o assassino di massa) con modalità omicidiaria contestuale di più
persone.
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E veniamo ora a considerare il II punto, la classificazione dei serial killers in relazione
alle motivazioni a compiere l’atto, fornita dall’FBI. Vi compaiono cinque tipi di serial
killers:
a) il Serial Killer “Visionario”
b) il Serial Killer “Missionario”
c) il Serial Killer “Edonista”
d) il Serial Killer del “Controllo del potere”
e) il Serial Killer “Lussurioso” (Lust Killer)
a) Il tipo Visionario di omicida in serie, comprende quei serial killers che eseguono i
loro omicidi come conseguenza degli ordini ricevuti da “voci allucinate” o per causa di
particolari “visioni” ricevute. Sono vere e proprie “allucinazioni di comando” e la voce
udita è generalmente quella di Dio o di Satana, che fornisce le indicazioni per la
commissione dell’omicidio. Tali serial killers con allucinazioni visive, identificano in
loro la presenza di un’entità soprannaturale e quindi di un demone che impone loro di
uccidere e di distruggere. La maggior parte di questi serial killers è affetta da franca
patologia da configurarsi in un quadro o di schizofrenia di tipo paranoide oppure di un
disturbo allucinatorio paranoide. Nel primo caso, l’omicidio è solitamente condotto in
modo bizzarro o male organizzato, mentre nel secondo caso esso può essere eseguito in
maniera ben pianificata.
b) Il tipo Missionario è caratterizzato dal dover compiere una missione, che
generalmente consiste nella ferma convinzione di dover ripulire il mondo da persone
considerate indesiderabili (abitualmente prostitute, vagabondi, spacciatori di droga).
Tale serial killer pur generalmente non soffrendo di una psicosi, è spesso condizionato
da personali convinzioni sostenute da alcune false percezioni di tipo paranoide; difatti
non provano alcun rimorso per le loro azioni, in quanto fermamente convinti di eseguire
un compito utile al benessere della società. Un esempio emblematico di serial killer
missionario ci è fornito dal recente caso di Pedro Alonso Lopez venditore ambulante
colombiano di 31 anni con all’attivo 310 omicidi. Cento bambine seviziate e strangolate
in Columbia, altrettante in Perù, centodieci nell’Equador, dove colto sul fatto fu
arrestato. Lo strangolatore delle Ande, come fu soprannominato, si definiva un
liberatore: “le ho soppresse per liberarle dalle sofferenze che subivano nella vita
terrena”, riferì in una particolareggiata confessione.
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c) Il tipo Edonista si distingue per il particolare piacere che prova nell’uccidere. È l’atto
omicida in sé e per sé che fornisce una tale piacevole sensazione, del tutto simile a
quella forma di “orgasmo emotivo” provato dal cosiddetto “forte giocatore” quando
scommette e aspetta i risultati. Può essere considerata una variante del “Taking Risk”,
classico delle persone “bisognose di rischio” o di forti emozioni che troviamo non
soltanto nei forti giocatori di carte ma anche per esempio, nei praticanti della cosiddetta
roulette russa mediante pistole.
d) Il Serial Killer del “Controllo del potere” è, invece, quel tipo di omicida in serie il
cui scopo principale è quello di esercitare il totale controllo su di un’altra persona, fino
al potere definitivo di deciderne il destino. In questi casi, lo stupro, la sodomia e la
distruzione dell’anatomia sessuale, non hanno in effetti una reale motivazione a
carattere erotico (ed il sesso costituirebbe quindi soltanto uno strumento, un veicolo),
bensì rappresentano essenzialmente il desiderio più profondo di esercitare il proprio
potere ed il totale controllo psicofisico sulla vittima.
L’approfondito esame del caso Jeffrey Dahmer, il mostro di Milwaukee, ha difatti
confermato appieno tale necessità di psicofisico controllo totale della vittima,
spersonalizzata e considerata pertanto alla stessa stregua di un oggetto.
La categoria dei serial killers del “controllo del potere” può, ma non sempre, essere
associata ad una quinta categoria, rappresentata dal:
e) tipo Lussurioso (Lust Killer) il cui principale scopo, più che il controllo del potere è
quello essenzialmente di ottenere un soddisfacimento di carattere meramente sessuale.
Si ritiene che i serial killers di tipo lussurioso siano caratterizzati essenzialmente da
iperstimolazione organico-sessuale per scompenso ormonale, importante da considerarsi
in quanto ben proficuamente risentirebbe di un trattamento farmacologico ormonale
riequilibrante, quale ad esempio quello del Ciproterone trattato che potrebbe
rappresentare, se il soggetto è consenziente, una sorta di castrazione chimica non
definitiva, bensì reversibile alla sospensione del trattamento, già ammessa in California.
È doveroso considerare in questa sede che, una cospicua stimolazione organica, può
verificarsi anche in occasione delle fasi maniacali della sindrome maniaco-depressiva a
carattere ciclico, oppure in caso di disturbi della personalità di tipo ossessivo con
prevalenza di monoideismo5 a carattere sessuale. Sempre l’FBI considera i serial killers
5
In psicologia si intende una concentrazione morbosa della mente su un’unica idea dominante.
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lussuriosi come appartenenti a due tipi: quello “asociale disorganizzato” abitualmente
psicotico, caotico e bizzarro nel suo comportamento sessuale e quello “asociale
organizzato” che si distingue per metodicità, accuratezza di esecuzione materiale e
astuzie, pienamente consapevole della criminalità delle sue azioni, nonché dell’impatto
sulla società e desidera l’eccitamento che gli deriva dalla pubblicità fornitagli dalla
scoperta dei cadaveri.
Nei serial killers lussuriosi, le fantasie giocano un ampissimo ruolo e spesso passano
molto tempo a fantasticare sulle modalità per portare a termine le loro azioni criminose.
Psicanaliticamente tale sadismo si ritiene attribuibile ad un arresto del proprio sviluppo
psicosessuale con una non sviluppata capacità di controllo sulla sfera istintuale
primordiale, quest’ultima, innata in ciascun essere umano.
Il comportamento sadico quando sezionano in modo bestiale le proprie vittime, è stato
paragonato a quello del bambino che distrugge i propri giocattoli prima di essere
riuscito a conquistare lo sviluppo dei suoi freni inibitori, questi ultimi, in grado poi di
ben equilibrare e/o di gestire le pulsionalità più profonde.
Per Millon si tratterebbe di inflessibilità adattiva, ovverosia di una riduzione delle
strategie alternative dinanzi ad un problema, con conseguente riduzione delle possibilità
di apprendere nuovi schemi comportamentali più funzionali, adulti ed equilibrati,
associata alla presenza di circoli viziosi di comportamento, con successiva
riproposizione degli stessi effetti comportamentali in definitiva con patologiche
distorsioni degli schemi cognitivi ed interpretativi della realtà esterna, commisti ad una
bassissima soglia di tolleranza allo stress. Ovviamente il tutto, in un concorso di cause
educazionali, ambientali, intrapsichiche, adattive e biologiche.
Uno degli innumerevoli esempi di questo tipo di serial killer ci viene fornito dal
diciottenne William Heirens di Chicago che violentò ed uccise le sue vittime
strangolandole, ne fece a pezzi i corpi e li nascose in una botola. Quando fu arrestato
dichiarò: “Per Dio fermatemi prima che uccida ancora. Non posso controllarmi”.
Tra gli altri serial killers di questo “tipo lussurioso” vi troviamo per esempio:
l’ungherese Bela Kiss (1916), George J. Smith in Inghilterra ed Henry Desirè Landru in
Francia (1921), Earle Nelson negli Stati Uniti (1926), Albert Fish a New York (1929), il
“macellaio pazzo” di Kingbury Run a Cleveland tra il 1935 ed il 1938, Rudolph Pleil
(1958) e Richard Speek a Chicago (1966), Ed Kemper e Dean Corll nel Texas (1973),
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Joachin Kroll (1976), e poi altri esempi ancora tra i quali David Berkovitz “il figlio di
Sam” a New York (1977), Kenneth Bianchi “lo strangolatore di Hillside” a Los Angeles
(1978), Peter Sutcliffe “lo squartatore dello York-shire” in Inghilterra, Theodore Bundy
(1975), John Wayne Gacy a Chicago, giustiziato di recente, ed altri ancora, non ultimo
Joel Rifkin a New York (1994).
Tra i più noti serial killers del gruppo dei serial killers sadici, il tedesco Bruno Ludtke
detiene il record degli omicidi sessuali noti, avendo confessato 85 omicidi commessi tra
il 1927 e 1944. Egli affermò di aver tagliato pezzi di carne dalle natiche e dalle cosce di
14 delle sue vittime e di averli più tardi mangiati.
Molte delle vittime dei suddetti killers, sia maschi che femmine, vennero impalate dopo
la morte.
Il killer americano Ed Kemper (1973) ha mostrato un comportamento molto simile a
quello di Jeffrey Dahmer. Egli ha violentato i corpi delle vittime a casa di sua madre e,
dopo averle uccise, le ha fatte a pezzi ed apparentemente ha goduto nell’aver avuto
rapporti sessuali con un corpo privo della testa. Alcuni dei suoi omicidi presentano
elementi di necrofilia.
La mutilazione dei corpi, con lo smembramento, la dissezione chirurgica e la
decapitazione, è piuttosto frequente nelle vittime dei sexual serial killers, da Ted Bundy,
Jack lo Squartatore, a Fritz Haarmann di Hannover.
Il sadismo, come per esempio quello espresso anche da Nevil Heath, l’assassino che
uccise due ragazze in Bretagna nel 1946, non è sempre una questione di desiderio
sessuale, ma più spesso di necessità di affermazione dell’Io, come reazione alle
umiliazioni subite da un uomo che non ha successo, con bassissima soglia di tolleranza
alle frustrazioni, nonché un concorso di cause educazionali, ambientali, ecc…
Rudolf Pleil nel 1958 uccise 50 donne e si dichiarò orgoglioso della sua “perfezione”.
Richard Speck è ben noto per l’omicidio di ben 8 giovani infermiere a Chicago, nel
1966. Tutti i corpi delle vittime vennero trovati nudi, coperti di tagli e di ferite vari.
Tutti i suddetti serial killers raggiungevano l’orgasmo attraverso la feroce mutilazione
dei corpi delle vittime. Alla base dei loro crimini c’era un notevole impulso sessuale,
unito ad abnorme aggressività ed al desiderio di controllo sull’altro essere umano.
Spesso i delitti commessi mostrarono una buona dose di programmazione metodica. A
volte le vittime, come nel caso Dahmer, venivano messe in posizioni sessuali oscene e
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fotografate per ricordo. Spesso i corpi venivano smembrati ed a volte la loro carne
veniva mangiata dal killer sadico, come nei casi di Karl Denke, di Albert Fish e di
Joachin Kroll. Denke, affittava camere in una casa di Munsterberger e uccise oltre una
dozzina di vagabondi, uomini e donne, e mangiò parte dei loro corpi, che teneva
conservati in salamoia. Nel 1928, a New York, Fish, un vecchio dall’aspetto gentile,
torturò un gran numero di bambini e li uccise strangolandoli, quindi mangiando parte
dei loro corpi in una specie di stufato. Kroll e Dean Corll, nel 1973 in Texas,
violentarono, torturarono ed uccisero 31 ragazzi.
Nel 1974 Paul John Knowles in seguito alla sue crisi incoercibili, violentò ed uccise 19
donne in 4 mesi. Nel 1976 e nel 1977, a New York, David Berkowitz – il figlio di Sam –
uccise giovani donne e coppiette; gli vennero attribuiti 7 assassinii. Kenneth Bianchi, lo
strangolatore di Hillside, che in seguito sostenne di avere una doppia personalità,
commise 7 omicidi a Los Angeles tra il 1977 ed il 1978; tutte le sue vittime erano
donne. Nel 1978, a Chicago, nella casa di John Wayne Gacy vennero trovati i corpi di
28 giovani. Egli ammise di averne uccisi altri 5. Uccideva i giovani nel corso di una
violenza omosessuale sadica. Peter Sutcliffe, il trentacinquenne squartatore dello
Yorkshire, in Inghilterra, uccise 13 donne mutilandole. Egli dichiarò di ricavare una
gratificazione sessuale nell’accoltellare le vittime.
Ted Bundy commise i suoi omicidi depravati, tra il 1974 ed il 1978. Venne accusato
dell’uccisione di 19 giovani studentesse, spesso dello stesso tipo corporeo e con lo
stesso aspetto. Egli commise questi omicidi durante le sue crisi di esasperato
narcisismo. Successivamente sostenne di aver ucciso oltre 300 donne.
Questa lunga lista di serial killers a sfondo sessuale mostra la diffusione di questo
demone sociale. Sfortunatamente questi sono solo i casi registrati. È logico ritenere che
il numero reale sia maggiore e che la loro presenza nella nostra società sia più alta di
quanto non pensiamo. Tuttavia, la maggior parte di questi individui che uccidono non
mostra alcun comportamento particolare ben individuabile o discutibile, il che ne rende
più difficile l’identificazione.
Abra Hamsen, nel 1973, sostenne che il cosiddetto omicida plurimo è un individuo
molto malato. Spesso si tratta di schizofrenici paranoidi ed i loro omicidi sono di tipo
bizzarro, caotico ed inesplicabile, analogo al tipo “asociale disorganizzato” come
definito dall’FBI. Tuttavia non è sempre così, difatti soltanto più di recente è stato
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possibile distinguere il tipo “asociale disorganizzato” classico del malato mentale da
quello “asociale organizzato” a cui appartengono la maggior parte dei serial killers.
Di enorme importanza ai fini di studio e di interesse criminologico, si presentano alcuni
casi, oltremodo noti alle cronache ed approfonditamente esaminati, quale quello per
esempio di Jeffrey Dahmer definito il Mostro di Milwaukee, che ci consente di
comprendere meglio le più peculiari sfaccettature dei meccanismi psicologici comuni a
più serial killers.
Jeffrey Dahmer di anni 32, dichiarato sano di mente, è stato condannato a 15 ergastoli
per i suoi 15 omicidi effettuati con accoltellamento o strangolamento. Fotografava i
cadaveri o parti di essi che abitualmente frantumava, sezionava, smembrava, eviscerava
con cottura delle carni e tentativi di conservazione. Era spinto da un’enorme ostilità
repressa e da desideri frustrati, nonché profondi sentimenti di paura di essere rifiutato.
Difatti, durante tutta l’infanzia e adolescenza è stato frustrato sia dalle eccessive
richieste del padre e sia dal comportamento imprevedibile della madre nei suoi riguardi
e nei riguardi del padre con cui vi erano perenni litigi, conclusi poi con un divorzio
traumatico che ha lasciato l’imputato con sentimenti di rabbia, rifiuto, frustrato e privo
di guida.
Già durante i continui litigi dei genitori, Dahmer esprimeva il proprio risentimento con
attività distruttiva nei boschi circostanti la casa, colpendo ripetutamente con
atteggiamento imbronciato e solitario gli alberi, con dei bastoni, per intere ore, ed era
incapace di esprimere la propria rabbia in altro modo, anche con i compagni, definiti da
lui stesso “grassi, sciocchi ed arroganti”.
Lo prendevano in giro ed era incapace di esprimere la propria rabbia per paura di
vendette e di “peggiorare le cose”. Dalla anamnesi risultante negli atti del processo e
quindi dalle interviste allargate alla famiglia risulta che il piccolo Jeffrey si sentiva privo
di speranze nel suo desiderio di cambiare la vita. Era un isolato con periodi alternati di
forte aggressività, insicuro, con profondi sentimenti di inferiorità e di essere rifiutato,
del tutto privo di empatia nei confronti degli altri, con atteggiamento francamente
asettico, anaffettivo e di difesa: “… non mi è mai piaciuto lo sport” dice Dahmer,
“….ho sempre pensato che gli altri erano migliori di me. Ero invidioso degli altri
ragazzi. A volte provavo un risentimento così profondo da pensare di doverli uccidere”.
Sempre durante la prima adolescenza è stato coinvolto in attività omosessuali con un
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suo coetaneo, solo per 4 o 5 volte.
Non ha mai avuto esperienze eterosessuali e si masturbava guardando uomini attraenti,
giovani muscolosi, su riviste omosessuali. Dissezionava piccoli animali quali i girini,
ma anche cani e volpi e li conservava in formaldeide. A scuola effettuò alcune
dissezioni al corso di biologia e una volta portò a casa la testa di un maiale conservando
gelosamente il cranio. Beveva alcolici già all’età di 13 anni, mentre all’età di 17-18
iniziò a fare uso di sostanze.
La sua prima anomala fantasia fu di colpire a 15 anni con una mazza da baseball un
ragazzo bianco di 18 anni mentre passeggiava a 5 migli da casa: “… il tipo mi piaceva”
dice Dahmer “… e avevo la fantasia di colpirlo sulla testa e fare sesso con lui”. La sua
attività omosessuale (peraltro mai di tipo passivo) omicida ed il sesso non
rappresentavano altro che il tramite per esprimere i suoi impulsi di compensatoria
prevaricazione, comando, controllo e possesso dell’altro essere umano, a causa dei suoi
profondi sentimenti di essere rifiutato. Difatti, a tal proposito così si esprimeva: “… lo
volevo tenere lì… non volevo perderlo… lo trovavo particolarmente attraente… volevo
tenermi dei suoi ricordi… continuavo a giacere accanto al suo corpo morto,
baciandolo”; e poi ancora: “... ho sempre avuto il desiderio di controllare gli eventi. Ho
spesso fantasticato di essere sempre in grado di avere quello che volevo: potere, sesso,
denaro”.
Sulla scorta dell’esperienza fornitaci dalla disamina da parte dell’FBI nonché di più
Autori6, delle centinaia di serial killers ormai di pubblico dominio, passiamo ora alla III
classificazione relativa alle componenti psicodinamiche e comportamentali comuni a
tutti i serial killers.
Trattasi di ben 24 componenti, non sempre presenti in toto in tutti i serial killers ma che
si articolano a mò di caleidoscopio, con prevalenza di queste o di quelle componenti a
seconda del singolo caso.
Vi troviamo:
a) il timore di perdere la stima di sé;
b) le sue più profonde aspirazioni narcisistiche;
c) le frustrazioni subite in tal senso;
d) l’estrinsecazione della volontà di potenza compensatoria (il cosiddetto “sé grandioso
6
PALERMO G. B., Aggressività e violenza. Oggi: Teorie e manifestazioni, Edizioni Essebiemme,
Noceto (PR), 2001.
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patologico” o formazione reattiva di superiorità nei confronti dei propri profondi
sentimenti di inferiorità);
e) il narcisismo maligno;
f) abnormi timori abbandonici a causa spesso dell’inesistente del tutto, strutturazione del
fisiologico complesso edipico7;
g) razionalità più che emozionalità;
h) comunicazione fredda, asettica e non emozionale;
i) fantasie di controllo, potere e totale dominio sulla vittima;
l) fantasie di sesso-violenza alimentata da film o riviste in cui vi è correlazione tra sesso
e violenza e preferenza per le attività autoerotiche;
m) fantasie di squartamento, necrofilia, cannibalismo;
n) desiderio di trattenere con sé il cadavere della vittima o parte di essa;
o) compromessa identificazione con il proprio sesso;
p) deformazione della capacità di amare;
q) indifferenza per la propria vita;
r) indifferenza per la vita altrui;
s) impulsività;
t) ostilità e tendenza alla menzogna;
u) aggressività e incapacità di adeguarsi ai regolamenti ed agli impegni della società;
v) schemi di comportamento ossessivo compulsivo con un vero e proprio graduale
processo di apprendimento;
w) ricerca di vittime fisicamente attraenti e non capaci di opporre eccessiva resistenza
fisica;
x) assenza di rimorsi;
y) gratificazione dalla pubblicità fornita loro dal ritrovamento dei corpi e della
mitizzazione dei mass media verso le loro persone;
z) tendenza dichiarata alla recidiva.
Per quanto riguarda invece il IV punto relativo alla classificazione delle fasi
dell’omicidio seriale vi troviamo:
1) la fase aurorale;
7
MASTRONARDI V., Manuale per operatori criminologici e psicopatologici forensi, Giuffrè, Milano,
2012.
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2) la fase di puntamento;
3) la fase della seduzione;
4) la fase della cattura;
5) la fase omicidiaria;
6) la fase totemica;
7) la fase depressiva.
2.2 Il ruolo delle fantasie
Nella mente del serial killer la fantasia è quello strumento che permette al bambino
traumatizzato di sfuggire dal mondo dei suoi carnefici; nella fantasia il piccolo ha il
controllo della situazione, nella fantasia può reindirizzare l’ostilità e la violenza di cui è
bersaglio, dirigendola verso gli altri. Soprattutto fra i serial killers che uccidono per il
piacere sessuale, ma in quasi tutti gli assassini seriali, sognare ad occhi aperti,
fantasticare un’esperienza sadica e brutale con la vittima è un momento comune e
centrale. Il comportamento che l’omicida tiene sulla scena del crimine si modella
appunto su tali fantasie, che anticipano l’azione. Ma l’impossibilità che la vittima
risponda all’aggressione in modo esattamente prevedibile conduce ad una discrepanza
tra quanto immaginato e quanto sperimentato nel momento dell’esplosione della
violenza. Non ci potrà mai essere piena corrispondenza tra aspettativa e realtà: ecco
quindi carburante per nuove e sempre più raffinate fantasie.
La maggior parte di noi mette in scena, nell’immaginario, situazioni dalle più innocenti
alle più aggressive, attribuendo loro un valore sostanzialmente positivo, spesso
terapeutico. Nel serial killer, invece, violenza e sesso sono asserviti da un piacere
maggiore: il totale controllo della vittima. Ciò è talmente importante che spesso la
morte della vittima costituisce un evento antieconomico nella ricerca di piacere: così si
spiega il racconto di coloro che sono riusciti a sopravvivere ad un assassino proprio
aderendo allo schema di comportamento proposto dall’aggressore, uno schema di pieno
asservimento alla sua fantasia di controllo totale.
Le torture e le umiliazioni che il serial killer attua, rappresentano poi il tentativo di
disumanizzare, spersonalizzare la vittima. È durante l’aggressione, la degradazione, la
tortura, che le fantasie legate all’originario trauma infantile trovano spazio e si
traducono in atti di violenza. Possono trascorrere anche dieci o vent’anni fra gli eventi
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traumatici ed il comportamento omicidiario, periodo durante il quale il killer si è
totalmente dissociato dal trauma, lo ha rimosso e confinato al di fuori dell’area di
consapevolezza. La dissociazione ha permesso all’omicida di mantenere un sufficiente
controllo della realtà ed un accettabile inserimento nel mondo sociale. Ma quando
interviene un fattore scatenante, ad esempio un trauma che anche simbolicamente
riconduce al passato, un’umiliazione, un abbandono, la drammaticità dell’esperienza
infantile riprende il sopravvento, minaccia di travolgere un equilibrio psichico esile e
precario, di annientare.
È necessario fronteggiare l’angoscia, il panico, l’insopportabile sensazione di completa
vulnerabilità: occorre agire per riprendere il controllo, per ristabilire una continuità.
Uccidere diviene un mezzo per dominare paure inesprimibili.
Il primo delitto può non essere pienamente progettato e costruito con precisione:
l’assassino è allora maldestro, forse la morte della vittima non è nemmeno ricercata
consapevolmente.
La sensazione di onnipotenza, tuttavia, è inesprimibile. Non è più possibile rinunciarvi.
2.3. Dalla fantasia all’omicidio
Joel Norris8, psicologo statunitense, per primo identifica e descrive il comportamento
dei serial killers come scandito da un andamento ciclico, secondo il succedersi di fasi
ben distinte e fortemente intrecciate:
fase aurorale: il killer gradualmente si ritrae dalla realtà, se ne distacca, elaborando
fantasie sempre più precise e articolate, che lo spingono all’azione;
fase di puntamento: l’assassino è alla ricerca della sua preda, su un terreno che studia
con attenzione. Concentrato, determinato, si è trasformato in un predatore letale;
fase della seduzione: avviene l’approccio con la vittima, che viene prima sedotta, poi
ingannata e sopraffatta;
fase della cattura: la vittima è talmente controllata dal suo aggressore, la fantasia può
trovare la sua rappresentazione;
fase omicidiaria: l’omicidio avviene con modalità fortemente simboliche, rimandando a
situazioni di grande impatto vissute nell’infanzia. Costituisce nello stesso tempo uno
scarico emotivo e sessuale;
8
NORRIS J., Serial Killers: The Growing Menace, Doubleday, New York, NY, 1988.
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fase totemica: il serial killer cerca di protrarre il più a lungo possibile il piacere derivato
dall’uccidere. Ecco, quindi, il fotografare, lo smembrare, gli atti cannibalici,
l’impossessarsi di parti del corpo o oggetti della vittima come trofei;
fase depressiva: subentra non appena l’illusione svanisce e il piacere viene meno.
L’assassino realizza che nulla è cambiato nella sua vita, l’onnipotenza assaporata nel
disporre della vita e della morte della vittima ha lasciato spazio alla sua profonda
inadeguatezza, all’impossibilità di colmare l’abisso della propria solitudine.
Il ciclo è completo.
Nell’ultima fase, la depressiva, in qualche caso può avvenire che l’assassino cerchi di
agevolare la propria identificazione e la cattura, giungendo a volte persino alla
confessione; il suo racconto allora può essere accolto con grande scetticismo. Occorre,
tuttavia, ricordare come, in ogni indagine su un grave delitto, seriale o no, compaia
spesso un mitomane e come in ogni caso non sia facile distinguerlo immediatamente.
2.3.1. La fase totemica: trofei e souvenirs
Alcuni assassini seriali amano collezionare trofei o souvenirs che appartengono alla
vittima, oppure sono ad essa collegati. Gli analisti dell’FBI distinguono i “trofei”,
raccolti da quelli che definiscono gli assassini organizzati, per ricordare il proprio
successo nella caccia, dai “souvenirs”, più tipici dei killers disorganizzati, oggetti che
costituiscono il fulcro delle loro fantasie malate, catalizzatori di nuovi progetti di
distruzione. Anche se la distinzione non è da tutti riconosciuta, trofei e souvenirs vanno
riferiti ad un unico momento del ciclo del serial killer secondo Norris: la fase totemica.
Nel caso di omicidi a sfondo sadico-sessuale, il trofeo può poi essere rappresentato da
una parte del corpo della vittima.
Dal punto di vista investigativo è evidentemente importante identificare cosa sia stato
sottratto, per poterne individuare il significato simbolico e, unitamente ad altri dettagli
della scena del crimine, ricostruire il profilo di personalità dall’assassino ancora
sconosciuto.
Jerome Hernry Brudos nasce nel gennaio del 1939 nel Sud Dakota e, ancora bambino, si
trasferisce con la propria famiglia in California.
Due sono i momenti fondamentali che segnano la sua infanzia: una madre dominante,
incapace di qualunque manifestazione d’affetto e l’interesse feticistico, precoce e
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insolito, per le calzature femminili. Ha appena compiuto 5 anni quando, tra i rifiuti
abbandonati, scopre un paio di scarpe con i tacchi alti; le porta a casa, le indossa
ammirandosi allo specchio, ma viene scoperto dalla madre che si infuria, gliele strappa
dalle mani e le distrugge dandogli fuoco.
La reazione della donna fisserà per sempre il valore trasgressivo del feticcio: negli anni
successivi Jerome sottrae le scarpe alla sorella. Ha imparato a non farsi scoprire. A 16
anni non è capace di resistere alla tentazione di rubarle ai vicini di casa. Un anno dopo,
per la prima volta, deve affrontare un tribunale minorile: ha aggredito una ragazza che
rifiutava le sue violente richieste di un rapporto fisico. Dopo essere stato sottoposto ad
un trattamento psichiatrico, che però non dà alcun risultato, si arruola nell’esercito nel
1959. Ha 20 anni ed i suoi sogni cominciano a popolarsi di ragazze che si insinuano di
notte nel suo letto. Jerome ha comportamenti strani, si aliena le simpatie dei compagni
ed è costretto ad abbandonare la vita militare dopo pochi mesi.
Nel 1961 ha il suo primo rapporto sessuale: la ragazza rimane incinta e lui è costretto a
sposarla. Il matrimonio non inciderà per nulla sulle sue condotte perverse.
L’interesse per Brudos non si limita più alle scarpe, ma si estende alla biancheria intima,
che sottrae dalle case del vicinato durante le sue visite notturne. In occasione di uno di
questi furti una donna si sveglia improvvisamente e lo sorprende: la aggredisce,
facendole perdere conoscenza e, prima di lasciare l’abitazione con i suoi trofei, la
violenta.
Il 26 gennaio 1965 Jerome Brudos fa la sua prima vittima: Linda Slawson, 19 anni,
bussa alla porta dell’uomo proponendogli l’acquisto a rate di un’enciclopedia. Dopo di
lei, il serial killer colpirà altre quattro volte.
Delle vittime conserva trofei: asporta il seno di una donna, lo tratta con sostanze
chimiche e lo trasforma nel suo fermacarte preferito. Attinge alla sua collezione di
indumenti intimi per vestire i cadaveri, agghindarsi egli stesso e scattare fotografie che
colleziona, prima di liberarsi dei corpi che getta in un fiume. Ma, come spesso accade
negli omicidi seriali, l’assassino abbandona la prudenza: una vittima prescelta sfugge
all’aggressione. Brudos inizia allora a contattare studentesse del vicino campus
universitario, invitandole telefonicamente per un appuntamento.
Identificato e catturato, la polizia ne perquisisce l’abitazione rinvenendo la sua
“collezione di trofei”. In uno degli scatti, accanto al corpo senza vita di una vittima,
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agghindato e messo in posa, inavvertitamente ha ritratto se stesso. Il 27 giugno 1969
venne condannato al carcere a vita.
2.4. La scena del crimine
L’analisi della scena del crimine rappresenta il primo passo in qualunque indagine, sia
che ci si debba occupare di un furto con scasso, sia che si abbia a che fare con un
omicidio efferato. La scena del crimine appare ancora più importante nel caso dei delitti
seriali, perché lì, con il ripetersi degli omicidi, il serial killer inevitabilmente racconta
qualcosa di sé agli investigatori. E racconta in ogni scena un particolare in più, un
dettaglio che rimanda al proprio modo di percepire e di comportarsi; in alcuni casi, non
rari, l’omicida lascia un segno chiaro, lancia una sfida, poco importa agli investigatori
quanto egli ne sia consapevole. La capacità di leggere ed interpretare correttamente la
scena di un delitto nasce da un’unica, originale abilità di sintesi, fatta di preparazione
scientifica, di esperienza sul campo, di intuizione, potremmo dire, artistica.
Intuizione artistica: può sembrare un’immagine forzata, da libro giallo o da pellicola
hollywoodiana. Invece, molto semplicemente, gli agenti speciali dell’FBI spesso
descrivono il teatro di un crimine come la tela di un pittore e il detective procede come
un critico d’arte impegnato nello sforzo di cogliere l’animo dell’artista nella
disposizione delle forme o nella distribuzione dei colori.
Ma la scena del crimine non è certamente solo una palestra per cultori delle arti
figurative, e si fonda su parametri certi, il primo dei quali, principio base della
criminalistica, lo dobbiamo ad Edmond Locard, responsabile del laboratorio di polizia
scientifica di Lione, a cavallo tra il XIX ed il XX secolo. Locard, nel 1910, enuncia il
suo celebre “principio di interscambio”: quando due soggetti entrano in contatto tra
loro, ne deriva un trasferimento di materiale dall’oggetto A all’oggetto B o viceversa,
oppure si ha un trasferimento reciproco. In sostanza: ogni criminale lascia sulla scena
traccia di sé e di ogni scena rimane traccia del criminale.
Il riferimento alla scena del crimine ci consente di aggiungere elementi per identificare
il serial killer; riprendiamo, illustrandoli con esempi, le caratteristiche principali
dell’azione dell’assassino ed i comportamenti evidenziabili sulla scena del crimine che è
necessario analizzare e comprendere: il modus operandi, la firma, la forensic awareness,
lo staging e l’undoing.
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Il modus operandi rappresenta l’insieme dei comportamenti, delle azioni che il
criminale compie per realizzare il proprio delitto; si tratta di tutto ciò che viene ritenuto
indispensabile per raggiungere lo scopo prefissato. Il killer apprende progressivamente
quale condotta, fra le tante, sia quella più economica ed efficace. Per questo motivo il
modus operandi può modificarsi da un delitto al successivo, in base all’esperienza.
14 luglio 1974. La spiaggia sulle rive del Lago Sammamish.
Janice Orr e Denise Naslund, belle ragazze giovani e dai lunghi capelli scuri,
scompaiono nel nulla. Da tempo gli investigatori sanno di avere a che fare con un
assassino seriale, perché le ragazze svanite senza lasciare traccia sono già molte e di
alcune di loro, a distanza di tempo, è stato rinvenuto il cadavere.
Finalmente una testimonianza: Janice Graham, anche lei giovane e carina, racconta di
essere stata avvicinata da un uomo attraente, di età fra i 20 ed i 25 anni, che si è
presentato a lei con il nome di Ted. Gentile, affascinante, vestito con un paio di jeans ed
un t-shirt bianca, colpisce particolarmente l’attenzione di Janice per l’ingessatura che
porta ad un braccio, sospeso al collo da una fascia. L’uomo racconta di essersi
infortunato durante una partita di tennis e le chiede aiuto per issare una tavola da vela
sul tetto della propria auto. In fondo non c’è nulla di male nel dare una mano a quel
ragazzo, che fra l’altro è anche giovane e carino. Giunti però all’area del parcheggio,
Janice non trova alcuna tavola da caricare. Ted le dice allora che avrebbe dovuta
recuperarla a casa dei suoi genitori e la invita a salire in auto e ad accompagnarlo. La
ragazza ha un’esitazione: “Si è fatto tardi, devo correre, mio marito mi sta
aspettando…”. Un’esitazione che le salverà la vita.
L’uomo le sorride e la saluta. Poco più tardi, però, mescolandosi alla folla, Janice vede
l’uomo dirigersi verso la propria auto. Al suo fianco una ragazza bella, giovane e
sorridente. Ted Bundy userà più volte questo stratagemma. Il suo sorriso è nel contempo
seduttivo ed innocente e la simulata lesione al braccio lo fa apparire innocuo.
Le ragazze che accettano alla fine di salire sulla sua auto trovano una seconda, ben più
allarmante sorpresa: la maniglia della loro portiera è stata rimossa. Non è possibile
fuggire dall’auto.
A differenza del modus operandi, la firma o signature, non rappresenta un
comportamento indispensabile per portare a compimento l’azione criminale. Evidenzia
piuttosto un bisogno psicologico profondo, un messaggio più o meno consapevole
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lanciato agli investigatori e, come tale, si presenta con costanza nei successivi delitti
della serie. Comportamento statico dunque e di grandissima importanza per la
decifrazione della personalità, dei conflitti, dei bisogni, dei disturbi. Per illustrare gli
aspetti di signature nei delitti di un serial killer, il Crime Classification Manual
racconta il caso di Steven Pennell.
Steven Pennell è un assassino, un sadico sessuale, autore di almeno 3 omicidi, tutti ai
danni di prostitute con una storia di tossicodipendenza alle spalle. Il modus operandi del
killer, costante nei diversi delitti, prevede il contenimento della vittima, legata con corde
e immobilizzata con nastro isolante: solo in questo modo Pennell può torturare,
esercitando un controllo totale.
La firma di questo assassino si rivela, invece, nella natura delle lesioni inflitte. Pennell
si accanisce infatti su alcune parti del corpo, in particolare sul seno e sulle natiche,
colpendo e martoriando con vari oggetti quali martelli, pinze e tenaglie. L’aggressività
sadica si scatena su vittime ancora in vita, per la gratificazione sessuale che il killer trae
dalla sofferenza delle donne. Un altro elemento riconducibile alla firma dell’assassino è
la modalità con cui si libera dei cadaveri: pienamente visibili, gettati con fredda
indifferenza ai bordi di una strada di grande passaggio.
Insieme al modus operandi ed alla firma, altro elemento fondamentale del
comportamento dell’assassino è la forensic awareness, un termine difficile da tradurre
ma che, in sostanza, può essere riassunto come l’attenzione del criminale a tutti quegli
accorgimenti prima, durante e dopo la commissione di un delitto, finalizzati a non
lasciare tracce o indizi che possono far risalire alla sua identità.
Per illustrare il concetto di forensic awareness, viene solitamente presentato l’esempio
di uno stupratore seriale, la cui carriera criminale si concluse con l’omicidio della sua
ultima vittima. L’uomo aggrediva giovani donne nel più assoluto silenzio, il volto
incappucciato, costringendole dopo la violenza subita a denudarsi degli abiti che
portava via con sé e a lavarsi con un detersivo industriale.
Di fronte ad un delitto con queste caratteristiche, anche in assenza di una serialità, il
detective può ipotizzare che il delinquente sconosciuto sia in realtà un soggetto con una
precedente carriera criminale e muoversi quindi alla ricerca di passate condanne per
episodi di segno simile.
Ovviamente la forensic awareness è una condotta appresa e generalmente si modifica ad
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ogni successivo episodio, rendendo sempre più difficile il lavoro di investigazione.
Se modus operandi, firma, forensic awareness sono peculiarità del criminale, staging e
undoing si riferiscono, invece, alle caratteristiche della scena del delitto e della
disposizione della vittima.
Lo staging, la messa in scena, rappresenta la deliberata alterazione della scena del
crimine prima dell’arrivo delle forze di polizia. Due sono le motivazioni alla base dello
staging: la prima, la più intuibile, risponde all’esigenza di depistare gli investigatori
allontanando i sospetti dall’autore del reato. La seconda, meno frequente, è tipicamente
associata alle morti nel corso delle cosiddette autoerotic fatalities, le pratiche sessuali
autoerotiche che, per errore o leggerezza, possono concludersi con la morte del
soggetto, particolarmente incline a coltivare in solitudine il piacere, pertanto non
facilmente soccorribile in caso di necessità. In questi casi, infatti, il piacere viene
ricercato attraverso un’asfissia controllata dal soggetto stesso; costrizioni al collo
riducono l’apporto di sangue arterioso al cervello e la condizione di lieve ipossia che si
viene a creare amplificherebbe l’intensità di un orgasmo ottenuto attraverso la
masturbazione. Ecco allora che, chi interviene per primo sulla scena, da un lato non
vuole comparire, dall’altro può avvertire il bisogno di proteggere la vittima o i suoi
familiari dalla vergogna e dall’umiliazione.
A differenza dello staging, l’undoing (traducibile con disfare, annullare) sulla scena del
crimine è un’evenienza rara. Anch’esso rappresenta una deliberata modificazione del
luogo in cui è stato commesso un crimine, ma va attribuita al rimorso dell’assassino,
che si sente in qualche misura colpevole del delitto e cerca di prendere le distanze
quanto meno sul piano simbolico. Può allora ricoprire il volto della vittima, spostare il
corpo, ricomporlo in una posizione di dignità, la dignità che ha svilito con la sua
mortale aggressione.
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2.4.1. Caratteristiche della scena del crimine associate alle differenti tipologie di
serial Killers9
CARATTERISTICHE Visionario
Missionario Edonista
Lussurioso
Controllo
Lust killer
del
potere
Scena del crimine sotto
No
Si
Si
Si
Si
Overkilling
Si
No
No
No
No
Tortura
No
No
No
Si
Si
Spostamento del
No
No
No
Si
Si
Vittima specifica
No
Si
Si
Si
Si
Arma lasciata sulla
Si
No
Si
No
No
No
No
Si
No
No
Vittima conosciuta
Si
No
Si
No
No
Sesso aberrante
No
No
No
Si
Si
Strumenti di tortura
No
No
No
Si
Si
Strangolamento
No
No
No
Si
Si
Penetrazione sessuale
?
Si
Non
Si
Si
controllo
cadavere
scena
Conoscenza personale
della vittima
usuale
Penetrazione con
Si
No
No
Si
Si
Si
No
No
No
Si
oggetti
Necrofilia
9
HOLMES R., Profiling Violent Crimes, Sage Publications, New York, 1996.
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3. IL MONDO PERVERSO DEI SEXUAL SERIAL KILLERS
3.1. Cosa si intende con il termine “perversione”
Secondo la lingua italiana il termine “perversione” corrisponde ad una sorta di
degenerazione di un istinto, e dal latino il termine perversio è indicativo di
rovesciamento, volgimento, mentre pervertere è accomunato ai molteplici significati di
pervertire, abbattere, rovinare, confondere, violare.
Attesa, quindi, la pluralità delle pulsioni istintuali, il concetto di perversione può ben
agevolmente essere esteso ed applicato anche a quegli istinti non riducibili
esclusivamente alla sessualità.
Potremmo difatti registrare perversioni dell’istinto di nutrizione, del “senso morale”,
degli istinti sociali, del possesso esclusivo del coniuge ed altre.
Considerate le finalità del presente lavoro, lo stesso sarà mirato esclusivamente alla
perversione in rapporto alla sessualità e sulle conseguenze che i relativi comportamenti
perversi non disgiunti dall’acting-out (passaggio all’atto aggressivo), possono avere
sull’uomo inteso nel duplice ruolo di soggetto ed oggetto.
Freud parla di perversione riferendo unicamente il fenomeno alla sessualità; difatti lo
stesso Autore, pur riconoscendo l’esistenza di altre pulsioni, non considerò mai queste
ultime come perverse e nei “Tre saggi sulla sessualità”, scrive: … “la disposizione alla
perversione, non è qualcosa di raro e di particolare, bensì una parte della costituzione
detta normale”.
Freud, partendo dalla convinzione che esiste una sessualità infantile (sottoposta al gioco
delle pulsioni parziali, connesse alla diversità delle zone erogene), la quale precede lo
sviluppo sessuale vero e proprio, arrivò a considerarla e infine descriverla come una
“disposizione pervertita polimorfa”.
Pertanto, secondo Freud, la perversione sessuale adulta, non sarebbe altro che un
riaffiorare di pulsioni parziali della sessualità infantile, una regressione ad una
fissazione precedente della libido.
Secondo Laplanche e Pontalis10, la perversione è “una deviazione rispetto all’atto
sessuale normale, volto ad ottenere piacere mediante penetrazione genitale, con una
10
LAPLANCHE J., PONTALIS J. B., Enciclopedia della LECCESE E., Il serial killer, nella realtà e
nell’immaginario, Edizioni Universitarie Romane, Roma, 2001.
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persona del sesso opposto”.
Si dice che vi è perversione quando: l’orgasmo è ottenuto con altri oggetti sessuali
(omosessualità, pedofilia, rapporti con animali, ecc…) o con altre zone corporee
(piacere anale per esempio); l’orgasmo è subordinato in modo imperioso a certe
condizioni
intrinseche
(feticismo,
travestitismo,
voyeurismo,
esibizionismo,
sadomasochismo), che possono provocare da sole, il piacere sessuale. Più in generale, i
due Autori sottolineano che “si designa come perversione, l’insieme del comportamento
psicossessuale che si accompagna a tali atipie nell’ottenimento del piacere sessuale”.
Krafft-Ebing11 rimane uno degli Autori più autorevoli, che cercò di raggruppare le
psicopatie sessuali nell’elenco che segue:
- paradossia: consiste nella comparsa dello stimolo sessuale al di fuori del periodo
normale dell’attività anatomo-fisiologica degli organi di riproduzione;
- anestesia: mancanza di stimolo sessuale;
- iperestesia: aumento dello stimolo sessuale;
- parestesia: perversione dello stimolo sessuale.
Secondo lo stesso Krafft-Ebing è perversa ogni manifestazione dell’istinto sessuale non
corrispondente agli scopi ed alle finalità della natura, ovverosia la riproduzione.
Secondo tali vedute, le perversioni possono quindi essere suddivise in due grandi
gruppi: il primo in cui è da considerarsi perverso lo scopo dell’azione
(sadomasochismo, feticismo ed esibizionismo); il secondo in cui è viceversa perverso
l’oggetto e, di conseguenza, per lo più anche l’azione (omosessualità, pedofilia,
gerontofilia, zoofilia).
Il tentativo più recente di inquadrare le parafilie sotto un profilo medico è quello del
DSM, il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali.
Attualmente, la quarta versione elenca le forme più frequenti: l’esibizionismo, il
feticismo, il frotteurismo (il piacere che deriva dallo strofinarsi contro una persona non
consenziente), la pedofilia, il masochismo ed il sadismo sessuale, il feticismo di
travestimento ed il voyeurismo; assegnando poi alla categoria “non altrimenti
specificate”, forme meno comuni come la necrofilia, la coprofilia e via enumerando.
Va sottolineato, a scanso d’equivoci, come già dal 1974 l’omosessualità egosintonica,
vissuta consapevolmente e con accettazione, sia stata giustamente eliminata dall’elenco
11
KRAFFT-EBING VON R., Psychopathia Sexualis, a cura di E. De Beccard e R. Jotti, Homerus,
Roma, 1971.
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delle patologie.
Una classificazione utile la fa Robert Sadoff12 nel suo Sexual Deviance: Theory,
Assessment and Treatment del 1997. Per Sadoff le parafilie possono essere divise in due
grandi gruppi, che chiama aggressive e anonymous; nel primo ci sono lo stupro, il
sadismo e la pedofilia; mentre nel secondo trovano spazio forme come il feticismo ed il
frotteurismo.
Anil Aggrawal, docente di medicina legale dell’Università di New Delhi, ha proposto
per parafilici ed aggressori sessuali un graduale passaggio dalle pure parafilie ai crimini
sessuali; si parte con perversioni quali l’acarofilia, vale a dire il piacere sessuale del
grattarsi, per passare al feticismo, alla zoofilia ed all’esibizionismo; un gradino più in là
nella scala, ed ecco la necrofilia ed il sadismo, prima di giungere a condotte delittuose
come la pedofilia, lo stupro e l’omicidio per libidine.
La lacuna, però, di tutti questi studi è che nessuno, sino ad oggi, è in grado di chiarire,
una volta per tutte, a quale criterio riferirsi per stabilire se una condotta sessuale sia
deviante o patologica, se sia più utile la cornice statistica, quella religiosa oppure
culturale.
Ma per arrivare ai sexual serial killers, ai protagonisti di questo lavoro, manca un
passaggio fondamentale: quello che conduce dalla parafilia al crimine. È ovvio che non
tutti i parafilici si trasformano in criminali sessuali e non tutti i criminali sessuali sono
parafilici.
3.2. I Disturbi Sessuali
Nel Codice di Classificazione Nosografica Internazionale rappresentato dal DSM IV
(1996), tra i Disturbi Sessuali vi troviamo: le Disfunzioni Sessuali, le Parafilie e i
Disturbi dell’Identità di Genere.
Le Disfunzioni Sessuali sono caratterizzate da un’anomalia del desiderio sessuale e
delle modificazioni psicofisiologiche che caratterizzano il ciclo di risposta sessuale e
causano notevole disagio e difficoltà interpersonali. Le disfunzioni sessuali
comprendono i disturbi da avversione sessuale, i disturbi dell’eccitazione sessuale,
disturbo del piacere sessuale, disturbi da dolore sessuale, disfunzione sessuale dovuta ad
una condizione medica generale, disfunzione indotta da sostanze e disfunzione sessuale
12
SADOFF R., Sexual Deviance: Theory, Assessement and Treatment, Pocket, New York, 1997.
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non altrimenti specificata.
Le Parafilie sono fantasie, impulsi sessuali o comportamenti ricorrenti e intensamente
eccitanti sessualmente, che in generale riguardano: 1) oggetti inanimati, 2) la sofferenza
o l’umiliazione di se stessi o del partner, 3) bambini o altre persone non consenzienti,
che si manifestano per un periodo di almeno 6 mesi. Per alcuni soggetti, fantasie o
stimoli parafilici sono indispensabili per l’eccitazione sessuale e sono sempre inclusi
nell’attività sessuale. In altri casi, le preferenze parafiliche si manifestano solo
episodicamente (per es. durante periodi di stress), mentre altre volte il soggetto riesce a
funzionare sessualmente senza fantasie o stimoli parafilici. Il comportamento, i desideri
sessuali o le fantasie causano disagio clinicamente significativo o compromissione
dell’area sociale, lavorativa o di altre aree importanti del funzionamento.
Le fantasie parafiliche posso essere agite con un partner non consenziente in modo da
risultare lesive per il partner stesso (come nel sadismo sessuale o nella pedofilia). In
alcune situazioni, la messa in atto delle fantasie parafiliche può comportare lesioni auto
provocate (come nel masochismo sessuale). Le relazioni sessuali e sociali possono
essere danneggiate se altri trovano il comportamento sessuale vergognoso o ripugnante
o se il partner sessuale del soggetto rifiuta di condividere le preferenze sessuali
inusuali. In alcuni casi, il comportamento inusuale (per es. atti esibizionistici o
collezione di oggetti feticistici) può diventare l’attività sessuale principale nella vita
dell’individuo. Questi soggetti raramente giungono all’osservazione degli operatori
psichiatrici spontaneamente e, di solito, lo fanno solo quando il loro comportamento li
ha messi in conflitto con i partners sessuali o con la società. Non di rado, i soggetti
hanno più di una parafilia.
I Disturbi dell’Identità di Genere sono caratterizzati da un’intensa e persistente
identificazione con il sesso opposto, associata ad un persistente malessere riguardante la
propria assegnazione sessuale. Due ulteriori categorie aggiuntive sono poi rappresentate
dal Disturbo dell’Identità di Genere Non Altrimenti Specificato ed il Disturbo Sessuale
Non Altrimenti Specificato. Tale categoria viene inclusa per codificare i disturbi
dell’identità di genere che non sono classificabili come specifico Disturbo dell’Identità
di Genere. Gli esempi includono:
1) condizioni intersessuali (per es. sindrome di insensibilità agli androgeni o iperplasia
surrenale congenita) con concomitante disforia di genere:
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2) comportamento di travestimento con abbigliamento del sesso opposto transitorio e
connesso a stress;
3) persistenti pensieri di castrazione senza desiderio di acquisire le caratteristiche
sessuali del sesso opposto.
Viceversa, la seconda categoria del Disturbo Sessuale Non Altrimenti Specificato viene
inclusa per codificare un disturbo sessuale che non soddisfa i criteri di nessun Disturbo
Sessuale Specifico e non è né una Disfunzione Sessuale né una Parafilia. Gli esempi
includono:
1) marcati sentimenti di inadeguatezza riguardo alla presentazione sessuale o altre
caratteristiche connesse a standard auto-imposti di mascolinità o femminilità;
2) disagio connesso ad un quadro di ripetute relazioni sessuali con una successione di
partners vissuti dal soggetto come cosa da usare;
3) persistente ed intenso disagio riguardo all’orientamento sessuale.
3.3. La classificazione di Mac Cary
In questa sede non verranno trattati gli aspetti storico-filosofici, socio-culturali e
genetico-costituzionali dell’argomento in oggetto in quanto esulano dalle finalità del
presente lavoro, ma è bene sottolineare che, la letteratura sul tema ci fornisce una
multiformità di classificazioni tra cui, oltre a quella già riferita da Krafft-Ebing, le più
attuali ed autorevoli secondo Ferracuti e Lazzari13 risulterebbero essere quelle di
Karpman e quella del gruppo di ricercatori (Gebhard ed altri) dell’Istituto Kinsey,
nonché quella di Mac Cary (1967) che distingue tre criteri direttivi articolati quindi in
tre categorie:
I Modi anormali del funzionamento e della qualità della tendenza sessuale:
1) Sadismo (con le sottocategorie dell’omicidio sadico).
2) Masochismo.
3) Esibizionismo.
4) Scopofilia, voyeurismo.
5) Troilismo.
6) Travestitismo.
7) Oralità sessuale.
13
FERRACUTI F., LAZZARI R., Aspetti sociali dei comportamenti devianti sessuali, Relazione al I
Congresso Internazionale di Sessuologia, Sanremo, 5-8 aprile 1972.
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8) Analità sessuale o sodomia.
II Scelta abnorme del partner sessuale:
9) Omosessualità: considerata dapprima una forma di perversione sessuale caratterizzata
dall’inclinazione erotica verso soggetti dello stesso sesso, attualmente viene classificata
fra i disturbi psicosessuali soltanto se vissuta dallo stesso soggetto in modo conflittuale.
In tale ultimo caso è indicata come omosessualità egodistonica per differenziarla da
quella egosintonica, non più considerata come disturbo mentale (DSM III).
10) Pedofilia.
11) Bestialità.
12) Zoofilia.
13) Necrofilia.
14) Pornografia.
15) Oscenità.
16) Feticismo.
17) Frottage.
18) Saliromania.
19) Gerontosessualità.
20) Incesto.
21) Scambio coniugale (wife swapping).
22) Mysofilia, coprofilia, urofilia.
23) Masturbazione.
III Grado abnorme di desiderio o forza della pulsione sessuale:
24) Frigidità;
25) Impotenza;
26) Ninfomania;
27) Satiriasi;
28) Promiscuità e prostituzione;
29) Violenza carnale;
30) Seduzione;
31) Adulterio.
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È bene a questo punto, soffermarsi su una sintesi, sia pure allargata di alcune delle
relative definizioni.
Feticismo: è la perversione sessuale in cui il soddisfacimento è legato all’adorazione di
singole parti del corpo, di capi di vestiario dell’altro sesso o semplicemente di tessuti
con i quali questo suole vestirsi. In genere il coito non porta soddisfacimento se non
accompagnato dalla presenza del feticcio e, lì dove il feticcio compare, può altresì la sua
presenza non garantire necessariamente una soddisfazione completa. L’interesse
sessuale è minimo ed è intimamente legato ai dettagli.
Zoofilia: è una perversione sessuale che comporta inclinazioni verso animali; può essere
accompagnata da azioni sadiche (maltrattamenti).
Pedofilia: è una perversione sessuale caratterizzata dall’inclinazione erotica verso
bambini, fanciulli o adolescenti, solo in un secondo momento preferiti dal pedofilo
come partners in relazione al sesso. La preferenza di un determinato livello di sviluppo
è stata ampiamente confermata dalle più recenti ricerche psicofisiologiche
sperimentate14.
Esibizionismo: è la perversione sessuale che consiste nel far mostra dei propri genitali
all’altro sesso o pubblicamente. Il soggetto esibizionista ama mostrare inaspettatamente
i propri genitali e sovente possono seguire atti masturbatori o altri. Bersagli
dell’esibizionismo possono essere prevalentemente ragazze già sviluppate, oppure
bambini e fanciulle.
Voyeurismo: la curiosità non è da confondersi con l’osservare segretamente situazioni
sessuali allo scopo di trarne eccitazione e soddisfacimento; difatti, in quest’ultimo caso,
la stessa curiosità si trasforma in voyeurismo, allorquando rappresenta l’unica o la
dominante meta sessuale nel comportamento di una persona15.
Masochismo sessuale: è la perversione sessuale in cui il soddisfacimento è coniugato
alla sofferenza o all’umiliazione subita dal soggetto. È l’esatto contrario del sadismo
sessuale e consiste nel piacere legato al subire maltrattamenti inflitti da parte di altri.
Anche l’azione masochistica può essere associata al coito, oppure quest’ultimo,
sostituto del tutto dall’azione suddetta.
Sadismo sessuale: è la perversione sessuale in cui il soddisfacimento è legato alla
sofferenza, all’umiliazione inflitta al partner. Il soggetto sadico tenderebbe ad associare
14
15
SCHORSCH E., Sexualstraftater, Stoccarda, 1971.
MAISCH H., Dizionario di psicologia, Ed. Paoline, Roma, 1982.
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la voluttà con le rappresentazioni di crudeltà attiva, il tutto sostenuto da una notevole
componente affettivo-emozionale. Appare chiaro che nel soggetto sadico non è il coito a
determinare il completo soddisfacimento sessuale, bensì è l’azione sadica a pilotare lo
stesso coito. In taluni casi, l’azione sadica può persino concludersi con l’uccisione del
partner: assassinio per libidine. Vi sono peraltro casi in cui il coito viene completamente
sostituito dall’azione sadica.
Necrofilia: è una rara perversione sessuale nella quale viene raggiunto l’orgasmo
mediante atti eterosessuali od omosessuali compiuti su un cadavere.
Gerontofilia: indica l’attrazione sessuale specifica, tendenzialmente esclusiva, verso
persone anziane da parte di persone molto più giovani.
Parafilia atipica: comprende tutte quelle forme non classificabili in altre parafilie come
per es. la coprofilia (feci), il fratteurismo (strofinamento), la clismafilia (clisteri), la
mysofilia (immondizie), la coprolalia o scatologia (frasi oscene al telefono) e l’urofilia
(urine).
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4. DALLA PARAFILIA AL CRIMINE
Per suggerire che dietro ad un omicidio ci sia un movente sessuale, occorre sia presente
almeno uno degli elementi descritti dagli agenti dell’FBI Robert Ressler, John Douglas
e dalla psichiatra Ann Burgess. Il primo ha a che fare con il tipo, le condizioni o
l’assenza degli indumenti della vittima; poi c’è l’esposizione delle zone genitali del
cadavere; il terzo aspetto riguarda la modalità in cui il corpo è stato messo in posa sulla
scena del crimine; il quarto l’inserimento di oggetti estranei nelle cavità naturali; al
quinto ed al sesto posto ci sono la prova di un rapporto sessuale, orale, anale o vaginale
e l’evidenza di un’attività erotica sostitutiva, come ad esempio la mutilazione dei seni.
4.1. L’impero di Thanathos: i Necrofili
La necrofilia è una ben starna perversione, probabilmente la più ripugnante, e non è
semplice trovarla come condotta isolata. Si accompagna di solito al sadismo oppure al
cannibalismo.
Sugli aspetti patologici della necrofilia, la comunità scientifica non ha però ancora
raggiunto conclusioni certe, anche perché il disturbo, più che un quadro clinico
omogeneo, appare come uno spettro di comportamenti molto diversi tra loro. La base
genetica è sostenuta da chi ha messo in relazione le anomalie del lobo temporale con
tutta una serie di parafilie, inclusa la necrofilia; mentre le teorie psicoanalitiche spaziano
da un’ostilità inconscia verso la figura dei genitori, accompagnata da impulsi sadici ad
esplorare il corpo materno, all’interiorizzazione degli atteggiamenti familiari che
vedono nel sesso qualcosa di sporco e pericoloso.
In ogni caso, la classificazione più recente ad opera dello psichiatra indiano Anil
Aggrawal16, parla di almeno nove categorie di necrofilia, dalla più innocente alla
peggior forma di perversione criminale, fornendo per ciascuna esempi particolari.
Si comincia con la tipologia dei role players, i giochi di simulazione. Qui la necrofilia è
del tutto simbolica e l’eccitamento viene raggiunto fingendo che uno dei partners sia
morto e magari risorga proprio grazie ad una prestazione sessuale. Esistono persino
servizi specializzati nell’offrire prostitute truccate e agghindate come cadaveri, adagiate
16
AGGRAWAL A., References to the paraphilias and sexual crimes in the Bible, in Journal of Forensic
and Legal Medicine, 2008.
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su un catafalco.
Non è raro che nella fantasia subentrino poi aspetti di vampirismo e, in letteratura, è
citato il caso di una donna che pretendeva che il compagno si fingesse morto, per poi
stimolarne i genitali, fingendo che l’erezione provocata fosse in realtà dovuta al rigor
mortis.
La seconda categoria è rappresentata dai necrofili romantici, incapaci di accettare la
morte della persona amata. Per questo arrivano a chiedere di mummificarne il corpo, in
tutto o in parte. Il più celebre caso di necrofilia romantica è certo quello che ha visto
coinvolto il dottor Carl Tanzler.
Nato a Dresda, in Germania, l’8 febbraio 1877, Tazler emigra negli Stati Uniti nel 1926.
Prende moglie, ha due bimbe, ma poi lascia la famiglia per trasferirsi al Marine Hospital
di Key West, in Florida, dove lo assumono come radiologo. Più tardi Carl racconterà di
aver avuto in gioventù visioni in cui appariva il volto di una bellissima antenata, la
contessa Anna Costantina von Cosel e, quando nel corso di una visita medica, si
presenta davanti a lui la ventenne Maria Elena Milagro, per poco non perde i sensi.
Ecco il volto della contessa, ecco la donna della sua vita!
Nessuno ha mai saputo con certezza se la donna abbia ricambiato l’adorazione del
dottor Tanzler, ma quel che è certo è che Maria Elena si ammala di una forma incurabile
di tubercolosi. Carl tenta ogni terapia possibile, ma il 25 ottobre 1931 deve arrendersi. Il
radiologo si addossa allora le spese del funerale e la costruzione di una cappella
dedicata all’amata, dove sosta in preghiera praticamente ogni notte.
Nell’aprile del 1933, Tanzler decide che non gli è più possibile stare lontano da Maria
Elena, ne dissotterra il corpo e se lo porta a casa. Ne sistema le ossa, aggiunge un paio
di occhi di vetro alle orbite ormai vuote e, man mano che la pelle del cadavere
scompare, la sostituisce con della morbida seta. Senza parlare della necessità di
ricorrere costantemente ad una gran quantità di disinfettanti e profumi.
L’idillio prosegue fino a quando la notizia della macabra vicenda arriva all’orecchio
della sorella di Maria Elena, che affronta Tanzler e scopre il corpo: questo però avviene
nell’ottobre del 1940, nove anni dopo la morte della donna e sette di macabra
convivenza tra il radiologo ed il suo amore perduto.
Giudicato capace di affrontare un processo, Carl Tanzler venne rilasciato, anche per
l’ormai avvenuta prescrizione del reato.
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La terza tipologia proposta dal dottor Aggawal è quella della necrofilia latente, propria
dei soggetti con un ricco mondo di fantasie. Come nei primi due casi, non siamo ancora
nell’ambito dei comportamenti criminali, ma certo il livello di patologia inizia ad
aumentare.
Si tratta di soggetti che fantasticano rapporti con un cadavere, non perdono un funerale,
una tumulazione, frequentano assiduamente i cimiteri.
A costoro, la vicinanza di un corpo in una bara provoca un’immediata eccitazione ed è
per questo che, la gran parte di loro, cerca impiego presso le agenzie di pompe funebri o
gli obitori.
Role players, romantici e latenti non arrivano mai a un contatto diretto con un cadavere
ed è per questo che sono definiti “necrofili platonici”.
I necrofeticisti piuttosto che avere rapporti completi con un cadavere non disdegnano la
possibilità, se l’occasione è propizia, di prendersi qualcosa del defunto, da un capo
d’abbigliamento fino ad una parte del corpo; portata sempre addosso come amuleto o
lasciata a casa come oggetto di stimolo; la parte rimossa concede ai feticisti
un’impagabile eccitazione erotica.
I necromutilomaniaci, tipologia numero cinque, ottengono la loro gratificazione erotica
praticando la masturbazione mentre mutilano un cadavere; alla ricerca di un piacere
estremo, possono anche cibarsi di alcune parti del corpo.
I necrofili opportunisti sono individui che hanno normali rapporti sessuali e, la loro
mente, non è abitata da fantasie necrofile. Nondimeno, possono arrivare ad avere
rapporti completi con un cadavere, approfittando di situazioni particolari. Un esempio è
il caso descritto nel 1989 dagli psichiatri Rosman e Philip Resnick: un uomo di 37 anni
conosce una donna di dodici anni più anziana e inizia con lei una soddisfacente
relazione. Purtroppo un giorno, completamente ubriaco, maneggiando un’arma da
fuoco, colpisce accidentalmente la compagna uccidendola all’istante. Colto dal panico,
cerca di nascondere il corpo, ma la vista del cadavere lo eccita a tal punto da portarlo ad
un rapporto completo. È probabile che, riferiscono Rosman e Resnick, l’impulso
dell’uomo sia emerso dalla sua conoscenza delle pratiche necrofiliche attraverso le
pubblicazioni pornografiche che collezionava.
I necrofili classici rifuggono dai rapporti sessuali normali, pur avendone la possibilità.
Se cercano la disponibilità di un cadavere, è proprio perché quel tipo di rapporto è
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quello che fornisce loro il maggiore piacere sessuale.
La categoria più pericolosa dal punto di vista criminale è quella degli assassini
necrofili, che uccidono per procurarsi un cadavere con cui intrattenere rapporti sessuali.
In questa categoria possono essere ben inseriti celebri serial killers come Jeffrey
Dahmer, diciassette omicidi tra il 1972 ed il 1981 o Ted Bundy, condannato alla sedia
elettrica per trentasei omicidi commessi tra il 1971 ed il 1978. Anche Gary Leon
Ridgway, può essere definito un assassino necrofilo.
Nato l’8 febbraio 1948, mostra un morboso e precoce interesse per le prostitute. Si
sposa una prima volta all’inizio degli anni Settanta e nel 1975 convola a nozze una
seconda volta ed ha un bimbo. Si separa nel 1982, per sposarsi una terza volta, all’età di
52 anni, ed inizia ad uccidere proprio in quell’anno. Riescono ad identificarlo soltanto
nel 2001, e una volta catturato confessa di aver ucciso 48 volte, anche se si pensa che le
sue vittime siano più di 90. Durante il processo, emerge che più volte l’assassino è
tornato nel luogo dove aveva occultato i corpi, per avere rapporti sessuali con i
cadaveri. In un’occasione pare che sia arrivato al punto di lasciare suo figlio in auto,
proprio per soddisfare i suoi bisogni necrofilici.
La nona, ed ultima categoria, è certamente la più aberrante, ma non necessariamente la
più pericolosa.
Si tratta dei necrofili esclusivi, una parafilia molto rara, in cui i soggetti non possono
avere altra vita sessuale se non con i defunti. Il loro comportamento può diventare
problematico nel caso in cui l’impulso a recuperare un cadavere sia talmente imperioso
da eliminare qualunque freno inibitorio.
4.2. Una parte vale più di tutto il resto: i Feticisti
Ancor prima che ad una parafilia, il termine feticismo è riservato ad una forma arcaica
di religiosità, dove l’oggetto di cultura è il feticcio, un oggetto di ispirazione umana o
animale, che si ritiene dotato di poteri magici.
È il filosofo Charles de Brosses a coniare il termine nel 1760 pensando in chiave
antropologica e solo cent’anni dopo lo psichiatra tedesco Krafft-Ebing lo associa ad una
forma ben specifica di perversione. Una ventina di anni più tardi Sigmund Freud lo
spiega con la sua teoria dello sviluppo psicosessuale, come un meccanismo per superare
l’angoscia di castrazione del bambino durante la fase edipica.
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Parafilia prevalentemente maschile, sui manuali moderni, il feticismo per essere tale
deve rispondere a tre criteri: il primo racconta che devono essere presenti, durante un
periodo di almeno 6 mesi, fantasie, impulsi sessuali o comportamenti ricorrenti e
intensamente eccitanti sessualmente, che comportano l’uso di oggetti inanimati, come
ad esempio capi di biancheria intima femminile.
Il secondo criterio sostiene che le fantasie, gli impulsi sessuali o i comportamenti
devono causare un disagio importante o compromettere le capacità sociali, lavorative o
di altre importanti aree del funzionamento.
Il terzo ed ultimo aspetto chiarisce che gli oggetti feticistici non sono limitati a capi di
abbigliamento femminile per travestirsi oppure a strumenti progettati per la
stimolazione genitale, come vibratori o sex toys in generale.
Come tutte le altre parafilie, il feticismo si traduce in un continuum di comportamenti,
dai più innocui ai più stravaganti, e a volte mortali.
Si comincia con il prediligere alcune caratteristiche del partner, dall’aspetto
all’abbigliamento, senza che la cosa impedisca il piacere con altri ed in altri contesti; si
passa, quindi, alla presenza obbligata del feticcio per raggiungere l’orgasmo, quindi alla
sostituzione del partner con l’oggetto. Da ultimo, ed entriamo nel campo del crimine,
c’è chi arriva ad uccidere solamente per entrare in possesso del particolare eccitante,
non raramente una parte del corpo della vittima.
Tra le classificazioni del feticismo, mantiene sempre la sua validità quella proposta da
Krafft-Ebing nel 1886, che propone tre categorie: nella prima il feticcio corrisponde ad
una parte del corpo, nella seconda ad un capo d’abbigliamento, e da ultimo, nella terza,
ci sono materiali come il velluto, la seta, la pelle, il lattice.
E il feticismo per una parte del corpo delle donne è al centro di uno dei casi più
controversi della nostra storia del crimine.
C’è una vicenda strana, fatta di persone scomparse e di delitti, ma anche di indizi
particolari: capelli, ciocche di capelli. Tutto sembra cominciare a Bournemouth, una
piccola cittadina inglese, dove il 12 novembre 2002 viene trovata morta la
quarantottenne Heather Barnett.
Un brutto omicidio, un assassino che ha infierito con colpi di coltello, recidendo i seni
della vittima e mutilandone il corpo. Ma non basta, perché c’è un altro dettaglio, meno
crudele ma altrettanto inquietante: serrate in entrambe le mani di Heather ci sono
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ciocche di capelli, femminili sì, ma che non appartengono a lei, ne è possibile
riconoscerne l’origine.
I sospetti convergono su un giovane italiano che abita a due passi dalla casa della
Barnett, Danilo Restivo e, a questo punto, ecco ritornare dal passato l’ombra di un
mistero, quello di Elisa Claps, 16 anni, scomparsa nel nulla a Potenza, il 12 settembre
1993.
Elisa quella mattina, uscita da messa, aveva un appuntamento con un ragazzo che si
chiama Danilo Restivo, un ragazzo che ha la strana abitudine di salire sugli autobus con
una forbice in tasca e tagliare le chiome delle ragazze.
Il 17 marzo 2010, nel sottotetto della chiesa potentina della Santissima Trinità, vengono
ritrovati i resti della povera ragazza; è stata uccisa a coltellate e l’assassino le ha poi
reciso alcune ciocche di capelli.
Il 30 giugno 2011 il tribunale della contea di Winchester condanna Danilo Restivo
all’ergastolo per l’omicidio di Heather Barnett.
Il giudice che emise la sentenza lo definì un assassino freddo e calcolatore, capace di
avere ucciso Elisa così come, dieci anni dopo, la povera Heather.
Ad oggi, nel caso Claps, Danilo Restivo è imputato per l’omicidio della ragazza.
Ma è possibile passare dall’ossessione per i capelli all’aggressione, all’omicidio sadico?
Il caso di Restivo e di Brudos (trattato nel par. 2.3.1) hanno dimostrato in modo chiaro il
percorso criminale che parte dall’assillo per un feticcio fino ad arrivare al delitto.
Verrebbe piuttosto da pensare che i tacchi a spillo siano più eccitanti di una ciocca di
capelli, se non ci venisse in soccorso il solito Krafft-Ebing, che in mezzo ai 35 casi
dedicati al feticismo descritti in Psychopathia Sexualis, al numero 52, ci mette questo:
 Caso 52, P., quarantenne, scapolo, cresciuto bene, intelligente, ma presto gravato da
tic e complessi di coercizione. Amava platonicamente, faceva spesso progetti
matrimoniali; si univa solo raramente con prostitute, ma non ne provava alcuna
soddisfazione, piuttosto ribrezzo.
Una sera fu arrestato a Parigi mentre, nella confusione della calca, recideva la treccia di
una ragazza. Quando lo arrestarono teneva ancora la treccia nella mano e aveva le
forbici in tasca. Cercò di scagionarsi dicendo di avere avuto uno smarrimento
momentaneo, di essere affetto da un’infelice mania, più forte di lui, e ammise di aver
tagliato già altre dieci trecce, che custodiva in casa con la più piacevole soddisfazione.
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P. racconta che durante gli ultimi tre anni, quando la sera si trovava solo in camera, si
sentiva male, era dominato dalla paura, aveva capogiri, era pervaso da un desiderio
sfrenato di toccare le chiome di una donna. Al culmine dei suoi attentati afferma di
essersi sempre eccitato al punto di avere solo percezioni e quindi ricordi incompleti di
quanto avveniva intorno a lui. Durante il sopralluogo, furono trovati in casa oltre 65
trecce e ciocche ed una quantità di forcine, nastri ed altri oggetti di toilette femminili.
Un’ulteriore evoluzione della parafilia feticista, prevede non tanto l’ossessione per una
parte, ma la trasformazione dell’intero corpo in un oggetto.
Esistono fanatici del robot fetishism che chiedono alla partner di simulare la
trasformazione in umanoide; ci sono poi i seguaci dell’agalmatofilia, l’attrazione
sessuale per statue e manichini. Ancora più ampia è la categoria del transformation
fetishism, in cui la donna accetta, ad esempio, di trasformarsi in una bambola,
vestendosi e prendendo le pose di una barbie al servizio dell’amante.
Infine, un passo più in là sta il fat fetishism, la predilezione per una compagna obesa,
una categoria più ampia di quella che predilige le skinny girls, le ragazze ridotte a
scheletro da devastanti pratiche anoressiche.
4.3. Le donne anziane vittime della perversione: i Gerontofili
L’attrazione di giovani nei confronti di chi appartiene alla terza o quarta età risente
dell’indubbia influenza di epoche e culture: non era infrequente nell’Ottocento trovare
ragazze sedotte da un uomo decisamente più anziano, e nel secolo precedente toccava ai
ragazzi struggersi per un rapporto con donne attempate.
Siamo tuttavia ben lontani dal parlare di una parafilia, la gerontofilia appunto, e dal suo
sconfinamento nei territori del crimine.
Purtroppo le statistiche criminali mostrano, invece, un aumento delle aggressioni
sessuali ai danni di donne anziane – praticamente mai le vittime sono uomini – tanto che
il Manuale di Classificazione dei Crimini dell’FBI dedica al tema un capitolo speciale e
lo affronta, come nel caso degli altri delitti violenti, seguendo un’impostazione del tutto
pragmatica, a partire dall’analisi dei profili delle vittime.
È evidente, infatti, che una donna di 70-80 anni è una persona spesso vulnerabile perché
nei due terzi dei casi vive sola, dato che l’aspettativa di vita più lunga nel genere
femminile finisce per produrre più vedove che vedovi. Poi c’è il fatto che difficilmente
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la sua abitazione è dotata di sistemi di sicurezza efficaci e, da ultimo, la struttura fisica
più fragile e la minor forza rendono più difficile resistere o fuggire davanti ad un
aggressore.
Quando l’approccio si trasforma in un attacco letale, la causa di morte più frequente è lo
strangolamento, seguito dall’uso di corpi contundenti ed armi bianche; mentre l’impiego
di armi da fuoco è meno presente.
Per quanto riguarda l’aggressore, le statistiche dicono che il 60% vive a meno di sei
isolati di distanza dalla casa della vittima, la metà di loro risiede nello stesso isolato,
tanto che la maggior parte degli aggressori raggiunge e si allontana dalla scena del
crimine a piedi.
Indipendentemente da età e razza, chi violenta e uccide donne anziane ha quasi sempre
dei precedenti penali, soprattutto per rapina. Di bassa cultura, senza un’occupazione
stabile, per la gran parte celibi ed economicamente dipendenti, gli offenders
condividono l’abuso frequente di alcool e stupefacenti.
Se identificati, la metà di loro confessa immediatamente, mentre un altro 20% si lascia
andare ad ammissioni parziali: in fondo prendersela con una vittima così fragile e
particolare non è cosa di cui andar fieri. Per questo l’interrogatorio di un sospettato
dovrebbe centrarsi, almeno all’inizio, sul movente economico ed evitare la componente
sessuale della vicenda.
Passando all’analisi della scena del crimine, è raro ce ne sia più d’una. Il primo
approccio, l’aggressione, l’omicidio e le attività post mortem avvengono tutte nello
stesso modo. La maggior parte degli aggressori penetra nell’abitazione della vittima
tramite porte o finestre, oppure ricorre a tranelli ed inganni, e nei tre quarti dei casi ciò
accade tra le otto di sera e le quattro del mattino.
Gli oggetti impiegati per strangolare, per colpire o accoltellare appartengono di solito
alla vittima, e la gravità delle ferite può dare indicazioni importanti sul profilo del
criminale: più sono gravi e numerose, minore è l’età del soggetto e più vicina la sua
residenza al luogo del delitto.
Capita spesso che il colpevole non si curi di lasciare tracce sulla scena: liquido seminale
e saliva, capelli e peli pubici sono tra i reperti che vanno cercati con cura. Difficilmente
poi questo tipo di criminale sottrae alle sue vittime oggetti da conservare come trofei o
souvenirs: piuttosto si prende denaro in contanti, gioielli o piccoli oggetti di valore.
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Ma ciò che veramente impressiona nella violenza sulle donne anziane è il livello di
crudeltà e di ferocia, il ricorrere all’inserzione di oggetti ed alla mutilazione; il che
rimanda al grande interrogativo sul movente degli stupratori e killers gerontofili.
Tra le analisi più recenti, una in particolare appare interessante, ed è quella che il
professor Hadrian Ball consegna nel 2005 al Journal of Forensic Science. Ball identifica
due modelli concettuali dietro agli abusi ed agli omicidi a sfondo sessuale di donne
anziane. Il primo poggia su una motivazione prettamente legata al sesso, e vede
l’aggressore come un soggetto deviante, affetto da una parafilia. Il secondo spiega,
invece, l’aggressione come una variante psicodinamica dello stupro, una variante
fondata sulla rabbia. In questo caso, la donna non viene scelta per uno scopo sessuale,
ma per il suo ruolo di vittima supplente: nell’anziana controllata, ferita ed umiliata,
l’aggressore trova il sostituto simbolico di una figura d’autorità, in genere la madre
dispotica e castrante che ha condizionato la sua infanzia.
Un’ ulteriore tipologia, sempre basata sul movente, la propone il Massachusetts Trauma
Center, che distingue gli “opportunisti” dagli offenders motivati dalla rabbia,
dall’erotizzazione sessuale e dal bisogno di vendetta.
L’ offender opportunista agisce in modo impulsivo, senza preparare o pianificare la
violenza. Non mostra alcuna preoccupazione per la salute della sua vittima, e lo stupro
avviene per l’immediata gratificazione che produce.
Nella categoria dei pervasive anger, gli aggressori motivati dalla rabbia, l’uso della
forza è eccessivo e gratuito. L’aggressione non è dominata da fantasie sessuali; piuttosto
qualunque tipo di resistenza da parte della vittima, anche la più debole, innalza il livello
di aggressività fino all’omicidio.
La violenza di chi agisce sulla spinta di un’erotizzazione estrema, invece, appare molto
ben pianificata: il sex offender sceglie la sua vittima, si cautela dal lasciare indizi che lo
incriminino, e si porta dietro gli attrezzi idonei all’aggressione.
Nei vendicatori il fulcro del movente è la rabbia esclusivamente rivolta al genere
femminile, e non diffusa, come nel caso della pervasive anger. Le loro azioni sono
sadiche e brutali, e la violenza è asservita al piacere di umiliare, non alla gratificazione
sessuale.
Ma per dimostrare che la gerontofilia criminale non è cosa che riguardi epoche o paesi
lontani, c’è una storia che è accaduta in Italia pochi anni fa: una storia che aspetta una
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conclusione che forse non arriverà mai.
“ Da piccolo mi ricordo che era tutto proibito. I primi ricordi li ho che avevo 5 anni. Il
primo giorno di scuola, la presentazione al maestro ed ai compagni. Mio padre mi ha
accompagnato, mia sorella era già lì. A scuola mi trovavo bene, imparavo le cose senza
difficoltà, andavo d’accordo con i miei compagni. Ho dovuto ripetere il sesto anno, ho
dovuto fare il compito dell’esame finale in un’altra scuola. Mi sono sentito molto male
per questo, forse mi hanno fatto delle ingiustizie. Poi ho fatto tre anni di scuola
superiore e due di liceo. Quando avevo 18 anni pensavo già di venire in Italia. Non mi
piaceva la Tunisia, la gente, il modo di vivere, le bugie, le liti. Ero una persona
indesiderata da tutti, bevevo, passavo le notti fuori, mi denunciavano, la polizia veniva
a cercarmi”.
Lui si chiama Ben Mohamed Ezzedine Sebai e nasce il 15 ottobre 1964 a Qayrawan, la
città delle trecento moschee, secondo di otto fratelli, quattro maschi e quattro femmine.
Arriva in Italia nel luglio del 1988, e trova presto lavoro come bracciante a Cerignola, in
Puglia. Poi, nel maggio del 1990 si sposta a Merano, dove si mantiene facendo il
lavapiatti e più tardi l’operaio. Lo arrestano a dicembre, con l’accusa di violenza
sessuale ai danni di una ragazza.
In carcere, anche in Italia, Sebai ci resta poco. Gli concedono il beneficio della
condizionale e la Questura di Bolzano gli consegna un decreto di espulsione. Lui non si
scompone, lo butta da qualche parte e torna a Cerignola, dove ricomincia a lavorare nei
campi.
Nel gennaio del 1993 i carabinieri di Bari lo arrestano per una rapina, e Sebai dà loro
false generalità. Gli toccherebbe scontare un anno ed undici mesi se non fosse che, per
la seconda volta, gli riconoscono il diritto alla sospensione condizionale.
Viene nuovamente fermato a Pescara, nell’aprile del 1993, ma se la cava perché dà un
falso nome e con quello non è schedato; un trucco che ripete almeno altre quattro volte.
Ci vorranno quattro anni per arrestarlo, e da allora nessuno si è più sognato di lasciarlo
andare, anzi, è probabile che dal carcere non uscirà mai più, perché nel frattempo si è
scoperto che Sebai è un serial killer. Il più prolifico assassino che abbia mai agito in
Italia, secondo soltanto a Donato Bilancia.
12 gennaio 1994: Assunta Aprile
8 luglio 1995: Petronilla Vernetti, 83 anni
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13 agosto 1995: Celeste Commessatti, 83 anni
24 aprile 1996: Celeste Madonna, 81 anni
30 maggio 1996: Giuseppina Corbetta, 72 anni
10 agosto 1996: Anna Stano, 85 anni
15 gennaio 1997: Maria Totaro, 76 anni
5 aprile 1997: Grazia Montemurro, 76 anni
1 maggio 1997: Anna Maria Stella, 69 anni
9 maggio 1997: Santa Leone, 82 anni
14 maggio 1997: Pasqua Rosa Ludovico, 86 anni
28 luglio 1997: Maria Valente, 84 anni
28 luglio 1997: Rosa Lucia Lapiscopia, 90 anni
27 agosto 1997: Angela Sansone, 84 anni
15 settembre 1997: Lucia Nico, 75 anni
Ma perché l’avrebbe fatto, perché se la sarebbe presa con tutte quelle povere e fragili
signore anziane? In parte Sebai dà la colpa all’alcool, perché era l’alcool che gli faceva
uscire la rabbia.
Ma chi aveva picchiato il giovane Sebai, tanto da lasciargli dentro un gran senso di
ingiustizia e la voglia, un giorno di rifarsi?
“… Mia madre mi colpiva con le ciabatte e mi metteva del tabacco in polvere negli
occhi, per punirmi. Anche le altre donne del paese aiutavano mia madre a fare questo.
A volte il peperoncino me lo metteva nell’ano per punirmi. Mia nonna aiutava le altre
donne a picchiarmi. Mia madre e le sue amiche mi picchiavano, erano tutte vestite di
nero. A undici anni ho cominciato a picchiare mia madre e, crescendo, diventavo
sempre più forte di lei. Tutti i miei fratelli avevano paura di me”.
Donne vestite di nero, donne anziane: proprio come Assunta, Petronilla, Celeste e tutte
le altre.
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4.4. Il piacere di infliggere sofferenza: i Sadici Sessuali
Il concetto di sadismo sessuale è ambiguo perché comprende tanto chi si limita a
fantasticare, tanto chi arriva a torturare, mutilare e uccidere, passando per i soggetti che
scelgono un partner consenziente, ovviamente masochista, ben disposto a subire dolore
ed umiliazioni.
Meglio allora sarebbe riservare il termine sadico-sessuale solo agli individui che
traducono in gesti la loro perversione e lo fanno ai danni di una vittima.
Ogni investigatore che abbia raccolto le dichiarazioni di una vittima torturata o che
abbia lavorato sulla scena di un omicidio sessuale sadico, non dimenticherà mai questa
esperienza.
La crudeltà umana si rivela in numerosi modi, ma raramente in maniera più desolante
che nei crimini dei sadici sessuali.
Che cos’è il sadismo sessuale?
Sadismo sessuale significa eccitarsi per la sofferenza altrui. Sappiamo tutti che
l’eccitazione sessuale può arrivare nei momenti più strani, anche in persone
perfettamente normali. Nel caso di assassini sessuali sadici, invece, essa emerge come
risposta alla sofferenza della vittima.
Riporto le parole di due sadici sessuali che raccontano i loro desideri.
Uno scrive: “lo scopo principale è farla soffrire, perché non esiste potere più grande
che si possa esercitare su una persona che quello di infliggerle dolore, forzarla a
sottomettersi, farla soffrire, senza che sia in grado di difendersi. Il piacere della
dominazione completa di un’altra persona è la vera essenza dell’impulso sadico”.
Un altro assassino scrive delle sue attività sadiche con la sua vittima: “lei si contorceva
dal dolore ed era una cosa che mi faceva impazzire. Stavo fondendo la massima
gratificazione sessuale: lo stupro, e la vetta del dominio: la paura. Stavo creando
un’unione totale che è impossibile spiegare….vivevo per l’unico scopo di causare
dolore e ricevere appagamento sessuale….mi gustavo il dolore tanto quanto il sesso…”.
Entrambe le dichiarazioni confermano che è la sofferenza della vittima, e non
semplicemente l’inflizione del dolore fisico o psicologico, ad essere sessualmente
stimolante. Uno di questi uomini faceva entrare ed uscire la vittima da uno stato di
incoscienza in modo da poter assaporare continuamente e per un tempo estremamente
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lungo le sofferenze.
Infliggere dolore rappresenta per l’aggressore un modo efficace per sollecitare le
risposte desiderate: obbedienza, sottomissione, umiliazione, paura, terrore.
Le sofferenze fisiche e psicologiche sono degli specifici particolari, scoperti durante le
indagini, a stabilire se il crimine commesso presenta i tratti del sadismo sessuale oppure
no.
Le cose da accertare sono: se la vittima ha sofferto, se la sofferenza è stata causata
intenzionalmente e se ciò ha eccitato l’aggressore. Tali paletti devono essere posti in
quanto atti sessuali o violenti eseguiti su una vittima incosciente o morta non
costituiscono necessariamente prova di sadismo sessuale, dal momento che la vittima
non può provare dolore. Per questo motivo, le sole violenze post-mortem non indicano
sadismo sessuale.
Gli stupratori, per esempio, causano di certo sofferenza alle vittime, ma soltanto il
sadico sessuale infligge dolore, fisico o psicologico, in maniera intenzionale, con lo
scopo di amplificare il proprio godimento. Bisogna tener presente che gli atti di estrema
crudeltà o che causano molto dolore alla vittima, in genere, sono messi in atto per scopi
non sessuali, anche durante crimini di natura sessuale. Il comportamento dei sadici
sessuali, così come quello di altri criminali sessualmente devianti, si estende su uno
spettro molto ampio. I sadici sessuali possono essere dei cittadini normali che rispettano
le leggi, che hanno delle fantasie che però non mettono in atto o che mettono in pratica
con dei partners consenzienti. Soltanto quando commettono dei crimini, essi stessi e le
loro fantasie diventano soggetti di interesse per le forze dell’ordine.
Tutti gli atti criminali di natura sessuale iniziano come fantasie. In ogni caso, a
differenza di quanto accade per le normali fantasie sessuali, quelle dei sadici si
concentrano
sulla
dominazione,
sul
controllo,
sull’umiliazione,
sul
terrore,
sull’aggressione e sulla violenza, oppure su una combinazione di questi temi, intesi
come mezzo per causare sofferenza. Al variare del tipo di fantasia, varia anche il grado
della violenza. Le fantasie che emergono dai ricordi personali dei criminali sono
complesse, elaborate e riguardanti scenari estremamente dettagliati, che includono
metodi specifici di cattura e controllo, luoghi in cui commettere il crimine, ordini che la
vittima deve eseguire, sequenze di atti sessuali e specifiche risposte da parte della
vittima.
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Pertanto, il piacere principale dell’assassino è quello di prolungare il più possibile le
sofferenze delle vittime, ritardandone il momento del decesso. Spesso, questo tipo di
assassino seriale fa ricorso a strumenti che gli consentono di immobilizzare la vittima
(manette, corde, ecc..) per poter poi prolungare l’agonia.
Quando una vittima viene disumanizzata, in un certo senso, il torturatore la percepisce
come essere che merita la punizione oppure come qualcuno che provoca una sensazione
di disgusto e quindi, nella sua prospettiva distorta, l’aggressività diventa giustificata.
Il serial killer sadico ha bisogno di avere un contatto con la vittima ed uno dei modi
preferiti di uccisione è lo strangolamento, perché gli permette di prolungare a piacere il
momento reale del decesso, aumentando o diminuendo la forza della stretta: l’assassino
può guardare negli occhi la vittima che lotta inutilmente contro la morte e vederla
spegnersi lentamente, azione che cresce la sua tensione erotica e che, nella maggior
parte dei casi, culmina nell’orgasmo.
Un’importante classificazione dei serial killers sadici ci viene proposta da SchurmanKauflin17:
 Sadico “maniaco sessuale”: la scena del crimine è caratterizzata da overkilling,
degradazione della vittima, lesioni concentrate su genitali, glutei e seni.
Questo tipo di sadico è il più feroce, è pieno di odio verso il genere femminile e gli
piace la violenza. Di solito, nel suo aspetto, c’è almeno una caratteristica femminile
(una voce dal timbro chiaro, corporatura gracile, seni troppo sviluppati). L’umiliazione
della donna serve per farli sentire più mascolini.
 Sadico “pedofilo”: la scena del crimine è caratterizzata da vittime infantili, segni di
tortura e disposizione esterna del cadavere.
Spesso, questo sadico ha alcune componenti femminee nel suo aspetto proprio come il
maniaco sessuale, ma il suo livello di insicurezza è più profondo, ragion per cui sceglie i
bambini come vittime. Ha un aspetto rassicurante, spesso è sposato, ha famiglia e un
lavoro stabile.
 Sadico “omosessuale”: i cadaveri ritrovati sulla scena del crimine presentano segni di
mutilazione, “sperimentazione” varia e smembramento.
Di solito, questo sadico ha un aspetto piuttosto mascolino e una corporatura massiccia.
17
SCHURMAN-KAUFLIN D., V.U.L.T.U.R.E.: Profiling Sadistic Serial Killers, Universal Publishers,
2005.
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Molto curato nell’aspetto e molto abile nella manipolazione. Metodo preferito di
uccidere è lo strangolamento, dopo aver stordito la vittima con droghe e/o alcool.
 Sadico “macho man”: la scena del crimine è piuttosto ordinata, pulita, e l’uccisione è
effettuata con calma.
Questo sadico è il più intelligente e sicuro di sé. Usa il fascino per avvicinare le donne
che considera dei semplici “giocattoli” per il suo piacere. Ha una visione estremamente
arcaica del rapporto uomo/donna. È il tipo più ossessivo e paranoide, interessato alle
attività di polizia e militari. Si intende di psicologia e criminologia.
 Sadici attivi in coppia: la scena del crimine è caratterizzata da modelli
comportamentali differenti che rispecchiano le singole personalità, ma c’è sempre
tortura, stupro e mutilazioni sui cadaveri delle vittime.
Il grado di violenza è molto elevato e c’è sempre una personalità dominante dell’altra.
La coppia può essere anche uomo/donna.
Modello V.U.L.T.U.R.E. di Schurman-Kauflin:
- V= VIOLENT
Tutti i sadici amano utilizzare una forte dose di violenza per scaricare la loro rabbia;
- U= UNINHIBITED
Il sadico è completamente disinibito e gli piace sperimentare sesso estremo e uccisioni
alternative;
- L= LIARS
L’uso sistematico di menzogne è parte integrante della personalità dei sadici
manipolatori;
- T= TALKERS
La manipolazione verbale viene usata nell’approccio con la vittima e amplificata la
sensazione di potere;
- U= UNFEELING
Il sadico è emotivamente insensibile ai bisogni degli altri;
- R= RUTHLESS
La crudeltà assoluta permette al sadico di torturare e uccidere senza avere
ripensamenti;
- E= EMPTY
Il sadico avverte un vuoto interiore al quale riesce a dare sollievo temporaneo solo
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infliggendo dolore agli altri.
4.5. Alcuni casi noti di interesse criminologico
Qui di seguito verranno riferiti sette casi particolarmente significativi, lì dove alla
degenerazione dell’istinto sessuale è associato l’acting-out.
I caso
Edward Paisnel, appaltatore-giardiniere a cottimo, di Channel Island del Jersey (1957),
rapiva adolescenti dai loro letti e li sottoponeva alle più estrose oscenità, sodomizzando
sia le ragazze sia i ragazzi, effettuando peraltro su questi ultimi la fellatio. Fu accusato
di 20 crimini e condannato a 30 anni di carcere.
II caso
Peter Griffiths di 22 anni, abitante con i genitori, ex soldato della guardia (1948); una
notte nei pressi di Blackburn, nel Lancashire, entra in ospedale e da una corsia popolata
da bambini, rapisce la bambina più grande (tale Juhe Devaney di 4 anni) ricoverata per
disturbi al torace e la conduce a sé, verso il muro di cinta dello stesso ospedale,
violentandola brutalmente e spappolandole il cranio contro il muro. Il medico legale
asserì: “Ho l’impressione che la bambina sia stata tenuta per i piedi e la sua testa
sbattuta ripetutamente contro il muro”. Griffiths aveva avuto una ragazza la quale lo
aveva lasciato perchè beveva troppo. La sera del delitto era uscito “per passare da solo
una serata tranquilla”, racconta lo stesso Griffith, (bevve undici pinte di birra, due
Guinnes e due doppi Rum), “… la tenevo sul braccio destro e lei mi aveva messo le
braccia intorno al collo. Sono sceso, ho attraversato il prato e l’ho distesa sull’erba…
lei non smetteva di piangere… ho perso la pazienza ed a questo punto sapete quello che
è successo dopo”.
III caso
Gaston Dominici (1952) 77 anni sposato con prole, contadino in Alta Provenza.
Voyeurista occasionale, uccise una famiglia composta da tre persone: padre, madre e
figlia, perché scoperto nell’atto di osservare le bellezze della madre, la quale si stava
spogliando in aperta campagna. Non seppe resistere di fronte a quegli indumenti
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femminili che la donna si toglieva di dosso, eccitandosi. Sparò ed uccise le tre vittime,
in quanto offeso dal marito di lei. La bimba venne uccisa poi con il calcio del fucile in
cui non rimanevano più proiettili. Fu condannato all’ergastolo nel 1960.
IV caso
Fritz Haarmann di Hannover (1925), 40 anni, omosessuale cannibale che dopo aver
abusato sessualmente di giovani sodomizzandoli, li uccideva e li mangiava, oppure li
vendeva perché fossero mangiati (era una spia della polizia). Fu assicurato alla giustizia
e ammise di aver commesso 24 omicidi.
V caso
Albert De Salvo, 35 anni. Operaio, uomo integerrimo e ottimo padre di famiglia; amava
molto i suoi due bambini, ma si lamentava perché la moglie, a suo dire, era “fredda” e
viceversa lui era superdotato, desideroso di rapporti sessuali anche sei volte al giorno.
Lo stesso De Salvo così asseriva: “… quando vado in macchina a lavorare, comincio a
crearmi l’immagine e poi mi scarico da solo, ma 5 minuti dopo sono di nuovo pronto e
l’immagine ritorna e la pressione mi sale nella testa, mi capite?”. Lo strangolatore
utilizzava le seguenti strategie: brandiva un colpo in testa o poneva un braccio intorno al
collo non appena la donna gli voltava le spalle. Denudava la vittima e, dopo l’atto
sessuale, il corpo veniva sistemato in posa suggestiva e lasciava il seno verso l’alto e la
gambe nude divaricate.
VI caso
Patrick Byrne, operaio, 28 anni, di origine irlandese. Caratterizzato da un atteggiamento
ambivalente odio-amore verso il sesso femminile; ne era al tempo stesso ossessionato e
terrorizzato. Era un “voyeurista”, ed una sera dopo aver fatto abuso di alcolici in
compagnia di due amici, Byrne iniziò a curiosare attraverso i vetri di una finestra
illuminata in corrispondenza della quale vide una ragazza attraente (Stephanie Baird di
29 anni) che, in maglietta e sottoveste, si pettinava. Byrne entrò in casa e nel corridoio
incontrò la ragazza e, sfiorandole il seno, si eccitò intensificando i toccamenti. La
ragazza provò a ribellarsi ma lui la soffocò con le mani. Stephanie cadde per terra, la
sua testa rimbalzò sul pavimento ed il cranio si fracassò. A questo punto Byrne abusò
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sessualmente della vittima ormai deceduta e con un coltello da cucina mutilò il
cadavere, iniziando dapprima con il seno di destra: “… ho cominciato a tagliare
tutt’attorno”, disse Byrne, “… sono rimasto stupito e deluso, quando si è staccato e mi
è rimasto in mano. L’ho guardato e l’ho scaraventato verso il letto, poi mi sono dato da
fare con quell’altro. Poi ho cominciato con la nuca… continuavo a tagliare… quando la
testa si è staccata l’ho presa per i capelli e mi sono alzato. L’ho tenuta davanti allo
specchio e l’ho guardata. Pensavo di terrorizzare tutte le donne. Volevo farla pagare a
tutte per avermi provocato questa forma di tensione nervosa con il loro sesso”. Fu
condannato all’ergastolo.
VII caso
Alfred Charles Whiteway, di anni 22, operaio edile. Assassino dell’Alsazia. Coniugato
con una 18enne, un figlio, in attesa di un secondo. Stupratore incallito, aveva
abitualmente più donne a disposizione, ma non era mai soddisfatto. Lo eccitava
realmente soltanto la violenza carnale. Portava abitualmente con sé un’accetta e
raggiunse un totale di ben 12 violenze carnali. Una domenica di fine maggio, Whiteway
aggredì due ragazze che alle undici di sera ritornavano a casa in bicicletta ed i cadaveri
furono ritrovati nel fiume con il cranio fracassato, il corpo pugnalato e con evidenti
segni di violenza carnale. Il patologo che esaminò i cadaveri, evidenziò particolare
violenza nell’aggressione e stabilì che prima dell’aggressione le ragazze erano vergini.
Whiteway così dichiarò alla polizia: “sono malato, la mia testa non va, ci deve essere
qualcosa, non riesco a frenarmi”. Il 22 dicembre 1953 Whiteway fu impiccato.
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5. GIANFRANCO STEVANIN:
IL “MOSTRO DI TERRAZZO” TRA SESSO E MORTE
5.1. La storia della sua vita
È stato uno dei più spietati serial killer del nostro Paese, ma anche uno dei più
particolari, un maniaco sessuale con l’indole dell’assassino, dell’eliminatore. Il suo
nome è Gianfranco Stevanin, ma per le sue efferate imprese è stato soprannominato,
all’epoca, il “re dei feticisti”, il “Landru della Bassa”, il “giustiziere delle prostitute”, il
“mostro di Terrazzo”.
Questo perché oltre ad avere un debole per le donne, soprattutto per le prostitute, a
Gianfranco piacevano certi giochi sessuali, quali il “bondage” ed il “fetish”, con i quali
si intratteneva con le sue compagne occasionali, le quali, però, non sempre riuscivano,
come vedremo ad uscirne vive. Sei di loro ci hanno rimesso la vita, vittime di pratiche
sessuali estreme, frutto di sadismo e di perversione.
Quella di Gianfranco Stevanin è la storia di un uomo che non riusciva ad avere un
approccio fisico con le donne se non con la violenza, con la sopraffazione, dettata dalle
regole del “padrone” che ordinava e della “schiava” che ubbidiva e soddisfaceva
qualsiasi desiderio o impulso maniaco. Ma è anche una storia fatta di solitudine, di
annientamento sociale e psicologico.
Forse non sarà ricordato come il più prolifico serial killer italiano ma probabilmente, al
momento, può essere ricordato come il più perverso di tutti.
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Gianfranco Stevanin nasce a Montagnana (PD) il 21 ottobre 1960 da Noemi Miola e
Giuseppe Stevanin, due facoltosi proprietari terrieri che vivono sostentandosi
completamente con i frutti dei loro possedimenti. Si tratta di una famiglia abbastanza
facoltosa ed i genitori sono anche fin troppo protettivi nei confronti dei figli (così, in
un’intervista, Stevanin afferma: “i miei, forse per iperprotettività, intervenivano sempre;
in poche parole, se volevo fare qualcosa senza sottostare al loro occhio inquisitore,
dovevo tenerla nascosta”. Poi aggiunge che tutto questo gli dava fastidio all’inizio,
perché i suoi non lo consideravano un adulto in proporzione all’età che aveva; dopo,
però, ha iniziato a decidere con la sua testa e diceva loro solo l’indispensabile).
Quando ha 5 anni, sua madre ha una gravidanza difficoltosa ed i genitori, non potendo
badare al piccolo, decidono di mandarlo in collegio. La gravidanza finirà con un aborto
spontaneo e Gianfranco tornerà a vivere in famiglia. Tuttavia, la sua permanenza è
limitata perché pochi mesi dopo si farà male cadendo e battendo la testa contro un
attrezzo agricolo. La cosa si risolve con un grosso spavento e 4 punti di sutura per il
piccolo, che viene mandato nuovamente in collegio per evitare che finisca per farsi male
di nuovo. Questa volta la permanenza durerà per tutto il ciclo delle elementari, medie e
primo anno di superiori, privando il bambino dell’affetto e della figura dei genitori,
soprattutto del padre come riferimento.
Proprio in questi anni, quando lui ne ha 13, vive la sua prima esperienza sessuale; viene
molestato da una ragazza 24enne che abusa di lui, anche se poi sarà lui stesso a
scagionarla ammettendo che la cosa non gli era dispiaciuta e che non aveva cercato di
fermarla.
Nel 1976 torna a casa e pochi mesi dopo resta vittima di un altro incidente, stavolta
molto più grave. Gianfranco ha la passione delle moto potenti ed è proprio da una di
queste che cade procurandosi una “lesione bilaterale dei lobi frontali”, finendo in coma
per due settimane. Dopo un mese subisce un delicato intervento di chirurgia plastica
per la ricostruzione delle fosse craniche del margine orbitario. Gianfranco si salverà da
questa brutta esperienza ma verrà distrutta tutta la sua sfera psicologica. Perde amici,
fidanzata ed abbandona gli studi. Il suo comportamento cambia e diventa più bizzarro,
inizia a soffrire di un principio di epilessia e non riesce a stare sui libri a lungo perché
ha difficoltà di concentrazione e soffre di forti emicranie. Che la sfera comportamentale
abbia subito un grave colpo lo si vedrà negli anni immediatamente a venire.
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Dal 1978 al 1983 verrà processato diverse volte per svariati capi d’accusa: simulazione
di reato (inscena un rapimento e chiama anche i suoi genitori per farsi pagare il
riscatto), rapina, violenza privata (costringe una ragazza, sotto minaccia di una pistola,
che poi si scoprirà giocattolo, ad accompagnarlo ad una festa).
Nel 1983 verrà poi condannato per omicidio colposo per aver causato la morte di una
ragazza che aveva investito in auto.
Nonostante tutte queste peripezie giudiziarie, è proprio in questi anni, precisamente dal
1980 al 1985, che vive la sua unica vera storia d’amore con Maria Amelia. Purtroppo
lei si ammala gravemente e Gianfranco viene continuamente sollecitato dai familiari a
lasciarla, cosa che poi farà per evitare screzi in famiglia. Tempo dopo, però, si pentirà
amaramente di questa scelta e proverà a cercarla di nuovo, ma lei nel frattempo si è
rifatta una vita, anche sentimentale, e lui di questo ne soffrirà e non poco.
Probabilmente dopo i due traumi fisici subiti negli anni, questo è il colpo di grazia che
trasformerà definitivamente Stevanin in un mostro, il “mostro di Terrazzo”.
Comincia la discesa agli inferi. Gianfranco comincia a frequentare prostitute e si
allontana per sempre dal concetto di amore e sessualità vissuta in modo normale. Gli
incontri diventano regolari e le fantasie sempre più perverse e violente. La sua vecchia
passione per la fotografia torna prepotente e comincia a pagare le prostitute affinchè si
facciano ritrarre in pose oscene.
Nel suo casolare, dopo l’arresto verranno recuperate più di 7000 foto. E come per le
foto, anche tutto il resto, compreso l’esistenza di un serial killer che operava nella zona,
verrà appreso solo dopo il suo arresto, avvenuto il 16 dicembre 1994.
Tutto verrà scoperto per caso. Quel giorno, infatti, al casello di Vicenza una donna apre
la portiera di una Dedra blu e corre verso una macchina della Polizia parcheggiata nelle
vicinanze. La ragazza si chiama Gabriele Musger (nome che poi risulterà falso, il suo
vero nome è in realtà Sigrid Legat) ed è una prostituta che lavora nella zona. Il suo
racconto è sconcertante. Era stata avvicinata da quel ragazzo gentile e di bella presenza,
che gli aveva proposto di posare nuda per lui, dietro compenso di 1.000.000 di vecchie
lire. La ragazza accetta e lo segue nel casolare ma, ben presto, capisce che la situazione
degenera e si ribella quando si trova legata polsi e caviglie al tavolo sul quale è stesa
sulla schiena. Lui è diventato nervoso e la minaccia, così lei pur di salvarsi la vita, lo fa
cadere nell’errore che gli costerà caro. Gli promette dei soldi, tanti soldi, 25.000.000 di
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lire per lasciarla andare. Dice di averli in contanti a casa sua. Lui accetta, la porta a casa
ed al casello di Vicenza, appunto, approfittando della sua distrazione nel pagare il
pedaggio, scappa.
Inizialmente l’accusa è di violenza carnale e sequestro di persona ma dalla perquisizione
seguente, nel suo casolare, vengono fuori altri inquietanti indizi che fanno allargare
l’indagine. Ovviamente sono i documenti delle ragazze scomparse a suscitare maggiore
preoccupazione negli inquirenti. Stevanin, nonostante questi indizi abbastanza
compromettenti non confessa subito i delitti. Lo farà soltanto dopo il ritrovamento del
primo cadavere.
5.2. Il materiale sequestrato nel “casolare degli orrori”
Durante le perquisizioni nella casa di Stevanin, i carabinieri rinvengono del materiale
che viene messo sotto sequestro18: un taglierino, due pistole giocattolo, indumenti
intimi, capi di abbigliamento femminile, borsette da donna ed i documenti di donne
scomparse tempo prima e di cui non si era saputo più nulla ed un vero e proprio
schedario relativo alle prostitute che aveva conosciuto, con descrizione somatica,
misure, prestazioni a cui erano propense e voto finale. Poi ancora, circa 150 contenitori
di foto, per un totale di oltre settemila fotografie, negativi non ancora sviluppati, decine
di videocassette porno, una capigliatura bionda, contenitori con peli pubici; inoltre,
giornali pornografici, lettere ad amanti e fidanzate, santini ed immagini di libri sacri,
riviste, romanzi, enciclopedie di medicina, atlanti di anatomia e volumi sull’uso della
macchina fotografica.
Relativamente ai capelli ed ai peli, Stevanin, in un primo momento, informa che sono di
18
Questura di Verona, verbale di sequestro, 19/11/1994.
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tre o quattro donne, successivamente dice di averne rasate parecchie, non ricorda però il
numero preciso: “provavo piacere a vedere una ragazza adulta come una ragazzina; mi
piaceva sentire la pelle liscia, senza peli”. Per quanto riguarda i capelli, continua a
spiegare di non ricordare, ma di seguito precisa: “io tenevo i peli pubici ed i capelli
perché pensavo di farmi l’imbottitura di un piccolo cuscino; già c’erano i peli pubici,
mi sono detto: perché non mettere anche dei capelli?”19.
Dei libri sequestrati molti erano a carattere erotico o sadico. Al di là dei temi, i periti
spiegano che colpisce il fatto che la maggioranza di questi si collocano, come anni di
pubblicazione, tra il 1985 ed il 1989, quasi a testimoniare, come l’interesse per
questioni inerenti la sessualità si fosse concentrato in quell’arco temporale, per poi
scemare nettamente.
Ma è lo stesso Stevanin a precisare, di fronte al dubbio dei periti, che “semplicemente,
non hanno trovato quelli di prima; ce n’erano molti di più che poi ho eliminato, perché
non avevo niente a che vedere con il sentimento applicato al sesso”20.
I consulenti delle parti processuali, successivamente, hanno preso visione di tutta la
documentazione cartacea e fotografica, analizzandone approfonditamente il contenuto,
ritenuto estremamente importante per la ricostruzione del profilo psicologico del
periziando. Emerge chiaramente che Stevanin leggeva e, poi, modificava quanto
appreso, arricchendo e variando le tecniche erotiche sulla scorta di esperienze e fantasie
personali; inoltre, il giovane di Terrazzo, copia alcune parti di libri e riviste,
trascrivendoli in parte a mano, in parte a macchina, e spiegando egli stesso che
“servivano per me oppure per darli a persone che, in quel momento, mi
interessavano”21.
Particolarmente importante, secondo i periti, risulta essere il libro Facile da uccidere22,
per una parte del suo contenuto e, soprattutto perché, in copertina è raffigurata una
donna bionda, seduta di spalle su di una sedia, nuda, legata con la tecnica del bondage
(immobilizzazione), con appesa una macchina fotografica. A specifica domanda,
Stevanin liquida la questione affermando di non aver ancora letto il libro. Si tratta di un
romanzo di letteratura poliziesca, in cui si descrivono le ultime ore di vita di un serial
19
LODI C., PACCHIONI P., Indagine su un mostro: il caso Stevanin, Tascabili Sonzogno, Milano,
1999, p. 30.
20
Ibidem.
21
Ivi.
22
KATZENBACH J., Facile da uccidere, Mondadori, Milano, 1987, pp. 133, 210, 274.
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killer, narrando, da un lato, il rapporto con la vittima tenuta sotto sequestro; dall’altro, la
biografia del protagonista, interpretata in chiave psichiatrica. Particolarmente suggestivi
risultano alcuni passi, se confrontati con la storia e le vicende di Stevanin.
Infatti, gli psichiatri hanno sottolineato, nella loro perizia, le analogie di comportamento
tra il periziando e Douglas Jeffers, il protagonista del romanzo.
I due esperti, Fornari e Galliani, sostengono che Stevanin, suggestionato dal romanzo,
potrebbe aver voluto emulare, almeno in parte, le gesta del suo “eroe”: un fotoreporter
che ama fotografare le proprie vittime appena uccise, tra cui donne tagliate a pezzi,
prostitute assassinate e sepolte nei terreni della casa d’infanzia, donne legate e seviziate
con il rasoio. Scrivono i periti nel loro commento: “se confrontato con quanto è noto
della sessualità dello Stevanin, dei suoi hobbies, del suo modus operandi nell’approccio
sessuale e nella successione degli omicidi, dei reperti rinvenuti nella sua auto e in casa
e di come si è svolto l’episodio con la Musger, il libro appare estremamanete
suggestivo, tanto da poter far sorgere l’ipotesi che il personaggio del libro sia stato
assunto come modello”23.
In data 25 settembre 1996, Stevanin consegna ai periti un foglio scritto di proprio pugno
e copiato da una rivista pornografica trovata in carcere. In questa pagina descrive “come
mi riconosco”: “elegante, raffinato, sempre con un accenno di quel buon profumo e
perfettamente rasato”. In lui e da lui ogni cosa è al suo posto, tutto in ordine. E sempre
con quella piccola perversione: a lui la donna piace “nature”, in minigonna, senza slip
né collant e depilata. In questo modo, infatti, “il piacere inizia quando esco dalla porta
di casa e termina solo quando rientro a casa”24.
A questo punto Stevanin precisa che la pornografia non ha niente a che fare con
l’oscenità. Secondo i periti, queste poche righe ritraggono Stevanin in un modo che
coincide perfettamente con il profilo psicologico da loro effettuato.
Tra le altre cose, sono state sequestrate numerose “schede di fotomodelle”,
accompagnate da alcuni facsimile di scheda tipo, con molte voci inerenti le misure del
corpo delle ragazze. Recano tutte la voce “esperienze”; in seguito Stevanin precisa che
la dizione indica “esperienze fotografiche” e contengono generalità della modella, dati
descrittivi quali misure corporee (altezza, peso, giro seno, fianchi) e colore dei capelli,
tipo di servizio fotografico per il quale la ragazza è disponibile.
23
24
Relazione fornita dai periti G. Ponti e I. Galliani alla Corte d’Assise.
Ibidem.
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Il serial killer rivela ai periti la sua intenzione di fare il fotografo e non più l’agricoltore.
Ammette che le foto venivano fatte solo per suo piacere e che furono scattate in un arco
temporale piuttosto ampio (1981-1994); tutte le ragazze che sono inserite nelle schede,
sostiene di averle conosciute e che nessuna è inventata; viene, invece, appurato in
seguito che solo alcune di quelle donne sono realmente esistenti.
Allegati alle schede, vengono trovati dei fogli che inducono gli inquirenti a ritenere che
la finalità di esse fosse legata all’intenzione di svolgere servizi fotografici pornografici
ed avere delle credenziali da presentare ad eventuali clienti e nuove candidate.
In alcune cartelle, sono presenti scritte che fanno riferimento allo Stevanin come
fotografo (es. modella n. 2: “unico fotografo, sviluppatore e stampatore delle mie
fotografie sarà Stevanin Gianfranco”).
Fare qualche foto, diceva, lo aiutava a creare un clima di confidenza e di complicità; del
resto Stevanin affermava che “le foto mi servono per ricordare o per fantasticare”.
Sono state rinvenute numerose missive nell’abitazione dell’agricoltore indirizzate alla
sua ex fidanzata e, ovviamente, l’argomento principale di esse è il sesso. In molte di
queste, egli cerca di convincere la ragazza a spingersi oltre quanto abbiano già
sperimentato sul piano delle esperienze sessuali. Vi è anche un foglio in cui Stevanin
scrive un pensiero al suo grande amore: “ti voglio tanto bene. Franco al suo amore,
l’Amelia, l’anima gemella per l’eternità”25.
Poche sono le lettere che esulano dall’argomento sesso; in una di queste il serial killer
parla di una ragazza che apprezza per la sua semplicità e sensibilità: “vedi, mi ha colpito
di te la semplicità e la franchezza con le quali ti sei confidata con me; e, visto che le
persone capaci di aprirsi e fidarsi del prossimo sono poche, troppo poche, tu rientri in
quella cerchia di persone con le quali vale veramente la pena aprirsi, donare il tutto per
tutto, donare tutto se stesso”26. Poi continua scrivendo: “e visto che quando posso
aiutare qualcuno mi sento veramente realizzato, tu mi hai dato molto, non credi? Di
questo non finirò mai di ringraziarti. Sono le persone come te che mi rendono felice.
Felice di sentirmi utile, di fare qualcosa di utile, felice di vivere”27.
25
Questura di Verona, verbale di sequestro, 19/11/1994.
Ibidem.
27
Dal materiale sequestrato nell’abitazione di Stevanin.
26
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5.3. L’esame delle perizie
Sono state molte le volte in cui i periti hanno incontrato Gianfranco Stevanin, così come
lo sono state le ore di colloquio; di conseguenza, lunghe e dettagliate sono state le
relazioni psichiatrico-forensi sulle condizioni di mente del periziando, presentate
durante l’incidente probatorio.
5.3.1. Le perizie d’ufficio
I periti d’ufficio, Ugo Fornari e Ivan Galliani, nominati dal Gip del Tribunale di Verona,
Carmine Pagliuca, hanno ricevuto l’incarico ben due volte, uno in data 13 aprile 1996,
l’altro in data 21 settembre dello stesso anno. I risultati dei test effettuati sono i
seguenti28:
* scala di intelligenza Wais, Q.I.= 114. Si tratta di un soggetto con buona dotazione
originaria, con armonico sviluppo delle funzioni psichiche;
* test di Behn Rorschach: mette in evidenza un’affettività “guardinga”, un
adeguamento affettivo con poca libertà e flessibilità, mediato dal calcolo e dal
ragionamento; si può, quindi, desumere l’esistenza di meccanismi di ipercontrollo
rigido;
* test di Rosenzweig: rivela la presenza di un elevato numero di risposte extrapunitive,
indice di vulnerabilità dell’Io;
* M.M.P.I.: il profilo che ne deriva rivela una preoccupazione del soggetto di fornire
un’immagine di sé convenzionale, verosimilmente al fine di evitare presunti giudizi
negativi;
* IPAT (ASQ): rivela il livello d’ansia. Il risultato ottenuto si riscontra in soggetti
eccessivamente rilassati, sicuri;
* TAT e ORT: mostra una buona capacità di identificazione nelle situazioni, nei
personaggi e nell’atmosfera emotiva.
Al termine dei test, i periti commentano con Stevanin i profili ed i risultati di essi,
affermando che è ben dotato intellettivamente, non emergono difetti di memoria, non ci
sono dei grossi indici di dispersione; di fondo, non è una persona ansiosa e neppure
depressa; risulta essere un soggetto sospettoso e cauto; emerge anche una certa
28
Dagli Esami di Sussidio Psichico Diagnostico, consegnati ai consulenti delle parti.
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aggressività, il bisogno di tenere tutto sotto controllo (elemento tipico dei serial killers)
e l’incapacità di lasciarsi andare alle emozioni.
Durante i colloqui con i periti, Stevanin parla a lungo della madre, con la quale dice di
aver avuto sempre un buonissimo rapporto. Spiega, però, di non essere mai riuscito ad
avere una relazione duratura con le ragazze (fatta eccezione per Maria Amelia), perché
lei si intrometteva sempre; afferma “mia madre era peggio di uno 007, era praticamente
impossibile depistarla, era peggio di un segugio, praticamente mi faceva dire quello che
in realtà io le volevo tenere segreto”29. Da un certo momento in poi, Stevanin esclude i
suoi genitori dalle sue storie personali facendo di testa sua. Tutto questo rivela, secondo
i periti, un rapporto molto conflittuale ed oppositivo con la figura materna. Sua madre,
comunque, ha avuto una grande importanza per lui, specie nei primi quattro anni della
sua vita. Tanto che, alla fine, ammette che potrebbe aver influito molto l’allontanamento
dalla famiglia e la chiusura in collegio, dove si sentiva oppresso e non amato. Tutto
questo lo ha fatto soffrire perché non è più stato oggetto delle cure e dell’attenzione
della madre. Afferma, infatti, che “l’affetto della madre è un affetto unico; più nessuno
nella vita dà quello che la madre ha dato ad ognuno di noi quando eravamo bambini;
mia madre, senz’altro, mi dava tutto il possibile”30; questo è il suo convincimento, cioè
che la madre fosse sempre dalla sua parte, nonostante l’avesse mandato in collegio ed
avesse per questo motivo patito un senso d’abbandono.
Infatti, quando scappa dall’istituto, ha il suo primo rapporto sessuale con una donna
sposata, proprio perché in lei cerca, per i periti, più l’affetto che non la libertà e quella
donna rappresenta per lui l’immagine materna.
Secondo Fornari e Galliani, la madre ha sempre considerato Gianfranco Stevanin come
un bambino, non lo ha lasciato crescere; addirittura quando in un incidente provoca la
morte di una persona, la madre lo tranquillizza e lui stesso disse che lei aggiunse: “ti
comprerò una macchina nuova”.
È nell’infanzia, dicono i periti, che si è costruita una figura, fonte inesauribile di
gratificazioni, poi la frustrazione di un bisogno e la delusione di un’attesa gli possono
aver causato un trauma.
Si ha un’involuzione del sentimento, fino al suo spegnimento, con la progressiva
prevalenza dell’erotismo, fino al trionfo assoluto di questo.
29
30
Ibidem.
Ibidem.
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La constatazione: “la donna non mi può dare spontaneamente e disinteressamente
quello che mi dava mia madre”, esprime la sua profonda delusione; quindi l’amore
originario si è un po’ per volta trasformato in odio per la donna, pur continuando a
cercare nella figura femminile la fonte della gratificazione primaria.
Da questo momento in avanti, la donna non è più vissuta da lui come buona e tutte le
esperienze che ha avuto hanno consolidato in lui quest’idea. A livello inconscio,
spiegano i periti, Stevanin si è convinto che non sarebbe mai cresciuto, che non sarebbe
mai stato in grado di stabilire una relazione paritaria con la donna e ciò per colpa della
figura femminile stessa. Tutte le attese sono state deluse e Stevanin chiude la partita
degli affetti, perché convinto che le donne lo obbligassero a chiudere questa partita 31,
non perché egli non avesse il desiderio di dare affetto; si sente amareggiato perché le
donne lo hanno “fregato pesantemente”, iniziando dalla madre.
Secondo Fornari e Galliani, sacrificare l’affettività è stata la sua sconfitta; nel rapporto
di coppia, egli si ritiene un perdente e di questo ritiene responsabile la donna. Cercano
di capire, i periti, cosa possa essere successo dentro di lui per arrivare ad uccidere sei
donne; ma è egli stesso che non sa spiegarlo. Si cela dietro molti “non ricordo” e
afferma che “la nostra memoria, nel decidere quali ricordi lasciare vivi e quali lasciar
andare, opera una selezione. In base ad essa potrebbero mancare particolari
importanti; è probabile che si cancellino i ricordi di poca importanza e quelli brutti”32.
Ha dei flash, rievoca qualcosa e le uniche vittime che seppellisce (la Pulejo e la
Pavlovic), sono quelle che ricorda con affetto; delle altre quattro dice di non
rammentare neanche il nome. Del resto con queste ultime non c’era legame alcuno.
Infine, aggiunge che “se mi dicessero che ci sono altre vittime oltre a quelle sei, non
saprei cosa dire”.
Da queste risposte, spiegano i periti, non si riesce ad approfondire la psicodinamica dei
suoi reati, né a comprendere appieno i suoi vissuti. Il suo atteggiamento rimane bloccato
e chiuso, non tradisce emozione alcuna.
L’attenzione di Stevanin, però, è altissima. È turbato, soprattutto vuol sapere se tutto il
discorso fatto lo porterà al riconoscimento di una patologia che potrebbe averlo indotto
a compiere i delitti; vuol sapere, inoltre, se e come interrompere questa potenziale
patologia. Sostiene, infatti, che “se gli argini posso metterli io, praticamente la
31
32
Dalla relazione presentata dai periti G. Ponti e I. Galliani alla Corte d’Assise.
Ibidem.
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pericolosità non ci sarebbe più”. Attraverso queste parole, affermano i periti, appare
chiaro l’obiettivo perseguito da Stevanin e qual è la sua strategia difensiva; del resto, dai
colloqui effettuati non emergono sensi di colpa o rimorso verso le vittime ed i loro
parenti.
Emergono alcuni elementi ricorrenti in molti momenti della sua vita, considerati dai
periti di straordinaria importanza:
a. l’abbandono, che non scatena soltanto la solitudine, ma spinge anche alla ricerca
compulsiva di qualche forma di riempimento;
b. il vuoto, che è la negazione del sentimento. Stevanin associa tristezza-solitudinefreddo. La mancanza totale di sentimento coincide, per lui, con la solitudine. “Ho
sentito la vera solitudine”, ripete più volte, “soprattutto dopo la fine della storia con
Amelia”; di contro, si collocano i vissuti legati all’amore ed al sentimento, termini che
associa a trasporto-amore-famiglia-fisicità-intimità.
Sono i periti, ma anche gli avvocati difensori che, in ogni incontro, sollecitano Stevanin
a ricordare il più possibile i momenti cruciali degli incontri con le vittime, quelli in cui è
avvenuta la morte. Sono soltanto i racconti riguardo la Pulejo e la Pavlovic ad essere
fluenti, proprio perché, come detto, sono quelli a cui Stevanin era in qualche modo
legato. Relativamente alle altre vicende, le memorie sono bloccate; per questo ha dei
flash, spiega che “non c’è una visione che mi porta da qui fino alla fine, vado
spezzettato”. Tutti i suoi ricordi, afferma di “riviverli come se rivivessi un sogno, non
come qualcosa che è veramente successo”. Ed è così che, nelle lunghe rievocazioni
ricche di “presumo di ricordare”, “potrebbe essere”, “non ricordo”, “pensandoci bene”,
racconta di aver fatto a pezzi i corpi di alcune ragazze e che, a quelle reminiscenze,
collega due flash di zone vicine a dei canali, dove potrebbe aver buttato i corpi o parti di
essi. Sottolinea che nessuno di questi ricordi gli fa pensare ad un omicidio, precisando,
però, che “questo lo dico per la mia coscienza, non per voi”; anzi, ammette di essere
raccapricciato all’idea di aver fatto qualcosa del genere e non sa darsi una spiegazione
di come possa essere arrivato a tanto.
Nonostante i numerosi inviti dei periti, al fine di rinunciare ai suoi “non ricordo” ed
incoraggiandolo in un clima estremamente comprensivo, Stevanin afferma: “io
continuerò a sforzarmi, anche se mi costa; indipendentemente da quello che mi costa,
se per caso dovessi ricordare parlerò; non è mica simpatico dover ricordare cose
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simili”.
Nessuna rassicurazione da parte di Fornari e Galliani, quindi, è riuscita a smuoverlo più
di tanto; tutto questo, secondo i periti, indica la natura tutt’altro che psicogena delle sue
amnesie. Infatti, la caratteristica propria del suo modo di non ricordare, documenta in
maniera quanto mai chiara che egli può ricordare tutto perfettamente, altrimenti non gli
sarebbe possibile, a tratti, ricordare in modo così dettagliato.
In primo luogo, Fornari e Galliani, sottolineano che Stevanin si è sempre presentato ai
numerosi incontri avuti presso il carcere di Verona Montorio; si è dimostrato lucido,
cosciente, perfettamente orientato nel tempo, nello spazio, nei confronti della propria
persona e della situazione di esame.
Hanno valutato la modalità di esposizione, osservando che è completamente aderente
alla realtà processuale ed alle sue esigenze, nonostante non abbia seguito un filo logico
nella ricostruzione degli eventi. Stevanin è apparso, come detto, molto dotato sul piano
intellettivo, attento, preciso, pignolo fino all’eccesso; una coerente e costante freddezza
ha accompagnato ogni suo dire.
Affermano i periti che “Stevanin ha invocato improvvisi black-out della coscienza e
rievocazioni del tipo dream-state, per quello che riguarda gli eventi più vicini ai
delitti”; ma il modo in cui ha ricordato i fatti “è assolutamente incompatibile con un
disturbo dello stato di coscienza, quale il soggetto vorrebbe far intendere essere stato
presente in lui”.
Nel fornire le proprie ammissioni, aggiungono, è molto attento alle esigenze
processuali, ma anche a quelle di “immagine”, allo scopo di apparire agli altri come una
persona dedita a pratiche di sesso estremo, ma non come un sadico o un violentatore; è
evidente la precisa intenzionalità di ammettere quanto non può essere più
ragionevolmente negato.
I comportamenti sessuali, pur rivestendo carattere di abnormità e di perversione, non
possono assumere valore di malattia; quindi non acquisiscono rilevanza alcuna agli
effetti della valutazione dell’imputabilità.
Non corrisponde ad alcuna entità clinica e/o psicopatologica l’atmosfera di sogno e di
irrealtà in cui il periziando ha cercato di ammantare le prime ammissioni.
È evidente che Stevanin ha utilizzato questa modalità espositiva in modo intenzionale:
accampa dei ricordi in forma di flash e delle lacune amnesiche che vengono poi
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facilmente recuperate con ricordi dettagliati dell’ambiente in cui si sono svolti i fatti,
degli oggetti, dei comportamenti, di ciò che è avvenuto dopo33.
Quindi, i periti sostengono con sicurezza che questi dati non sono assimilabili a quegli
“stati crepuscolari” tipici della personalità multipla. Affermano, altresì, che “la capacità
di giudizio, di analisi, di critica, sono perfettamente conservate e che Stevanin presenta
una cronica incapacità di dire il vero, un’eccessiva fiducia nelle sue capacità ed abilità,
un temerario piacere a sfidare gli altri, una consumata abilità a presentarsi come
vittima-carnefice, un freddo controllo della situazione peritale, una struttura
narcisistica ed egodistonica, un mal dissimulato disprezzo per la donna”.
Questi tratti sadici, perversi e narcisisti sono comuni alla maggioranza degli assassini
seriali, per cui possiamo considerare Stevanin un serial killer tipico.
In questi soggetti continuano i periti, il deterioramento dell’esperienza affettiva è
espresso nella loro insofferenza per qualsiasi accrescimento di angoscia, nella loro
incapacità di deprimersi provando un dolore che riguarda la loro persona, nella loro
impossibilità di innamorarsi e di provare tenerezza nelle relazioni sessuali.
In conclusione, dal complesso delle loro indagini, dalle cartelle cliniche analizzate, dalla
condotta avuta, Fornari e Galliani affermano che, al momento dei fatti per i quali è sotto
processo, Gianfranco Stevanin non era affetto da alcuna infermità tale da costituire vizio
parziale o totale di mente.
5.3.1.1. Esame psichico
Lucido, orientato nel tempo e nello spazio e nelle persone, il campo di coscienza è
sufficientemente esteso e comprensivo, senza restringimenti e la coscienza permette
slittamenti e spostamenti temporali adeguati e competenti. La coscienza dell’Io sembra
nella norma, non si hanno alterazioni del sentimento di proprietà dei propri atti di
conoscenza. La memoria sembra, nei termini elementari, in ordine. Gli eventi
immediati, recenti e presenti sono ricercati con caparbietà e precisione. I contenuti
mnesici sono sistemati in schemi temporali esatti, non vi è rattrappimento della
susseguenza temporale e storica degli eventi, non vi sono paramnesie, non
confabulazione, non aspetti dismenesici o di deformazione di nessun tipo. Gli eventi che
coincidono e riguardano gli omicidi sono, invece, presentati come sconosciuti, estranei,
33
Ibidem.
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con qualche recupero più recente, ma immersi in una specifica inconsapevolezza, come
attività totalmente estranea e non posseduta dalla coscienza dell’Io, con un
atteggiamento di perplessità globale che pare costruito allo scopo di questo passaggio
specifico del colloquio.
Dunque, la situazione generale per ciò che riguarda la funzione mnesica è ottimale,
occorre rilevare la presenza di amnesie lacunari specifiche. In realtà aree di scotomi
mnesici investono gli eventi concatenanti ed i lassi di tempo che si riferiscono alle sue
azioni criminose. Queste sono specificamente cancellate, in un’atmosfera tra il
trasognato ed il perplesso, con un’attitudine di chi si chiede cosa mai siano queste cose
e con un’aria di perdita di contenuti attraverso la confusione: l’attributo perplesso è
quello che meglio si adatta a questa situazione. Clinicamente questo fenomeno è
fortemente vicino alla simulazione: è possibile perché i due stati mentali si
sovrappongono, che accanto a questo vi sia una condizione di doppia coscienza o
coscienza dell’Io collaterale, un fenomeno cioè di tipo ganseiforme, anche se
propriamente non si rilevano i segni specifici del Ganser34.
Sembra che le sequenze dei cerimoniali sadici siano investite da un’onda di rimozione
che deriva da una mescolanza di angoscia e di sentimenti, più che di colpa, di imbarazzo
profondo per gli eventi che rendono sconveniente il ricordo e di forte guadagno
secondario che lo induce ad utilizzare queste attitudini conversive. In ogni caso, questa
conversione è un fenomeno che riguarda la revisione degli eventi, la modalità stilistica
del racconto. È nel racconto a posteriori che si applicano queste scissioni mnesiche che
non riguardano l’evento mnesico prodotto da un particolare stato di coscienza al
momento del fatto. È, in altre parole, una sorta di stratagemma narrativo che, in modo
oscillante tra il cosciente ed il non cosciente, egli ha adottato.
Si comprende che l’attenzione è in ordine: le risposte sono adeguate, parla
opportunamente se interrogato, ma prende iniziative autonome nel racconto con una
buona tensione attiva verso la situazione e le argomentazioni.
Il linguaggio, come si coglie durante il colloquio, appare corretto, del tutto scorrevole e
talora ridondante, con frequente presa di iniziativa, ricapitolazioni e richiami, addirittura
34
La sindrome di Ganser, chiamata anche pseudodemenza, è una sindrome neurologica di origine
isterica nella quale si verifica una produzione volontaria di sintomi psicologici che tende al
peggioramento quando il paziente è consapevole di essere osservato. Tale sindrome può essere
considerata come simulazione o come isteria.
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richiami all’ordine dell’interlocutore se ha l’impressione che questi lasci l’argomento
inconcluso.
Il lessico è buono ma artificioso e non corrispondente al suo livello culturale; spesso
l’uso di una terminologia pseudo-tecnicistica gli conferisce un’aria enfatica costruita ad
hoc (per es. “ho un’intensa attività onirica”).
Sul piano strettamente formale, il linguaggio sembra in ordine, ma a dire il vero qualche
segno di intoppo, di scucitura dell’apparato logico e comunicativo, una certa singolare
prosodia, danno alla comunicazione una sfumatura stridente, un po’ innaturale, come di
una persona che viva in un mondo suo, distaccato, in modo eccessivamente autonomo.
Talora si notano complesse e ricercate modalità lessicali, tecnicismi o frasi costruite ed
elaborate, sembra al fine di divertire o impressionare l’interlocutore. Non si notano
componenti anomale.
La percezione è come di norma: non esistono oggi, e non risultano siano mai esistiti,
fenomeni dispercettivi né quantitativamente né qualitativamente, non fatti illusori, non
percezioni senza oggetto, quindi non allucinazioni, né pseudo allucinazioni, non
percezioni corporee anomale del contenuto di pensiero, non istanze allusive, né
particolare sospettosità o sensitività di allure paranoide.
L’affettività ha un’apparenza abbastanza inadeguata e recitante e sembra svolgersi in
un’atmosfera poco genuina che pare seguire un copione prefissato. Insomma, gli eventi,
emotivamente immani, dei suoi trascorsi, sembrano scuoterlo poco: il coinvolgimento è
limitato, i vissuti di rimorso sono formali, l’argomento è distanziato e raffreddato.
Tuttavia, non c’è dubbio che il livello ansioso deve essere notevole e deve essere
sempre stato così: si tratta, sembra, di un’ansia vissuta come esperienza interiore
astenizzante e bloccante, e sembra che ogni richiesta di aumento di prestazioni
interpersonali e sociali produca la risposta di insufficienza, determinando una
componente di inerzia e di rinuncia che limita criticamente ogni tipo di rendimento
sociale.
Non si rileva depressione che tuttavia potrebbe essere sommersa dalla recita disinvolta e
grandiosa, che fa compiere al sig. Stevanin clamorosi understatements, come quello di
enfatizzare il suo ottimo rapporto con tutti.
Non vi sono fobie strutturate, non claustro né agorafobie, non sentimenti di panico.
Invece, esiste un quadro di stato da allarme generale che investe la sfiducia nel proprio
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corpo, il senso di precarietà generale e di bisogno di conferma e rassicurazione. Su
questa sorta di inerzia genericamente psicofobica si basa la grande dipendenza del
paziente, che produceva probabilmente una serie di esigenze di conferma attraverso il
controllo delle persone, essenzialmente delle partners.
Non si può escludere una componente istrionica, di tecnica di teatro, di manipolazione,
di presentare un’angolatura di sé integro, privo di colpe a lui conosciute, ma è assai più
attendibile che la condizione sia da riferirsi ad una impostazione narcisistica, in cui
prevale la realtà interna, con le sue esigenze di costruire un’immagine a se stante,
svincolato da regole sociali e norme relazionali, con reali difficoltà di comunicazione
non solo emotiva ma anche linguistica. In questo senso è comprensibile che la
comunicazione, nella sua globalità, divenga povera, limitata, priva di vivacità e
dell’accompagnamento emozionale, anche se le domande specifiche e mirate svelano
una specifica competenza alla risposta, solo presente se stimolata, difficilmente
autonoma, a testimoniare la dimensione più narcisistica che istrionica della modalità di
relazione. Tutto questo è certamente alimentato da uno stile di vita immerso in un
rapporto con la madre coinvolgente ed autosufficiente, impenetrabile dall’esterno,
aiutato dall’isolamento sociale che nel mondo della campagna può essere
obbiettivamente più spiccato ed accettato.
Il sig. Stevanin è figlio unico, sempre vissuto in una situazione apparentemente nella
norma, in un nucleo familiare composto da tre persone, una famiglia benestante di
agricoltori possidenti. Tuttavia, bisogna premettere che il mondo in cui viveva, ed ha
sempre vissuto, è un mondo che in sé contiene i germi dell’isolamento. Una grande casa
di campagna, fisicamente lontana da altre abitazioni, circondata da appezzamenti ampi
di territorio, una casa grande e dignitosa, ma abbandonata ad un certo degrado, che
indica l’incuria e la distanza di tutto il nucleo familiare da interessi relazionali, con un
modello dell’Io individuale ed una identificazione di ruolo familiare incurante e
trascurato: il degrado abitativo corrisponde alla modalità incongrua dei vissuti del
nucleo familiare. Tutto ciò non risulta dalla sua narrazione, che invece ruota intorno ad
uno sforzo descrittivo di presentare l’ambito casalingo e familiare come dignitosamente
borghese, attraverso una descrizione stereotipa e precostituita, che restituisce
un’indagine costruita e non propriamente da lui vissuta: è un quadro di ciò che egli si
spetta sia la norma accettabile.
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Va ricordato che, proprio il distacco e l’isolamento, hanno conferito al sig. Stevanin,
come del resto accade di solito in questi casi, l’allure di buon ragazzo, mite, educato,
allure che si estendeva a tutto il nucleo familiare, a causa della impenetrabilità e della
intangibilità del sistema, che non era scalfito da problemi relazionali esterni né negativi
né, a dire il vero, positivi.
Qui viveva, dunque, una famiglia considerata dagli altri “buona gente” e normale, anche
se un po’ singolare. In realtà si tratta, per usare un’espressione ormai classica, di una
famiglia schismatic, secondo il termine di Bateson. Il padre buon lavoratore, poco
partecipe, poco coinvolto dai problemi, che tutto ignorava e veleggiava lontano, mentre
il nucleo era rappresentato dalla diade inscindibile madre-figlio, con la madre che era, e
rimane tuttora, anche durante la vita carceraria del figlio, tendente a risolvere per linee
esterne ogni bisogno ed incongruenza, a negare ogni esigenza mentale del figlio e ad
operare per agire concretamente inserendo il figlio in un mondo diadico, totalmente
autosufficiente: il figlio ha fame, gli si dà da mangiare, il figlio necessita di vestiti, gli si
procurano, il figlio si sporca, si pulisce (senza tener conto che lo sporco somiglia al
sangue), la casa puzza si aprono le finestre (senza tener conto di che odore si tratti),
mentre non fa nessun caso a cosa pensa, come vive dentro, che progetti ha. Un rapporto
interamente simbiotico, fusionale, in cui esiste una mente per due, secondo il modello
arcaico dell’allattamento al seno o, ancora più arcaicamente, del contenuto intrauterino,
del contenimento intrauterino, di un figlio adulto mai partorito.
I dati anamnestici mostrano come tutto ciò è stato accentuato dal turbinio che dopo i 16
anni è stato causato dal rilevante trauma che ha portato con sé un lungo e doloroso iter
di ricoveri, di interventi, che hanno invaso l’epoca tardo-adolescenziale, e che hanno
creato o riaffermato una personalità chiusa, narcisistica, distaccata assieme agli esiti
psicorganici, come la caduta della spinta relazionale, l’epilessia con le perturbazioni
sociali che comporta, aiutato dalla terapia antiepilettica.
I dati della carriera scolastica confermano questa situazione. In realtà, nulla di
propriamente anomalo e psicopatologico si è mai rilevato nell’anamnesi, in quanto
questa personalità è un disturbo che a malapena ed incompletamente si può situare in
Asse II del DSM IV, ed il suo comportamento non ha mai presentato all’esterno
anomalie. Ed è peraltro impossibile affermare se il trauma abbia presentato un cut off
point tra il prima ed il dopo della personalità, perché non esiste propriamente un
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“prima” della personalità, appunto prima dei 16 anni, quando ancora la personalità non
è sviluppata.
Nulla, dunque, di esteriormente psicopatologico e si può ben capire perché: in questa
situazione di chiusura, di isolamento narcisistico, ed in questa grande autosufficienza
collegata molto probabilmente alla collusione materna, tutta l’attività psichica si è
venuta concentrando in un mondo interno, autonomo, costituito da pulsioni e fantasie
erotiche che sono l’unico elemento portante della sua vita: per questo ci sono deboli
cenni di una vita sessuale integrata, con componenti affettive scarsamente valide,
relazioni evanescenti ed improbabili e non si trovano i tentativi, le frustrazioni ed i
successi, gli approcci, intensamente vissuti che nell’adolescenza e nella vita adulta
caratterizzano, tra difficoltà e soddisfazioni, la vita affettivo-sessuale.
È evidente che da sempre, da timidi inizi nella seconda infanzia, via via consolidandosi
col passare del tempo, e anche in seguito alla diminuizione delle capacità operative
relazionali in senso globale determinate dalla condizione di isolamento, tutta la vita
sessuale, ma si può dire tutta la vita mentale del sig. Stevanin, è ruotata intorno a queste
rappresentazioni mentali anomale, prima attraverso attività scoptofile di foto o
pubblicazioni del genere e poi, col passare del tempo, intorno a progettazioni di rituali
sadici, dapprima più timide ed identificative, poi sempre più consistenti e precise:
queste, aiutate dalle difficoltà relazionali e dall’ incapacità metaforica, simbolica e
sublimatoria, incapacità che rendeva impossibile un rapporto con una partner che
concordasse una relazione condivisa, hanno portato all’esito tragico.
Il fatto è che, accanto alla sessualità inizialmente masturbatoria e connessa come di
norma con fantasie scoptofile, ne esisteva un’altra che si veniva sviluppando,
caratterizzata da un desiderio di imporsi, di sottomettere ed umiliare col completo
possesso la partner, atteggiamento che aumentava a dismisura l’eccitamento sessuale. Il
problema consisteva nel fatto che l’incapacità di far funzionare la fantasia, l’oggetto
interno mentale, la rappresentazione e la narrativa interna, gli ha decurtato la possibilità
di vie mentali per realizzare fantasticamente queste istanze; non funzionando il
preconscio con le sue capacità di mentalizzare, di usare immagini e metafore, di narrarsi
una storia interiore, si rendeva possibile solo l’acting o l’espressione comportamentale
per mettere in funzione e concretizzare le spinte pulsionali che per lui prendevano
esistenza solo quando si realizzavano in fatti e comportamenti.
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Tutto questo trova conferma, sul piano profondo, proprio dalla relazione fusionale e
simbolica con la madre: in questo caso l’ambivalenza era senza dubbio importantissima.
La stretta fusionale materna, da un lato facilitava dall’inizio ogni cosa e rendeva
possibile l’impossibile, ma nella stesso tempo costituiva un abbraccio mortale e
soffocante che produceva la reazione arcaica di furore distruttivo, connesso col piacere,
piacere scaturente dalla vendetta e dal dolore della vittima in quel momento quanto mai
vicina a lui; il che è tipica aporia della condizione perversa.
5.3.1.2. Inquadramento diagnostico
L’inquadramento diagnostico del caso presenta qualche difficoltà, non tanto in sé, ma in
quanto comporta la valutazione dell’interferenza degli esiti del trauma encefalico in
anamnesi. È intanto evidente che non si è di fronte ad un quadro evidente e conclamato.
L’integrità sostanziale del linguaggio, la coerenza e il susseguirsi corretto delle
concentrazioni associative, l’attitudine generale globalmente adeguata, i contenuti di
pensiero privi di dimensione di convincimento palesemente erroneo o di allontanamento
della coscienza di realtà, l’assenza di elementi dispercettivi, di automatismo mentale, di
fenomeni di azione esterna, di tendenza all’autoriferimento, di sensitività e proiettività
paranoide, la presenza di una motilità sciolta e non bloccata, senza fenomeni di
stereotipia, di palicinesia, di alterazioni posturali, priva di scoordinata concitazione,
depongono per un’assenza di fenomeni psicotici della serie schizofrenica, dalla
schizofrenia, alle forme schizoaffettive o schizofreniformi, dai disturbi paranoidi a
quelli più genericamente deliranti.
L’umore sembra adeguato alla situazione, né si rilevano nella storia clinica momenti di
tipo depressivo. Non c’è insonnia, né rallentamento psicomotorio, né idee di colpa o di
autoaccusa. Situazioni di nevrosi strutturata specifica non osservabili: non idee fobiche,
né manifestazioni comportamentali o ideatorie di tipo anancastico 35; non risultano turbe
della cenestesi36.
35
36
In psichiatria si intende un comportamento sintomatico delle persone affette da disturbo ossessivocompulsivo in cui il soggetto non può mancare di compiere alcune azioni o di avere determinati
pensieri.
La cenestesi è una sensazione generale relativa ai visceri interni ed alla loro attività vegetativa. Si tratta
della somma di sensazioni propriocettive e interocettive (con esclusione di quelle che vengono dagli
organi sensoriali propriamente detti) che determina, pertanto, un sentimento generale di benessere o di
malessere, di affaticamento, di energia, di malattia. Si tratta di una sensazione generale che sta alla
base della cd. immagine del corpo o schema corporeo e, per suo tramite, della coscienza di sé e delle
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Sul piano psicorganico non vi sono rilievi da fare. La presenza di coscienza, coscienza
dell’Io, orientamento e memoria ineccepibili, l’assenza di segni focali, la mancanza di
difficoltà lessicali, di linguaggio concreto, di cenni di incoerenza, il buon livello
comunicativo e della conversazione, non permettono di porre una diagnosi di disturbo
psicorganico di alcun tipo.
Altra cosa, però, se si passa dai quadri clinici conclamati alle sfumature. Si può notare
in quest’area un certo grado di rilassamento e di scucitura dei nessi logici ed emotivi più
sottili, una certa perplessità espressiva ed alcuni stridori nella connessione e
nell’adeguatezza delle tonalità affettive, un certo grado di scissione tra contenuti e
modalità espressive, da riferirsi ad una struttura in parte istrionica ed in parte narcistica
della personalità.
Dato il modo in cui gli eventi criminosi sono presentati, sarebbe possibile pensare ad un
disturbo dissociativo, del tipo personalità multipla o sdoppiamento di coscienza. Ma
intanto questa sindrome è più di pertinenza della narrativa che della clinica, in quanto
difficilmente in clinica può essere comprovata: essa comporta una vera disapprovazione
di una parte della coscienza.
Questo quadro, per poter essere avallato sul piano clinico, necessiterebbe una scissione
della coscienza, con perdita del sentimento di proprietà di una parte del campo di
coscienza, con quindi un preciso scotoma mnestico della parte disappropriata, e un “non
sa la mano destra quel che fa la mano sinistra” non come metafora ma come realtà: il
Dr. Jekyll deve avere amnesia psicogena di Mr. Hyde, senza la qual cosa siamo di fronte
a comportamenti contrastanti, ma sempre con coscienza unitaria. Occorre ricordare
anche che i fenomeni di dissociazione di coscienza di questo tipo sono accettabili
clinicamente per eventi di scarsa durata e complessità organizzativa, e non per un
susseguirsi di eventi coordinati, anche se maldestramente, così articolati.
L’inquadramento nosologico fondamentale è la parafilia. L’intensa spinta pulsionale a
ricercare il piacere attraverso la triade sottomissione sessuale-umiliazione-forzatura
della partner e sua dedizione obbligata e incondizionata, che produce aumento rilevante
dell’eccitamento sessuale, è caratteristico della parafilia sadica. È possibile qui che la
parafilia abbia i caratteri particolari della parafilia compensativa reattiva, che flotta sulla
funzioni dell’Io. La cenestesi, inoltre, per le sue polarità fondamentali di benessere e di malessere è la
sorgente primordiale del tono affettivo, cioè dell’umore e costituisce un fattore psicodinamico della
massima importanza.
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superficie dell’Io in momenti di particolare frustrazione e inquietudine (insoddisfazioni
generali, bisogno di compensazione).
Di solito queste situazioni vengono attribuite dalla teoria psicoanalitica all’antico
vissuto di aggressività ambivalente e di istanze di risarcimento per i sentimenti di
abbandono materno. È, però, sufficiente l’esame clinico, che presenta un indiscutibile
rilievo della parafilia sadica e che mette in chiaro l’esistenza, in questo caso, del rituale
parafilico quasi compulsivamente eseguito: è proprio, infatti, delle parafilie l’esecuzione
di un accurato rituale, funzionale all’eccitamento sessuale ed al piacere. In questo caso
esiste una ripetizione di rituali parafilici, ripresentatisi intermittentemente, con rituali di
sottomissione ed imposizioni, iter consistente in pratiche fotografiche, esecuzioni di
pratiche sessuali sul filo del rischio di vita delle partners che egli definisce “sesso
estremo”, che non sempre si ferma al momento giusto ma travalica nella tragedia: nella
parafilia sadica, si sa dove si comincia ma non si sa dove si finisce. Come se egli
seguisse un manuale di istruzioni interno o possibilmente anche esterno. Il rituale,
seppur approssimativo, sadico, che comporta grande eccitazione e piacere, non può che
rimanere sul piano di questo grossolano e pericoloso acting, a livello solo
comportamentale, in presenza di incapacità di mentalizzare e di costruire immagini
interne (mentali) integrative e costitutive nel mondo fantastico, che in qualche modo
normalizzano la parafilia e rendono meno pericoloso il comportamento trasformando
l’atto in interamente o parzialmente simbolico. Non manca nel complesso rituale
descritto una dimensione narcisistica, che comporta un accenno ad un’organizzazione
per strutturare una sorta di trauma occultante e depistante, che faceva parte ed integrava
come ultimo atto la ritualità, con sue dimensioni anch’esse rituali, di occultamento e di
furtività (sostituzione di targhe, ecc..). Lo strazio e l’occultamento del cadavere è parte
integrante del rituale parafilico.
Il quadro nosologico delle parafilie si riferisce in modo adeguato al caso in esame, in
quanto è composto da fantasie, impulsi sessuali e comportamenti ricorrenti,
intensamente eccitati ed eccitanti sessualmente, che nel caso del sadismo riguardano
appunto la sofferenza e/o l’umiliazione della partner: va tenuto presente che, come è
quasi la regola, fantasie e stimoli parafilici sono nel caso del sig. Stevanin indispensabili
per l’eccitazione sessuale, sono in altre parole elementi di base indispensabili per la
sessualità e sono sempre impliciti nell’attività sessuale.
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La preferenza della fantasia parafilica, in questo caso, è di essere portata alle
conseguenze estreme, per rendere la partner, quali che fossero le condizioni di partenza,
non consenziente e per realizzare comportamenti sessuali effettivamente lesivi per la
partner stessa. Questo è in gran parte legato al fenomeno di cui sopra si è parlato, e cioè
dell’incapacità o rilevante inefficienza della elaborazione fantastica, della “ficition”
interiore, della costruzione di rappresentazioni simboliche e metaforiche, in susseguenze
normative che costruiscano, anche previo accordo con la partner, situazioni
soddisfacenti e non lesive o non troppo lesive.
È prevedibile che il parafilico, con capacità di costruzione fantastica e di
mentalizzazione, strutturi situazioni che rendano meno specifico, più mascherato, a
diversi livelli di sublimazione, lo stimolo sessuale anomalo. Il concetto di sublimazione
nasce come metafora dalla chimica, ove indica il passaggio di stato saltando lo stadio
intermedio: in questo caso la realizzazione della pulsione erotica saltando
l’erotizzazione propriamente, a volte produce comportamenti ad alto valore sociale. Per
esempio, il sadico può fare il soccorritore e guidare un’autoambulanza, o può fare la
professione chirurgica. In molti casi queste persone possono guardare, leggere,
collezionare romanzi, foto, films o, nelle ipotesi più regolari, procurarsi un partner
consenziente con cui risolvere simbolicamente, attraverso simulacri (legature, finte
fustigazioni, schiavitù simbolica), le spinte sessuali. Ovviamente, i soggetti privi di
partners consenzienti ricorrono alle prestazioni di prostitute, che però sono
difficilmente consenzienti a pratiche anche simboliche, per l’ovvio motivo che per un
accordo di questo tipo occorre una profonda conoscenza e una notevole fiducia tra i
partners. In casi abbastanza rari si ha la realizzazione di questi vissuti e spinte sadici su
vittime non consenzienti. Ciò avviene specificamente quando si realizzano due
condizioni che si sono essenzialmente poste in convergenza nel caso in esame. Esse
sono, da un lato l’intensità della spinta istintuale sadica, massima in questo caso, e
dall’altro la grave incapacità di sublimare, di costruire elementi fantastici, di creare
simbolismi, dato l’importanza che ha questo elemento.
Nel caso, dunque, del sig. Stevanin la focalizzazione parafilica implica azioni reali, non
simulate, in cui il soggetto ricava eccitazione sessuale dalla sofferenza prevalentemente
fisica, ma anche psicologica (soprattutto la sottomissione e l’ umiliazione) della vittima,
del controllo completo della stessa, terrorizzata soprattutto dall’anticipazione
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dell’attacco sadico. Nel suo caso, è la sofferenza della vittima ad essere sessualmente
eccitante in modo specifico, attraverso atti indicanti il dominio (soffocare, ingabbiare,
ecc...).
Come è la regola, la gravità e la lesività dell’atto sadico aumenta con il tempo e con la
ripetitività. A questa situazione, già del tutto ben delineabile nosologicamente, in cui
spinta pulsionale e impossibilità di gestirla fantasticamente agiscono in modo così
intenso sul comportamento, si aggiunge un altro elemento di grande importanza. Il sig.
Stevanin appare un individuo totalmente isolato, con difficoltà di stabilire relazioni
valide, intanto sul piano affettivo o della solidarietà o delle intese socio-affettive, o di
vicinanza di interessi, con poche possibilità di scambio di pensiero e di emozioni con gli
altri. Egli non è capace di comunicare, di parlare con qualcuno, di esprimere le proprie
idee e vissuti, in modo da riceverne conferme o sconferme, e di operare confronti.
Chiuso, come estraniato, vivendo in una casa isolata, in un’ambientazione non povera,
non limitata in sé, ma in un’estraniante decadenza, tra mura, infissi e mondi fatiscenti e
strani, come arcaici ed inaccessibili.
I luoghi dove si consumano i suoi tragici rapporti sessuali esprimono una freddezza ed
uno squallore totale, il contrario di ogni istanza amorosa o affettuosa. Tocchiamo qui il
senso vero, psicopatologico e psicoanalitico, del termine perversione, al di fuori dei
risvolti linguistici correnti ed etici, nel senso propriamente della pulsione erotica, e cioè
intesa verso il piacere, che cambia al momento della realizzazione, da positivo a
negativo, l’ottenimento dello stesso dalle situazioni che creano dolore e disgusto.
In questa situazione, il comportamento generale configura il personaggio totalmente
isolato e chiuso e si risveglia e fuoriesce dal bozzolo solo nel momento in cui si muove
a tendere verso il raggiungimento dei suoi protocolli e delle sue ritualità di piacere
stravolto. Un comportamento che mira al soddisfacimento di istanze pulsionali interiori
senza tener conto delle esigenze della realtà esterna, un mondo psichico con nessun
contatto con il mondo reale.
Due sono le ipotesi che si possono fare per spiegare questa realtà: in primo luogo, la
grande, impellente e quotidiana presenza della pulsione parafilica che riempie la mente,
riempiendo ogni spazio e ponendo tutto in secondo piano rispetto ai suoi programmi ed
alle sequenze di progetti sadici, rendendo impossibili relazioni, progetti diversi ed
addirittura desideri ed istanze che si discostino da quella centrale; in secondo luogo, che
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esista una struttura di personalità oscillante tra il narcisismo e l’istrionico, essendo il
narcisismo evidente da una certa grandiosità del progetto sadico, che mira ad una
realizzazione di ogni aspetto delle sue spinte, con dispregio della realtà, della vita degli
altri, dei sentimenti altrui e della società e del mondo con le sue regole sociali ed etiche,
e dell’esigenza di adeguarsi, almeno un minimo a queste regole. E l’aspetto istrionico
collegato ad una sorta di belle indifference, ma privo di elementi amplificanti, nella sua
tecnica di teatro e nella sua recita continua per presentare il volto di una persona
anonima e senza nessuno spicco, con anzi la generica presenza di buon ragazzo,
totalmente recitato per la limitazione dei contatti e delle relazioni sociali.
I due aspetti ovviamente arretrano, se vogliamo scendere alle dimensioni più profonde,
alla sua vita antica, che sembra svolgersi come storia di un bambino molto strettamente
tenuto, ma poco compreso, considerato e poco voluto. Siamo di fronte ad una struttura
familiare inconsistente in cui non esiste un centro di gravità: la madre, isolata, distante,
con in mente elementi di accadimento esterno, con una rilevante chiusura e ottusità
rispetto alle esigenze emozionali. Il padre, buon lavoratore e senza linee generali di
impostazione verso il figlio. Il vissuto del bambino può essere considerato del tutto
simile a quello di un orfano grandioso, abituato al possesso di tutto ciò che lo circonda e
che lascia al degrado. Possiamo ben pensare che questo abbia prodotto due tipi di
risposta: un profondo risentimento per l’abbandono antico implicito nella situazione,
con un grande bisogno di risarcimento narcisistico per la grande frustrazione subita, che
si esprime nella direzione presa dalla pulsione libidico-emotiva di controllo e dominio
totale sulla figura femminile, origine di abbandono.
Il controllo sadico ha la funzione di realizzare il piacere a lui negato nelle esigenze
infantili, con la fantasia che a questa revanche edipica si associ la garanzia di non poter
essere abbandonato dall’oggetto amato-odiato, in un’ambivalenza narcisistica
onnipotente. Infatti, è necessario porre in rilievo l’altro aspetto fondamentale di questa
infanzia abbandonata nell’abbondanza, per usare questo ossimoro: questo ha
determinato la caduta e la dissoluzione del superIo edipico maturo, determinando un
senso di onnipotenza narcisistica, di poter fare ogni cosa quasi impunemente, e
lasciando solo residui di un superIo arcaico, spietato, abbandonatore e che licita ogni
sofferenza inflitta agli altri per il proprio piacere, spietato e feroce.
La costruzione a posteriori, di una serie di amnesie psicogene, come quelle che il sig.
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Stevanin presenta attualmente, può essere del tutto ovvia, non necessariamente
nell’ambito della simulazione, ma anche in quello appunto narcisistico onnipotente, del
meccanismo di negazione contro ciò che non può spiegare in modo accettabile e che in
qualche modo scalfirebbe l’integrità della sua persona, e sottolineerebbe la palmare
evidenza del fallimento del suo progetto. In questo senso le amnesie psicogene non sono
funzionali e integrate con il quadro clinico che ha condotto ai comportamenti sadicodistruttivi, ma sono elementi attuali, a posteriori, comparsi ora per far fronte alla gravità
dello scacco.
Premesso che la personalità del serial killer non esiste sul piano nosologico, ma è
un’invenzione letteraria, non vi è dubbio che la diagnosi centrale è qui quella di
parafilia, nella specificazione di sadismo sessuale. La prima domanda che ci si pone è se
con questo inquadramento nosologico ci si trovi di fronte ad un comportamento non
evitabile, che comporta caduta della valutazione cognitiva della realtà, della possibilità
di valutare le opportunità sociali, le regole, e di comporle con le proprie esigenze
pulsionali. Non vi è dubbio che questi comportamenti siano intrinseci ad un certo tipo di
funzionamento mentale ed è quindi molto comprensibile e ci induce ad una valutazione
della realtà parafilica come una tragica esigenza difficile da combattere, soprattutto se si
tiene conto del retroterra dinamico che ha indotto, attraverso un iter di sviluppo
doloroso, a queste istanze così interamente anomale. Vero è che la scarsa capacità di
simbolizzazione, la nulla capacità di sublimazione, la povera possibilità di operazioni
fantastiche, non ha permesso al sig. Stevanin vie d’uscita diverse per la realizzazione
compromissoria ed accettabile del suo sadismo.
Tuttavia, il controllo degli impulsi è nelle parafilie possibile in generale, ed in questo
caso, l’esecuzione del rituale parafilico non è uno scoppio improvviso, comporta una
messa in opera precisa ed una complessa organizzazione: la coscienza dell’Io è sempre
attiva, ed una serie di eventi sfavorevoli o la presenza di altri inibirebbe questa sequenza
comportamentale. È il superIo che è indebolito, ed è l’istanza sovracosciente di
controllo che va esercitata e che viene meno. Istanza che può essere sempre richiamata.
Non vi è dubbio, dunque, sull’esistenza della parafilia sadica, con tratti narcisistici, in sé
non in grado di scemare la capacità di intendere e volere.
Il problema, dunque, è solo uno: data l’esistenza di una lesione neurologica, definita con
precisione, è questa lesione tale da portare nella parafilia una componente di incapacità
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di controllare la pulsione parafilica e di renderla totalmente travolgente, tale da aver
annullato la possibilità di tenerla a freno e di considerare i fattori circostanti sociali e
personali? In altre parole, ha ridotto la coscienza dell’Io o ha determinato un
restringimento di coscienza, tale che la spinta parafilica sia rimasta il solo contenuto
mentale esistente?
In definitiva ci si domanda se la lesione organica possa agire sull’elemento parafilico
fino ad alterare la possibilità di valutare la situazione e darsi uno stop.
Non appare possibile attribuire ad una lesione psicorganica, che qui sarebbe
asintomatica, lo scatenamento incontrollabile di una parafilia sadica svolta invece con
complessi e strutturati rituali, con sequenze organizzate ed ordinate, e con attitudini
ripetitive.
In sintesi non vi è dubbio che esiste una parafilia e precisamente un sadismo sessuale,
associata a personalità dai tratti narcisisti, del tutto indipendente dalla lesione cerebrale
postraumatica. Esiste una lesione cerebrale ma non vi è nessun motivo clinico di
affermare che esista e sia esistita una condizione psicorganica tale da alterare il
controllo delle pulsioni o la coscienza dell’Io, rendendo impossibile il contenimento
delle istanze parafiliche.
Nella realtà, il sig. Stevanin è una persona tragicamente, sinistramente unitaria. Egli
porta, con una pianificazione precisa, attraverso rituali e cerimoniali ripetitivi, la sua
istanza, la pressione delle sue pulsioni, insiste nella sua parafilia sadica, verso la
realizzazione del piacere, attraverso la sofferenza dell’oggetto amato, per portarlo oltre,
sempre con produzione di piacere, alla distruzione manipolatoria dell’oggetto ormai
reso totalmente inerte.
Tutto ciò che è accaduto, è costituito non da singoli fatti isolati e autonomi, ma da un
vero e proprio stile di vita, il che è caratteristica della struttura sadica, anche di forme
più lievi di questa. In realtà, egli imposta ed organizza tutta la sua vita in funzione della
progettazione, della pianificazione e dell’organizzazione della realizzazione e della
messa in scena, delle esigenze sessuali anomale, come se tutta la sua vita fosse diretta a
realizzare sceneggiature scritte nella mente ed a porle in atto.
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5.3.2. La perizia dell’accusa
Lo psichiatra Marco Lagazzi ha partecipato, in qualità di consulente del pubblico
ministero Maria Grazia Omboni, alle operazioni peritali condotte dai periti Fornari e
Galliani sulla persona di Gianfranco Stevanin, ed ha ritenuto necessario trarre alcune
osservazioni di carattere clinico e psichiatrico-forense, riguardanti i seguenti aspetti
della condizione clinica e comportamentale del periziando:
a. la definitiva valutazione circa la sussistenza o meno di patologie somatiche,
neurologiche o psichiatriche, in atto al momento dei fatti;
b. lo studio del comportamento del periziando nella vicenda processuale e peritale;
c. la coerenza tra la personalità del periziando, messa in luce dalle protratte indagini
peritali e le caratteristiche proprie dei serial killers.
In merito al primo aspetto, Lagazzi ha rilevato che, come documentato dalla sua stessa
storia clinica e dal diario clinico della casa circondariale, Stevanin non risulta essere
affetto da nessuna patologia somatica o psichiatrica di rilievo. Al contrario risulta,
sempre secondo Lagazzi, che il periziando ha mantenuto sempre una costante vita
sociale e di relazione. La stessa meticolosità del soggetto nella descrizione delle
pratiche sessuali, la capacità di ricordarne la frequenza, la durata delle stesse, consente
di chiarire come, in ogni momento delle sue attività, Stevanin sia stato pienamente
edotto di quanto faceva e come conservi un adeguato ricordo di quanto vissuto e
realizzato37.
Per quanto riguarda il tema dei “non ricordo”, attraverso i quali Stevanin ha articolato il
dialogo con i periti, il consulente dell’accusa sostiene che essi non corrispondono ad
alcuna possibile manifestazione amnesica di carattere psicopatologico o deficitario.
Oltre a ciò, rileva che non risulta documentato alcun ricovero ospedaliero in ambito
psichiatrico, mentre risulta allegato solamente un trattamento psicologico, limitato nel
tempo, risalente a molti anni addietro (a causa del trauma cranico riportato
nell’incidente stradale del 1976). Quindi, Lagazzi, esclude con certezza ogni possibile
dubbio circa la piena imputabilità del periziando.
Circa l’aspetto delle indagini peritali e della situazione processuale, Lagazzi è
perfettamente d’accordo con i suoi colleghi Fornari e Galliani, in particolare sul
37
Dalla relazione presentata al consulente tecnico del PM, Marco Lagazzi.
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mantenimento del contatto con la realtà da parte di Stevanin. Afferma, infatti, che il
periziando, in ogni momento delle indagini, ha sempre mostrato una costante attenzione
per gli elementi che emergevano, un’eccezionale capacità di concentrazione e di
gestione del dialogo; in questo modo esprime un’immagine di sé coerente con i suoi fini
e con la sua strategia difensiva. Lagazzi nota, inoltre, un’attenta consapevolezza delle
notizie che emergevano attraverso la stampa ed una meticolosità nel proporre
un’immagine di sé il più possibile positiva. Il perito definisce Gianfranco Stevanin “ben
agganciato alla realtà”, quindi del tutto adeguato rispetto all’esercizio dei propri diritti
difensivi.
Anche Lagazzi, come i periti nominati dalla Corte, è d’accordo nel sostenere la piena
coerenza tra le caratteristiche di Stevanin e quelle proprie dei serial killers descritti nella
letteratura e nella cronaca. Particolarmente importante, a questo proposito, è l’eccessiva
fiducia nelle sue capacità e quel temerario piacere di sfidare gli altri38. Proprio questo,
infatti, è uno degli elementi tipici degli assassini seriali.
Come già analizzato in precedenza, ognuno di questi assassini ritiene di essere più
capace degli inquirenti e di farla franca; spesso accade che sia proprio lo stesso
assassino seriale a decidere la propria strategia difensiva, anche al di là dei suggerimenti
dei propri difensori, proprio perché è convinto di saper gestire meglio il complesso
gioco di menzogne, ammissioni e verità che intende proporre agli investigatori.
In alcuni serial killers, spiega Lagazzi, questa tendenza a rifiutare la delega a terzi della
propria difesa è molto evidente. Quindi non condivide, anzi considera addirittura
fantasioso, voler qualificare questa scelta oggettiva come una “automatica diminuente
della capacità processuale del periziando”, come, invece, sostengono i consulenti della
difesa.
Il perito del PM termina la sua relazione affermando che: “nulla consente di identificare
in Gianfranco Stevanin un minus habens, ma, al contrario, è un individuo la cui
personalità e le cui risorse sono del tutto compatibili con i molti delitti realizzati e con
l’impunità che, se non si fossero verificati il caso della Musger ed il casuale
ritrovamento dei reperti, forse ancor oggi lo caratterizzerebbe”39.
In conclusione, Lagazzi, ritiene di poter solo confermare le chiare ed incontrovertibili
valutazioni alle quali sono giunti i periti Fornari e Galliani. Con questo riafferma la
38
39
Ibidem.
Ibidem.
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piena capacità processuale del periziando, attestando, con piena serenità al di fuori di
qualsiasi dubbio, l’assenza di elementi psicopatologici tali da integrare una condizione
di infermità di mente; quindi ritiene necessario consegnare Stevanin al giudizio che lo
attende, per i gravi e ripugnanti delitti da lui compiuti.
5.3.3. La perizia della difesa: un processo sul filo dell’infermità
Gli avvocati Accebbi, Dal Maso e Roetta, difensori di Stevanin, nominano i periti
Francesco Pinto e Giovanni Battista Traverso, per dare una valutazione del caso in
chiave psichiatrico-forense e, quindi, per valutare la presenza, al momento dei fatti per i
quali si procede, di un’infermità che ne limitasse grandemente o ne escludesse la
capacità di intendere e di volere. I due esperti incentrano la valutazione dell’imputabilità
su un episodio ritenuto da entrambe le parti processuali fondamentale per lo sviluppo
della personalità di Gianfranco Stevanin: l’incidente del 1976.
I periti di parte spiegano che Stevanin è affetto da una complessa sindrome
psicopatologica su base organica di origine post-traumatica, ben dimostrabile sul piano
strutturale e funzionale (esami TAC e RMN), che interessa i lobi frontali, il lobo
temporale destro ed alcune strutture profonde del sistema limbico, sede degli istinti,
dell’aggressività e della memoria40; ciò ha determinato una grave forma di epilessia
temporale post-traumatica.
Stevanin viene più volte ricoverato prima all’Ospedale di Legnano e successivamente
trasferito nel reparto neurochirurgico dell’Ospedale Civile Maggiore di Verona, dove i
medici intervengono chirurgicamente per ricostruire il margine orbitario destro.
Dopo due anni dall’incidente viene nuovamente ricoverato a causa della comparsa di
“crisi di perdita di coscienza generalizzante”. Nonostante la terapia, le crisi epilettiche
continuano a comparire, tanto che nel 1980 si assiste ad un nuovo ricovero per “crisi
comiziali”.
I periti di parte sostengono che il lobo frontale sovrintende a quei fenomeni di controllo,
critica ed inibizione che consentono valutazioni e scelte adeguate, soprattutto quando si
tratta di scelte comportamentali o, comunque, correlate a problematiche eticamente
rilevanti41. Le alterazioni del sistema limbico, poi, spiegano la presenza di carenza
critica e di disturbi della memoria di fissazione.
40
41
Dalla relazione consegnata dai periti di parte F. Pinto e G. B. Traverso alla Corte d’Assise.
Ibidem.
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Pinto e Traverso sono concordi nel sostenere che le suddette anomalie cerebrali sono
state responsabili di gravi e significativi cambiamenti comportamentali, riconosciuti da
tutti, ed hanno avuto un ruolo centrale nella strutturazione di alterazioni della
personalità di tipo patologico; queste alterazioni riguardano sia la personalità generale
del periziando, ma soprattutto la sfera della psicosessualità, determinando vere e proprie
parafilie che, abbiamo visto, sono disturbi psichiatrici codificati nel Manuale
Diagnostico e Statistico (DSM-IV) dell’American Psychiatric Association.
Tutte queste alterazioni patologiche a carico del sistema nervoso centrale, secondo i
consulenti tecnici della difesa, hanno pesantemente condizionato non solo la
commissione dei reati per i quali si procede, ma anche tutti i reati precedentemente
commessi. Naturalmente, i periti hanno accostato a queste anomalie altri elementi
significativi, quali esperienze nell’infanzia e nell’adolescenza, le alterate relazioni
parentali, il contesto socioculturale, l’utilizzazione di materiale pornografico,
l’intervento di fattori situazionali.
Sul piano affettivo-volitivo, Stevanin appare, a loro dire, appiattito, instabile, labile,
“portato a reagire in modo acritico agli stimoli interni ed esterni. Incapace di scelte
ponderate, in quanto facile preda di spinte incontrollate e di episodici momenti di
discontrollo, nei quali, verosimilmente, la patologia complessa di cui soffre si rinforza,
annullandosi le difese a livello superiore e comparendo strutture psicotiche, che
emergono nei momenti in cui alle fantasie perverse si sostituisce la perversione agita. A
questo punto la sostituzione di un’intenzionalità con un’altra diviene estremamente
difficile, permettendo la concretizzazione dell’evento delittuoso”42.
I consulenti tecnici della difesa precisano, inoltre, che nell’interpretazione dei test non si
sono limitati ad un’analisi formale dei protocolli, come, invece, sostengono abbiano
fatto i periti d’ufficio; dichiarano di aver considerato “il discorso del paziente nella sua
interezza”43, riscontrando una patologia neuropsichiatrica grave, che costituisce
infermità ai sensi di legge. Ritengono, quindi, che Stevanin abbia commesso i reati “in
uno stato di mente tale da escludere sia la sua capacità di intendere, vale a dire la
capacità di comprendere il vero significato delle sue azioni e le loro conseguenze sul
piano giuridico, sia la sua capacità di volere, cioè la libera scelta di autodeterminarsi
42
43
Ibidem.
Metodo introdotto nel 1954 dallo psichiatra Roy Schafer.
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secondo i motivi”44. Data la gravità patologica sofferta dal periziando, ritengono che egli
debba considerarsi, dal punto di vista clinico-criminologico, persona socialmente
pericolosa.
5.4. Il processo davanti la Corte d’Assise
“È processabile. Gianfranco Stevanin è sano di mente”. Sulla base delle perizie
psichiatriche, il 5 novembre del 1996 viene rinviato a giudizio. Un anno dopo, lunedì 6
ottobre 1997, in Corte d’Assise si apre il dibattimento. Diciannove udienze,
centoquattordici giorni in aula, novanta testimoni che sfilano davanti ad una giuria
popolare quasi interamente composta da donne: quattro giovani ragazze, più o meno
della stessa età delle vittime e due uomini. Anche il pubblico ministero, come detto, è
una donna: Maria Grazia Omboni ha esposto i fatti alla Corte, presieduta da Mario
Sannite e con Mario Resta come giudice a latere.
Soltanto per la lettura dei capi d’imputazione, il cancelliere ha impiegato diciassette
minuti: una serie di articoli del codice penale per crimini atroci che neppure l’asettica
formulazione giuridica riesce ad attenuare. Nell’aula parole sconvolgenti richiamano
una carrellata di immagini da brivido: “sesso estremo”, “mutilazioni di parti intime”,
“deturpamenti di cadavere”, “sadismo”, “brutalità”. Il sostituto procuratore punta il dito
sulla criminosa attività sessuale, che era la principale occupazione di Stevanin. Il
magistrato inizia con un racconto che va indietro nel tempo, quando una sera del 1989
l’imputato fu fermato dalle forze dell’ordine; in macchina aveva un campionario di
attrezzi erotici, cacciaviti, un coltello e una pistola scacciacani. Maria Grazia Omboni
ripercorre, poi, i tre anni di attività investigativa alla ricerca di persone scomparse e dei
loro corpi sepolti: l’austriaca Roswita Adlassnig (mai trovata), Claudia Pulejo, Blazenka
Smojo, Biljana Pavlovic. E ancora: il mistero del tronco non identificato (forse quello di
una prostituta di origine tailandese) e il giallo dell’omicidio in fotografia, l’altra donna
senza nome. Riassume le caratteristiche dell’inchiesta sviluppata soprattutto sulle
sconvolgenti dichiarazioni di Stevanin durante gli interrogatori in carcere. Confessioni,
secondo l’accusa, rilasciate dall’agricoltore nella speranza di barattarle con la possibilità
di esser riconosciuto incapace di intendere e volere.
Alla prima udienza l’aula è strapiena. Il “mostro di Terrazzo” non tradisce nemmeno un
44
Ibidem.
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attimo di turbamento, è un blocco di ghiaccio, non batte ciglio davanti ai parenti delle
vittime che un implacabile regista sembra aver voluto collocare a pochi metri dalla
gabbia. L’imputato ottiene subito di stare fuori da questa e siede tra i suoi avvocati.
Attento, impassibile, non perde una parola, prende appunti come uno studente diligente.
Ha anche cambiato fisionomia: si è tagliato la barba e rasato completamente i capelli,
forse un coupè de theatre orchestrato dai suoi difensori, affinché giudici e giurati
possano vedere la cicatrice semicircolare che il loro assistito porta sulla tempia destra,
conseguenza del noto incidente del 1976.
Agli psichiatri viene data la parola già alla seconda udienza, precedenza chiesta dal P.M.
ma osteggiata dai difensori.
Il professor Ugo Fornari dipinge dell’imputato un ritratto a tinte fosche: “è un serial
killer che mi ha affascinato; dopo i colloqui con lui ero stanchissimo, perché sgusciava
via come un’anguilla. Giocava come il gatto fa con il topo, ma in questo gioco il
topolino ero io”. Per il perito d’ufficio, le confessioni non sarebbero altro che “le
rivelazioni di ciò che lui stesso non poteva più nascondere”. Stevanin, insomma, è uno
stratega abilissimo, intelligente e dotato di un certo carisma. Assaggiava le reazioni
facendo ipotesi; a seconda delle nostre reazioni faceva marcia indietro o andava avanti.
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L’esperto in questione respinge con forza l’ipotesi di trovarsi davanti un malato oppure
un soggetto affetto da sdoppiamento della personalità. Afferma, infatti, che i tanti “non
ricordo” pronunciati da Stevanin contrastano con altri minimi, a volte inutili, particolari
raccontati dall’agricoltore. Il suo comportamento sarebbe frutto di una ipoaffettività e
conseguenza di una disfunzione sessuale. Ma sapeva quello che faceva fino all’ultimo
momento. Secondo Fornari è un bambino mai cresciuto, a causa della madre che non
l’ha mai lasciato crescere, lo ha sempre giustificato, impedendogli così di provare
rimorso o pentimento per le uccisioni delle donne. Tant’è che le donne che si
ribellavano erano quelle che si salvavano; insomma, Stevanin al comando “no”
ubbidisce; riemerge in lui il bambino che teme la madre, che l’ascolta quando lei gli
impone di fare qualcosa.
Il perito della difesa, Traverso, sostiene, invece, che Gianfranco Stevanin è una persona
malata, che la parte destra del suo cervello è stata danneggiata a seguito dell’incidente.
C’è una carenza di materia grigia nel cervello dell’agricoltore. Sono l’esito di lesioni
che hanno colpito in profondità la sfera degli istinti e, quindi, dell’aggressività, della
sessualità, della memoria. Sostiene, inoltre, che Stevanin, a causa di questo, non ha
avuto una vita normale, ha abbandonato gli studi ed il suo comportamento è stato
radicalmente stravolto.
Il processo procede a tappe serrate; passo dopo passo, con la minuzia e la pignoleria che
ha contraddistinto tutta l’indagine, il pubblico ministero Omboni ha cercato di
ricostruire le prove e gli indizi a carico dell’imputato. Vengono ascoltate le madri delle
vittime, che raccontano storie che si assomigliano. Poi tocca ad altri testimoni, ancora
donne, alcune sono amiche delle vittime, altre sono le sue ex “fidanzate”; il loro
contributo è importante, in quanto si apprendono le abitudini sessuali del presunto serial
killer: la disponibilità ad accogliere le perversioni sessuali (fotografarle nude, rasarle il
pube, fornirle indumenti intimi) è sempre proposta con delicatezza ed educazione. Tutto
questo, per la difesa, significa che Stevanin non praticava abitualmente sesso violento
spinto fino al sadismo; per l'accusa e le parti civili, invece, dimostra chiaramente che
l'imputato, non solo è capace di intendere, ma anche e soprattutto di volere, perciò in
grado di assumere atteggiamenti diversi con le proprie partners, delle quali solo alcune
rimangono vittime dei suoi giochi erotici. Testimonia anche la Musger, a porte chiuse, la
donna che lo ha fatto incastrare nel novembre 1996, dando l’avvio all’indagine su
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questa terribile storia.
Poi arriva anche il momento del “primo amore”, Maria Amelia, il rapporto più
importante in assoluto, come aveva detto Stevanin agli psichiatri. C’è voluta
un’ordinanza della Corte per portarla davanti alla giuria; si è sposata, ha dei figli e
un’altra vita; le viene concesso di essere sentita a porte chiuse. Stevanin si è presentato
in aula con il vestito delle feste, un gessato grigio scuro, mocassini neri, calze intonate
alla camicia azzurra; manca solo la cravatta, ma quella è vietata dai regolamenti
carcerari. Lei, per oltre mezz’ora, racconta la storia di quell’amore che, finendo male, ha
forse scatenato la furia omicida di Gianfranco Stevanin, e lo descrive come un ragazzo
mite, tranquillo, gentile, ma anche come un uomo che non riusciva a diventare adulto.
Al processo, arriva anche il momento della madre dell’imputato, Noemi Miola, e del
cugino, Antonio De Togni, entrambi accusati di concorso in occultamento di cadavere;
questi ultimi sono stati chiamati in causa da un compagno di detenzione di Stevanin, il
quale gli avrebbe riferito che, la sera della morte della Pulejo, arrivò la madre che
rassicurò l’agricoltore e chiamò il cugino per farsi aiutare ad avvolgere il corpo ed a
sotterrarlo nel luogo in cui fu poi ritrovato. Parla il cugino che riversa sulla madre di
Gianfranco Stevanin un mare di sospetti: “non poteva non sapere” afferma; alcuni giorni
prima di arare il campo, dove fu poi ritrovato il cadavere della Pavlovic, la donna si era
raccomandata di non effettuare lavori in quell’area e che ci avrebbe pensato suo figlio,
una volta uscito dal carcere; in seguito, quando fu ritrovato il “pacco”, come lo chiama,
corre ad avvertire la zia, la quale gli suggerisce di non avvertire i carabinieri, ma di
parlare prima con gli avvocati. Non solo, il cugino parla anche di indumenti, scarpe e
bigiotteria femminile che la donna gli diede da gettare via. È Stevanin, però, a
proteggere la madre, tanto da arrivare a proporre al presidente della Corte di ripetere
l’esperimento dell’avvolgimento del cadavere, per dimostrare che riusciva a farlo da
solo; era, forse, la disperata mossa del figlio per tenere la madre lontana da ogni
responsabilità?
È il momento delle domande degli avvocati. L’avvocato Guarienti, di fronte al perché
Stevanin sia diventato un serial killer, afferma che egli è sicuramente sano di mente,
come ha dimostrato il suo comportamento nel corso del processo e che la causa dei
delitti vada ricercata nel problematico rapporto con la madre, un personaggio che
incombe sul processo anche se assente, l’unica figura femminile con cui rapportarsi, con
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un sentimento di odio/amore; e, citando le parole del cugino dell'imputato, afferma:
“bisogna essere stati in quella famiglia; lì, apparire è sempre stato più importante che
essere”.
L’avvocato Bastianello lo descrive come un “assatanato che uccide solo per soddisfare
il suo piacere sessuale”; mentre l’avvocato Cazzola esordisce dicendo: “mancano in
quest’aula le persone che dovrebbero gridare assassino a Stevanin, le vittime”45,
affermando, poi, di essere di fronte ad un serial killer che sembra essere uscito dai
profili psicologici dell’F.B.I.
Ai difensori dell'imputato spetta una missione disperata: dimostrare l’infermità mentale
del loro assistito, data la lucidità con cui Stevanin ha risposto sotto i loro occhi ad ogni
domanda. La tesi dell’avvocato Acebbi è ardita: in conseguenza del trauma cranico e
delle lesioni al cervello riportate nell'incidente stradale del ‘76, Gianfranco Stevanin è
totalmente incapace di intendere e volere quando uccide; non lo è, invece, quando
occulta i cadaveri; insomma, un malato che va curato e che, dopo avergli dato il minimo
della pena per le incriminazioni minori, va recluso in un ospedale giudiziario 46.
L’avvocato Roetta, asserisce che: “è difficile difenderlo”, perché non aiuta loro nella
difesa; ritiene che l’ergastolo non possa risolvere il problema, perché Stevanin è “una
persona sola, un malato che non è mai stato curato. Adesso è il momento di farlo”.
L'avvocato Acebbi, invece, punta il dito sulla madre che, forse, era consapevole della
pericolosità del figlio, sicuramente era preoccupata “più della vergogna che della
colpa”; la malattia del figlio era, per lei, una vergogna, quindi andava tenuta in casa.
L’avvocato Dal Maso è l’uomo che più è stato vicino a Stevanin negli ultimi tre anni
della sua vita; d’altra parte è stato lo stesso imputato, al momento di parlare dei suoi
rapporti di amicizia a metterlo al primo posto; anche il legale ammette di sentire per lui
sentimenti di affetto. Chiede alla Corte l’assoluzione, perché il suo cliente è una persona
incapace di intendere e di volere, in quanto “le sue azioni incongrue sono indice di una
mente assolutamente disturbata”. Conclude affermando di aver capito, dopo tutto il
tempo passato con Stevanin che “l’umana miseria è compatibile con la malattia e che,
comunque, c’era un uomo che mi chiedeva aiuto”.
Il legale conclude la replica, il presidente della Corte d’Assise, Mario Sannite, porge
45
46
Ibidem.
Ivi.
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l’ultima domanda di rito all’imputato: “Cosa si aspetta dai giudici?”. Lui si alza: “Sono
probabilmente malato……adesso però bisogna vedere quale idea ogni giurato si è fatto
di me”.
5.4.1. Anche Stevanin sale sul banco dei testimoni
Cinque udienze, trenta ore di interrogatorio durante il quale l’imputato rimane sempre
lucido, con quel sorriso indecifrabile, che qualcuno considera tonto ed altri furbissimo;
le braccia conserte, gli occhi fissi su un punto lontano, la voce ferma, sempre con lo
stesso tono monocorde. Parla per ore, ha una risposta logica per ogni contestazione che
gli viene mossa; rimescola le carte, scambia gli anni, sovrappone vicende, donne,
cadaveri; si sofferma minuziosamente su dettagli insignificanti e poi si rifugia dietro
comodi “non ricordo” quando gli viene chiesto di precisare i momenti chiave del suo
racconto.
Viene messo sotto torchio dal pubblico ministero, dagli avvocati di parte civile, persino
dai suoi legali, passa momenti difficili, ma non dà mai quell’impressione di incapacità
di intendere e volere. Quando il presidente Sannite gli chiede se avverte sensi di colpa,
egli risponde: “ero qui che ci stavo pensando, non saprei rispondere. Non saprei fino a
che punto io possa essermi sentito colpevole di queste situazioni”; i congiuntivi ci sono,
i sentimenti, ancora una volta, no. Nel momento in cui gli avvocati di parte civile
contestano a Stevanin che, nel suo caso, compaiono tutti i tratti tipici di un serial killer,
lui risponde di aver l’impressione che certe cose siano loro a volerle mettere assieme a
tutti i costi. Un momento importante, che mette l’imputato in difficoltà, arriva quando
l’avvocato Cazzola gli pone dei problemi esistenziali, sui quali l’assassino seriale non
ha preparato alcuna risposta; tergiversa, prende tempo, la sua imperturbabilità sembra,
per la prima volta, vacillare. Ecco il contraddittorio tra il legale e l’imputato:
Volevo capire se per il signor Stevanin esiste un concetto di bene e di male.
Caspita ... si rende conto che per rispondere a questa domanda ci vorrebbe tutta la
giornata?
Non credo...
Il concetto di bene e di male certo che ce l’ho
Possiamo conoscerlo? Qui stiamo parlando di vita e di morte. Di persone che c’erano e
non ci sono più.
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Male è ovviamente quello che va contro la salute e la vita di una persona. E anche
contro la moralità, se vogliamo. In generale bene è l’opposto, per farla breve.
E per farla lunga?
Avete da battere record?
Interviene il presidente Sannite a richiamare Stevanin a risposte più adeguate. Passano
quasi tre minuti prima della risposta.
Bene è tutto ciò che favorisce il benessere dell’uomo.
Segue un’altra lunghissima pausa.
Male, invece, è ... stimolo agli atti negativi della vita, porta a valenze negative.
Lei si è sempre ispirato al concetto di bene?
Ho cercato di farlo.
Ed è riuscito?
Spesse volte si, qualche volta no.
Su quali aspetti?
A volte non sono riuscito a capire bene le persone e, pur volendo far del bene,
inconsciamente ho fatto del male, perché non riuscivo a comprendere i problemi di una
persona, non so se rendo l’idea.
Esiste un concetto di normalità e di non normalità per lei?
La normalità esiste sì, solo che è un concetto molto soggettivo.
Ma esiste una distinzione tra questi due concetti?
La stessa distinzione che ho fatto prima. Cambia solo la vetrina.
Esiste un limite ai propri desideri, al proprio volere, al proprio piacere?
I limiti ci devono essere.
Quali sono?
I limiti sono quelli stabiliti da ciò che è bene e male. Un limite da non oltrepassare è
quello che può provocare del male, tanto per dire.
Ha mai oltrepassato questi limiti?
Devo ammettere che li avevo già passati inconsapevolmente.
Quanto vale per lei la vita umana?
Che io sappia nessuno può dare un valore alla vita umana.
Per qualcuno può valere molto poco….
Il valore è incalcolabile.
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Considera la carcerazione una giusta punizione?
Almeno una parte di colpa, per aver nascosto i cadaveri c’è ... la carcerazione per
quella parte di colpa che so di avere, la vivo serenamente, perché so che sono lì per
espiare una colpa. Ma se dovessi essere incarcerato per altri reati, ben più gravi, direi
che è ingiusta…
Non le sembra che ci sia una progressione nella sua condotta? Lei inizia conservando un
cadavere e arriva, nella fase finale, al sezionamento del cadavere. Non le sembra una
forma di perfezionamento di un certo stile?
Se avessi avuto il controllo della situazione non ci sarebbe stato nessun decesso,
probabilmente.
Bisogna vedere quale era stata la sua volontà effettiva….
Adesso mi sembra che stia esagerando.
Si è mai eccitato nel tagliare un cadavere?
Una sensazione che ho avuto…
C’è una forma di piacere a veder morire una persona?
Direi proprio di no.
Che sensazione ha provato lei?
Un po’ di panico…
Un atteggiamento diverso, Stevanin, assume subito dopo con il suo avvocato, “l’unico
amico rimastogli”. Voce suadente, tono basso, ammiccante, confidenziale. Deve
dimostrare ai giudici che il serial killer che si trovano di fronte è un essere totalmente
privo di coscienza, ossia della capacità di comprendere ciò che ha fatto.
Gianfranco di donne te ne sono morte tante, sei sfortunato o cosa?
Molto fortunato no.
Hai mai collezionato peli pubici?
Collezionato… avevo iniziato qualcosa del genere…
Che volevi farne?
L'imbottitura di un piccolo cuscino.
Ma un cuscino del genere rientra dalla parte del bene o da quella del male?
Non ci vedo nulla di male.
Hai mai mangiato carne umana?
Oh Dio… se dovessi risponderti, ti direi di no... certo che, con i vuoti di memoria che mi
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ritrovo, non posso esserne certo.
Se tu l’avessi mangiata, rientrerebbe nel concetto di bene o di male?
Rimanendo nella normalità… se una persona è normale non credo…
Tu sei anormale?
Non lo posso sapere. Deve essere qualcun altro a spiegarmelo.
Di queste morti, di queste disgrazie che ti sono capitate, ti eri preoccupato?
Forse troppo e… ma poi sono capitate quando mio padre stava male e quindi mia
madre poteva salvarmi fino a un certo punto.
Dicevi, la prima può andare, la seconda vabbé, alla terza cominci a preoccuparti…
Perché la prima non basta a preoccuparsi?
Ma un campanello d’allarme ti è suonato?
Per la prima (la Pulejo), sai che non posso avere qualche responsabilità.
E con la Smoljo?
Non so cosa pensare…
Ma ti preoccupi? Dici “io con le donne non voglio averci più niente a che fare”?
È una soluzione troppo radicale. Non era colpa mia, quindi…
Sempre le donne, di cui non può fare a meno, che rappresentano il centro dei suoi
desideri, dei suoi pensieri. Ma poi, spiega, che nella sua vita c’è una sola donna che
rappresenta “il massimo di femmina, di donna”; non dice il suo nome, ma tutti sanno
che parla di lei, di Maria Amelia. Di certo, l’andrebbe a trovare se uscisse dalla galera
domattina, ma è consapevole di non essere più accettato, visto il castello messo in piedi
dai mass media, eppure, riprende, “un tentativo lo farei, visto che il mio desiderio era di
formarmi una famiglia”. Continua a parlare il difensore Dal Maso.
Ti consideri una brava persona?
Vorrei evitare di fare apprezzamenti su di me, potrebbero essere fraintesi dalla stampa.
Voglio sapere da te se ti consideri una brava persona.
Io si. Mi considero discretamente.
Ti consideri un soggetto pericoloso?
Assolutamente no. Anzi, ho sempre cercato soluzioni ai problemi con diplomazia, senza
alzare la voce.
Tu sei un soggetto pericoloso…
Più che pericoloso, direi che forse sono un soggetto che ha bisogno di cure.
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Vuoi chiedere pietà a qualcuno?
Come minimo ai parenti delle vittime.
Lo fai sinceramente o è una cosa che fai perché devi farlo?
Non è un pro forma. Per pro forma non faccio niente.
Ti faccio un esempio: “cari signori, io ho commesso questi reati, devo chiedere scusa ai
genitori e alle famiglie delle vittime, sono una persona che ha bisogno di cure, vi chiedo
la massima accortezza nel giudicarmi. Sono pentito di quello che ho fatto”. Prova a
dirlo con le stesse parole cosa senti.
Vedi, adesso in quattro e quattr’otto, sicuramente…
No, quando si arriva al dunque, tu parti sempre con il quattro e quattr’otto. Dopo tre
anni hai tutto il tempo per esprimere un concetto di pentimento o di quello che senti.
Puoi farlo? Ce l’hai questo sentimento? Fai tu, esprimi qualcosa. Non possiamo
chiedere noi per te. Prova.
L’unica cosa che posso dire è che c’è il rischio di dire banalità.
Di banalità ne hai dette tante. Siamo al dunque, esprimi un tuo sentimento riguardo a
queste vittime, riguardo a quello che è successo. Lascia stare le banalità, non sono
banalità.
Non mi sento ancora di spiegare io stesso perché siano successi certi fatti e nonostante
questo sono molto amareggiato, per quello che è successo, veramente molto
amareggiato, perché erano tutte persone per le quali c’era, più o meno, un certo
sentimento. Farei di tutto per far tornare in vita queste persone, ma so che questo non è
possibile….in ogni caso se mi dovesse ricapitare mi comporterei, immagino, in modo
diverso.
E cioè, se avessi un’altra donna tra le braccia cosa faresti?
Andrei al Pronto Soccorso, dai carabinieri, insomma farei quello che va fatto e non ho
fatto perché preso dal panico, chiamiamolo così….
Questo sarebbe il tuo messaggio di pentimento?
Capisco di non rendere l’idea di pentimento, ma caspita è difficile esprimere qualsiasi
sentimento d’altronde.
Unico risultato finale: Stevanin appare alla giuria come un soggetto incapace di provare
emozioni. Un anaffettivo.
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5.4.2. Il pubblico ministero chiede il massimo della pena
“Ergastolo”. Alle 17.37 la parola cade inesorabile nel silenzio dell’aula. Scivola su uno
Stevanin immobile al suo posto. Dopo cinque ore e quaranta minuti di requisitoria il
pubblico ministero Maria Grazia Omboni ha pronunciato la sua richiesta, con tutte le
aggravanti: nella ricostruzione dei sei omicidi e della violenza carnale non c’è posto per
nessuna attenuante. Gli assassini, per il P.M., sono stati tutti volontari e legati da un
unico filo conduttore, non ce n’è uno più grave degli altri, vista l’efferatezza con cui
sono stati compiuti. Merita il massimo previsto dal codice penale: il carcere a vita più
tre anni di isolamento diurno.
Stevanin si aspettava questa richiesta, per due anni i suoi legali lo avevano messo in
guardia. Mentre il magistrato lo descrive come il più spietato degli assassini, l’imputato
risponde ai cronisti mandando bigliettini: “dico chiaro e tondo che il P.M. sta
esagerando alcuni fatti, minimizzandone altri ed in generale sta stravolgendo il senso
dei fatti in questione pur di dare l’immagine più negativa possibile ed arrivare ad un
ovvio risultato. Sta tracciando un’immagine che mi rende adatto ad una piena
imputabilità. Scontato che, se questa viene accolta, non mi posso che aspettare il
massimo della pena. (Ma ciò non significa che sia la mia vera immagine e, la
conseguente, giusta pena)”.
Maria Grazia Omboni procede nella sua requisitoria, precisa, nitida, senza nulla
concedere ad effetti speciali e chiude il cerchio dei crimini. Parte dalle due violenze
sessuali: quella commessa nei confronti di Maria Luisa Mezzari nel lontano 1989 e di
Gabriele Musger il 16 gennaio 1994. Dentro il cerchio scorre la cronologia degli
omicidi: Roswita Adlassnig (giovane prostituta, incantata dal fotografo in cerca di
modelle. Muore ai primi di maggio del 1993; il suo corpo non viene mai trovato);
Caludia Pulejo (tossicodipendente, soffocata il 15 gennaio e sepolta a ridosso di un
muro del casolare); Blazenka Smoljo (prostituta soprannominata “Fatina”, strangolata il
5 luglio 1994 e gettata nell’Adige); Bilijana Pavlovic (cameriera slava illusa dalle
promesse di un lavoro e soffocata con un sacchetto di plastica il 18 settembre 1994);
due sconosciute: una tagliata a pezzi, l’altra ritratta in una foto, orribilmente mutilata
nelle parti intime.
Ricomposto il puzzle, il magistrato inquadra la personalità dell’imputato e le cause della
sua criminosa attività sessuale. Azioni provocate da “risentimento per non essere
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apprezzato e considerato quanto lui avrebbe voluto essere e quanto lui riteneva di
meritare. Ha avuto molte relazioni con donne ma, alla fine, tutte hanno deciso di
interrompere i rapporti perché era bugiardo, inaffidabile, noioso, in ogni caso non
suscitava più il loro interesse. Questi aspetti della personalità lo hanno portato a
collezionare una serie di insuccessi; e gli insuccessi non fanno piacere a nessuno, però
a Stevanin sono risultati particolarmente pesanti. Così, ha coltivato dentro di sé
rancore e risentimento e ha maturato il desiderio di rivalersi e di riaffermare, anche
con la violenza, se stesso sulle donne. Poi il suo bisogno di sentimento, rimasto
insoddisfatto, ha lasciato spazio alla ricerca del sesso e la difficoltà di colmare anche
questo lo ha condotto a pratiche sempre più spinte e letali per le compagne occasionali,
considerate come oggetti usati per il soddisfacimento dei propri bisogni e poi da gettare
e distruggere nel momento in cui non servivano più, dimostrando il massimo disprezzo
per il bene supremo della vita umana”. Gli avvocati dei parenti delle vittime calcano la
mano, gli tolgono l’ultimo spiraglio: l’incapacità di intendere e di volere al momento
dei fatti.
Spetta all’avvocato Dal Maso giocare l’ultima carta. Afferma: “punirlo anziché curarlo
sarà difficile, non si capisce chi si debba punire, se il ginecologo, il fotografo, il serial
killer, il ragazzo perbene. Vi chiedo di assolverlo perché i fatti sono stati commessi da
una persona incapace di intendere e di volere”.
Sono le 10.55. La Corte si ritira in camera di consiglio.
5.4.3. La sentenza della Corte d’Assise
È il 28 gennaio 1998, la Corte, il presidente Sannite, il giudice togato Resta ed i sei
giudici popolari, entrano in camera di consiglio per uscire meno di sei ore dopo. Dopo
114 giorni e 19 udienze, il presidente della Corte scandisce: “responsabile di tutti i
reati”. Stevanin si irrigidisce appena. I muscoli del viso un po’ contratti. “Ergastolo”.
L’espressione del serial killer si fa di pietra. Fermo, immobile ascolta le altre pene che
gli piovono addosso.
Quindi, la giuria accoglie in pieno la tesi e le richieste dell’accusa; hanno riconosciuto
Stevanin colpevole di tutti i reati ascrittigli in un capo di imputazione interminabile, tra
cui sei omicidi volontari, mutilazioni e occultamento di cadavere, stupri e sequestro di
persona. L’idea di tutti i giurati è stata quella di una persona pienamente consapevole di
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quello che ha fatto e non di un malato di mente, come avevano, invece, cercato di
dimostrare fino all’ultimo i suoi legali.
Da qui, la condanna all’ergastolo, tre anni di isolamento diurno appena sarà esecutiva;
la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici, il risarcimento alle parti
civili per oltre un miliardo, 150 milioni per ogni genitore e alla figlia minore di Roswita
Adlassnig, 50 milioni per ogni fratello, sorella e figli delle vittime, più le spese degli
avvocati di parte civile e quelle processuali. E, onde evitare che successive lungaggini
nella definizione del giudizio consentano a Stevanin di uscire dal carcere per decorrenza
dei termini, ecco anche l’ordinanza di custodia cautelare per gli ultimi quattro omicidi
che gli sono stati contestati e per i quali, ora, è stato condannato.
Omicidi volontari, crudeli e agghiaccianti, tutti egualmente gravi, sottolinea la sentenza,
frutto di una mente lucida, capace di distinguere il bene dal male e di scegliere se lasciar
vivere o morire le donne conosciute. Gianfranco Stevanin è colpevole anche di una
lontana violenza carnale del luglio 1989, ai danni di una prostituta veronese. Importante
perché, vincolandola ai sei delitti con la continuazione, dimostra la correttezza della
ricostruzione accusatoria del P.M. Omboni, per la quale, l’agricoltore avrebbe iniziato la
propria carriera di assassino seriale in quella ormai remota estate del 1989 e l’ha
continuata imperterrito e impunito fino all’arresto, quando, a seguito della violenza
sessuale ai danni della Musger, viene scoperto. E quale era il suo ritmo? Nel maggio del
‘93 sparisce la Adlasnig, nel gennaio del ‘94 la Pulejo, poi un crescendo; luglio dello
stesso anno la Smoljo, settembre la Pavlovic, ottobre la “studentessa”, novembre la
Musger. Per tre di loro, almeno, adesso ci sarà la pace di un sepolcro, per le altre no; si
può solo sperare che Stevanin restituisca, magari “ricordando un altro poco”, anche a
queste sue vittime la possibilità di una degna sepoltura.
Gianfranco Stevanin, trentasette anni, possidente terriero che nella sua vita aveva fatto
più nulla che poco, aveva una sola passione: il sesso. Una passione che ha condotto alla
morte sei giovani donne, anche se per lui, sembra essere stata colpa della morte il fatto
che non siano sopravvissute. “Non mi hanno capito”, è l’unico commento che fa in
tempo a dire al suo legale Dal Maso, prima di venire bruscamente portato via dall’aula.
Stevanin esce di scena, se ne va solo, come solo è stato per tutto il processo, senza il
conforto di una presenza amica o di un parente. Anche questa è la sua tragedia.
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5.5. Il processo davanti la Corte d’Assise d’Appello
Il 22 marzo 1999 prende il via, presso la Corte d’Assise d'Appello di Venezia, il
processo di secondo grado per i delitti attribuibili al “mostro di Terrazzo”. Gianfranco
Stevanin non è comparso davanti ai giudici. Ha preferito rimanere nel carcere di
Brescia, dov’è detenuto. Non ha quindi ascoltato, nell’aula semideserta, i particolari
agghiaccianti dei delitti, così come li ha evocati il giudice a latere Antonio De Nicola
nella relazione preliminare del processo d’appello. È la scarsa presenza di mass media e
di semplici curiosi a impressionare maggiormente nel secondo grado processuale; si ha
una situazione completamente opposta a quella verificatasi in Corte d’Assise.
Il primo momento importante dell’udienza si ha quando il presidente della Corte,
accogliendo la richiesta dei difensori di Stevanin, ha disposto una nuova perizia
neurologica, che dovrà stabilire se le lesioni al cervello subite nell’incidente stradale del
1976, hanno determinato una diminuzione o addirittura l’annullamento della capacità di
intendere e di volere dell’agricoltore. L’incarico formale sarà affidato ai professori
Gianfranco Denes, Giuliano Avanzini e Mario Tantalo. L’organo giudicante, presieduto
da Silvio Giorgio, ha riaperto, quindi, la questione preliminare dell’imputabilità del
serial killer. La presenza, accanto ai due neurologi, di uno psicopatologo forense, lascia
presumere che sarà chiesto un parere sul piano neurologico e non solamente su quello
psichiatrico previsto dall’incarico. Questa soluzione è importante, perché i periti
d’ufficio del Gip e i periti dell’accusa in primo grado, non erano neurologi, mentre
questa specializzazione aveva il professor Pinto, che, nei risultati delle analisi da lui
svolte, aveva svelato un “buco nero” nel cervello del periziando.
I difensori di Gianfranco Stevanin hanno riportato altri due parziali successi nella prima
udienza. Il primo è stato quando la Corte ha disposto l’acquisizione del verbale in lingua
originale (tedesco) dell’interrogatorio di Barbara Adlassnig, sorella di una delle sei
vittime, Roswita, scomparsa dopo un incontro con l’agricoltore nel maggio del 1993.
Era stato uno dei punti controversi del dibattimento di primo grado, perché conteneva
un’indicazione temporale dell’ultima telefonata ai familiari da parte della prostituta
austriaca che poteva scagionare Stevanin per uno dei sei delitti. Infatti, Barbara
Adlassnig parlava del settembre 1993, quindi, quattro mesi più tardi dell’incontro con il
serial killer. Un supplemento di indagine dei carabinieri aveva portato la Corte di
Verona a ritenere che la donna si fosse confusa e a considerare prevalente il riferimento
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ad una fiera che si tiene a Graz (città dove risiedeva) a maggio, in occasione della quale
Roswita aveva promesso di tornare a casa con dei regali per i due figli. La Corte
veneziana si era riservata anche di decidere sulle cause della morte della Pulejo. Dal
Maso, infatti, ha rilanciato l’ipotesi del decesso per overdose, contro quella per
soffocamento della tossicodipendente, che era stata, invece, accolta da giudici di primo
grado.
Le parti civili, invece, hanno presentato la propria rinuncia a costituirsi in appello, visto
che poche settimane prima erano state risarcite grazie alla vendita dei poderi in via del
Brazzetto e via Torrano, dove Stevanin aveva seppellito alcuni dei cadaveri delle proprie
vittime. E, così come era stato profilato da alcuni, si ha un clamoroso rovesciamento
delle conclusioni della Corte d’Assise di Verona. I periti, infatti, hanno stabilito che,
quando Stevanin uccideva, anche se lo ha fatto più volte, era incapace di volere, perciò
non punibile. Giuliano Avanzini, Gianfranco Denes e Mario Tantalo hanno decretato
che, al momento di compiere gli omicidi di cui l’agricoltore è stato accusato, aveva una
“capacità di intendere grandemente scemata, mentre era esclusa la capacità di volere”.
I periti della Corte d’Assise d’Appello hanno, perciò, privilegiato gli aspetti neurologici
rispetto a quelli psichiatrici ed hanno riscontrato in Gianfranco Stevanin una forma di
epilessia causata da una lesione cerebrale frontale destra, provocata dall’incidente
motociclistico e lesioni atrofico-degenerative di entrambi i lobi frontali del cervello. E
proprio questi danni avrebbero influito sulla sua volontà nel momento di uccidere.
Stevanin, invece, sarebbe stato pienamente consapevole sia nel compiere atti di violenza
sessuale, sia nell’occultare i cadaveri delle sue vittime. La loro conclusione è stata
tuttavia concorde nel definire socialmente pericoloso il periziando.
Di fronte ad una perizia d’ufficio di questo tipo, pochi spazi sono rimasti per l’accusa. Il
procuratore generale Augusto Nepi, al termine della requisitoria, chiede perciò 13 anni
di reclusione per l’occultamento e la distruzione dei cadaveri e l’assoluzione per i reati
di omicidio. Alla richiesta di condanna ha poi aggiunto anche l’applicazione della
misura di sicurezza di dieci anni a causa della pericolosità sociale dell’imputato. Il P.G.,
pur condividendone le conclusioni, ha sottolineato l’esistenza di “contraddizioni e
lacune” nel lavoro dei periti, da cui non emergerebbero con chiarezza i “fattori
scatenanti degli atti omicidiari, che non possono essere giustificati da lesioni
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craniche”47. Per il calcolo complessivo della pena, il magistrato ha chiesto il massimo
previsto per il reato di vilipendio di cadavere, sette anni, per l’episodio più grave, più
quattro per gli altri episodi legati agli omicidi contestati per i quali non è punibile.
Infine due anni di reclusione per l’episodio di tentata violenza sessuale a Maria Luisa
Mezzari.
Il procuratore generale aveva “scontato” a Stevanin anche l’accusa di omicidio nei
confronti di una donna di cui rimangono alcune fotografie che la ritraggono con lesioni
conseguenti a pratiche di “sesso estremo”. A detta di Nepi, infatti, non si può presumere
che la donna ritratta fosse priva di vita. I legali di Gianfranco Stevanin, invece, hanno
insistito sulla completa non punibilità del loro assistito chiedendone l’assoluzione. Le
reazioni delle parti, come prevedibile, erano del tutto contrastanti.
I difensori dell’imputato cantano vittoria, anche se ritengono più giusto tenerlo sotto
osservazione per un lungo periodo, data la sua pericolosità. L’avvocato Bastianello, che
rappresentava la madre di Biljana Pavlovic nel primo processo, si dichiara
“esterrefatto”, trovando la valutazione psichiatrica dei periti anomala; ritiene, infatti,
che, interpretando a segmenti la personalità dell’imputato, non sia stata valutata
appieno.
L’avvocato Guarienti, difensore della madre della Pulejo in primo grado, commentando
la sentenza, sostiene invece che il discorso dell’incapacità di volere poteva esser valido
solo per il primo omicidio, non quando si hanno uccisioni ripetute. “Il processo lo
stanno facendo le perizie, non i giudici”, afferma Giampaolo Cazzola, che assisteva i
fratelli della Pulejo; a Verona, sostiene, i giurati avevano avuto la possibilità di avere
Stevanin sotto gli occhi per molti giorni e di valutarne il comportamento. A Venezia
questo non è avvenuto. Continua affermando che: ”la svolta processuale dimostra
quanto sia stata azzeccata la decisione di chiudere l’accordo per i risarcimenti prima
dell’Appello almeno i parenti delle vittime hanno avuto qualcosa, altrimenti, oggi, non
potrebbero accampare nessuna pretesa”48.
Spetta a questo punto ai giudici di Venezia emettere la sentenza.
47
48
Dalla motivazione della sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Venezia.
BENDRAME G., L’accusa “grazia” Stevanin, “L’Arena di Verona”, 7/07/1999.
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5.5.1. La sentenza della Corte d’Assise d’Appello
Il 7 luglio 1999 la Corte d’Assise d’Appello, presieduta da Silvio Giorgio, emette
finalmente il verdetto. Il giudizio è ancor più mite di quanto chiesto dal pubblico
ministero: 10 anni e sei mesi. Stevanin, quindi, è stato ritenuto incapace di intendere e di
volere al momento in cui violentava e uccideva le sue vittime e lo hanno, di
conseguenza, assolto per tutti gli omicidi e le violenze sessuali per i quali era stato
condannato in primo grado all’ergastolo.
“Folle”, invece, Stevanin non era, secondo i giudici veneziani, quando mutilava
orribilmente i cadaveri delle donne che aveva ucciso, quando li faceva a pezzi, quando
ne disossava alcune parti e li occultava nei propri poderi o se ne sbarazzava nei corsi
d’acqua della zona. E solo per questo (e per una tentata violenza sessuale del 1989), lo
hanno condannato a dieci anni e sei mesi di carcere. Insomma, la Corte ha accolto in
pieno le tesi degli ultimi tre periti che hanno studiato i meandri del pensiero e del
comportamento di Gianfranco Stevanin: Giuliano Avanzini, Gianfranco Denes, Mario
Tantalo. Tre esperti che, a leggere la perizia, hanno studiato più il cervello in senso
materiale, che la mente del periziando. Ed, infatti, sulla base del quesito posto dalla
Corte, hanno analizzato a fondo soprattutto le conseguenze del “buco nero” nella mente
di Stevanin, a causa del grave incidente stradale del 1976. Due lesioni profonde ai lobi
frontali che non hanno intaccato né la capacità di comunicare, né quella di muoversi, ma
che, secondo i periti, ha inibito la capacità di autocontrollo davanti a certi stimoli. Ed
anche le amnesie, limitate ai momenti cruciali degli omicidi, sono credibili, mentre per
Fornari e Galliani, erano invece, finte e strumentali.
Su una cosa tutti i periti sono stati d’accordo: la pericolosità sociale di Stevanin ed il
rischio che, se rimesso in libertà, possa uccidere di nuovo. La Corte, recependo anche le
richieste del P.G. Nepi, ha previsto l’applicazione della misura di sicurezza della
permanenza, per almeno dieci anni, in un Ospedale Psichiatrico Giudiziario. E, proprio
perché ritenuto pericolosissimo, la Corte d’Assise d’Appello, alle prese con il problema
della scarcerazione del serial killer, in quanto la sentenza rendeva di fatto nulli tutti i
termini di custodia cautelare, ha disposto, da un lato, la “liberazione” dell’imputato,
dall’altro, il suo immediato internamento provvisorio in una struttura psichiatrica
criminale, per la “prevedibile reiterazione di gravi reati e per l’irreversibilità e
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l’immodificabilità, anche in senso peggiorativo della sua condizione”49.
Una sentenza clamorosa, che fa discutere. Una sentenza che nasce senza che quelli che
erano delegati a pronunciarla abbiano mai visto né sentito Stevanin. Il procuratore Nepi,
che aveva accolto in toto la perizia della difesa chiedendo 13 anni di reclusione, i sei
giudici popolari, il presidente Giorgio e il giudice togato De Nicola, hanno preso le loro
decisioni solamente sulla base della lettura di documenti processuali e perizie medicolegali. Risulta, da questo punto di vista, apprezzabile la strategia difensiva dei legali di
Stevanin, nel sottrarre il loro assistito al dibattimento in aula. Un esame diretto che ha,
in primo grado, contribuito in maniera determinante alla formazione della convinzione
della capacità di intendere e di volere dell’imputato.
Il legale di Stevanin afferma: “i giudici hanno capito che l’imputato è una persona
malata e che è più giusto curarlo, anche se rimane un criminale. Solo un difetto mentale
di origine organica poteva spiegare il perché di tanta violenza in Gianfranco
Stevanin”50. Di tutt’altro avviso è l’avvocato Guarienti che sostiene che: “le conclusioni
della Corte andrebbero bene se fossimo di fronte ad un unico episodio, ma qui gli
omicidi sono sei. Anche ritenendo accidentale la prima morte, Stevanin sapeva
benissimo che, ripetendo certe situazioni, la conseguenza sarebbe stata il decesso della
donna che stava con lui”.
Come detto, la perizia in base alla quale Gianfranco Stevanin è stato ritenuto incapace
di intendere e di volere è stata più neurologica che psichiatrica in senso stretto. I periti
hanno, di conseguenza, compiuto un’indagine “neuropsicologica”. E definiscono la
neuropsicologia “lo studio, attraverso il metodo sperimentale, delle relazioni
intercorrenti tra il sistema nervoso centrale e la vita mentale”, ritenendo che questa sia
la branca delle neuroscienze che negli ultimi anni ha avuto il maggiore sviluppo grazie
all’affinarsi delle tecniche di indagine radiologica, di misurazione delle variazioni del
flusso ematico o del metabolismo cerebrale e all’applicazione di sofisticati modelli
teorici delle funzioni cognitive51. Il tipo di lesioni presenti in Stevanin può provocare
infatti, i cambiamenti, talora drammatici, della personalità e del controllo delle
emozioni che si manifestano o sotto forma di impulsività e comportamento inadeguato
sulla base di un mancato controllo degli impulsi inibitori, o come restringimento del
49
Motivazione della sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Venezia.
BENDRAME G., Il procratore generale: “convinto dai periti”, “L’Arena”, 8/7/1999.
51
Dalla relazione consegnata dai periti alla Corte d’Assise d’Appello.
50
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campo degli interessi e di indifferenza emotiva52. Uno dei nodi irrisolti rimane quello
“dell’amnesia a scacchiera”, ossia del mancato ricorso dei momenti cruciali di alcuni
dei “decessi accidentali” delle donne che facevano sesso con Stevanin.
Tirando le conclusioni, i tre periti dell’appello formulano una prima diagnosi di
“epilessia con crisi parziali secondariamente generalizzate”, che non hanno però “alcun
ruolo nell’ambito dell’imputabilità di Stevanin”, non incide cioè sulla capacità di
intendere e di volere. Diverso è il caso delle lesioni encefaliche. I danni ad alcune aree
del cervello possono “compromettere meccanismi inibitori che scattano normalmente
alla visione del dolore altrui, una sorta di indifferenza alla sofferenza”. Soprattutto,
però, possono dar luogo alla cosiddetta “sindrome frontale”, in particolare tre
incapacità: di modulare il proprio giudizio in conformità con le situazioni vissute, per
cui egli non appare in grado di distinguere tra una trasgressione morale e una
convenzionale,
di
appendere
dalle
situazioni
svantaggiose
e
di
inibizione
dell’aggressività. Su queste componenti organiche deteriorate si è innestato un comune
denominatore: l’ estrinsecazione di una sessualità vissuta come un percorso erotico ad
alto rischio.
Nella motivazione della sentenza si afferma anche che: il solo epilogo pronosticabile per
Stevanin è la segregazione in un Ospedale Psichiatrico Giudiziario a vita. Da questo
passo, si denota lo scetticismo dei giudici, data la natura organica della malattia di
Gianfranco Stevanin, sulle possibilità di miglioramento che potrebbero, in futuro,
rimetterlo in libertà. I legali dell’agricoltore, sono parzialmente d’accordo, in quanto
sostengono che: “è certo che non potrà mai guarire, ma credo che, col tempo, potrà
esser tenuto sotto controllo, anche perché le pulsioni sessuali decadono con l’età”53.
Stevanin viene in seguito trasferito nell’O.P.G. di Castiglione delle Stiviere. Nel
frattempo, l’avvocato dell’agricoltore annuncia di voler ricorrere in Cassazione per
ottenere un’assoluzione piena. La medesima intenzione viene denunciata dal
procuratore generale. Come prevedibile, la Sentenza emessa dalla Corte d’Assise
d’Appello di Venezia ha provocato molteplici reazioni per lo più orientate verso lo
sdegno.
Emblematica, a tal proposito appare il commento di Gian Guido Zurli, uno dei maggiori
52
53
Risultanze della perizia effettuata su Stevanin in Corte d’Assise d’Appello.
BENDRAME G., Stevanin, manicomio per sempre?, “L’Arena”, 1/09/1999.
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esperti italiani di serial killers. Egli, in primo luogo definisce “vergognosa” la sentenza,
avendo seguito da vicino il processo e ritenendo che Stevanin sia pienamente normale,
come ha dimostrato la lucidità mantenuta durante tutto il dibattimento di primo grado.
Ritiene, inoltre, incontestabili le perizie effettuate da Fornari e Lagazzi, ritenuti i
migliori in questo campo e asserisce che i periti d’ufficio che si sono pronunciati in
secondo grado sono soltanto “psichiatri di sperdute università di provincia in cerca di
notorietà”. Afferma che la soluzione adottata (incapacità quando uccideva, capacità
quando occultava i cadaveri) sia esclusivamente una situazione di comodo. Conclude
affermando che chi ci rimette sono “le vittime e i loro parenti, che non hanno ottenuto
giustizia e il Popolo Italiano, che non è assolutamente d’accordo con questa sentenza,
anche se pronunciata in suo nome”.
5.6. La revisione del processo d’Appello
Una nuova svolta nel processo che vede imputato l’agricoltore di Terrazzo per la morte
di sei donne tra il 1993 ed il 1994, avviene quando il P.G. Augusto Nepi presenta ricorso
alla Corte di Cassazione.
Il motivo del ricorso è basato sulla presunta carenza e illogicità della motivazione sui
risultati delle perizie. Alla stregua dell'art. 606 del codice di procedura penale, che
consente il ricorso per Cassazione in caso di mancanza o manifesta illogicità della
motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato, il P.G.
contesta la sentenza emessa dai giudici di Venezia. La “motivazione”, spiega il
procuratore generale, “aderisce incondizionatamente alle conclusioni dei periti e dei
consulenti tecnici di parte, pur in presenza di opposte conclusioni dei periti di primo
grado, ma non analizza o trascura alcune lacune argomentative e trasforma in certezze
diagnostiche quelle che sono meri enunciati ed ipotesi scientifiche”. “La sentenza”,
continua, "ignora alcune lacune ed incongruenze in modo illogico e non può quindi
sottrarsi
all’annullamento”54.
In
particolar
modo
viene
criticato
l’approccio
metodologico nella trattazione del tema. Del resto, afferma lo stesso procuratore
generale, “è del tutto infondato e immotivato che l’imputato fosse consapevole e
determinato nell’intraprendere il rapporto sessuale a rischio, ma altrettanto non fosse
per l’evento conclusivo della morte della partner e non si espone perché sia disattesa
54
BENDRAME G., Stevanin, il P.G. chiede si annulli la sentenza, “L’Arena”, 5/11/1999.
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l’ipotesi opposta, che fosse proprio l’evento omicidiario quello perseguito e attuato
attraverso il percorso erotico”. La Cassazione, con un provvedimento preso il 24
maggio 2000, annulla la sentenza emessa dalla Corte d’Assise d’Appello di Venezia il 7
luglio 1999 e, ai sensi dell’art. 623 del codice di procedura penale, rinvia il processo ad
un’altra sezione della stessa Corte.
Il 30 novembre del 2000 inizia, perciò, il processo d’Appello-bis nei confronti di
Gianfranco Stevanin, che al momento sta scontando la pena nell’Ospedale Psichiatrico
Giudiziario di Montelupo Fiorentino. La prima udienza del processo, priva
dell’imputato, forse memore del risultato ottenuto in secondo grado dai sui legali, inizia
con la richiesta da parte del P.G. di una nuova perizia psichiatrica sull’agricoltore. Gli
incarichi sono affidati ai dottori Gaetano De Leo, Francesco De Fazio, Luigi Rossi e
Giovanni Mancardi. Nella scelta dei consulenti, il collegio si è premurato di far
scandagliare tutte le possibili angolature della personalità dell’imputato, nominando un
medico legale, uno psichiatra, un criminologo e un neuropsichiatra. Nei precedenti gradi
di giudizio qualcuna di queste figure era assente, causando lacune che, tra l’altro,
avevano portato all’annullamento della prima sentenza d’Appello.
I giudici sono, perciò, chiamati nuovamente a decidere sulla capacità di intendere e di
volere di Stevanin al momento dei delitti e sulla loro premeditazione: è questo, infatti, il
punto debole della motivazione del primo appello annullata dalla Cassazione. In questa
prima udienza, i legali dell’imputato presentano istanza per la concessione del rito
abbreviato, che viene accolta dalla Corte. Anche in questo caso, il processo di svolge
essenzialmente sulla base dei risultati degli esami effettuati dai periti sulla persona di
Gianfranco Stevanin. Per quanto riguarda le richieste effettuate dalle parti, come era
prevedibile, si ha una netta contrapposizione tra il P.G., che chiede l’ergastolo, ed i
legali di Stevanin, che chiedono la non punibilità del loro assistito per incapacità di
intendere e di volere.
Il 23 maggio 2001, la Corte d’Assise d’Appello, presieduta da Luigi Lanza, dopo cinque
ore di camera di consiglio, emette la propria sentenza: è ancora ergastolo. La Corte
d’Assise d’Appello, accogliendo in pieno le richieste del procuratore generale, non ha
concesso all’imputato la prevalenza delle circostanze attenuanti generiche rispetto alle
aggravanti. La Corte ha, inoltre, emesso un ordine di cattura nei confronti di Stevanin e
ne ha disposto il trasferimento immediato in un istituto penitenziario. L’agricoltore è
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stato, invece, assolto in via definitiva per un sesto delitto, quello della donna di cui era
stata trovata una fotografia che la ritraeva con lesioni causate da rapporti sessuali
estremi. “Sadico, ma non pazzo, affetto da un disturbo mentale, ma non tale da non
poter capire che doveva fermare la sua foga sessuale prima di infierire sulle vittime. E i
suoi delitti hanno la causa esclusivamente nel soddisfacimento della propria libido”55.
È in questo passaggio, pronunciato da uno dei quattro periti d’ufficio, il crinale che ha
portato alla condanna all’ergastolo per l’agricoltore veronese. L’esito della perizia non
ha dato scampo a Stevanin: se per un solo delitto si sarebbe potuta invocare la non
imputabilità, ciò non è possibile quando gli omicidi si sommano.
Le motivazioni della sentenza emessa dalla Corte d’Assise d’Appello di Venezia
affermano anche che il “mostro di Terrazzo” possedeva “mezzi intellettivi e culturali per
evitare siffatti crimini e, comunque, per non ripeterne il percorso dopo la prima volta”.
Quanto alle condizioni mentali, la Corte sottolinea che “né il trauma cranico, né
l'epilessia, né la relazione con la madre assumono ruoli causali”56. Secondo l’organo
giudicante, inoltre, nei delitti assumono un ruolo aggravante la sua condotta sempre
lucida e l’atteggiamento processuale mai rivelatore di un barlume di pentimento, ma
attento ad adeguarsi di volta in volta ad una nuova emergenza probatoria. A Gianfranco
Stevanin resta il lumicino della Cassazione, ma è una speranza flebile, vista in fondo ad
un tunnel lungo quanto può esserlo l’ergastolo.
È, infine, la Suprema Corte a mettere la parola fine sulla tormentata vicenda giudiziaria
iniziata nel 1994 e che vede come protagonista assoluto l’agricoltore di Terrazzo. Il 7
febbraio 2002, la Cassazione, infatti, conferma la Sentenza della Corte d’Assise
d’Appello di Venezia che ha inflitto a Gianfranco Stevanin l’ergastolo. Si chiude così la
clamorosa vicenda, iniziata quasi casualmente nel novembre del 1994, con la denuncia
della prostituta austriaca Gabriele Musger, sfuggita a Stevanin nei pressi del casello
autostradale di Vicenza Ovest e che ha coinvolto l’opinione pubblica nazionale. Dopo
un iter processuale tormentato e ricco di colpi di scena, cala finalmente il silenzio sulla
vicenda che vede coinvolto il serial killer più sadico della nostra storia.
55
56
VACCARI A., L’esito della superperizia non gli ha dato scampo, “L’Arena”, 24/03/2001.
Motivazione della sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Venezia.
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5.7. Le vittime di Stevanin
BILJANA PAVLOVIC
Cameriera slava, scompare nel 1994. Il suo corpo sarà ritrovato il 12 novembre
dell’anno successivo sepolto nei campi che circondano il casolare di Terrazzo.
Sul suo cadavere saranno trovate molte mutilazioni, compresa l’escissione della pelle
del pube. La Pavlovic muore probabilmente per asfissia causata da un sacchetto di
plastica, lo stesso trovato sulla sua testa, mentre il suo cadavere è avvolto nel Domopak.
Nel corso degli interrogativi di lei Stevanin dirà: “quella sera al casolare decidemmo di
fare qualcosa di diverso. La feci spogliare, le legai le mani dietro la schiena, la feci
sdraiare a faccia in giù e tirai la corda dalle mani fino intorno al collo. Una volta finito
di fare l’amore, mi accorsi che era morta. Lasciai il cadavere al casolare, non sapendo
cosa fare, avevo una gran confusione. Quando tornai vidi che i topi avevano morsicato
il volto. Le misi un sacchetto sulla testa, avvolsi il corpo nel Domopak, scavai una buca
e la seppellii (…). Lo feci per affetto, perché il suo corpo si conservasse, era una cara
amica”.
BLAZENCA SMOIJO
Di lei non si sa praticamente nulla. Il suo cadavere viene rinvenuto a Piacenza d’Adige
il 3 luglio 1994. Il suo passato è avvolto nel mistero. A lungo è stata cercata inutilmente
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una sua amica, Silvana Kovac, che avrebbe potuto avere indizi utili alle indagini. Molto
probabilmente anche lei era una prostituta, e Stevanin di lei così parla: “non so neppure
chi fosse e che nome avesse. Ricordo solo che non la portai al casolare, ma nella casa
nuova. Mi pare fosse autunno. Facemmo l’amore piegati su un fianco, io le misi le mani
intorno al collo e lei morì. La portai al casolare, lasciai il corpo lì un paio di giorni, poi
presi un taglierino da barba, tagliai prima una gamba in due pezzi, poi l’altra, quindi le
braccia. Le ho tagliato anche la testa, l’ho rasata e non ricordo se ho fatto dei pezzi
anche del tronco. Ho lavorato diverse notti…”.
CLAUDIA PULEJO
29 anni, tossicodipendente e sieropositiva, era una vecchia amica di Gianfranco
Stevanin. Si prostituiva di tanto in tanto solo per pagarsi la droga. Scompare il 15
gennaio 1994. Indossava un vestito nero scollato, degli stivaloni ed una borsetta. Si
stava recando a casa di Stevanin perché le aveva promesso 15 scatole di Roipnol, un
potente farmaco per le crisi di astinenza, in cambio di alcune foto per le quali avrebbe
dovuto posare. Tutti i suoi affetti personali, compresi i documenti, vengono ritrovati
nella villa di Stevanin il giorno dopo il suo arresto. Cerca di discolparsi asserendo che si
trattava semplicemente di souvenirs di avventure sessuali, che la giovane gli avrebbe
ceduto spontaneamente.
In seguito sarà lo stesso Stevanin ad indicare agli investigatori il luogo dove la ragazza è
stata sepolta. Il I dicembre 1995 il suo cadavere viene esumato dal terreno dove sorge il
magazzino del casolare di Stevanin. Il corpo della Pulejo – avvolto nella plastica – è
stato seppellito in una vera e propria fossa, come se Stevanin avesse voluto dimostrare
rispetto nei suoi confronti.
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ROSWITA ADLASNIG
Di lei si sa che era una prostituta. A denunciare la sua scomparsa, l’8 maggio del 1993, è
Petra una sua amica. Sarà proprio lei, al processo, a dichiarare che prima di scomparire,
Roswita aveva incontrato Stevanin. In una delle abitazioni di quest’ultimo vengono
trovate 11 foto che la ritraggono. L’assassino ammette di averla conosciuta, ma nega di
sapere qualcosa sulla sua scomparsa. Dice di averla fotografata solo all’aperto e, da
allora, di non averla più vista. Ma oltre alle foto all’aperto, ce ne sono altre,
particolarmente spinte, che la ritrarrebbero distesa su un telo azzurro. Il suo corpo non è
mai stato trovato.
PRIMA DONNA NON IDENTIFICATA
Razza bianca, sesso femminile, capelli biondi lisci, età compresa tra i 25-30 anni.
Questo il sommario identikit della donna che potrebbe essere stata uccisa da Stevanin.
Durante le numerose perquisizioni nell’abitazione di Stevanin è stato trovato un nastro
di negativi fotografici. In essi sono riprese con l’autoscatto scene di sesso estremo
dell’agricoltore di Terrazzo con questa donna misteriosa. In altre pose sembra che
l’uomo la stia facendo a pezzi.
Stevanin ha sempre negato di aver mai scattato quelle immagini, in altre occasioni ha
affermato di non ricordare.
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SECONDA DONNA NON IDENTIFICATA
Si tratta della donna il cui cadavere è stato trovato da un contadino in un sacco di juta
non lontano dal casolare di Stevanin, il 3 luglio 1995. Struttura esile, alta appena 1,45
cm circa. Si è ipotizzato che potrebbe trattarsi di un’asiatica. L’identità di questa donna
è sempre stata un mistero. Non si sa come la donna sia stata uccisa, né quando sia
morta.
Una sua coscia è stata rinvenuta in un canale, diverso tempo dopo il ritrovamento del
resto del cadavere, su indicazione dello stesso Stevanin.
5.8. Stevanin: l’ultima intervista
“Ricordo vive tutte le donne che ho ucciso”.
Dal carcere di Opera, dove sconta l’ergastolo, parla il serial killer di Terrazzo.
OPERA (Milano) — Non è lo più stesso, Gianfranco Stevanin. Il più famoso serial
killer italiano dice di aver scoperto la fede e di sentirsi pronto ad uscire dal carcere.
“Voglio dedicare la mia vita a fare del bene”, giura. “Farò volontariato”. Bugie? Solo il
tentativo disperato di accelerare la concessione del primo permesso-premio? Stando a
chi ha seguito il suo percorso di recupero all’interno del carcere di Opera, è cambiato
davvero. Non c’è traccia – affermano – del “mostro di Terrazzo” che negli anni Novanta
uccise sei donne durante dei rapporti sessuali estremi, le tagliò a pezzi e le sotterrò nei
campi vicino casa. Di certo non è più il trentenne della provincia di Verona, figlio di
possidenti terrieri, che raccontò di voler realizzare un cuscino con i peli pubici delle
vittime. Oggi Stevanin è un ergastolano di 51 anni, i capelli lunghi, appesantito dall’età
e dalla vita carceraria. Ama scrivere e in carcere punta a diplomarsi in ragioneria e
magari a laurearsi. A distanza di oltre dieci anni dalla condanna definitiva, ha accettato
di rispondere (attraverso uno scambio epistolare) alle domande del Corriere del Veneto.
E lo fa, dice, perché si consideri che nella sua storia “oltre al bianco e al nero, esiste
anche il grigio”.
Che persona è, oggi, Gianfranco Stevanin? “Potrei risponderle, un po’
semplicisticamente, che la mia pazienza è notevolmente aumentata e si è sviluppata
anche la mia adattabilità. Ho imparato inoltre a sfruttare in modo costruttivo il tempo
che ho a disposizione”.
Ad esempio studiando… “Mi sono iscritto al maggior numero di corsi disponibili e sto
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cercando di arrivare alla maturità superiore, studi che interruppi in gioventù a causa di
un incidente motociclistico. Gli studi per ora vanno bene e mi piacciono, come mi piace
tutto ciò che può arricchire il mio bagaglio culturale…”.
Chi in questi anni le è stato vicino, assicura che è cambiato. Cosa le ha insegnato il
carcere? “Non è facile rispondere in due parole… La funzione del carcere è la
rieducazione in merito a ciò che di male si è commesso. Ma non sempre la prigione
riesce a esserlo, specialmente in una situazione carceraria come quella odierna. Nel mio
caso, però, sarebbe stato utile stabilire meglio in che misura ero cosciente di quel che
facevo all’epoca dei fatti. Quantomeno per stabilire il tipo di rieducazione di cui
necessitavo. Nonostante tutto, secondo la mia modesta opinione, l’obiettivo è stato
raggiunto”.
Un anno fa è circolata la voce che volesse farsi frate, sarà davvero questo il suo
futuro? “Avendo deciso di dedicare la mia vita al volontariato o, comunque, a fare del
bene seguendo i dettami del cattolicesimo, farmi frate sarebbe probabilmente la cosa più
indicata. Il mio passato, però, mi porta a escludere questa possibilità. E poi, in fin dei
conti, si può fare del bene anche senza necessariamente indossare il saio…”.
Come ha scoperto la Fede? “Per quanto riguarda il mio rapporto con la Fede in Dio,
vorrei descriverlo partendo un po’ a monte dei tempi attuali. Sono nato in una famiglia
in cui la Fede cattolica era solida e molto radicata e anche in me, fin da giovanissimo, la
Fede era viva…”.
Poi cos’è cambiato? “Nella mia gioventù c’è stato un periodo buio in cui, alla Fede, si
sovrapposero… altri interessi. Ma durante la carcerazione quella Fede sommersa, ma
che comunque c’era, è riemersa totalmente ed è divenuta così importante che è da quella
che ora mi voglio far guidare”.
Nonostante la condanna all’ergastolo, ha ormai maturato i termini per ottenere i
permessi-premio per uscire dal carcere. Li ha già richiesti? “Come ha detto lei, sarei
già nei termini, come tempi, per ottenere i primi permessi di uscita. Per la burocrazia ed
il sistema carcerario occorrono, però, anche altri requisiti per poterli richiedere. Io sto,
per l’appunto, attendendo che maturino questi requisiti”.
Quale sarà la prima cosa che farà quando lascerà il carcere? “Quando potrò uscire
la prima cosa che farò, se possibile, sarà una passeggiata immerso nella natura, in aperta
campagna. Voglio potermi guardare attorno vedendo solo il verde della natura e non
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sbarre o cemento”.
Cosa le manca di più della libertà? “La lista ovviamente sarebbe molto lunga.
Volendo citare solo le cose più importanti, oltre al contatto con la natura mi mancano gli
affetti, le amicizie vere e l’essere attorniato da persone tranquille che abbiano repulsione
per la violenza e amino i veri valori. Non sto facendo retorica, ciò che ho appena detto
lo penso veramente. Tutto il resto passa in secondo piano…”.
La leggenda vuole che in carcere lei riceva molte lettere di ammiratrici… “Diversi
anni fa ho effettivamente ricevuto lettere da ammiratrici, per usare le sue parole. Tra
queste persone che mi hanno scritto, qualcuna l’ho ritenuta poco veritiera o non mi ha
lasciato un recapito a cui rispondere. Ad altre ho risposto e con qualcuna ho allacciato
dei rapporti epistolari piuttosto duraturi”.
Nel suo futuro si vede con una donna a fianco? Le piacerebbe sposarsi? “In futuro,
beh… la cosa è piuttosto controversa. Per essere schietto l’idea non mi dispiacerebbe
affatto ma, per una serie di motivi che non sto a spiegare, ritengo che mi sentirò meglio
se, invece di legarmi a una persona in particolare, mi dedicherò totalmente a voler bene
e aiutare chiunque si trovi nel bisogno. Magari in accordo con qualche ente
assistenziale…”.
Ripensa mai alle donne che ha ucciso? “Lei mi porta su terreni che definirei…
“sdrucciolevoli”. Ma non prenda le mie parole come una lamentela: era ovvio che
avremmo affrontato anche argomenti non propriamente facili o leggeri. Nonostante sia
passato un bel po’ di tempo, io ci penso eccome alle ragazze decedute. Nei miei ricordi
però quelle ragazze sono vive, ed è così che vorrei continuare a ricordarle”.
Si sente responsabile della loro morte? “Dal momento che gli inquirenti dicono che
ho commesso quei fatti - devo dire così poiché di quei fatti io non ho mai avuto il
ricordo - è ovvio che mi debba sentire responsabile. Ora però sono io a farle una
domanda: quanto mi dovrei sentire responsabile se sapessi che in quei momenti non ero
cosciente di ciò che facevo?”.
Dopo vari pareri discordanti, la sentenza definitiva l’ha dichiarata capace di
intendere e di volere. Che risposta si è dato alla sua domanda? “Naturalmente non
posso pretendere che mi si creda solo sulla parola quando dico che, se fossi stato
cosciente, quei fatti non sarebbero avvenuti. Ripercorrendo quanto accaduto, però, varie
cose farebbero pensare, in modo abbastanza inequivocabile, all’operato di qualcuno che
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non è in sé… Immagini, solo come ipotesi, che qualcuno potesse dimostrare che ero
inconsapevole. Pensa che in tal caso mi si potrebbe mettere all’indice come colpevole?
Ma allora, sapendo che il dubbio esiste, non crede che si sia puntato il dito su di me con
troppa facilità?”.
A chi si riferisce? “Non solo all’operato dei mass media, ma all’operato di chiunque mi
ha giudicato”.
Perché ha voluto rilasciare questa intervista? “Io sono già stato condannato, quindi
non è l’estremo, e a volte penoso, tentativo di difesa dalla condanna. In cuor mio so di
cosa sono responsabile, ma quello è un problema che riguarda solo me e la mia
coscienza. Parlo ora perché mi piacerebbe che, una volta tanto, a ogni cosa fosse dato il
suo giusto nome e si considerasse che, oltre al bianco e al nero, esiste anche il
grigio…”.
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6. DESTINO E FUTURO DEI SERIAL KILLERS
6.1. Problemi inerenti l’imputabilità
Quello dei serial killers è un argomento che suscita orrore – è ovvio – ma pure
attrattiva, comunque interesse, forse anche sproporzionato.
L’omicidio seriale, come detto, si definisce come l’assassinio di più vittime, ma che in
aggiunta viene compiuto in risposta a bisogni emotivi.
Molti dei serial killers si caratterizzano per comportamenti – prima, durante e dopo
l’omicidio – che violano i nostri più radicati tabù in merito alla pietà, al rispetto per la
persona umana e dunque anche per il suo corpo, al disgusto, a tutti i concetti possibili di
“normalità”.
La psichiatria e la psicologia forense fin dall’Ottocento hanno cercato delle spiegazioni
e l’interrogativo è valido ancor oggi: sono pazzi costoro? O li chiamano “folli” solo per
segnalare la loro deviazione dalla norma etica e statistica?
Dunque – in ambito forense i quesiti sono collegati – sono responsabili delle loro
atrocità o sono degli infelici determinati senza scampo dal loro patologico modo
d’essere?
Per Lunde57, per esempio, coloro che commettono più omicidi sarebbero nella quasi
totalità dei casi malati; per la Simon almeno alcuni dei serial killers58 soffrirebbero di
una forma di disturbo dell’umore atipica, e comunque gli omicidi stessi sono da
reputarsi sintomi di un disturbo maniaco depressivo. Le differenze fra omicida seriale
psicopatico ed omicida seriale psicotico sono messe in luce da Benezech59 riguardo alle
condizioni familiari, all’anamnesi, alle abitudini voluttuarie, ai precedenti penali, alla
personalità, al modus operandi, al rapporto con la vittima, al comportamento successivo
al reato; l’Autore conclude con la differenza in termini di responsabilità penale,
affermando che lo psicopatico è penalmente responsabile e lo psicotico penalmente
irresponsabile in quanto privo di coscienza e sprovvisto di capacità empatiche, senso di
57
LUNDE D., Murder and Madness, San Francisco Book Company, San Francisco, 1976.
SIMON R. I., Post Traumatic Stress Disorder in Litigation: Guidelines for Forensic Assessment, Amer.
Psychiatric Press, 1995.
59
BENEZECH M. et al., Cannibalism and Vampirism in Paranoid Schizophrenia, in The Journal of
Clinical Psychiatry, XLII, 7, 1981.
58
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colpa e lealtà verso chiunque.
Secondo Holmes e De Burger60, la maggior parte dei serial killers non sono né da
valutarsi in termini psicopatologici, né sono malati di mente; la maggior parte degli
omicidi seriali non sono psicotici.
Il punto è che l’aver fatto “cose da pazzi” non comporta essere giuridicamente infermi
di mente. Che poi i serial killers abbiamo pure qualche problema, o si può dire di più,
che per loro si trovino senza fatica categorie nosografiche che li descrivono, soprattutto
nell’ambito dei Disturbi di Personalità, è comprensibilissimo, anzi è tautologico.
Dietz, lo psichiatra che ha collaborato allo studio dell’FBI sugli autori di omicidi seriali,
ha chiarito a proposito di costoro che: “a nessuno dei serial killers che ho avuto modo di
studiare o visitare era applicabile la formula della infermità mentale, ma al contempo
nessuno di loro era normale. Tutti erano affetti da turbe mentali. Ma nonostante questi
disturbi, legati alla sfera sessuale ed al carattere, agivano sapendo quello che facevano
e sapendo che era sbagliato. E sceglievano di farlo ugualmente”.
Per Douglas e Olshaker61: “sicuramente soffrono di un grave disturbo o difetto
caratteriale. Sicuramente chiunque tragga piacere dallo stupro, dalla tortura, dalla
morte ha dei problemi psicologici piuttosto pronunciati (…). Molta gente sembra non
afferrare il concetto che si possono avere problemi mentali o emotivi – anche gravi – ed
essere tuttavia in grado di distinguere il bene dal male e conformare di conseguenza il
proprio comportamento”.
Un serial killer – afferma lo psichiatra Paolo Crepet – è un uomo più normale che
pazzo, se non fosse così non potrebbe reiterare i delitti che compie. Il pazzo che uccide,
uccide una volta sola e poiché in quell’omicidio si è ucciso, diventa una persona
inoffensiva. L’assassino seriale, invece, deve avere un grandissimo controllo su di sé e
sull’ambiente; deve essere capace di sfuggire alle ricerche della polizia, sapersi
mimetizzare come uomo perfetto. Certo, è probabile che egli abbia una percezione
totalmente fuori controllo della sessualità, dell’affettività, ma è comunque perfettamente
cosciente e responsabile di quello che fa.
Il professor Bruno spiega che il serial killer non è un pazzo inteso nel senso classico:
60
61
HOLMES R., DE BURGES J., Serial Murder, Sage, Newbury Park, 1998.
DOUGLAS J. E., OLSHAKER M., Mindhunter,: Inside the FBI’s Elit Serial Crime Unit, Scribner,
New York, 1995, p. 315.
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l’assassino seriale uccide perché gli piace farlo, per instaurare un rapporto fisico con il
cadavere della sua vittima. È una grave deviazione degli impulsi, ma ciò non vuol dire
che sia necessariamente pazzo.
Allora, si farà diagnosi di “Disturbo di Personalità non Altrimenti Specificato”, come
nel caso di Dhamer che uccise almeno quindici giovani, si intrattenne sessualmente con
i loro cadaveri, si rese responsabile di atti di cannibalismo, conservò parti dei corpi in
freezer, di “Disturbo Narcisistico” come nel caso di Gianfranco Stevanin e Ted Bundy.
Ciò perché ben poco sfugge allo scrupolo classificatorio, che contempla di tutto, dai
Disturbi dell’Apprendimento, ai Tic, alla Fobia Sociale, ai disturbi Somatoformi, al
Disturbo dell’Alimentazione e che, se messo alle strette, può sempre contare
nell’accogliente categoria del “ Disturbo Mentale Non Specificato”. E ciò va benissimo
per la psichiatria clinica, ma saggiamente è lo stesso DSM-IV-TR a schermirsi: si legge,
infatti, nella “Raccomandazione cautelativa” del Manuale: i concetti clinici e scientifici
implicati nella categorizzazione di queste condizioni come disturbi mentali possono
essere del tutto irrilevanti in sede giuridica, ove ad esempio si debba tenere conto di
aspetti quali la responsabilità individuale, la valutazione della disabilità e
l’imputabilità62.
In sintesi, un conto è la diagnosi, un altro è come e quanto questa diagnosi si riverberi
sull’imputabilità del soggetto.
Le esperienze di giustizia dimostrano che la maggior parte di essi sono responsabili e
quindi imputabili, perfettamente capaci di intendere e volere e quindi di
autodeterminarsi in relazione agli impulsi che motivano l’azione.
Essi sarebbero affetti da un “distrurbo di personalità” per niente significativo ai fini
forensi.
In questi casi, in Italia soltanto i disturbi di personalità che presentano “reazioni
abnormi” hanno valore di malattia e potrebbero configurare un vizio parziale e totale di
62
E ancora nel paragrafo intitolato “Uso del DSM-IV in ambito forense si moltiplicano le
raccomandazioni: “Quando le categorie, i criteri e le descrizioni del DSM-IV vengono utilizzate ai fini
forensi, sono molti i rischi che le informazioni diagnostiche vengono utilizzate o interpretate in modo
scorretto. Questo a causa dell’imperfetto accordo tra le questioni di interesse fondamentale per la
legge e le informazioni contenute in una diagnosi clinica (…). Inoltre, il fatto che la sintomatologia di
un individuo soddisfi i criteri per una diagnosi del DSM-IV non ha nessuna implicazione per quanto
riguarda il livello di controllo che egli può esercitare sui comportamenti che possono essere associati
al disturbo”. (DSM-IV-TR, p. 11).
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mente. Secondo Fornari63, le reazioni abnormi, per poter soddisfare tale criterio, devono
presentare un’ interruzione di continuità con il precedente stile di vita del soggetto,
presentarsi come atti di sproporzione evidente del rapporto causa-effetto riferito
all’evento, associarsi ad una possibile compromissione dello stato di coscienza e
possibile presenza di disturbi dispercettivi o idee di riferimento oltre ad essere di una
durata relativamente breve. Ossia deve venire a mancare quella “capacità di volere” che
secondo la Corte di Cassazione indica “l’attitudine (del soggetto) ad autodeterminarsi
in relazione ai normali impulsi che motivano l’azione” (Cass. 12 febbraio 1982). Il
soggetto con disturbo di personalità, in assenza di segni di reazione abnorme
(interpretabile anche come decompensazione psicotica), sarebbe perciò imputabile in
quanto consapevole del proprio atto e con una normale autonomia volitiva.
Negli USA, come da orientamento ormai generalizzato, in più Stati, appare che non è
soltanto la presenza o l’assenza della malattia mentale che produce la possibilità di
essere imputato, ma piuttosto lo stato mentale al momento del crimine. In particolare, è
l’intenzione dell’attore a causare il risultato specifico o la consapevolezza che la sua
condotta quasi certamente produrrà quel risultato. La malattia, o i difetti mentali, di per
sé, non sono fattori causativi sufficienti per produrre la non imputabilità. Il rapporto va
cercato nell’intenzionalità e nella consapevolezza delle conseguenze. Soltanto più
recentemente, sempre negli USA, si è prospettata una nuova, interessante e
probabilmente equa possibilità: l’essere “Colpevole ma Malato Mentale” (CMM).
L’American Psychiatric Association è disponibile ad appoggiare tale posizione soltanto
se l’imputato potrà essere messo in grado di ricevere un trattamento mentale adeguato,
come conseguenza del suo essere stato riconosciuto malato di mente.
6.2. Ipotesi di trattamento psicofarmacologico
Atteso che, come spesso si è verificato, in assenza come in presenza di imputabilità, il
comportamento del serial killer è spesso condizionato nei suoi cofattori scatenanti da
disfunzionalità che vanno dalle fasi maniacali della Sindrome Maniaco-depressiva, alle
manifestazioni schizofreniche vere e proprie, all’iperstimolazione ormonale-sessuale, i
farmaci attualmente a disposizione perfettamente in grado, se ben gestiti, di arginare
l’impulso ad agire con il concorso di altri presidi operativi che vedremo poi, sono: i
63
FORNARI U., Psicopatologia e psichiatria forense, UTET, Torino, 1989.
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Neurolettici quali la Tioridazina, la Clotiapina, l’Aloperidolo, la Clorpromazina, la
Periciazina (specifico); gli Antiepilettici quali la Carbamazepina; gli Stabilizzanti
dell’Umore quali il Litio glutammato ed il Litio carbonato; gli Antidepressivi quali la
Fluoxetina e la Fluvoxamina; l’Anti androgeno quale il Ciproterone, ed altri ancora.
Tutti farmaci questi da utilizzarsi nella giusta interazione tra gli stessi, variabile caso per
caso.
6.3. Ipotesi di trattamento psicoterapico preventivo e non
Tali ipotesi trattamentali prendono spunto da tecniche di riabilitazione utilizzate in
Olanda nei confronti dei pedofili, così come dai 46 Programmi Americani denominati
“Parent United” nei confronti dei responsabili di violenza carnale nell’ambito della
famiglia, in cui la recidiva si è ottenuta nell’85% nei casi non trattati e soltanto nel 5%
nei casi trattati psicoterapeuticamente.
Una proposta interessante da lanciare potrebbe far capo ad una nuova linea telefonica di
aiuto da pubblicizzare, genericamente mirata alle manifestazioni aggressive non
necessariamente sfocianti in atti omicidiari. Tale aiuto potrebbe rappresentare un vero e
proprio momento di aggancio telefonico anonimo preventivo, preludio di una ben
sistematizzata successiva psicoterapia in considerazione anche del fatto che: 1) il serial
killer non è subito tale, ma trattasi di un comportamento criminale che si apprende nel
tempo; 2) l’insoddisfazione residua più profonda è sempre registrata anche nei serial
killers potenziali i quali lamentano a posteriori l’inesistenza di un aiuto terapeutico
preventivo.
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7. LE 100 PARAFILIE PIU’ BIZZARRE
7.1. Classificazione
È bene precisare che non tutte le parafilie qui di seguito riportate, necessariamente
conducono il soggetto alla commissione di un crimine.
Si passa, infatti, dalle più “insolite” ma “innocue”, alle più “strane” ma “pericolose” in
cui il soggetto parafilico può arrivare a manifestare un insolito piacere sessuale, in
solitudine o in presenza del partner, attraverso attività a dir poco “particolari”:
Ablutofilia
Acarofilia
Acluofilia
Acomoclitic
Acrotomofilia
Agalmatofilia
Aicmofilia
Akofilia
Albutofilia
Alvinolagnia
Amaurofilia
Amelotassi
Androidismo
Antolagnia
Aracnofilia
Aretifismo
Arpaxofilia
Aulofilia
Autodermato-fagia
Automisofilia
Axillismo
Batracofilia
Belonefilia
Brachioproctismo
Eccitamento legato a bagni e docce
Eccitamento procurato dal grattarsi
Eccitamento per il buio, le tenebre
Piacere per i genitali depilati
Preferenza sessuale per soggetti amputati
Attrazione per statue e manichini
Eccitamento per aghi e altri oggetti
appuntiti
Stimolazione sessuale attraverso l’udito
Eccitamento attraverso l’acqua
Eccitamento sessuale per l’addome del
partner; detto anche feticismo dell’addome
Eccitamento con un partner cieco o
bendato
Attrazione per un partner privo di una arto
Eccitamento per robot con sembianze
umane
Eccitamento nell’annusare il profumo dei
fiori
Eccitamento per i ragni
Eccitamento per i soggetti scalzi
Il piacere che deriva dal rubare o
dall’essere derubato
Eccitamento per i flauti
Il mangiare la propria pelle e carne come
forma di masochismo erotico
Eccitamento che deriva dall’essere sporchi
L’uso delle ascelle per scopi sessuali
Eccitamento per rane e rospi
Eccitamento per aghi e spille
Il piacere sessuale che deriva
dall’inserzione di un braccio nella cavità
anale del partner
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Capnolagnia
Catagelofilia
Cateterofilia
Catoptronofilia
Chezolagnia
Chionofilia
Clismafilia
Coreofolia
Cordofilia
Coitobalnismo
Coproscopismo
Crisofilia
Crurofilia
Dismorfofilia
Dorafilia
Enditofilia
Entomofilia
Eproctofilia
Fallolalia
Genufallatio
Geusofilia
Ginelofilia
Ginofagia
Ginoticolobo-massofilia
Ibristofilia
Idrofrodisia
Ierofilia
Irsutofilia
Laliofilia
Lattafilia
Lipofilia
Mastigotimia
Eccitamento derivante dal vedere altri
fumare
Piacere derivante dall’essere ridicolizzati
Eccitamento legato all’uso di cateteri
Eccitamento dall’attività sessuale
compiuta davanti ad uno specchio
Masturbazione durante la defecazione
Eccitamento per la neve
Piacere sessuale attraverso l’uso di clisteri
Eccitamento per la danza e nel danzare
Eccitamento dall’essere legato con corde o
catene
Attività sessuale in vasca da bagno
Piacere nel vedere altri defecare
Eccitamento per l’oro o gli oggetti dorati
Eccitamento per le gambe
Eccitamento per partner deformi o
fisicamente compromessi
Passione per pellicce e pelli animali
Eccitamento per partner completamente
vestiti
Eccitamento per gli insetti o l’uso di
insetti nell’attività sessuale
Eccitamento per le flatulenze
Eccitamento legato a discorrere attorno ad
un pene ed alle sue caratteristiche
Uso delle ginocchia per pratiche sessuali;
inserzione del pene tra le ginocchia
Eccitazione attraverso il senso del gusto
Eccitazione per i peli pubici
Eccitamento legato alla fantasia di
cucinare e mangiare una donna
Piacere sessuale nel mordicchiare il lobo
dell’orecchio del partner
Eccitamento legato alla conoscenza del
fatto che il proprio partner ha commesso
atti di violenza
Eccitamento per gli odori della
traspirazione, soprattutto delle zone
genitali
Eccitamento legato all’uso di oggetti sacri
Predilezione per donne villose
Eccitamento per il parlare in pubblico
Eccitamento per il seno allattante
Attrazione sessuale per partner obesi
Eccitamento attraverso la flagellazione
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Mazoperosi
Melissofilia
Metrofilia
Nasofilia
Nebulofilia
Nosolagnia
Odaxelagnia
Ofidiofilia
Omoraschi
Ondinismo
Ozolagnia
Pantofilia
Peccatifilia
Peniafilia
Pigofilemania
Placofilia
Plusofilia
Pnigofilia
Ptiriofilia
Renifleur
Salirofilia
Schediafilia (o toonofilia)
Septofilia
Siderodromofilia
Simporofilia
Sitofilia
Gratificazione sessuale attraverso la
mutilazione del seno femminile
Eccitamento per le api
Eccitamento per le attività poetiche
Eccitamento legato al toccare, leccare o
succhiare il naso del partner
Eccitamento per la nebbia
Eccitamento legato alla conoscenza di una
malattia terminale nel partner
Eccitamento nel mordere
Eccitamento per i serpenti
Parafilia feticistica prevalentemente
giapponese, eccitamento legato alla
sensazione di avere la vescica piena o
l’attrazione sessuale per un soggetto con la
vescica piena
Il piacere sessuale di ricevere l’urina dal
partner
Eccitamento legato agli odori del corpo,
dal sudore alle urine
Eccitamento legato praticamente ad ogni
cosa immaginabile
Eccitamento legato all’aver commesso un
peccato o all’essere responsabile di un
crimine immaginario
Fascinazione erotica per la condizione di
povertà
Eccitamento che deriva dal baciare le
natiche
Attrazione per le pietre tombali
Attrazione sessuale per i pupazzi di pezza
o per soggetti vestiti con costumi animali,
come accade nei parchi giochi a tema
Eccitamento per un soggetto che sta
soffocando
Attrazione per i pidocchi
Eccitamento nell’annusare l’urina o gli
indumenti intimi
Il piacere di ingerire saliva o sudore
L’eccitamento sessuale che deriva da
tipologie o situazioni dei fumetti
Attrazione sessuale per la putrefazione e la
materia decomposta
Eccitamento legato ai treni
Eccitamento legato ad incidenti, catastrofi
o esplosioni
Il piacere sessuale legato al cibo
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Socerafilia
Sofofilia
Staurofilia
Stenolagnia
Stigiofilia
Tafefilia
Tafofilia
Tamakeri
Teratofilia
Trepterofilia
Tricofilia
Tripsolagnia
Vincilagnia
Vomerofilia
Voranefilia
Wakamezake
Xilofilia
Zelofilia
Eccitamento sessuale per la suocera
Il piacere e l’eccitamento legato
all’apprendere
Eccitamento legato alla croce o alla
crocifissione
Eccitamento per i muscoli scolpiti
Eccitamento legato alla fantasia di essere
destinato all’inferno
Eccitamento dall’essere bruciati vivi
Eccitamento legato alla partecipazione a
funerali
Una variante del masochismo, prevalente
in Giappone, dove l’eccitamento deriva da
una donna che prende a calci un uomo
nella parti intime
Eccitamento per le persone dall’aspetto
mostruoso
Predilezione sessuale per le infermiere
Eccitamento per i capelli
Piacere sessuale che deriva dal lavare i
capelli
Eccitamento legato al bondage
Attrazione sessuale per il vomito o per
l’atto di vomitare
Eccitamento al progetto di essere
mangiato da un altro essere umano
L’atto sessuale che comporta bere alcolici
dalle cavità di un corpo femminile
Eccitamento per oggetti in legno
Eccitamento sessuale nel provare una
grave gelosia
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Conclusioni
Il serial killer non è il normale cittadino, il vicino della porta accanto che,
all’improvviso, una mattina si sveglia e decide di cominciare ad uccidere.
Il suo comportamento è frutto di una storia di esperienze traumatiche iniziate nella più
tenera età e proseguite negli anni. Alcuni assassini seriali hanno subito maltrattamenti
fisici e psicologici, abusi sessuali, traumi cranici; altri possono essere condizionati da
una predisposizione alla violenza già presente alla nascita. In ogni caso, è intorno al
trauma che si costruisce la struttura della personalità del futuro killer.
Per i ricercatori, l’omicidio seriale rappresenta una modalità comportamentale unica e
originale, che fonda le proprie radici e si alimenta nella violenza.
Violenza, crimine: scienziati, filosofi e giuristi da sempre si interrogano sulle cause che
conducono l’uomo a sopraffare il proprio simile, a prevaricare, ad infliggere sofferenze,
spesso estreme, spesso gratuite, sino alla morte.
L’aggressività è un istinto umano innato ed inevitabilmente centrale nella vita
emozionale degli individui o è qualcosa che il genere umano sviluppa in modo reattivo
o difensivo rispetto ad un ambiente percepito come frustrante o minaccioso?
Come in ogni campo del sapere, è forte la tentazione di riportare ogni evento ad
un’unica spiegazione che possa risultare sufficiente e completa. Ecco quindi il
proliferare di dotti articoli su qualificate riviste scientifiche che, a seconda del momento
storico, sottolineano le caratteristiche biologiche innate, oppure lo sviluppo psicologico
disarmonico, le disturbate relazioni familiari, i maltrattamenti subiti o l’ambiente
sociale in cui il futuro serial killer è cresciuto.
Eredità biologica, cromosomi, sostanze chimiche, traumi psicologici, abusi sessuali,
fantasie sadiche e stati dissociativi.
Proviamo a ricondurre le tante possibili cause anche perché, fino ad oggi, nessuno dei
fattori illustrati è risultato di per sé sufficiente a permettere di predire con buona
certezza un futuro comportamento omicida, tanto meno con carattere di serialità.
Nel modello trauma-controllo64
64
HICKEY E., Serial Murderers and their Victims, Wadsworth, Sydney, 2002.
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il ruolo centrale è occupato da un evento significativo e destabilizzante subito
nell’infanzia. La combinazione di più eventi traumatici produce un danno ben maggiore
di un singolo insulto, secondo una logica esponenziale più che di sommaria aritmetica.
Il primo risultato osservabile nel bambino è un sentimento di autostima estremamente
bassa, che lo condizionerà per tutta la vita.
Quasi tutti gli assassini seriali appaiono infatti come soggetti profondamente disturbati
da sentimenti di inadeguatezza e da dubbi circa le proprie capacità. Insieme alla certezza
di non avere alcun valore e pregio, il bambino sperimenta la dissociazione, come pure il
potere di consolazione e salvezza delle fantasie.
Durante la sua esistenza, il futuro serial killer si espone poi a fattori facilitanti: l’uso di
alcool e droghe, il consumo di materiale pornografico, l’interesse per il mistico e
l’occulto rinforzano le costruzioni di fantasie che, gradualmente, si arricchiscono di
componenti sadiche e perverse.
L’abitudine di ricorrere all’esperienza della dissociazione, d’altro canto, se da un lato
permette al bambino di sopravvivere, dall’altro gli impedisce di adottare meccanismi
più evoluti di adattamento alle frustrazioni ambientali.
Ogni avvenimento che in età adulta riecheggi il trauma infantile potrà costituire
l’elemento precipitante un processo di ben maggiore complessità.
In conclusione, ognuno di questi tentativi si è mostrato inevitabilmente parziale; il
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comportamento criminale è comunque un comportamento umano, pertanto costituito da
un’inestricabile interazione tra eredità e ambiante. Solo un approccio integrato può farci
compiere dei passi avanti nella comprensione.
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