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ANNO XXI NUMERO 79 - PAG 2 IL FOGLIO QUOTIDIANO LUNEDÌ 4 APRILE 2016 Il primo concerto dei Rolling Stones a L’Avana. L’ultima versione del Cairo sulla morte di Giulio Regeni Cinquantamila.it, domenica 27 marzo Falsario Uno dei falsari su cui si appog- FIOR DA FIORE giava il gruppo degli attentatori di Bruxelles e Parigi per avere documenti taroccati è stato arrestato ieri a Belizzi, piccolo comune del Salernitano, su mandato della procura federale del Belgio. Si tratta di un al- gerino di 40 anni, Djamal Eddine Ouali. I poliziotti lo hanno catturato per strada, dopo una ricerca che ha coinvolto i reparti dell’Antiterrorismo. Presto sarà consegnato alle autorità belghe (Tonacci, Rep). Regeni L’ultima versione del Cairo sulla morte di Giulio Regeni – e cioè che il ricercatore sarebbe stato preso da una banda specializzata nel se- questro di stranieri a scopo di rapina composta da cinque banditi, guarda caso tutti morti in uno scontro a fuoco giovedì scorso, ipotesi avvalorata dal ritrovamento di alcuni suoi effetti personali - non solo suscita «perplessità» tra gli inquirenti italiani ma viene pure smontata dalle dichiarazioni della moglie e della sorella di uno dei presunti rapinatori, Tarek Abdel Fatah: le due donne avrebbero negato che la banda abbia ucciso Regeni, e riferito come il borsone ros- so che conteneva gli oggetti non appartenesse all’italiano ma a un amico del congiunto: secondo la moglie, solo «da cinque giorni» il borsone era arrivato in possesso del marito. Ma, sottolineano gli inquirenti italiani, anche altri oggetti mostrati dalle autorità egiziane non appartenevano a Regeni: non erano suoi nemmeno gli occhiali da sole, il portafogli e i 15 grammi di hashish, che la moglie del capobanda avrebbe detto appartenere al marito (Schianchi, Sta). Giudici di nuovo in campo. Già fecero cadere Prodi e Berlusconi. Ora la sfida è a Renzi Processi Toh, si rivede la giustizia a orologeria C La Stampa, sabato 2 aprile abrizio Cicchitto ha detto apertamente quello che Matteo Renzi sospetta e si limita a riferire a beneficio dei retroscena: «Bisogna parlare di una bomba ad orologeria fatta esplodere con il meccanismo procedurale della richiesta di custodie cautelari e la conseguente pubblicità degli atti». E poi: «Non a caso questa richiesta è stata avanzata adesso, indipendentemente dal fatto che l’indagine è stata aperta nel 2014 e in questo modo si fa esplodere la bomba proprio alla vigilia dei referendum di aprile». Il concetto di «giustizia a orologeria» sembrava ormai fuori moda, almeno da quando il massimo teorico, Silvio Berlusconi, occupa i margini della cronaca, compresa quella giudiziaria. Ed è forse la prima volta che esponenti di una maggioranza di centrosinistra – presidente del Consiglio compreso, e nonostante Cicchitto venga dal centrodestra – si esprimono così apertamente sui fini politici dell’azione giudiziaria. Eppure l’ultimo governo caduto per effetti penali è stato quello di Romano Prodi nel 2008 (l’altro era quello di Berlusconi nel 1994). Ora è preminente e comodissima la tesi secondo cui l’esecutivo era venuto giù per la corruzione del senatore Sergio De Gregorio, passato con la Casa delle libertà in cambio di finanziamenti e onori (e sempre che la teoria regga ai tre gradi di giudizio); ma F chiunque capirà il diverso peso dell’uscita dalla maggioranza dell’Udeur di Clemente Mastella ministro della Giustizia. La moglie Sandra Lonardo era stata arrestata e messa ai domiciliari per una serie di accuse che otto anni dopo sono evaporate o disperse, e Mastella, in lite con un molto turgido Antonio Di Pietro, chiedeva a Prodi solidarietà. Fra i due, il Professore scelse naturalmente l’alleato prossimo alla magistratura, e Mastella votò la sfiducia. È complicato sostenere che a Potenza coltivino progetti politici e calibrino i tempi d’intervento, anche perché dell’inchiesta in sé si è capito poco, nulla di quanti denari siano eventualmente girati, in che cosa consistano gli atti corruttivi e se non siano piuttosto di lobbying, ma tutto delle imbarazzanti implicazioni della ministra Federica Guidi e del suo fidanzato. È uno schema abbastanza ripetitivo. Pochi ricorderanno il nome di Ercole Incalza, nessuno i contorni degli addebiti con cui la procura di Firenze lo ha arrestato un anno fa, ma tutti del tracollo del ministero delle Infrastrutture retto da Maurizio Lupi e di cui Incalza era altissimo dirigente. Poche settimane fa Incalza è stato prosciolto nel disinteresse generale, e alla fine l’azione della procura magari non aveva obiettivi politici ma le conseguenze sono state tali, e gravi. Dall’inizio della Seconda repubblica la maggior causa di mortalità in politica è dipesa dalle inchieste della magistratura, non sempre concluse con successo, spesso con con- danne decisamente ridimensionate rispetto ai presupposti, altre volte con il trionfo pieno degli imputati (il caso di Calogero Mannino, assolto dopo quattordici anni da accuse di mafia è il più notevole) e viene in mente per esempio l’inchiesta Why Not di Luigi De Magistris, una specie di kolossal giudiziario in cui era finito dentro chiunque, da Prodi in giù. Alla fine i condannati saranno stati cinque o sei su una cinquantina, e il pubblico ministero è stato premiato con la fama e l’elezione a sindaco di Napoli. Dimostrare la premeditazione di De Magistris è impossibile e inutile, però è dura trattenere il sospetto che tante inchieste contro la politica (così scalcagnata da offrire occasioni a ripetizione) dipendano almeno in parte dal rilievo che hanno in tv e sui giornali, dalla reputazione che garantiscono, dall’assenza di conseguenze in caso di errore, soprattutto dalla guerra fra politica e magistratura cominciata con Mani pulite nel 1992, e davanti alla quale una classe dirigente corrotta e squalificata, anche se ben oltre i suoi demeriti, accettò di arretrare. Un regola classica delle dinamiche istituzionali dice che un potere tende per sua natura ad espandersi: quello giudiziario ha occupato lo spazio lasciato libero da esecutivo e legislativo e, sempre per sua natura, non accetta di cederlo. Berlusconi e Prodi, per motivi opposti, hanno perso la partita. Ora sembra volerla riprendere Renzi, e promette di essere una partita avvincente. Mattia Feltri Raggi e dintorni, i numeri su Roma Corriere della Sera, sabato 2 aprile ello scorso mese di febbraio aveva destat o molta sorpresa la dichiarazione della senatrice Taverna secondo la quale a Roma ci sarebbe stato un complotto per far vincere il Movimento 5 Stelle. Sembrava una provocazione, come se i principali partiti di fronte al compito improbo di amministrare la capitale d’Italia si stessero impegnando per non vincere. I risultati del sondaggio odierno, realizzato presso un campione rappresentativo di elettori romani, sembrerebbero confermare il presagio dell’esponente pentastellata. Roma appare una città fortemente provata, e non solo dalla vicenda dell’inchiesta Mafia capitale. Più di un romano su due (56%), infatti, esprime un giudizio negativo sulla qualità della vita nella propria zona di residenza laddove il confronto con le altre città metropolitane evidenzia che due residenti su tre (61%) si esprimono positivamente. A tre mesi dalle elezioni abbiamo testato notorietà e gradimento dei diversi candidati che potrebbero contendersi la poltrona di sindaco e gli orientamenti di voto. Come sempre si ricorda che si tratta di una fotografia istantanea che ritrae gli attuali rapporti di forza tra i contendenti e non la prefigurazione dell’esito finale delle elezioni. Inoltre va sottolineato che N le interviste si sono concluse prima dell’annuncio della mancata candidatura del sindaco uscente Ignazio Marino che, viceversa, compare nel sondaggio. Riguardo al gradimento è interessante osservare che con la sola eccezione di Virginia Raggi per la quale i giudizi positivi (27%) prevalgono di 2 punti su quelli critici (25%), per tutti i candidati il saldo è negativo, in particolare per Storace (-53%), Marino (51%), Bertolaso (-42%), Fassina (-37%) e Razzi (-36%). D’altra parte le vicende politiche recenti e le dinamiche che hanno portato alle diverse candidature hanno acuito tensioni all’interno degli elettorati delle aree politiche. In particolare nel centrodestra dove con ogni evidenza appare in corso una competizione per la leadership nazionale. Salvini sostiene Giorgia Meloni, osteggiando sia la candidatura di Bertolaso, fortemente sostenuta da Berlusconi, sia quella «civica» di Alfio Marchini. Virginia Raggi al momento si colloca in testa alla graduatoria delle intenzioni di voto con il 27,5% delle preferenze, seguita da Roberto Giachetti (22,5%), Giorgia Meloni (20%) e, più staccati, Guido Bertolaso (12%) e Alfio Marchini (6,5%). Il sindaco dimissionario Ignazio Marino che, come detto, non si candiderà è accreditato del 4%. L’area «grigia» costituita da astensionisti (36,3%) e incerti (15,5%) è molto ampia e riguarda poco più di un romano su due. Sebbene sia poco opportuno sommare algebri- Come è stato scrivere un libro di 1.294 pagine Il più lungo romanzo italiano di sempre (quasi) camente le intenzioni di voto per Meloni e Bertolaso, l’area del centrodestra presenta un risultato di grande interesse. Tenuto conto di ciò che potrà avvenire nelle prossime settimane, proprio nello schieramento di centrodestra (possibile ritiro di candidature per ridurre la frammentazione e convergere su un solo nome), nel sondaggio abbiamo voluto testare diverse ipotesi di ballottaggio. Virginia Raggi oggi prevale contro tutti i possibili competitori: nettamente contro Bertolaso (59,8% a 40,2%), abbastanza nettamente contro Giachetti (55,4% a 44,6%) e di misura contro Meloni (50,9% a 49,1%). Nel caso di ballottaggio tra il candidato del Pd e uno di centrodestra, Giachetti prevarrebbe su Bertolaso (52,9% a 47,1%) ma risulterebbe sconfitto da Giorgia Meloni (46,3% a 53,7%). Infine, nella remota ipotesi di un ballottaggio tra esponenti di centrodestra, Meloni si affermerebbe con un largo vantaggio su Bertolaso (63,3% a 36,7%). Quanto all’orientamento di voto per i partiti, oggi il 57,3% si dichiara incerto o intenzionato a non esprimere una scelta preferendo astenersi. Si tratta di un valore molto vicino al tasso di astensione registrato in occasione delle Comunali di tre anni fa (56,8%). Il Movimento 5 Stelle capeggia la graduatoria con il 29,8% delle preferenze, in crescita rispetto a tutte le consultazioni precedenti. A seguire il Pd con il 24,8%, in forte calo rispetto alle Europee (quando ottenne il 43,1%) e in calo più contenuto rispetto alle precedenti comunali (26,3%%, quando però la lista Marino ottenne il 7,4%). A seguire Fratelli d’Italia (11,8%), che raddoppia il consenso rispetto alle precedenti comunali (5,8%) e scavalca Forza Italia che si attesta a 11%. A sinistra Sel (3,6%) e Si (2,6%) ottengono lo stesso risultato di Sel alle europee (6,2%). Quindi, Lega Nord (3,6%, in crescita) e Lista Marchini (3,4%). Il quadro che emerge, quindi, è piuttosto articolato. Raggi e il Movimento 5Stelle sono in testa ma fatica ed emergere un orientamento univoco. Nessuno sembra convincere la maggioranza dei romani della bontà delle proprie scelte e della possibilità di un cambiamento. E, d’altra parte, con il commissario Tronca sono emerse altre vicende che hanno indignato molti romani, dagli appalti pubblici alla vicenda delle case comunali date in affitto a canoni bassissimi, talora nemmeno riscossi. Metter mano all’amministrazione di Roma è un compito difficile e ingrato che probabilmente comporterà scelte impopolari. Molti si domandano se non sarebbe stato utile prolungare la durata del commissariamento anziché andare ad elezioni. Roma è una città ferita. Chiunque vincerà le elezioni è chiamato non solo a cambiare profondamente la situazione ma dovrà porsi il problema di riportare serenità e ridare alla popolazione un senso di appartenenza e un orgoglio che sembrano mancare da troppo tempo. Nando Pagnoncelli il Post, giovedì 31 marzo n una classifica improvvisata – quindi aperta a ogni contributo e suggerimento – dei libri italiani noti più lunghi e pesanti (in senso letterale) di sempre, La scuola cattolica di Edoardo Albinati è terzo, ma primo nella categoria romanzi e in quella dei libri usciti in volume unico. 1. Giacomo Casanova, Storia della mia vita, Mondadori, 1.964, 7 volumi, 5591 pagine; 2. Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri, Oscar Mondadori, 4.615 pagine, 2 Kg; 3. Edoardo Albinati, La scuola cattolica, Rizzoli, 1.294 pagine, 1,3 kg; Stefano D’Arrigo, Horcynus Orca, Rizzoli, 1.125 pagine 907 g; Antonio Moresco, Canti del caos, Oscar Mondadori, 1.074 pagine, 699 g; I Libero, venerdì 1° aprile redo che al Codice di procedura penale andrebbero aggiunti tre commi che dicano più o meno questo: 1) La celebrità di un caso giudiziario aumenta coattivamente lo sforzo profuso per risolverlo; 2) Indagini e dibattimenti di assunta rilevanza mediatica, riguardanti personaggi pubblici o divenuti tali a seguito delle accuse, hanno diritto a una celebrazione più rapida rispetto a fascicoli con caratteristiche differenti; 3) Indagini e dibattimenti per reati che dèstino particolare riprovazione nell’opinione pubblica autorizzano l’irrogazione di una pena maggiorata. Fine. Traduzione: è inutile fingere che anche il processo ad Alexander Boettcher non sia filato come una lippa (per motivi mediatici) e che la pena non sia stata altissima (37 anni totali) anche per via di una «odiosità» che il Codice non contempla. È inutile dimenticare che il caso Cogne ha celebrato tre gradi in tre anni, che per il caso di Avetrana mancava solo l’Interpol, che il caso di Yara ha registrato un dispendio di mezzi sconosciuto alla norma, che in Mani pulite c’è stata gente giudicata in due anni e altra che aspettava il primo grado dopo dieci, che se la giustizia italiana funzionasse come per Berlusconi sarebbe la più veloce del globo, che alcuni processi battono record di velocità e altri scivolano nell’oblio, che l’impulso o la palude siano decisi da magistrati che non sono Legge, sono uomini. Filippo Facci Tassi Il Sole 24 Ore, giovedì 31 marzo assi negativi, sì. Ma senza sconfinare nel ridicolo, come per esempio “se intendere che la cedola (di un titolo di Stato a tasso variabile, ndr.) possa assumere valori negativi, e in tal caso come riscuotere il relativo controvalore da ogni singolo investitore”. Questo quesito se l’è dovuto porre il Tesoro italiano, uno dei più grandi emittenti di titoli di Stato al mondo e, tra tutti i grandi debitori sovrani, quello che gestisce la più variegata gamma di strumenti di raccolta. L’Italia, caso raro, emette titoli di Stato a cedola variabile, un’eredità risalente ai tempi del debito rifinanziato dai Bot-people. Il titolo di Stato a cedola variabile indicizzata al Bot (il vecchio Cct) oppure al tasso interbancario Euribor (il Ccteu come quello collocato ieri in asta) di questi tempi deve fare i conti con parametri di riferimento che viaggiano sotto zero. Il ridicolo non è ancora stato sfiorato perchè il Tesoro paga uno spread sopra i Bot (+0,30%) e sopra l’Euribor (+0,70%): un cuscinetto c’è. Tuttavia andava evitato il peggio, un giorno in cui al pagamento della cedola fosse il risparmiatore a dover pagare un tasso d’interesse al Tesoro e non viceversa. La circolare emanata dal Mef alla vigilia dell’asta dei Ccteu di ieri risolve il caso con un parere dell’Avvocatura generale dello Stato secondo la quale “si deve escludere che eventuali cedole virtualmente negative possano dar luogo a recuperi di interessi a carico dei possessori, oppure a decurtazioni a valere su cedole successive” o capitale. Cct e Ccteu dunque “in caso di tassi di rendimento negativi hanno cedola minima pari a zero”. Gli investitori, esteri e non, possono tirare un respiro di sollievo ma per il Tesoro questo “floor” implica in automatico la rinuncia al maggior risparmio sulla spesa per interessi che sarebbe dato da un tasso negativo di Bot o Euribor oltre lo spread. Isabella Bufacchi T Cuba Oltre 250 mila spettatori erano presenti nel grande piazzale della Ciudad Deportiva dell’Avana per il primo concerto dei Rolling Stones. Dopo il primo pezzo, Jumping jack flash, Mick Jagger, in camicia color granata, ha cantato It’s only rock and roll e ricordato gli anni in cui a Cuba Fidel Castro aveva proibito la musica rock, dai Beatles agli stessi Stones. Perché, dopo l’abbraccio della rivoluzione cubana con l’Urss, quella anglosassone era considerata «musica sovversiva», simbolo della decadenza del capitalismo occidentale. Il concerto gratuito dell’Avana è stato anche l’ultimo del tour latinoamericano dei Rolling Stones che prima avevano suonato in Uruguay, Perù, Colombia, Brasile e Messico. Ma era sicuramente il più importante perché si è svolto subito dopo la visita di Obama, la prima di un presidente americano nell’isola dopo 88 anni (Ciai Rep). martedì 29 marzo Strage Dopo l’attentato kamikaze di ieri nel parco di Gulshan-e-Iqbal a Lahore, Pakistan, Papa Francesco ha lanciato un appello da San Pietro nel corso della cerimonia del Regina Coeli: «Nel Pakistan centrale, la Santa Pasqua è stata insanguinata da un esecrabile attentato, (segue nell’inserto I) Elsa Fornero: «Su di me fango maschilista, non solo ideologico. Vincerò su Salvini con il piacere di spiegare» la Repubblica, sabato 2 aprile ignora Fornero, che impressione le fanno quegli energumeni sotto la sua casa, a San Carlo Canavese? «Di una cosa sono sicura: alla fine tra me e Salvini vincerò io, perché ho dentro una forza morale che S lui non ha». Anche il buonumore, mi pare. Lui ride spesso, lei invece sorride. E la gente non lo sa, ma lei non si sente così fragile e così emotiva come dicono. «Quando vado in bicicletta, proprio a San Carlo, il paese che Salvini sta rendendo famoso, mi passano accanto persone che mi salutano, ma anche persone che mi mandano maledizioni. E sono imprecazioni forti, anche se meno gravi di quelle che mi sono arrivate per altre vie. Io non mi arrabbio, sorrido e spesso li invito a fermarsi: “Se vuole, le spiego“. E gli amici mi dicono: “ma Elsa, come fai a sopportarli”?». Ieri hanno manifestato sotto la pioggia davanti a una casa vuota. «È una casa a due piani, nulla che fare con l’idea della villa. Era la casa dei miei genitori, che noi abbiamo un po’ ristrutturato. Il pianterreno è mio, il primo piano di una mia sorella. Io ci vado nel weekend, lei soprattutto l’estate. Ci sono le mie radici, ritrovo le mie piante». San Carlo è un paese industriale. Come atlante delle emozioni non è il natio borgo selvaggio. Oltre la siepe … «C’è Torino, a venti chilometri. La gente si svegliava la mattina e andava a lavorare alla Fiat. E molti erano immigrati: veneti, calabresi. Appena fuori c’è anche il poligono militare dove mio padre faceva la guardia. E poi comincia la Vauda». La brughiera. «Mario Soldati diceva che non si conosce il Piemonte se non si conosce la brughiera». Lei è tutta piemontese? Non c’è il Meridione nella sue origini? Lo stereotipo dice: distaccato e gentile, guardingo e a sangue ghiaccio. Questo le manca. «Sono tutta piemontese. E non sono una donna fragile». È vero che a San Carlo ci sono altri Fornero e che anche loro ricevono lettere di insulti? Nell’Italia dominata dalla logica del cognome questa sua storia è molto singolare. «Fornero è un nome molto diffuso dalle mie parti. Sono davvero tanti i casi di omonimia. Ma ci sono anche cugini lontani. Tutti hanno avuto la loro razione» . Oltre ai cugini lontani, chi vive lì della sua famiglia d’origine? «Papà e mamma sono morti. C’è una mia sorella. E due vecchie zie, una di 90 e l’altra di 87 anni». Immagino che siano in pensione. Che le dicono? Avrebbero mai immaginato che Fornero sarebbe diventato il nome della riforma più controversa della storia d’Italia, dopo quella agraria? «Prima non capivano bene. E ovviamente erano molto protettive. Ora si sono abituate a tutto». In famiglia discutete di pensioni? C’è qualcuno che la critica? «Certo che discutiamo. Ma il problema non sono le critiche, che arricchiscono la vita». Dove sono arrivate le minacce? «Ne ho subite di ogni genere». L’augurio di ammalarsi? «Sì». Promesse di botte? «Sì». Di morte? «Sì». La più odiosa? «Gli attacchi a mia figlia. Hanno scritto e detto che nella sua carriera era favorita dal cognome. Purtroppo è vero il contrario». Lei ha due figli, uno maschio che fa il documentarista e appunto Silvia, l’oncologa. Immagino che anche il cognome del padre, Deaglio, pesi molto su di loro. «Certo, ma è un peso diciamo così più naturale». C’è un sito che si chiama Corriere della Pera che ha scritto che sua figlia a 39 era già in pensione. Ebbene, questa bufala sui social è diventata notizia, poi indignazione, infine insulto: decine di migliaia di condivisioni, rabbia, violenza. Ippolito Nievo, Le confessioni d’un italiano, Marsilio, 1.022 pagine, 662 g; Antonio Moresco, Gli increati, Scrittori Mondadori, 1.013 pagine, 1,3 Kg; Oriana Fallaci, Insciallah, Rizzoli, 865 pagine, 939 g. Prima che per la sua importanza letteraria – Rizzoli lo ha candidato al premio Strega – quindi, il nuovo romanzo di Albinati va descritto come un oggetto fisico, cercando di capire se il suo contenuto abbia qualcosa a che fare con la sua eccezionale lunghezza: 1.294 pagine di carta bianchissima appena tendenti al crema – Pamo Super da 50 grammi – che scivolano sottili sotto i polpastrelli dando una sensazione simile a quella che si prova sfogliando un messale o una bibbia. In copertina un cielo color vergine Maria sovrasta un condominio giallo canarino dalle parti di Piazza Tuscolo a Roma, ma sotto la sopraccoperta il libro «Inutilmente qualcuno ogni tanto ha fatto notare che non è vero e non è neppure verosimile. Ci credono lo stesso. Ma come fa uno a difendersi da questo fango? Devo mandare una lettera di smentita al Corriere delle Pera? Proprio a San Carlo mi ha fermato un signore, un uomo colto e gentile, che mi ha chiesto, anche lui!, se è vero che mia figlia è in pensione». Ha mai fatto analisi, va in Chiesa? «Dalla psicanalisi mi hanno salvato la solidità dei miei valori e la mia famiglia. Per quanto riguarda la Chiesa sono cattolica, ma imperfetta». Come la sua riforma? «Più imperfetta». C’è una certa Italia con il brutto ceffo dei bravi manzoniani che purtroppo non impara mai e non cambia mai. «E però anche in Europa non è facile fare le riforme. Fanno impressione gli scontri di piazza in Francia, lo sciopero, gli aeroporti chiusi. Alla fine Hollande dovrà modificare la sua riforma del lavoro». Certo, ma la lotta di classe è ancora politica, non è squadrismo ad personam. «In Italia si imbocca sempre la scorciatoia, e la dialettica diventa turpiloquio, l’opposizione insulto. In questo senso mi piace la voglia di Renzi di cambiare il Paese con le riforme, magari anche sbagliando». Visto che spiegare è rimasta la sua cifra, stavo per dire la sua ossessione, proviamo a capire perché Fornero non è più un cognome ma un aggettivo negativo. Io penso che c’entri molti l’associazione del duro con il fragile: la riforma delle pensioni e le lacrime. È insomma passata l’idea della doppiezza: Machiavelli e il melodramma. «Lo so. E mi dispiace perché non è per niente così. Davvero quelle furono due lacrimucce di emozione. Avevo scritto la riforma in venti giorni, accumulando una tensione terribile. E bisogna ricordare che erano momenti drammatici per l’Italia. Ovviamente sapevo di avere pensato una riforma che toccava punti molto vulnerabili. E sapevo anche che la fatica accumulata era nulla rispetto a quella che mi attendeva. Infatti spiegare la riforma fu più difficile che scriverla». C’è riuscita? «Non ancora. Ed è su questo che i vari Salvini si avventano rendendo tutto ancora più torbido. Ma io ce la farò. Adesso, per esempio, sto organizzando la Giornata della Previdenza, sicuramente a maggio, spero il 7. Chiederò un’aula al mio rettore e mi metterò a disposizione di chiunque voglia capire. Per disarmare i Salvini non ho altro che la ragione e le mie ragioni » . Ma perché non manifestano davanti all’Inps o davanti al Parlamento? Quando ho letto che Salvini sotto casa sua ha detto «meno male che la Fornero non c’è perché mi prudono le mani» ho pensato che persino un disarmato gli avrebbe mollato due schiaffoni. «È quel che cerca: la reazione, il duello, lo scontro. Ai carabinieri che mi chiedevano io ho detto che era meglio non intervenire». Chissà quanti conduttori televisivi le propongono il duello. «In genere una volta la settimana. In certi periodi ogni giorno. Adesso anche due volte al giorno. Ma il duello richiede un codice comune». Già. Il nemico legittimato, si sa, è il proprio doppio, come la luce e il buio, il caldo e il freddo. Qui… «Niente di tutto questo. Non c’è alcun duello possibile. Guardi che nella volgarità che in questi anni mi è arrivata addosso c’è anche il maschilismo italiano, che non è solo uno spettro ideologico». Vuole dire che se lei fosse stato il professor Fornero, alto, grande e con due mani nodose… «Penso che non solo Salvini mi avrebbe insultato in un altro modo. Vedo infatti molta meschinità d’animo». Anche Grillo non le ha risparmiato ruvidezze. «Usò un linguaggio ancora più brutto del solito». E lei ricordò di averlo visto in Ferrari. «Ero in Liguria e arrivò lui come Mangiafuoco in mezzo al fumo e al chiasso della sua Testarossa. Devo dirle però che i grillini sono spesso animati da una pas- appare bianco come il vestito del papa. Il protagonista del romanzo – parzialmente autobiografico e scritto in prima persona – è l’Istituto San Leone Magno di via Nomentana a Roma, una scuola maschile gestita dai preti e frequentata da una certa borghesia e piccola borghesia romana cattolica, molto attenta – la scuola – anzi quasi ossessionata, dal decoro. Al San Leone Magno, negli anni Cinquanta, aveva studiato Sergio Mattarella. A metà degli anni Settanta, della scuola si parlò molto perché tra gli allievi c’erano stati Gianni Guido e Angelo Izzo, due dei giovani – l’altro, Andrea Ghira, frequentava il Liceo Giulio Cesare, dove Albinati concluse l’ultimo anno – che a fine settembre 1975 seviziarono due ragazze di 19 e 17 anni, Rosaria Lopez e Donatella Colasanti, uccidendo la prima. Il «massacro del Circeo» è il centro del libro, il tema intorno a cui tutto ruota e allude, an- sione sincera. Ne ricordo uno che mi accolse con espressioni durissime come “killer degli italiani” e via di seguito. Gli dissi: “Se mi permette, cerco di spiegarmi”. Mi ascoltò con attenzione e, alla fine, mi sorrise e mi augurò buon lavoro. Le persone sincere sentono subito la sincerità degli altri». E la sinistra? L’hanno lasciata sola? «Spiegare la riforma è il lavoro che avrebbe dovuto fare la politica. Me l’aspettavo in particolare dal Pd. Mi immaginavo che, una volta fatto il lavoro, il mio partito di riferimento sarebbe intervenuto, magari anche per correggere, ma sicuramente per far capire». È iscritta? «Mai stata iscritta, ma sono di sinistra e, se la parola avesse ancora un senso, direi di sinistra moderata». Voterebbe ancora Pd? «Questo non lo so, vedremo». Ma dal Pd qualcuno le avrà pure telefonato. Non le hanno espresso solidarietà? «No. E mi ferisce questa solitudine». Alcuni dicono che anche Mario Monti ha scaricato tutto su di lei. È vero? «No. Sino a ieri sera tardi mi ha telefonato ». Il sindacato si è mobilitato contro la riforma. Oggi la Cgil scende in piazza. «Certo, sono diversi da Salvini. Ma proprio per questo più deludenti. Se guardi una foto di Salvini capisci subito che è un imbroglia popolo. Il sindacato invece …». Forse l’idea del lavoro in Italia è più «olio e grasso» che «perle e libri»? «Sono figlia di un operaio. Lui mi ha insegnato l’importanza dello studio e del decoro. I suoi valori sono i miei. Ricordo che vennero in più di mille ad un incontro in un hangar dell’aeroporto di Caselle. Parlai e mi capirono. E, andando via, in tanti vollero stringermi la mano. Guardi, io penso che le riforme siano organismi vivi, che possono e che debbono cambiare, ma di sicuro quella riforma è stata fatta al servizio del Paese, dell’equilibro tra le generazioni, nell’interesse degli italiani». Anche nel linguaggio del sindacato c’è stata inciviltà? «La parola è forte, ma non completamente inappropriata». Sapeva da ministra che le pensioni dei sindacalisti, dei distaccati, si formano grazie a una doppia contribuzione? «No. E non capisco come Bonanni possa difendere la sua pensione». Un’ingiustizia? «Un privilegio. Ma i sindacalisti nascono per combattere i privilegi». Mi hanno detto che lei ha rifiutato il trattamento pensionistico dovutole come ministro. Dunque si accontenterà della pensione che le spetta come professore. È circa la metà. «Preferirei che non scrivesse di questo. Glielo chiedo con forza». Lei non ha mai avuto rapporti facili con la stampa. «No. Devo dirle che spesso i giornalisti hanno travisato il mio pensiero. Credo di aver capito che solo la polemica vi attira. Un suo giovane collega mi ha detto: ci pagano dieci euro a pezzo, e accettano l’articolo solo se è polemico». La sua reputazione per 10 euro? «Non dico questo, e magari ho commesso errori anche io. Ma certo è un campo minato». Ho letto che in Inghilterra vogliono alzare di molto l’età pensionabile. «E anche in America, vogliono superare i 67 anni. Si va verso la flessibilità. E non solo perché cresce l’aspettativa di vita, ma anche perché aumenta il numero di chi ama lavorare. È già così per molti professori, forse pure per i giornalisti, ma il lavoro alienato esiste eccome, provi a chiedere ad un metalmeccanico quanto si sente realizzato». Dovremmo privarci del lavoro di Scalfari, oppure impedire a Morricone di comporre e a Muti di dirigere? Ci sono bellissime vite di lavoro che a sessant’anni rifioriscono. «Io insegnerei anche gratis. Adesso però mi deve promettere che faremo un’altra intervista solo sulle pensioni». Sicuro. Ma con un altro giornalista. È una materia in cui mi perdo. «Ragione di più per farla. Spiegare è il mio piacere». Francesco Merlo che se occupa solo una piccola parte del romanzo. La scuola cattolica procede di digressione in dilazione, descrive le ore di ginnastica, i corpi dei ragazzi e gli scherzi tra i compagni, le lezioni e i professori, il rapporto intensissimo tra i maschi adolescenti e il pensiero del sesso, e quello con la religione e con l’impostazione della scuola: apre continue parentesi, sottolineandole e rimandando più avanti la trattazione di questo o quell’altro argomento, come se il tema e l’intento del libro – ricostruire un ambiente preciso in un periodo preciso, capire il rapporto tra violenza e apparenza – abbiano imposto un approccio laterale e circolare (più avanti si potrà leggere un estratto della parte iniziale del libro, ndr). Anche per questo, le dimensioni fisiche del libro generano un sacco di domande. La scuola cattolica avrebbe potuto essere più corto? Ha (segue nell’inserto I) ANNO XXI NUMERO 79 - PAG I IL FOGLIO QUOTIDIANO LUNEDÌ 4 APRILE 2016 Il pr che faceva sesso coi ragazzini e poi li ricattava coi video. L’aereo dirottato a Cipro da uno squilibrato che ha fatto strage di tante persone innocenti, per la maggior parte famiglie della minoranza cristiana — specialmente donne e bambini — raccolte in un parco pubblico per trascorrere nella gioia la festività pasquale». Poi, in serata, è emerso un bilancio secondo cui la maggioranza dei 71 morti e 250 feriti potrebbero essere musulmani. La rivendicazione è di una fazione dei ta(segue da pagina due) lebani pachistani. Il Pakistan ha dichiarato tre giorni di lutto. L’esercito ha lanciato blitz ia Lahore e in altre due città del Punjab, arrestando 50 sospetti e sequestrando armi e munizioni; il kamikaze è stato identificato come Muhammad Yousaf Farid, reclutatore ventottenne del sud della regione (Mazza, Cds). Terroristi Nell’estate di un anno fa Sarà più di un semplice referendum sulle trivelle Corriere della Sera, giovedì 31 marzo vanza a fari spenti un referendum. Pochi s’accorgono della sua marcia silenziosa, e forse saranno anche di meno gli italiani che monteranno a bordo, quando il veicolo avrà raggiunto le urne elettorali. D’altronde si tratta d’un quesito minimo, minuscolo: sì o no alle trivellazioni sull’Adriatico, però entro le 12 miglia dalla costa, però senza toccare l’estrazione di gas e di petrolio in terraferma o in mare aperto, però senza interrompere le trivellazioni in corso, però senza nemmeno incidere sulle future concessioni, già vietate dalla legge. È in gioco unicamente l’eventualità che le compagnie petrolifere ottengano una proroga finché non s’esaurisca il giacimento, tutto qui. Pinzillacchere, direbbe Totò. Tuttavia non è affatto sicuro che questo referendum ci interroghi su questioni trascurabili. Nessuna consultazione popolare è mai insignificante, quale che sia il suo oggetto. Perché ogni referendum espone sempre un doppio tema: l’uno diretto, che si legge nella domanda trascritta sulla scheda elettorale; l’altro indiretto, dove s’affaccia viceversa una rete d’allusioni e di rimandi, un’evocazione, una carica simbolica. Così, nel 1985 il referendum sulla scala mobile segnò l’isolamento del Pci. Così, nel 1991 il referendum sulla preferenza unica modificò un dettaglio della legge elettorale, ma avviò al contempo i funerali della Prima Repubblica. Probabilmente in questo caso non scriveremo un’altra pagina di storia. Sennonché pure stavolta c’è un significato ulteriore rispetto a quello più immediato. Anzi: i doppi sensi sono almeno il doppio, sono quattro. Primo: il risvolto istituzionale. Il 67º referendum abrogativo dell’Italia repubblicana è anche il primo promosso dalle Regioni. Dalla Liguria alla Calabria, dal Veneto alla Puglia, sono addirittura nove i Consigli regionali che hanno puntato l’arma referendaria contro una legge benedetta dal governo nazionale. Regioni settentrionali e meridionali, amministrate dalla destra oppure dalla sinistra. Dunque si profila uno scontro fra poteri, ancor prima che fra partiti e movimenti. La posta in gioco: chi decide sull’energia? Secondo la Costituzione vigente, decidono insieme lo Stato e le Regioni; secondo la Costituzione prossima ventura, deciderà solo lo Stato. E allora ecco, puntuale, la reazione. Che non ha mai troppo riguardo alle bandiere di partito, quando c’è da presidiare l’orticello delle proprie competenze. E che oltretutto associa nove governatori eletti, contro un presidente del Consiglio non eletto. Sicché il referendum potrà delegittima- A IL FOGLIO quotidiano Direttore Responsabile: Claudio Cerasa Condirettore: Alessandro Giuli Vicedirettori: Maurizio Crippa e Marco Valerio Lo Prete Coordinamento: Piero Vietti Redazione: Giovanni Battistuzzi, Annalena Benini, Alberto Brambilla, Eugenio Cau, Stefano Di Michele, Mattia Ferraresi, Luca Gambardella, Matteo Matzuzzi, Giulio Meotti, Salvatore Merlo, Paola Peduzzi, Giulia Pompili, Daniele Raineri, Marianna Rizzini, Vincino. Giuseppe Sottile (responsabile dell’inserto del sabato) Editore: Il Foglio Quotidiano società cooperativa Via Carroccio 12 - 20123 Milano Tel. 02/771295.1 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 Presidente: Giuliano Ferrara re i primi, rilegittimare il secondo: un torneo a eliminazione diretta. Secondo: il risvolto politico. Come succede fatalmente da un paio d’anni, ogni occasione diventa altresì un pretesto per regolare i conti all’interno del Pd; e infatti maggioranza e minoranza militano in due fronti contrapposti. Ma quest’ultima si trova in compagnia, più o meno rumorosa, della Lega, i Cinque Stelle, pezzi di Forza Italia, Sel. Guardacaso, lo stesso schieramento che si prepara ad affrontare la madre di tutte le battaglie, il referendum costituzionale d’ottobre. Il 17 aprile ne vedremo perciò le prove generali, e sarà un gran bel vedere. Terzo: il risvolto giuridico. Doppio anche questo, perché il nostro ordinamento contempla, da una parte, il dovere civico del voto; sicché nei referendum organizzare l’astensione è «un trucco», un espediente per far saltare il quorum, come denunziò Norberto Bobbio nel giugno 1990. Dall’altra parte, concepisce il voto come diritto, e i diritti non sono obbligatori, ciascuno può scegliere se e quando esercitarli. Perciò è legittimo ogni appello all’astensione, tanto più che i costituenti dettarono un quorum per la validità dei referendum. È questa la posizione del Pd sulle trivelle, ma i precedenti sono più lunghi d’un lenzuolo. Tuttavia due norme in vigore (l’articolo 98 del testo unico delle leggi elettorali per la Camera; l’articolo 51 della legge che disciplina i referendum) castigano l’astensione organizzata da chiunque sia «investito di un pubblico potere» con pene detentive (da 6 mesi a 3 anni). Sono norme figlie d’una stagione ormai trascorsa, quando votava il 90% della popolazione, quando l’astensionista doveva addirittura giustificarsi presso il sindaco. Ma sta di fatto che a nessun governo è venuto in mente d’abrogarle. Quarto: il risvolto ambientale. Dovrebbe essere al centro della consultazione, ed è così, quantomeno a parole. Sennonché in questo caso non si tratta di proteggere l’udito dei cetacei minacciato dall’air-gun, come sostengono le associazioni ecologiste; tutto sommato non si tratta nemmeno d’opporre ambiente e occupazione, come prospettano i sindacati. No, la posta in palio investe la credibilità delle classi politiche regionali, che rifiutano la trivellazione, però allevano i colibatteri nelle acque dell’Adriatico, disinteressandosi dei depuratori così come di controllare i fiumi. E investe perciò il progetto stesso d’una politica ambientale, lungimirante, coerente, complessiva, dove ci sia anche spazio per le energie rinnovabili. In Italia coprono il 17% dei consumi; in Norvegia, Islanda, Svezia, oltre la metà. Non a caso Avvenire, per sposare il referendum, ha richiamato le parole di Bergoglio, il monito papale contro le tecnologie basate sui combustibili. Il 17 aprile voteremo anche sul papa. Michele Ainis Redazione Roma: Lungotevere Raffaello Sanzio 8/c 00153 Roma - Tel. 06.589090.1 Fax 06.58335499 Registrazione Tribunale di Milano n. 611 del 7/12/1995 Tipografie Stampa quotidiana srl - Loc. colle Marcangeli - Oricola (Aq) Qualiprinters srl - Via Enrico Mattei, 2 - Villasanta (Mb) Distribuzione: Press-di Distribuzione Stampa e Multimedia S.r.l. - Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (Mi) Concessionaria per la raccolta di pubblicità: A. MANZONI & C. SpA – Via Nervesa, 21 – 20139 Milano tel. 02.574941 Pubblicità legale: Il Sole 24 Ore Spa System Via Monterosa 91 - 20149 Milano, Tel. 02.30223594 e-mail: [email protected] Copia Euro 1,50 Arretrati Euro 3,00+ Sped. Post. ISSN 1128 - 6164 www.ilfoglio.it e-mail: [email protected] ancora senso un libro così lungo con tutti i classici ancora da leggere in attesa di attenzione, e in tempi di accorciamento delle durate di lettura? Qualcuno ha ancora il tempo e la concentrazione per tante digressioni? Si sarebbe potuto tagliare di più in fase di editing? L’editore poteva decidere di pubblicarlo in due parti? Come si lavora da un punto di vista editoriale con così tante pagine? C’è bisogno di un solo editor? Quanti correttori di bozze ci vogliono? La rilegatura ordinaria è abbastanza forte? Decidere di scrivere un libro così lungo cambia il modo di scrivere? È stato scritto dall’inizio alla fine, o montato successivamente? Per leggere un testo così lungo è più adatto un’eReader o la carta? Lo abbiamo chiesto ad Albinati stesso. Il libro di carta «Il formato è uno dei temi del libro. È la prima co- (segue da pagina due) i terroristi di Molenbeek si sono riuniti in Grecia. Almeno tre di loro sono passati dall’Italia. Salah Abdeslam e il suo amico Ahmet Dahmani hanno preso la via del mare: arrivati in macchina a Bari dal Belgio, sono andati a Patrasso su un traghetto. Khalid El Bakraoui, l’uomo che si è fatto esplodere alla fermata di Maelbeek, ha scelto l’aereo. Ha fatto scalo a Treviso, una notte in albergo a Venezia, poi il volo per Atene. Come un turista qualunque, nonostante Sofferenze Il Sole 24 Ore, venerdì 1° aprile creare disagio in Borsa non è il numero. Che i nostri istituti di credito abbiano 200 miliardi lordi di crediti in sofferenza ormai lo sanno anche i sassi. Quello che mette in apprensione Piazza Affari è invece l’incertezza su come questi finanziamenti andati a male dovranno essere maneggiati in futuro. Le banche dovranno gestirli con gradualità (come ha detto Mario Draghi il 21 gennaio), oppure sarà caldeggiata dalla Vigilanza la vendita in blocco a prezzi di mercato nel più breve tempo possibile (come la stessa Bce sembra preferire nel caso di Carige)? Quale sarà insomma la cura prescritta? Quella da cavallo o quella graduale? È questa la domanda che assilla gli operatori di Borsa. Anche perché la Vigilanza sembra avere un atteggiamento poco decifrabile sul tema. Le due opzioni hanno impatti molto diversi sugli istituti e sulle loro valutazioni di Borsa. Vendere i crediti in sofferenza a operatori specializzati ha il vantaggio di liberare i bilanci bancari e, indirettamente, di aumentare la loro capacità di erogare credito a imprese e famiglie. Questa strada, però, non è indolore: i fondi specializzati hanno un approccio aggressivo e mirano a realizzare guadagni a due cifre dal portafoglio di finanziamenti acquistato. Per questo sono abituati a comprare i prestiti in sofferenza a prezzi molto bassi, molto inferiori ai valori degli stessi crediti nei bilanci delle banche. Venderli, quindi, significa per gli istituti incassare perdite. E, probabilmente, dover varare aumenti di capitale. I prezzi di mercato sono infatti decisamente bassi. Il fondo americano Apollo ha offerto a Carige di acquistare l’intero suo portafoglio al 20% del valore nominale originario dei crediti. Le quattro banche salvate a dicembre (Marche, Popolare Etruria, CariChieti e CariFerrara) sono state costrette a svalutare le loro sofferenze al 17,5% (che corrisponde all’82,5% di perdite) proprio per poterle dismettere facilmente. Secondo uno studio effettuato da Finanziaria Internazionale sulle cartolarizzazioni di crediti in sofferenza realizzate dalle banche italiane negli ultimi 3 anni, si scopre che in queste operazioni (per un importo di 29 miliardi circa) i crediti sono stati ceduti a un valore medio del 13,7%. Questi numeri dimostrano che gli investitori specializzati sono disposti a pagare poco. Per questo le banche non li vendono. Il problema è che tenerli nei bilanci crea altrei problemi, perché la maggior parte delle banche non li sa gestire. Recuperare una massa tale di crediti richiede personale, organizzazione e capacità che la maggior parte degli istituti non ha. Ecco dunque il dilemma: vendere i crediti deteriorati e incassare subito la perdita, oppure tenerli in bilancio senza saperli gestire? Il 21 gennaio scorso Mario Draghi aveva lasciato intendere che la Bce non volesse fare pressing sulle banche. Questo aveva tranquillizzato gli animi in Borsa. Ma quando la Vigilanza della stessa Bce è sembrata caldeggiare in questi giorni l’offerta di Apollo per i crediti di Carige, il mercato è rimasto disorientato: cosa chiede veramente Francoforte? Dismissione veloce o gestione graduale? L’approccio dimostrato su Carige dalla Bce sarà il nuovo trend? Questo pesa in Borsa. Morya Longo fosse in libertà condizionata e avesse un fratello appena arrestato in Turchia perché ritenuto un foreign fighter (Tonacci, Rep). Filmini Claudio Nucci, 56 anni, noto pierre romano, adescava ragazzini tra i 14 e i 16 anni in cambio di piccole somme o regali, come la felpa o l’accessorio griffato, e filmava i rapporti sessuali per poi poterli ri- cattare. Con una delle vittime, 16 anni, il cinquantaseienne avrebbe fatto sesso a pagamento per più di un anno, dal 2014 fino a poco prima dell’arresto. Le indagini fotografano una relazione di dipendenza e ricatto: Nucci lo minacciava di rendere pubblici foto e video girati nel corso di uno dei loro appuntamenti. Gesti di autoerotismo, primi piani di nudo, immagini molto esplicite. E l’avvertimento era perentorio: «Faccio vedere ’ste foto ai tuoi». La vicen- da si è ripetuta con altri minori (Sacchettoni, Cds). mercoledì 30 marzo Dirottamento Indossando una finta cintura esplosiva, uno squilibrato 58enne egiziano ha dirottato a Cipro un aereo EgyptAir diretto al Cairo. Gli 81 passeggeri dell’Airbus A320 temevano di essere finiti nelle mani di un kamikaze, invece dopo una lunga trattativa sconclusionata Seif Eddin Mustafa, il dirottatore che alla fine voleva solo consegnare una lettera alla ex moglie cipriota, li ha rilasciati un po’ alla volta. Alla fine l’uomo, che ha un passato da carcerato e precedenti per contraffazione, furto e possesso di droga, è sceso, ha alzato le mani e si è arreso (Brera, Rep). Naso Ieri, durante (segue nell’inserto II) Il moto perpetuo, fonte infinita di energia che nessuno sapeva sfruttare. Finché un matematico italiano non ha inventato l’H24 La macchina che trasforma le onde in elettricità A Wired, aprile isa, estate 2014. Ho da poco installato un meraviglioso impianto solare da 3 kiloWatt, e ne vado molto orgoglioso. C’è solo un piccolo particolare: piove ininterrottamente da un mese. Una volta avevo letto che la forma di energia più efficiente da convertire è quella idrica: certo, necessità di grandi altezze (l’energia va come il quadrato dell’altezza da cui casca l’acqua), ma in molti casi si riesce a convertire in elettricità circa metà della potenza del moto. Se il risultato vi pare scarso, tenete conto che qualsiasi conversione di energia termica al massimo può raggiungere il 33%, e che la vostra automobile a benzina ha un rendimento di circa il 25%. Per cui, per distrarmi, provo a calcolare quanta energia riuscirei a estrarre dalla pioggia, se riuscissi a raccoglierla sul tetto e la facessi scorrere dalle grondaie da un’altezza di 10 metri. Il risultato non è troppo confortante: con un tetto da 100 metri quadrati, posto a un’altezza di 10 metri, supponendo una pioggia da 30 millimetri all’ora (cioè, un nubifragio) ottengo in un giorno più o meno l’energia necessaria per caricare il cellulare. La quantità di energia portata dall’acqua dipende, è vero, dall’altezza da cui casca; ma dipende, ancora di più, dalla sua densità. Ora, anche il più violento dei nubifragi ha una densità ridicola rispetto all’acqua come sostanza pura. Con l’energia della pioggia non si va molto lontano, quindi. Bisognerebbe sfruttare l’energia del mare. Delle maree, per esempio, o delle onde. La stessa cosa che è venuta in mente, circa dieci anni fa, a Michele Grassi, matematico laureato alla Scuola Normale Superiore di Pisa, osservando il rollio di una barca al largo. È un peccato che tutta quell’energia, l’energia delle onde, vada sprecata. Ci deve essere un modo per sfruttarla, e Grassi lo individua. Un’onda, a livello sottomarino, si traduce in una differenza di pressione: detto in parole povere, un’onda è più alta del livello del mare davanti e dietro a sé, e quindi contiene più acqua. La colonna d’acqua sotto l’onda ha un peso maggiore, e questo causa una pressione sottomarina. Sfruttando l’effetto di questa pressione su un meccanismo mobile, si può pensare di convertire l’energia meccanica in energia elettrica. Niente di difficile, e non c’è nemmeno da cercare troppo lontano: il principio della dinamo è stato inventato proprio qui, dal fisico Antonio Pacinotti, all’incirca un secolo e mezzo fa. Quello che succede dopo, in Italia, ha dell’incredibile. Grassi rinuncia al caro vecchio posto fisso (all’Università di Pisa, non in fonderia) e si butta cervello e corpo nell’impresa. Fonda una società, fabbrica prototipi, cerca collaborazioni. La prima arriverà con Enel Green Power, che contribuirà a una parte delle risorse finanziarie necessarie per l’installazione di un prototipo di R115 al largo di Punta Righini, vicino a Castiglioncello. La macchina necessita di un fondale profondo almeno 40 metri, e P produce 100 kW di potenza – il fabbisogno di 80 famiglie, detto in termini umani. La cosa è migliorabile? Pare di sì. La prima macchina di Grassi, la R115, sfrutta la pressione delle onde di alto fondale per produrre un moto circolare. Per questo, il dispositivo ha bisogno di una profondità maggiore di quaranta metri. Ma una differenza di pressione come quella causata dall’onda, in basso fondale causa una spinta prevalentemente orizzontale: l’acqua sotto l’onda ha una diversa densità rispetto a quella davanti o dietro all’onda. Nasce così H24, un modulo lungo fino a ventiquattro metri provvisto di una sorta di vela che l’onda di pressione sottomarina fa scorrere su un binario. All’interno del modulo, dei meccanismi appositi trasformano l’energia cinetica (il moto della vela) in energia elettrica. Tutto questo fornisce 50 kW di potenza a sei metri di profondità. Sei metri è molto molto meno di quaranta. Più facile da installare (un piccolo pontone e una coppia di sub lo posano in un paio d’ore) e soprattutto, più facile trovare posti in cui installarlo. La potenzialità di questo modulo sta infatti nella sua estrema versatilità: H24 si può installare a poca distanza dalla costa. Ora, l’Italia ha più di settemila chilometri di coste. Supponendo di posare uno di questi oggetti ogni trentacinque metri (in realtà è possibile metterli parecchio più vicini senza interazioni) questi produrrebbero l’ammontare di circa 10 gigawatt di energia. Dieci centrali nucleari di medio cabotaggio, più o meno. Appurate le possibilità, passiamo al costo: un aspetto che quando si parla di energia non va troppo sottovalutato. La potenza nominale di questo impianto è di 50 megawatt, e il suo costo al momento è di circa 200.000 euro (installato, chiavi in mano), il che significa che ogni watt di potenza ha un costo di installazione di circa 4 euro. Un po’ meno dell’eolico domestico (6 €/W) ma parecchio di più rispetto al grande eolico a terra (i grandi parchi eolici producono al costo di 1,5 €/W) e al solare. Parliamo di potenza nominale, ovvero la massima potenza che l’apparato sprigiona in condizioni di funzionamento ideale. Quello che bisogna considerare, però, è la potenza media. Un parco eolico funziona quando c’è vento: duemila ore l’anno, nelle zone più sfigate d’Italia, cioè circa un quarto del tempo. Peggio ancora il solare: l’efficienza media del pannello solare è circa del 16%. Con le onde, invece, va meglio. Le fluttuazioni marine in grado di muovere l’apparecchio sono molto più frequenti di quelle ventose, e non c’è bisogno di sole per riscaldarle e renderle pronte allo sforzo. Si calcola che l’efficienza media del dispositivo sia circa del 30%, e se ho capito bene è una stima prudenziale. Paragonando i costi di installazione in euro per watt medio, un watt H24 verrebbe prodotto al costo di installazione di 12 euro, mentre quello di un grande eolico ne costa 6 e quello di un solare 8. Per non parlare dell’eolico domestico, che ne è costato 24. L’eolico a terra è più conve- niente, certo. Però un dispositivo come quello di Grassi si può installare ovunque. Non si vede e non ha impatto ambientale (è di vetroresina, ha lo stesso impatto di una barca, anzi meno: ci sono varie certificazioni comprovanti, come vedremo). Un po’ meglio degli ecomostri eolici, quindi. Siccome sono un rompicoglioni, e la cosa mi sembrava troppo bella per essere vera, ho fatto a Grassi alcune domande. La prima domanda è semplice: questi oggetti sono sottomarini, il che significa corrosione e arrugginimento. Di quanta manutenzione hanno bisogno questi oggetti? Secondo Grassi, non molta. Il problema della corrosione si ha in realtà quando un oggetto (tipicamente, un oggetto di metallo) viene continuamente immerso in acqua e tirato fuori. L’azione elettrolitica dell’acqua e quella chimica dell’ossigeno, combinate, possono fare danni. Il modulo è fatto invece di fibra di vetro, che non conduce e non arrugginisce, e sulla quale gli organismi marini sono in grado di allignare e crescere. Da chimico, mi tocca dargli ragione. Uno a zero per lui. La seconda domanda è un pochino più bastarda: un essere umano, un sub, o un povero delfino, una di quelle tenere creature del cui destino ci preoccupiamo mentre trangugiamo un bel filetto di tonno, potrebbero rimanerci impigliati o incastrati, e lasciarci le penne. Anche qui, no. E non solo secondo Grassi, visto che l’analisi dei rischi posti dal modulo ha ricevuto la certificazione Rina (Registro Italiano Navale), un ente noto per la sua particolare severità. Qui, da chimico, mi tocca fidarmi. La terza domanda è fetente: in Portogallo pochi anni fa hanno costruito un oggetto simile, il Pelamis Energy Wave Converter. Un mostro in grado di generare 750 kW. Sono falliti in pochi anni. Certo che sono falliti, risponde Grassi. Pelamis era un mostro che solo di installazione costava 5,6 milioni di dollari. Il nostro modulo costa venti volte meno. È una spesa affrontabile da una piccola comunità. Piccola comunità? Sì, la scommessa ulteriore di Grassi è questa. Il coronamento ideale del progetto di Grassi, che propone la possibilità di formare una smart community, in cui una piccola realtà (come un paese di provincia, per esempio: pare che in Italia abbondino) si fornisca di una serie di elementi per produrre da sola la propria energia esclusivamente da fonti rinnovabili, coinvolgendo gli abitanti, i turisti, gli utenti del porto tramite il crowdfunding. Se volete la mia opinione, questo è un vero progetto. Un progetto organizzativo, ma basato su solide innovazioni tecnologiche, non la solita aria fritta in cui si presenta un progetto in cui si mescolano le due o tre cose che sappiamo fare con quelle che sa fare il tizio che ci siamo trovati accanto a cena due sere prima, e speriamo che funzioni. È solo la mia opinione. Spero di non confondere la speranza con la convinzione, ma sono convinto che in questo ambito la mia opinione abbia qualche valore. Marco Malvaldi A noi il petrolio va bene solo se d’importazione Segue dalla prima Tornando in Basilicata, invece, c’è un altro grande giacimento che l’Italia sfrutta da molti anni, quello dell’Eni in Val d’Agri. Anche questo è sotto inchiesta: fra le accuse c’è quella di avere reimmesso in modo irregolare nel sottosuolo le acque sotterranee uscite dalla roccia insieme con il petrolio. Di averle classificate con codici scorretti dei rifiuti [5]. In ogni caso, secondo un’analisi Agriregionieuropa, l’attività petrolifera apporta alla Basilicata un valore aggiunto sui 500 milioni e genera più di 5mila posti di lavoro. Ancora Giliberto: «È una manna per una regione dove il Pil pro capite per i 500mila abitanti s’aggira sui 18mila euro e dove l’agricoltura (quante volte è stato detto che “il nostro territorio è vocato per l’agricoltura”?) è un doloroso 3% dell’intero Pil regionale» [6]. L’impianto di Tempa Rossa si trova nel comune di Corleto Perticara, 2.500 abitanti. L’attuale sindaco Antonio Massari – il precedente, Rosaria Vicino, coinvolta nell’inchiesta di Potenza, è ai domiciliari da giovedì – spiega: «Con la Total lavorano stabilmente circa 150 abitanti del paese. Ma il cantiere occupa molte più persone. Oggi sono circa 1.600. La novità della nostra amministrazione è stata quella di ottenere che la Total assumesse dopo corsi di formazione collettivi e non su segnalazione dei politici» [7]. Secondo l’ultimo aggiornamento fatto il 7 gennaio scorso dall’Ufficio nazionale minerario per gli idrocarburi e le georisorse, nel 2015 il gettito delle royalties per la sola Basilicata è stato di 158 milioni di sa di cui parlano tutti. Al momento le battute più comuni sono, nell’ordine: – Viene fornito con un leggìo? – Il drone di Amazon riesce a trasportarlo? – Rimborsate l’ortopedico se mi cade sul piede? Sapevo dall’inizio che sarebbe stato lungo, ma lo immaginavo sulle 500-600 pagine, non certo di queste dimensioni. Non mi sono reso conto di quanto lungo sarebbe diventato fino alla fine, perché lavoravo su file separati, quindi non avevo nessuna consapevolezza di quanto stavo scrivendo. Ma avevo chiaro in testa che volevo un libro, non una serie di libri. Alla fine ho scritto circa il doppio di quanto poi è stato stampato, e in bozze abbiamo poi tagliato altre 150 pagine». Il libro elettronico «Con l’eBook la questione del formato perde importanza. Nel libro elettronico ci sono parti che nell’edi- euro. E tra il 2001 e il 2013, nelle casse della Regione e dei 12 Comuni che ricadono nell’area estrattiva, sono finiti 1 miliardo e 158 milioni di euro [8]. Antonello Cassano: «Le polemiche sull’utilizzo di questa montagna di denaro non mancano. Quel che è certo è che i soldi del petrolio coprono molte esigenze: 30 milioni vanno alla sanità regionale, 20 al programma di forestazione, altri 10 alle università, un paio finanziano le borse di studio. Ora spuntano 40 milioni per coprire il reddito minimo garantito a 8mila famiglie in difficoltà economiche. Per non parlare della carta idrocarburi, assegnata a ogni lucano possessore di patente, che dà diritto a un centinaio di euro all’anno da spendere in rifornimenti di benzina» [8]. Paesi petroliferi come la Norvegia e la Gran Bretagna, ma anche l’Irlanda, hanno zero royalties sul petrolio. Hanno spostato sulla fiscalità, sulle tasse alle compagnie, tutto il prelievo pubblico su gas e petrolio. In Italia variano se il giacimento è su terra o su mare, se di gas o di petrolio. Alle royalties l’Italia aggiunge la normale fiscalità sugli utili delle compagnie. In tutto preleviamo alle compagnie petrolifere circa il 50-60% del valore del petrolio estratto [6]. In totale in Italia nel 2014 la voce royalties è stata pari a 402 milioni, di cui 182,4 alle Regioni petrolifere (pari al 45%), 70,6 milioni allo Stato e 29,2 milioni ai Comuni con i pozzi. Le compagnie che nel 2014 hanno pagato di più sono l’Eni (258,7 milioni) e la Shell (106 milioni) [8]. Oggi per il suo fabbisogno energetico – gas e petrolio – l’Italia dipende dal 90% STOMACI Piccione in gratella La carne di piccione per la quantità grande di fibrina e di albumina che contiene è molto nutriente ed è prescritta alle persone deboli per malattia o per altra qualunque cagione. Il vecchio Nicomaco nella Clizia del Machiavelli, per trovarsi abile a una giostra amorosa, proponevasi di mangiare uno pippione grosso, arrosto così verdemezzo che sanguigni un poco. Prendete un piccione grosso, ma giovine, dividetelo in due parti per la sua lunghezza e stiacciatele bene colle mani. Poi zione di carta sono state tagliate. Per esempio nell’eBook la trascrizione del quaderno del professore di italiano Cosmo della Nona parte è integrale, mentre su carta c’è solo una selezione. Mi capita di consigliare l’eBook anche perché è più leggero e costa meno, anche oggi alla guardia carceraria (Albinati da oltre vent’anni insegna in carcere, ndr) che si congratulava con me perché mi aveva visto in tv assieme ad Alba Parietti e che voleva comprarlo per iniziare a leggerlo a Pasqua. Però vedo anche che molti sono infastiditi dal non vedere i numeri di pagina e non sapere bene a che punto del libro si trovano. Non è per snobismo, né per nostalgia verso la carta, ma alla fine anche a me pare che il libro di carta sia ancora il formato più adatto per un libro come questo». La fase della scrittura «Il lavoro è incominciato nel 2006 ed è finito nel FOR TI mettetele a soffriggere nell’olio per quattro o cinque minuti, tanto per assodarne la carne. Conditelo così caldo con sale e pepe, e poi condizionatelo in questa maniera: disfate al fuoco, senza farlo bollire, 40 grammi di burro; frullate un uovo e mescolate l’uno e l’altro insieme. Intingete bene il piccione in questo miscuglio e dopo qualche tempo involtatelo tutto nel pangrattato. Cuocetelo in gratella a lento fuoco e servitelo con una salsa o con un contorno. (La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi, prima edizione 1891) 2015, quindi ci ho messo nove anni. È un romanzo che ha avuto uno sviluppo lungo e diseguale, sia nell’impegno che nelle varie fasi del progetto. Verso il 2010 ho avuto una crisi esistenziale molto forte dovuta a guai personali. È durata due anni durante i quali ho smesso di scrivere. Per ironia della sorte sarebbero stati gli anni in cui avevo più tempo, invece li ho persi. In quel periodo ho pensato che sarebbe rimasto incompiuto. A parte l’inizio e la fine, che sono più o meno rimasti identici, la scansione interna è cambiata decine di volte. Parecchie parti sono cadute. Scrivevo solo il giovedì, venerdì, sabato e domenica, perché un certo calo di energia dovuto all’età faceva sì che dopo essere stato in galera dove insegno da vent’anni ero troppo stanco. Per la prima volta in vita mia ho fatto tutto da solo. Non ho fatto leggere niente a nessuno, tranne il mio agente. Neanche a Francesca D’Aloja, la mia don- dalle esportazioni estere e da paesi assai problematici come Russia e Algeria [9]. Eppure, negli anni del boom economico l’Italia aveva trovato uno slancio energetico che sembrava prospettare uno scenario più roseo, con oltre cento pozzi petroliferi l’anno scavati tra il 1949 e il 1964 e settemila impianti attivi – oggi siamo sotto i mille – a pompare dal suo sottosuolo quasi il 50% del gas di cui il Paese aveva bisogno [10]. Scriveva Ettore Livini nel 2012: «Tutto è cambiato. Il volume di idrocarburi made in Italy è sceso da 20 a 8 miliardi di metri cubi. Il boom del greggio della Val d’Agri, complici le lungaggini di casa nostra – Total e Shell hanno avuto bisogno di 400 permessi prima di far partire i lavori a Tempa Rossa – ci ha regalato la miseria di pochi milioni di barili l’anno. E in pochi hanno voglia di imbarcarsi in interminabili odissee burocratiche per scavare sottoterra» [10]. Ora, con l’inchiesta che coinvolge Tempa Rossa, gli investimenti rischiano di fermarsi ancora una volta, «mentre sempre più aziende del settore – Shell, Petroceltic, Transunion – nelle ultime settimane hanno abbandonato i progetti nell’Italia che sembra volere sempre più petrolio a patto che sia solo di importazione» (Jacopo Giliberto) [1]. (a cura di Luca D’Ammando) Note: [1] Jacopo Giliberto, Il Sole 24 Ore 1/4; [5] Domenico Palmiotti, Il Sole 24 Ore 2/4; [6] Jacopo Giliberto, Il Sole 24 Ore 2/4; [7] Paolo Griseri, la Repubblica 2/4; [8] Antonello Cassano, la Repubblica 13/1; [9] Oscar Giannino, Il Messaggero 2/4; [10] Ettore Livini, la Repubblica 14/8/2012. na, che mi vedeva lavorare e lavorare senza leggere mai niente. Quello che ho avuto chiaro fin da subito è che il tema permetteva e, anzi, richiedeva sviluppi in direzioni molteplici, e ho voluto assecondarli invece che reprimerli, andando avanti a scrivere in attesa di un montaggio che avrei fatto alla fine e che è stato di gran lunga la cosa più complicata del libro». La fase del montaggio, appunto «Dopo aver finito di scrivere, mi sono costruito uno storyboard come quelli che si adoperano nel montaggio del cinema: non ne avevo mai visto uno, mi ha aiutato un amico regista, Matteo Garrone, che è venuto a casa mia a insegnarmi come fare (Albinati è tra gli sceneggiatori di Il racconto dei racconti, l’ultimo film di Matteo Garrone, ndr). Ce l’ho ancora montato nel mio studio, è una specie di cartellone grande come tutta la parete su cui sono incollate delle (segue nell’inserto II) ANNO XXI NUMERO 79 - PAG II IL FOGLIO QUOTIDIANO LUNEDÌ 4 APRILE 2016 Il leader scelto dall’Onu sbarca a Tripoli: tumulti e spari per le strade. Altri 23 anni di carcere a Boettcher l a conferenza stampa organizzata da Luigi Manconi e da Amnesty International per chiedere la verità sul caso Regeni, ha parlato anche la signora Paola, mamma del ricercatore: «Giulio aveva uno sguardo aperto eppure dopo la morte il suo volto era piccolo piccolo, in obitorio a Roma l’ho riconosciuto dalla punta del naso e ci ho visto sopra tutto il male del mondo. E’ forse dall’antifascismo (segue dall’inserto I) che in Italia non ci troviamo di fronte alla tortura ma Giulio non era in guerra e non lavorava per i servizi, come provano i suoi conti bancari faceva ricerca» (fra. pa., Sta). Erasmus Laura Ferrari, 23 anni, di Modena, faceva parte della comitiva di studenti Erasmus che tornava in pullman, da Valencia a Barcellona, domenica 20 marzo all’alba. Il pull- man che ha sbandato sull’autostrada per Tarragona e ha fatto strage di chi era a bordo: 13 morti e 34 feriti. Dopo dieci giorni di coma farmacologico nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale Santa Creu e San Pau di Barcellona ieri si è svegliata. Suo fratello Lorenzo: «Mia sorella ha aperto gli occhi. Prima ha fatto un sorriso a mamma Annunziata che era lì accanto al letto e quasi sveniva dall’emozione, poi ha mosso la testa per far capire che riconosceva anche papà Riccardo. È stato bellissimo, un grandissimo giorno per noi» (Caccia, Cds). giovedì 31 marzo Libia Il nuovo capo del governo nazionale libico Fayez Serraj è arrivato a Tripoli. Il leader, sostenuto dalle Nazioni Unite, è sbarcato nella capitale arrivando via mare su un gommone dalla Tunisia per aggirare tutti i possibili blocchi di chi non lo voleva lì: gli uomini di Khalifa Gweil che tengono in piedi il governo non riconosciuto di Tripoli e l’esercito libico del generale Khalifa Haftar, che da settimane sta boicottando l’unità nazionale. In serata nella capitale si sentivano gli spari, e il governo non riconosciuto s’appellava a «tutti i rivoluzionari perché si schierino contro questo gruppo d’intrusi, che infiammerà la situazione a Tripoli e c’imporrà la tutela internazio- Il sospiro, questo estenuato anelito di vita È uno di quegli eventi ordinari di cui la scienza si è occupata poco (la letteratura anche troppo). Ecco come si genera e a cosa serve La Lettura, domenica 27 marzo uando eravamo ragazzi e leggevamo i fumetti, incontravamo una scritta – SOB – ogni volta che qualcuno singhiozzava e un’altra – SIGH – quando qualcuno sospirava, mentre si tossiva come COUGH COUGH. Abbiamo così imparato che in inglese to sob vuol dire singhiozzare, to sigh vuol dire sospirare e to cough tossire, tre verbi di presumibile natura onomatopeica. Le lingue si imparano anche così. Il sospiro è un protagonista della nostra vita, individuale e di relazione, uno di quegli eventi ordinari dei quali la scienza si è occupata poco e la letteratura, di pregio o di dozzina, anche troppo. Una di quelle evenienze della vita quotidiana delle quali coloro che credono di sapere, sanno tutto. E ne discettano. Come il sorriso, il riso o il singhiozzo, che arricchiscono il repertorio delle nostre manifestazioni emotive, repertorio vario e affascinante del quale gli uomini hanno sempre discorso senza saperne quasi niente. D’altra parte, chi di noi non ha mai sospirato – di nostalgia, di desiderio, di rimpianto, per ricordi fuggevoli o per angustie presenti, per amore, per scommessa o per rabbia, nelle diverse vicissitudini che costellano il cammino della vita? Talvolta il sospiro è incoercibile e può fungere da spia di un nostro stato d’animo profondo, al punto che ai tempi del romanticismo dichiarato si diceva che l’amore si può fingere e ostentare, ma mai nascondere. Un improvviso rossore e un sospiro non trattenuto hanno smascherato un gran numero di passioni inconfessate e hanno tradito le trame sentimentali più accortamente celate. Anche i bambini piccoli spesso sospirano, quando meno te l’aspetti, e in alcuni casi a un sospiro improvviso si associa un breve incantevole brivido di tutta la personcina. Sospira chi sta male e chi sta bene, chi si accinge a compiere uno sforzo e chi lo ha portato a compimento con successo, chi spera e chi dispera, chi anela e chi è sazio, chi cerca comprensione e chi semplicemente ascolta, chi canta e chi ascolta cantare. Il sospiro può essere generato tanto da un’aspirazione quanto dal soddisfacimento della stessa. Ci sono i sospiri dei condannati della Repubblica Veneta che attraversavano il ponte detto appunto dei sospiri e i sospiri di un cane che assiste ai preparativi per la sua pappa. Il sospiro, insomma, fa parte del concertino delle passioni, in un’epoca che qualche nostalgico ha definito, chissà perché, l’epoca delle passioni tristi. Ma cos’è il sospiro? È una sorta di ripensamento, che fa partire un secondo movimento di inspirazione prima che sia finito quello in atto; un doppio passo del processo respiratorio, un sincopato nel balletto della vita, un estenuato anelito di vita, proprio laddove l’anima si trova a questionare con il corpo. Può avere un’origine organica come una psicologica, ma ha in genere sempre lo stesso decorso, finalizzato a introdurre più aria nei polmoni, coinvolgendo quasi sempre l’abbassamento del diaframma. Io sospiro molto nella giornata. Più oggi che ho la «pancetta», che nei tempi passati, a proposito dei quali Leopardi direbbe: «Chi rimembrar vi può senza sospiri?». Chi controlla l’affiorare di un sospiro e il suo decorso? Come quasi tutti i moti del nostro corpo e della nostra psiche, il sospiro è regolato da due processi antagonisti che agiscono sul centro del respiro, come rivelato in dettaglio da un recentissimo articolo scientifico (curato da Li Peng e collaboratori, pubblicato sul volume 530 di Nature), in un ennesimo esempio di fenomeno biologico complesso e a suo modo misterioso spiegato con semplicità e immediatezza dall’indagine sperimentale. Il ritmo del respiro si trova sotto il controllo di uno specifico centro nervoso localizzato alla base del cervello vero e proprio, più o meno dove questo si assottiglia per divenire midollo spinale. Il centro porta il nome di Complesso preBötzinger (CpB), comprendente qualche migliaio di neuroni. La sua attivazione è richiesta per dare inizio a un movimento di inspirazione e il fenomeno si può osservare anche in laboratorio, operando su fettine di tessuto coltivato in vitro. Ogni attivazione di tale centro genera a sua volta una contrazione nel diaframma e in diversi muscoli inspiratori, e tale contrazione dà inizio a un moto di inspirazione. Di tanto in tanto una seconda ondata di attivazione del Complesso CpB segue prontamente quella già in atto, e a questa doppia inspirazione, che ci fa immettere nei polmoni più o meno il doppio dell’aria che inspiriamo di solito, noi diamo il nome di sospiro. Questo può accadere per una reale esigenza di più aria nei polmoni e per una serie di eventi psichici che ci coinvolgono emotivamente, tanto nella normalità quanto nei disordini psichici che coinvolgono un’aumentata quantità di ansia. Il sospiro e il normale respiro partono in conclusione entrambi dal Complesso CpB. Si sapeva che un certo numero di neuromodulatori di natura peptidica – cioè proteica, e non appartenenti alla famiglia delle catecolamine, come la serotonina e l’adrenalina – possono influenzare nei ratti di laboratorio il presentarsi del sospiro, ma non era fino a oggi noto il meccanismo fisiologico di tale azione. Si è visto allora, non senza sorpresa, che i neuroni che costituiscono il Complesso CpB possono generare da soli il segnale per un normale processo di inspirazione, ma per dar luogo a un sospiro hanno bisogno di un segnale speciale proveniente da un centro nervoso supervisore, capace di tenere sotto controllo il Complesso CpB stesso. Questo centro di supervisione controlla il Complesso CpB attraverso l’azione di due tipi di circuiti nervosi paralleli, ma antagonisti, che utilizzano come mediatori l’uno la neuromedina B (NMB) e l’altro un derivato della gastrina (GRP). Uno dei risultati più sorprendenti di questo studio è che evidentemente esistono tipi di sospiro diversi, dei quali prima non ci eravamo accorti e che prospettano sotto una luce nuova la comprensione e la modulazione di questo fenomeno e la sua collocazione nel quadro dei rapporti esistenti fra respirazione e sospiro in condizioni normali e patologiche. Questa storia suggerisce almeno tre ordini di considerazioni. Per prima cosa abbiamo la conferma del fatto che lo studio attento e dettagliato dei fenomeni biologici ci può fornire una loro effettiva comprensione, spesso anche più precisa di quanto ci aspettavamo. Non è che per questo smetteremo di sospirare o lo faremo in maniera diversa, ma ora sappiamo quello che ci sta sotto. In secondo luogo si trova una volta ancora che ogni moto del nostro corpo e della nostra psiche è regolato da processi di natura antitetica, in maniera che uno promuove e l’altro frena l’occorrenza del moto stesso. Questo accade essenzialmente per due ragioni: perché ogni moto si deve prima o poi estinguere per potere magari ripresentarsi, e perché non deve essere mai né troppo esangue né troppo prorompente. Questo doppio controllo, ormonale o nervoso, delle nostre manifestazioni interne ed esterne fa sì che la nostra vita si estenda sempre fra il desiderio di fare una cosa e il senso di colpa per averla fatta, una situazione psicologica di fondo che caratterizza il nostro modo di vivere la vita in tutte le sue manifestazioni. In terzo luogo, lo studio scientifico, di natura inevitabilmente riduzionistica, dei fenomeni può a volte portare a riconoscere nuove sfumature di quelli e ad aprire così nuovi inusitati orizzonti interpretativi, alla barba di coloro che amano sempre tessere le lodi di un approccio olistico, che non si capisce mai bene in cosa consista. Se si parla in particolare di fenomeni biologici, occorre considerare che per le cose vive tutto ciò che conta accade a livello molecolare. Si tratta cioè di mobilitazioni, trasformazioni e interazioni ordinate di molecole, fluide o semifluide, anche se ospitate e sorrette da strutture più stabili che possono anche essere di dimensioni macroscopiche, come organelli, membrane, vasi o impalcature rigide. Queste strutture costituiscono ciò che osserviamo di una cellula o di un organismo vivente, ma la vita vera ha luogo dentro di queste e fra di esse, al livello essenzialmente molecolare, e talvolta anche atomico. Edoardo Boncinelli Storia dell’uomo attraverso la sua barba la Repubblica, giovedì 24 marzo os’è più “naturale”, farsi crescere barba e baffi, o radersi? Posta così, la domanda potrebbe far ridere. Eppure è una faccenda tremendamente seria, su cui ne può andare della testa. Lo zar Pietro il Grande voleva modernizzare la Russia tagliando le barbe. Chi rifiutava veniva mandato al patibolo. Fino al 1917, il diritto canonico cattolico scomunicava i preti che si facessero crescere la barba e i monaci che rifiutassero la tonsura. I taliban prescrivevano, con pari severità, burqa per le donne e barba per gli uomini. I governi dell’Iraq del dopo Saddam avevano bandito barba e baffi nelle forze armate e di polizia, suscitando risentimenti tra le reclute. E su questo risentimento aveva fatto leva l’Is, incoraggiando barbe incolte anche più lunghe di quelle già in voga nei raggruppamenti islamici concorrenti. Nell’Egitto di Mubarak era vietata la barba agli uomini in divisa. Ma ora si può finire in galera, essere torturati e uccisi se una barba lunga conduce al sospetto di simpatie islamiste. Paese o epoca che vai, problemi di pelo facciale che ti ritrovi. Per la mia generazione la barba alla Che Guevara era un segno di anticonformismo. Ora è tornata, ma per tutt’altre ragioni: non c’è modello in posa su carta patinata o manager rampante che non sfoggi un accenno di barba come moda comanda. La Corte suprema Usa consente ai datori di lavoro di decidere se i propri C dipendenti possono farsi crescere barba e baffi, o meno. Ma i marines, ai quali era sinora proibito, ora aprono alla barba, alle chiome e ai turbanti dei sikh, e forse anche ai riccioli degli ebrei ortodossi e alle barbe islamiche. L’Inghilterra ha inventato gli skinhead, ma anche il Movember (Mustache-November), il fenomeno di massa per cui ci si fa crescere i baffi più bizzarri per sostenere cause benefiche. La casistica è infinita. Così come infinita è la discussione sull’argomento. Se proprio volete leggere tutto quello che avete sempre voluto sapere su barba e baffi, potete rivolgervi all’ultimo libro di Christopher Oldstone-Moore, Of Beards and Men: The Revealing History of Facial Hair (University of Chicago Press). Si fonda sull’assunto che «la storia dell’umanità è letteralmente scritta sulla faccia degli uomini», che le mutazioni del pelo facciale esprimono «la mutabilità e varietà dell’idea di mascolinità in un determinato periodo e nel corso del tempo». Diventa questione politica quando questo attributo maschile viene caricato di significati morali e religiosi che non hanno più nulla a che fare con la moda o col gusto personale. L’unica cosa certa è che la “natura” c’entra poco. Non è affatto il primo studio sull’argomento, ed è improbabile che sia quello definitivo. Spazia dalla biologia evolutiva (ma perché mai i maschi della specie homo sapiens hanno la barba e le femmine no?) all’antropologia, dalla storia antica alla cronaca, con dovizia di riferimenti, curiosità, discussioni dotte e aneddoti. Il primo trattato tasche in plastica trasparente in (segue dall’inserto I) cui infilare i cartoncini con le varie scene per poi spostarli fino a che non ti sembra di avere trovato il montaggio giusto. È stato un lavoro sfiancante. Una volta che l’ho finito ho scoperto di non avere più nessuna forza. Mi sono spremuto troppo. Adesso non posso immaginare di scrivere niente di nuovo». Il lavoro con l’editore «Rizzoli è stato fondamentale, perché ha saputo usare il pungolo e l’affetto, aspettandomi, ma facendomi anche sentire che avevano voglia di vedere il libro. Volevo consegnare un testo definitivo, o almeno che non richiedesse grandi interventi, ma non ci sono riuscito. Alla fine è stato un lavoro in progress che ha richiesto più redattori, più correttori di bozze, più editor. Nessuno a cominciare da me era in grado di maneggiare da solo tutto il testo. Quando ci siamo resi dedicato al pelo facciale fu l’Apologia de Barbis del duecentesco abate Burcardo di Bellevaux, per il quale la barba era una «tentazione di vanità» in questo mondo, ma avrebbe accomunato tutti, chierici tonsi e laici intonsi, nell’aldilà. La sua contemporanea Ildegarda di Bingen spiegava che gli uomini sono più pelosi perché formati dalla terra e le donne meno perché formate dalla costola dell’uomo. Bisognava arrivare al 1967 perché il fondamentalista marocchino Muhammad al Zamzami pubblicasse un opuscolo intitolato: Chiara evidenza del fatto che coloro che si radono sono maledetti, e le loro preghiere sono prive di efficacia. Nelle miniature del Trecento i buoni sono in genere sbarbati e i cattivi barbuti. Ma poi si alternano, anche a pochi decenni di distanza, momenti in cui sfoggiare la barba è segno di progresso, o al contrario di bieco oscurantismo. My hair like Jesus wore it suona la canzone del musical del 1967 che fece furore per molti decenni. Ma le rappresentazioni di Gesù lo mostrano con la barba solo dal VI secolo. Da qualche secolo i papi si radono, i patriarchi ortodossi hanno immancabilmente una lunga barba. Il culto della barba accomuna ebrei ortodossi e musulmani ultrà. Nella Turchia dove sono nato i papà ritratti nei miei libri di scuola avevano immancabilmente i baffi, e io ero un po’ a disagio perché mio padre invece non li portava. In quella di Erdogan si può scandire slogan islamisti allo stadio anche a viso glabro. Capita che ci sia una divisione animata, anche in una stessa epoca e in uno stesso mi- conto della mole, eravamo anche preoccupati che l’oggetto tenesse da un punto di vista tecnico: che la rilegatura fosse abbastanza forte, che il corpo tipografico non fosse troppo piccolo e che la carta fosse abbastanza sottile perché il libro si potesse tenere in mano, ma resistente, che si potesse sfogliare. Abbiamo valutato l’idea di farlo in due volumi, anche perché da un punto di vista economico sarebbe stato più conveniente per l’editore (il libro costa 22 euro, poco più dei 18-20 dei nuovi romanzi di 300-400 pagine, ndr), ma ci siamo accorti che non era divisibile, non c’era un punto dove smezzarlo. Abbiamo anche pensato di ridurlo, ma anche tagliando sarebbe rimasto molto lungo. Gli editor che prima mi convincevano a tagliare, poi ci ripensavano e mi dicevano di reinserire le parti tagliate. È un libro che è nato con una sproporzione non sanabile. E io non ero disposto a tagliare an- lieu tra chi si rade e chi no. Capita anche che si passi da un campo all’altro. Perché aiuta a nascondere faccione o doppio mento. O per pigrizia. O perché ogni tanto diventa impellente il bisogno di cambiare faccia, l’immagine riflessa dallo specchio. L’Ottocento progressista era barbuto, come Marx e Darwin. Il Novecento, specie dopo che il signor Gillette aveva brevettato la sua invenzione (1904), preferiva i baffi. Famosi quelli di Clark Gable ed Einstein. Ancora più famosi i baffi di Stalin e di Hitler. Un’ipotesi è che i due dittatori fossero accomunati dal desiderio di rendersi imperscrutabili. Pare che il Führer avesse sperimentato diverse acconciature facciali prima di decidersi per quella. James Abbe, il primo fotografo non tedesco che ebbe accesso a Hitler, raccontò del disagio per quei baffetti che impedivano all’obiettivo della macchina fotografica di scrutare la personalità dietro la maschera. Lo stesso Abbe aveva fotografato un altro personaggio che sfoggiava sullo schermo identici baffetti, Charlie Chaplin, e aveva ottenuto che posasse per lui senza baffi. Ma nel caso di Hitler il personaggio si identificava con la propria maschera. La somiglianza tra i baffetti di Charlot e quelli di Hitler è alla base del bellissimo film Il grande dittatore, in cui Chaplin si sdoppia nel ringhioso Hynkel e nel suo sosia per caso, un gentile barbiere ebreo. Gli fu rimproverato che, ridicolizzando Hitler, aveva favorito una sottovalutazione della tragedia che si stava profilando. Siegmund Ginzberg cora. Ho seguito un criterio letterario, non editoriale». La consegna «A Rizzoli avevo dato circa 400 pagine, giusto per dimostrargli che non stavo scrivendo solo “Il mattino ha l’oro in bocca” come Jack Nicholoson in Shining. Però mi chiedevano una data di consegna. Ho lavorato furiosamente fino al settembre 2015 per consegnare una bozza il più possibile conclusa, altrimenti avrei dovuto lavorare di nuovo sulla bozza, e nessuno sapeva come lavorare sulle bozze di un libro così lungo. Il momento in cui ho inviato il manoscritto, però, è stato segnato da una coincidenza cabalistica abbastanza incredibile. A fine settembre 2015 ero sfinito e loro insistevano. Così l’ho mandato, anche se il libro non aveva raggiunto lo stato che avevo sperato. La sera ho detto a Francesca che lo avevo mandato finalmente. E lei mi dice: “Ma lo sai che giorno è oggi?”. “Il 29 settem- Lavarsi Corriere della Sera, marcoledì 23 marzo il Re Sole, allora? Quanto puzzava il Re Sole? La provocazione di Mauro Corona che, ridendone con Giuseppe Cruciani e David Parenzo a La Zanzara ha detto (vero o no?) di aver l’abitudine di lavarsi solo «lì» perché «non si sa mai» e di farsi una doccia ogni mese e mezzo o due mesi (fornendo al nostro Aldo Grasso lo spunto per infilzarlo) è l’occasione per rileggere un libro strepitoso. Si intitola Storia sociale dell’acqua, è firmato da Paolo Sorcinelli, e racconta di come sia cambiato nei secoli il nostro rapporto con la fonte di vita e con l’igiene. Spiega dunque lo storico che «i tre medici di Luigi XIV, che fra il 1647 e il 1711 stendono il Journal de la santé del re francese, annotano in sessantaquattro anni una sola occasione di bagno completo, limitandosi di norma la toilette alla sola pulizia del viso – a giorni alterni – con un panno imbevuto di alcol etilico». Si cambiava, in compenso, sei o sette camicie al giorno: lavaggio a secco. Tutto perché per molto tempo i nostri avi, come il medico veronese Girolamo Fracastoro, erano convinti che l’acqua portasse malattie. Era accusata infatti «di aprire la strada alle infezioni dall’esterno attraverso i pori dilatati della pelle. L’acqua, scrive Leonardo, «penetra tutti li porosi corpi». Così, dal XVI secolo in poi, (quando la peste è un accidente ciclico che provoca vere e proprio ondate di panico in cui incorrono tutte le generazione), il timore che i pori della pelle possano aprirsi in seguito a un bagno caldo diventa quasi una ossessione». Secondo lo storico francese Georges Vigarello, autore de Lo sporco e il pulito, c’era anzi chi teorizzava che «una donna può rimanere incinta immergendosi nei bagni nei quali sono rimasti per qualche tempo degli uomini» per colpa di certi residui lasciati lì dai maschi. Non bastassero queste idee demenziali, racconta Sorcinelli, ci si mise di mezzo pure la religione: «San Benedetto, da quanto sappiamo, era solito ripetere che, “a coloro che stanno bene di salute, e specialmente ai giovani, il bagno si dovrà concedere assai di rado”. Sant’Agnese morì a tredici anni senza essersi mai lavata, forse per non cancellare il crisma del battesimo, ma molto probabilmente anche per non incorrere in inutili tentazioni». Insomma: «Cristianesimo e sudiciume marceranno a braccetto, perché, almeno da San Gerolamo in poi, prevalse il principio che l’uomo battezzato non avesse più avuto bisogno di nessun altro rito purificatore». Il famoso «odore di santità» forse non era solo un eufemismo… Gian Antonio Stella E Colorare La Stampa, martedì 22 marzo e anche gli adulti scoprono la passione per i libri da colorare, il rischio è che le matite non bastino per tutti. Le scorte sono a secco e in tutto il mondo i produttori, sempre più con l’acqua alla gola, lanciano l’allarme: la Faber Castell, l’azienda tedesca che detiene il primato della produzione di matite, fa sapere che per far fronte alla domanda in crescita è stata costretta ad accelerare i ritmi di lavoro. Tenere il passo è ormai un’impresa. «Nel nostro stabilimento di Stein, in Baviera – ha dichiarato Sandra Suppa della Faber – abbiamo organizzato più turni del solito e la produzione ha sorpassato quella dell’anno precedente». Dal Sud America all’Asia la mania di colorare non risparmia nessuno. Il Brasile è tra i paesi più contagiati. Ma anche in Europa gli adulti con la passione per i pastelli stanno mettendo in difficoltà i produttori, a cominciare dai famosi Stablio e Staedtler. E quando colorare non è solo un passatempo per i più piccoli, la qualità fa la differenza. Gli adulti non si accontentano. «Investono sulle matite migliori – continua la Suppa – e la confezione da 36 li lascia insoddisfatti». Pare che per esprimersi al meglio le persone attempate abbiano bisogno di una tavolozza più ampia. Meglio la confezione da 72, meglio ancora se è da 120. Roberta Cordisco S nale» (Battistini, Cds). Acido Alexander Boettcher ieri è stato condannato a altri 23 anni di carcere più 3 anni di libertà vigilata quando avrà scontato tutta la pena più 1 milione e 200 mila euro di provvisionale di risarcimento a Stefano Savi, uno dei giovani sfregiato con l’acido il 2 novembre di due anni fa. I 23 anni di carcere si aggiun- gono ai 14 anni già incassati nel processo parallelo per un altro episodio. Commento di Stefano Savi, cappellino nero con la visiera e un paio di occhiali scuri a nascondere i segni di sedici interventi chirurgici: «Spero che non esca più di cella. Mi sento sollevato da questa condanna. Se l’è cercata lui. In questo momento non me la sento di perdonare...» (Poletti, Sta). (segue a pagina tre) La sfida a colpi di Crocifissi tra Donatello e Brunelleschi La Lettura, domenica 27 marzo a i capelli impastati di sangue, che cola sotto le ciocche fin sulla fronte e ai lati del viso. Gli zigomi tumefatti. Le palpebre lunghissime ormai ridotte a feritoie. Le labbra semiaperte nell’esalazione dell’ultimo respiro. Il corpo sfigurato nello spasimo della morte. È il Crocifisso di Donatello, conservato nel transetto settentrionale della basilica fiorentina di Santa Croce, in un’area esclusa dai percorsi di visita. Si può ora vedere nella mostra «Fece di scoltura dipinta e colorì», curata da Alfredo Bellandi. Crocifisso famoso, non solo perché segna una nuova concezione del divino, sostanzialmente incarnato nell’uomo, ma anche il passaggio dall’arte gotica, che stilizzava il Cristo sulla croce, a una nuova rappresentazione in cui il figlio di Dio appare come un uomo di carne e nervi, che muore trafitto dal dolore come ogni uomo torturato. La notorietà dell’opera, bellissima ma non certo tra le più tipiche di Donatello, si deve tuttavia a una storia riferita dal Vasari nella biografia di Brunelleschi e subito dopo in quella di Donatello. Lo scultore intagliò il Crocifisso intorno al 1408, quando aveva poco più di vent’anni. Concluso il lavoro, «parendogli di avere fatto una opera lodatissima, chiamò per il primo Filippo di Ser Brunellesco, che era domestico amico suo, che lo venisse a vedere». Ma Brunelleschi, più anziano di una decina di anni, raffreddò l’entusiasmo: «Gli pareva ch’egli avesse messo in croce un contadino e non il corpo di Cristo, il quale fu delicatissimo di membra e d’aspetto gentile ornato». Donatello si offese e sfidò l’altro: «Piglia del legno e prova a farne uno tu». La risposta è custodita nella basilica di Santa Maria Novella: un crocifisso scolpito e dipinto in un tronco di pero che venne immediatamente recepito dagli altri artisti del Rinascimento come opera esemplare: naturale e al tempo stesso nobile, perfetto nelle proporzioni che rimandano all’ideale «homo quadratus» di Vitruvio ma anche illuminato dall’idea neoplatonica della divinità, caratterizzata dalla bellezza e dal fulgore. Per esaltare l’armonia quasi musicale di questo corpo lo fece completamente nudo, iniziando una tradizione che arriverà fino a Michelangelo, nel Crocifisso della Chiesa di Santo Spirito. Riferisce il Vasari che, dopo aver H terminato in gran segreto la scultura «fatta a gara», Brunelleschi invitò Donatello a pranzo. Passando dal mercato fecero la spesa: formaggio, uova e frutta. E con queste cose inviò l’amico a casa dandogli le chiavi e dicendo che lui si fermava per il pane dal fornaio. Donatello entrò e si trovò davanti il Crocifisso, «di perfezzione e sì maravigliosamente finito, che di stupore e di terror ripieno, ne rimase vinto talmente, che la tenerezza dell’arte e la bontà di quella opera gli aperse le mani, con le quali strette teneva il grembiule pieno di quelli frutti et uova e formaggio, sì che il tutto si versò in terra e si fracassò». Vedendo la frittata sul pavimento, Brunelleschi rimproverò l’amico di aver rovinato il desinare. Donatello rispose che per quel giorno aveva avuto la sua parte, pensasse lui a raccogliere il resto «imperoché conosco e veramente confesso ch’a te è conceduto fare i Cristi et a me i contadini». I due rimasero amici e al tempo stesso in competizione. Nel 1418 Donatello aiutò Brunelleschi a realizzare il modello della cupola del Duomo, in mattoni e calcina, senza armature, per dimostrare che poteva crescere sostenendosi da sola, secondo il modo di murare degli antichi, che avevano studiato durante il loro viaggio a Roma, nel 1402. Aveva pagato Filippo tutte le spese, vendendo un poderetto nelle campagne di Settignano. Era figlio di un ricchissimo notaio, ser Brunellesco Lippi, a cui il Comune di Firenze, sul finire del Trecento, aveva affidato la difesa della città. Donatello invece era figlio di un cardatore di lana, che per avere una bocca in meno da sfamare l’aveva messo a bottega dai Ghiberti. Fu qui che nacque l’amicizia con Brunelleschi. A Roma, dissotterrando e misurando i ruderi affioranti dal terreno, l’architetto cercava di capire il segreto della divina proporzione. E incitava Donatello a guardare bene le sculture, a disegnarle. A Firenze realizzarono altre statue in legno dipinto, come quelle raffiguranti la Maddalena orante, che insieme ai due Crocifissi fecero da modello alla scultura lignea del Quattrocento, alla quale è dedicata la mostra fiorentina. Nelle opere, una cinquantina, si assommano la riscoperta della plasticità classica, la policromia, l’assemblaggio di materiali diversi. Come nel Crocifisso del Pollaiolo, con il corpo in sughero, il perizoma di tela gessata, i capelli di stoppa impastati di stucco. Lauretta Colonnelli «Nella tomba non c’è». Che fine ha fatto la testa di Shakespeare? La Stampa, domenica 27 marzo ulla lapide della tomba di William Shakespeare nella Holy Trinity Church di Stratfordupon-Avon non è stato inciso il suo nome, ma un invito in versi a non toccare le ossa che quel sepolcro contiene. Un esame del loculo effettuato con un radar in grado di penetrare il terreno ha però permesso di scoprire che l’invito, pure accompagnato da una maledizione, non è stato rispettato: la tomba è stata profanata probabilmente due secoli fa, e il teschio di Shakespeare è stato rubato. L’indagine commissionata da Channel 4, che ha mandato in onda ieri sera in Gran Bretagna un documentario sulla sepoltura del più grande poeta inglese, ha permesso di sfatare alcune leggende che si tramandano da tempo: Shakespeare non è sepolto in piedi come il suo amico e scrittore Ben Jonson all’Abbazia di Westminster; il corpo non si trova a cinque metri di profondità come si diceva, ma a 90 centimetri dalla superficie; è avvolto in un lenzuolo e non rinchiuso in una cassa. Ma dove si sarebbe dovuta trovare la testa del poeta ci sono segni di uno scavo e S bre”, ho risposto. Pensavo parlasse della canzone Lucio Battisti. Poi ho capito: era il quarantesimo anniversario della strage del Circeo, che è l’evento da cui il libro è partito e intorno a cui il libro gira». I fatti del Circeo «Il Circeo occupa un decimo del libro, però forse lo occupa tutto, non so, si scioglie nelle storie degli altri, in quell’ambiente preciso. Il libro è nato nell’aprile 2005 quando venne fuori che Angelo Izzo aveva ucciso e torturato un’altra donna e la figlia di 14 anni. Per me è stata una chiamata. Mi sono detto che quella storia che avevo sepolto riemergeva dalle nebbie, che doveva essere scritta e che dovevo farlo io. Ero compagno di classe del fratello di Izzo, e conoscevo gli altri, o le loro famiglie. Sentivo di dovere raccontare quella scuola, quell’ambiente, quel particolare modo di essere ragazzo che per me rappresentava l’ultimo spraz- di terra frettolosamente rimessa a posto. È visibile anche una strana «scatola» di mattoni, della quale si ignora lo scopo. La voce che il teschio di Shakespeare fosse stato rubato era circolata già nel XVIII secolo, un’epoca nella quale la violazione delle tombe era molto frequente. «C’era l’abitudine – ha spiegato l’archeologo Kevin Colls, direttore del progetto – di prelevare i teschi delle persone famose per analizzarli e per scoprire le ragioni anatomiche del loro genio. Da questo punto di vista il teschio di Shakespeare era un obiettivo molto appetibile». Il 23 aprile si celebreranno i 400 anni dalla morte del drammaturgo, una ricorrenza così importante da avere convinto il vicario della Holy Trinity, Patrick Taylor, a concedere il permesso di esaminare con il radar la tomba. La scritta sulla lapide maledice solo chi «muoverà le mie ossa», e sembra dunque autorizzare uno scanner. «Ma non faremo altro – ha detto Taylor – e rispetteremo la richiesta di Shakespeare di non essere disturbato. Il mistero della sua tomba non sarà svelato, e non sapremo mai che cosa esattamente contiene». Vittorio Sabadin zo di una società tradizionale che stava scomparendo. Sono andato a vedermi i film e i giornali porno di quel periodo, quei colori, e quelle immagini sgranate. Ho incominciato a documentarmi, ma non ho fatto un lavoro investigativo, semmai archivistico e storico. Nel libro ci sono dei documenti di allora, per esempio le intercettazioni tra la mamma e la zia di Ghira, un altro degli autori del massacro, che per uno scrittore sono oro, un materiale preziosissimo perché rappresentano la verità dal basso. Quando si parla degli anni ’70 si pensa sempre alla violenza politica, ma ci si dimentica che c’era anche un estremismo fortissimo del costume, una furia sperimentale che distruggeva un’epoca che peraltro era ancora molto attaccata alla tradizione. Erano due faglie epocali che si scontravano». Autobiografia o invenzione «Volevo mostrare e capire come (segue a pagina tre) ANNO XXI NUMERO 79 - PAG 3 IL FOGLIO QUOTIDIANO LUNEDÌ 4 APRILE 2016 Le pensioni di vecchiaia si sono dimezzate. È crollato a Pasqua il consumo di carne ovina e caprina Pensioni 1 Pensioni 1 Dai dati diffusi ieri dall’Inps risulta che in 13 anni, dal 2003 al 2015, le pensioni di vecchiaia liquidate ogni anno si sono quasi dimezzate, passando dalle 494 mila circa del 2003 alle 286 mila dell’anno scorso. È la conseguenza delle ripetute riforme delle pensioni. L’età media al pensionamento è infatti cresciuta di tre anni: da 59,7 anni nel 2003 a 62,7 nel 2015. Le nuove (segue dall’inserto II) prestazioni assistenziali (non sorrette dai contributi ma erogate a invalidi e a persone a bassissimo reddito) messe in pagamento ogni anno sono invece aumentate: dalle 465 mila del 2003 alle 571 mila del 2015, il 51% di tutte quelle liquidate l’anno scorso. La spesa complessiva per tutte le pensioni private Inps è stata nel 2015 di 196,8 miliardi, di cui 176,7 per le prestazioni previdenziali e 20,1 miliardi per quelle assistenziali (Marro, Cds). Pensioni 2 Il 63,4% delle pensioni sotto i 750 euro, percentuale che sale al 77,1% per le donne, ma questo dato «costituisce solo una misura indicativa della povertà, per il fatto che molti pensionati sono titolari di più prestazioni o comunque di altri redditi». Infatti, su 11,5 milioni di assegni inferiori a 750 euro, quelli che beneficiano di assegni per i redditi bassi (integrazioni al minimo, mag- giorazioni, invalidità) sono 5,2 milioni, il 45,4%. Secondo il rapporto di Itinerari previdenziali su tutte le pensioni esistenti in Italia nel 2014, «ogni pensionato riceve in media 1,434 prestazioni il che porta la pensione media da 11.695 euro annui a 16.638 euro, ben al di sopra dei mille euro al mese» (ibidem). Agnello Durante l’ultima Pasqua, Quindici anni con il terrore addosso Da bin Laden a Bruxelles, passando su 150mila morti. Analisi ed evoluzione del fenomeno che ci ha cambiato l’esistenza l’Espresso, venerdì 1° aprile governo di destra di José Maria Aznar, colpevo- Bashar Assad, che resiste grazie all’aiuto di Mobderrahmane Ameroud, chi le di aver seguito gli Usa nelle avventure belli- sca e alle divisioni nel fronte che lo combatte. è costui? Nella confusione che, e determina la sua sconfitta nelle elezioni Ma il 2011 è anche l’anno in cui finalmente gli generata dai troppi nomi successive a favore del socialista José Luis Zapa- americani scovano e eliminano bin Laden nel arabi che entrano nella no- tero. Così come un anno dopo, 7 luglio 2005, le 56 suo nascondiglio di Abbottabad (Pakistan) poco stra cronaca, sarebbe bene vittime nel metro e negli autobus di Londra so- distante da una caserma dell’esercito di quel ricordarsi di lui. Personag- no il fio che Tony Blair paga per essere stato il Paese in bilico tra alleanza con l’Occidente e gio minore, certo, rispetto ai più fedele alleato di Bush. tentazioni estremiste. campioni del terrorismo. Ma A dispetto di quella che sembra «geometrica La morte dello sceicco fa esplodere la rivalità l’unico che ci ricorda, almeno sinora, che esiste potenza» lo sceicco del terrore è in oggettiva dif- tra le due sigle del terrore. Il suo successore, il un filo rosso a tenere legata una storia vecchia ficoltà. Comunica coi suoi luogotenenti solo con pediatra egiziano Ayman al-Zawahiri, non ha né di 15 anni, iniziata l’11 settembre 2001 a New «pizzini» come fosse un qualunque padrino ma- la forza né il carisma per opporsi alla crescita York, quando il mondo cambiò. E noi con lui. fioso. Proliferano, è vero, varie filiazioni di al veemente di quello che diventerà lo Stato islaAmeroud aveva infatti reclutato, per conto di Qaeda in Iraq, nella Penisola arabica, nel Magh- mico. Nel mondo la frattura produce una corsa al Qaeda, i due finti reporter tunisini che il 9 set- reb eccetera, ma con legami sempre meno stret- all’attentato più reboante per decidere chi ha la tembre 2001 uccisero con una bomba nascosta ti con la casa madre che sfociano persino in ri- faccia più truce. Si insanguinano le strade delnella telecamera il comandante Ahmad Shah bellioni impronosticabili sino a pochi anni pri- l’Africa come dell’Asia. La campagna acquisti è Massoud, il «leone del Panshir», unico serio ma. La sua idea che spargendo il terrore nel più proficua per al-Baghdadi che vede assoggetostacolo sulla strada dello sceicco Osama bin La- campo del nemico produrrà alla lunga il consen- tarsi al suo comando varie sigle in Libia, sopratden per il controllo dell’Afghanistan. Ebbene so necessario per l’edificazione del califfato, vie- tutto Boko Haram in Nigeria. Gli Shabaab somaAmeroud (23 anni allora, 38 oggi) è ricomparso lo ne apertamente contestata dalle nuove leve del li oscillano e comunque si distinguono per feroscorso venerdì 25 marzo nelle strade di Schaer- fondamentalismo, assai più pragmatiche. E nien- cia (come all’università di Garissa, Kenya, 150 beek, quartiere di Bruxelles gemello di Molen- te affatto convinte che l’obiettivo primario sia morti il 2 aprile 2015). Ma è soprattutto nell’area beek (la culla degli attentatori in Francia e Bel- sconfiggere i lontani Stati Uniti o l’Europa. An- siro-irachena che si gioca la partita decisiva. Algio), mano nella mano con la figlia alla fermata che perché la «rinascita sciita» dei primi dieci Baghdadi vuole che si sottometta ai suoi ordini del tram. È l’uomo che – lo avrete visto - viene anni del millennio, obbliga i sunniti a un sangui- anche il Fronte al Nursa, filiazione di al Qaeda. ferito dalle forze speciali prima di essere arre- noso confronto interconfessionale. La risposta di al-Zawahiri è un no. Nella «madre stato perché in contatto con un jihadista cattuNel martoriato Iraq, e perciò zodi tutte le battaglie» la posta in gioco è rato ad Argenteuil, Francia, ora supposto segua- na fertile per qualunque la cancellazione dei confini del Medio ce dello Stato islamico di Abu Bakr al-Baghda- esperimento di un nuovo Oriente tracciati un secolo fa dai didi. Belgio-Afghanistan-Stati Uniti-Francia-Bel- corso jihadista, cresce la plomatici inglese e francese, Sykes e gio. Al Qaeda-Stato islamico. stella di Abu Musab alPicot. Al Baghdadi abbatte quelle Tout se tient, tutto si tiene nella galassia fon- Zarqawi, un giordano frontiere anche fisicamente e il 29 damentalista talvolta in competizione, talvolta che si intesta la filiale giugno del 2014 proclama la nasciin collaborazione. Comunque nel segno di una irachena di al-Qaeda ta dello Stato islamico a cavallo tra continuità nemmeno troppo difficile da decritta- ma coltiva le ambizioni Siria e Iraq, con due «capitali» di re se, con tattiche diverse, persegue un’unica del leader. Inaugura la riferimento, Raqqa e Mosul. In strategia: far nascere il «Califfato universale» stagione delle decapitaquell’area, l’autoproclamato cadove tutti i musulmani possano vivere nell’osser- zioni e della caccia indiliffo impone le tasse, organizza il vanza della Sharia. scriminata agli sciiti. La welfare e una larva di Stato per i Eliminato Massoud, due giorni dopo è l’11 set- sua stella nel firmamento musulmani che contempla il getembre: sono le Torri Gemelle che crollano, so- estremista cessa di brillare il nocidio degli yazidi, la persecuno i 2.996 morti dell’attacco all’America, dunque 7 giugno del 2006 quando non sozione dei cristiani, la decapitazioall’Occidente. Bilancio spaventoso e nemmeno pravvive a un bombardamento americane degli occidentali. preventivato nelle proporzioni dagli organizzato- no. Ha avuto il tempo, tuttavia, di gettare le baL’effetto immediato è l’arrivo nello ri, almeno stando a un video ritrovato in un co- si per una nuova strategia e i semi dell’incubo Stato islamico di migliaia di foreign fighters, atvo dove bin Laden commenta con alcuni segua- dei giorni nostri: lo Stato islamico. Non più un tratti dal sogno di essere protagonisti nel «paraci l’acme della sua ascesa. Il presidente George califfato di là da venire e da far sorgere contem- diso in terra dei musulmani». Vengono dalla W. Bush, eletto meno di un anno prima con un poraneamente dal Marocco all’Indonesia lungo Russia (Cecenia), dalla Francia, dal Belgio, dalprogramma che allude a un neo-isolazionismo tutta la dorsale musulmana, ma uno concreto, la Gran Bretagna, dalla Tunisia... Alcune decine della superpotenza, è costretto dagli eventi a far- seppur più piccolo, da espandere a poco a poco. anche dall’Italia. Hanno accumulato un odio si «Marte» in opposizione a un’Europa «Venere» L’eredità di al-Zarqawi viene raccolta da Abu profondo verso i Paesi di provenienza dove si e riluttante a ingaggiare guerre, per parafrasare Ayub al-Masri che, nell’ottobre 2006 annuncia il sentono cittadini di serie B. Un odio che viene il credo dei suoi consiglieri neo-conservatori che cambio del nome del movimento in «Stato isla- incanalato dai capi verso azioni suicide. Dopo lo spingono a «esportare la democrazia» laddo- mico in Iraq» e designa come leader Abu Omar aver a lungo sottovalutato il pericolo, ve ci sono dittature ostili. Attacca l’Afghanistan al-Baghdadi. Mentre il mondo occidentale con- l’Occidente e alcuni partner arabi creano una (7 ottobre dello stesso anno) dopo il rifiuto del re- tinua a dare la caccia a bin Laden, la nuova si- coalizione anti-Is per contenerne l’espansione. gime talebano di consegnargli bin Laden. Appog- gla lavora quasi al coperto. Vengono assoldati al- Soprattutto dopo Charlie Hebdo (Parigi, 7-9 gengiato da una corposa coalizione che ben presto la causa ex ufficiali dell’esercito di Saddam, nel- naio 2015, colpiti la sede del giornale satirico e espugna Kabul, senza tuttavia catturare la pre- le carceri americane tra il Tigri e l’Eufrate, in un supermercato ebraico, firme in coabitazione da più ambita. Lo sceicco resiste nella ridotta di particolare a camp Bucca, si forma una nuova Is-al Qaeda, sarà l’ultima volta per ora), Tora Bora per poi svanire nelle aree tribali del classe dirigente che ha come punto di riferimen- l’offensiva erode i possedimenti del sedicente confinante Pakistan, protetto da una popolazio- to l’imam Abu Bakr al Baghdadi, issato al co- califfo. Che decide di bilanciare con l’attacco al ne come minimo fiancheggiatrice. Coalizione che mando nel 2010 dopo la morte sia di al-Masri che cuore dell’Europa. A Parigi, il 13 novembre scorsi assottiglia un anno e mezzo più tardi quando del suo quasi omonimo Abu Omar al-Baghdadi. so, tra stadio e ristoranti, restano per terra 130 Washington decide di ripetere lo schema (marzo Le circostanze esterne sono indispensabili nei cadaveri. Sono figli di Francia e del Belgio gli 2003) con l’Iraq di Saddam Hussein. Bush vuole destini degli umani. E il futuro califfo ha la for- autori. L’unico sopravvissuto è Salah Abdeslam. completare l’opera lasciata a metà dal padre nel tuna, poco dopo la nomina, di assistere a eventi Si scatena una caccia all’uomo tra clamorosi er1991 all’epoca della prima guerra del Golfo, epocali che agevolano il suo disegno. Le prima- rori dell’intelligence e coperture del suo clan a quando vinse ma non rovesciò il tiranno. Il pre- vere arabe (inizio 2011) nascono nella speranza Molenbeek dove è cresciuto e dove termina la testo sono non meglio identificate armi di distru- di un processo liberale in Paesi che non hanno sua latitanza lo scorso 18 marzo. Quattro giorni zione di massa di cui Baghdad sarebbe in posses- mai conosciuto la democrazia: ben presto però dopo, alcuni jihadisti della sua stessa cellula seso (non saranno mai trovate). La sciagurata spe- prevalgono le formazioni islamiche che eleggo- minano la morte all’aeroporto e nella metropolidizione, felice solo all’inizio e solo sul piano mi- no la Sharia a legge fondante. Con la (parziale) tana della capitale dell’Unione europea (35 le litare, spalanca il vaso di Pandora invero già eccezione della Tunisia, nel Nord Africa e in Me- vittime). Cinque giorni dopo è Pasqua per i cataperto, del terrorismo globale. Anche in seguito dio Oriente scoppia il caos. Con punte di anar- tolici: un kamikaze ammazza in un parco giochi all’improvvida decisione del governatore nomi- chia assoluta nella Libia del dopo-Gheddafi, un di Lahore (Pakistan) 70 persone tra cui una trennato dell’Iraq, Lewis Paul Bremer, di sciogliere altro despota rimosso e trucidato, e nella Siria di tina di bambini. Quasi a ricordarci che, mentre l’esercito di Saddam: 300mila persone piangiamo i nostri morti, non dobbiain armi e dalla mattina alla sera senmo dimenticare che il terrorismo mieza un lavoro. Quasi tutti sunniti e con te assai più vittime altrove, in particodi Pietro Acquafredda l’incubo della rivincita degli sciiti, in lare in terre di Islam. maggioranza e destinati a prendere il Questa storia non ha una conclusionsistentemente imploro che al- viaggio così lungo, mi ero accom- ne, se non parziale. Nel tirare le sompotere, come succederà, per il princimeno le pubbliche vie, quelle pagnato a due eccellenti pellegri- me del breve viaggio nel passato repio democratico «una testa un voto» in una terra dove si sceglie per appar- più battute che portano fra le vo- ni: un venerando abate e un uomo cente, si può solo notare che dopo l’11 tenenza etnica e non per ideologia. stre mura – essendo il Giubileo ricco di scienza e di eloquenza settembre 2001, e a dispetto delle Non per caso le province sunnite, Al imminente, durante il quale vi grande... Come passano gli anni e «guerre al terrorismo», lo stesso terroAnbar al confine con la Siria su tutte, sarà gran concorso di fedeli da come mutano le cose e variano i rismo ha causato circa 150mila morti sono protagoniste della resistenza al- ogni parte del mondo – siano libe- disegni degli uomini. Che questo in tutto il mondo. Il numero degli atl’invasore. Vaste aree sono fuori dal re da malandrini e si aprano ai mio quinto viaggio a Roma non sia tentati è decuplicato. Lo Stato islamicontrollo centrale, basi perfette dove pellegrini. C'è infatti pericolo che l'ultimo? Ma questo è il più felice co controlla una fetta di costa della organizzare la guerriglia e progettare costoro, spaventati da giustificato di tutti i precedenti, anche più Libia, sul braccio di mare prospicienterrore, siano indotti a non parte- splendido di quello del 1341, te l’Italia. Nella sua culla mediorienattentati. Abbiamo lasciato bin Laden in cipare al Giubileo o a raggiungere quando il dolce desiderio della tale si rimpicciolisce mentre si anqualche remoto rifugio a leccarsi le Roma cambiando strada» – scrive- laurea poetica mi aveva spinto a nuncia per questa primavera il granferite per la perdita di uno Stato, va ai Fiorentini Francesco Petrar- Roma invece che a Parigi. E per- de attacco per scacciare i suoi milizial’Afghanistan, braccato dagli america- ca; e all'amico Giovanni Boccac- ché proprio il più felice? Perché ni da Mosul, la piazza simbolo dell’eni e con la necessità, dopo i rovesci, di cio raccontava del suo pellegri- ora mi curo dell'anima, ora mi spansione, che sarà difesa a costo di riaffermare la centralità di al Qaeda. naggio a Roma: «Dopo averti salu- preoccupo della salvezza eterna e ingenti perdite. Il timore è che, anche A suon di bombe. L’11 marzo 2004 di tato a Firenze, mi dirigevo verso non penso affatto alla gloria che se l’Is ne uscirà sconfitto, le schegge Madrid, stazione di Atocha, 191 mor- Roma, dove, da questo anno da passa!». di una diaspora dei foreign fighters si (Anno Santo 1350. spargeranno per ogni dove. Pure nelti, è la perdita dell’innocenza dell’Eu- noi, poveri peccatori ardentemenFrancesco Petrarca. Lettere ai l’Europa dove anche la pace kantiana ropa, fino ad allora convinta di vive- te desiderato, quasi ogni cristiano Fiorentini e a Giovanni Boccaccio) fa parte del mondo «ex». re in una sorta di pace perpetua kan- viene. Per non annoiarmi in un tiana. La strage è la punizione per il Gigi Riva A GIUBILEI I sotto la superficie del decoro stia(segue dall’inserto II) no crimini e miserie. Volevo tirare i fili di quell’ambiente preciso in quel momento preciso: il quartiere Trieste a Roma nella prima metà degli anni ’70, un quartiere della piccola borghesia cattolica. Volevo mostrare come il risentimento borghese, cioè della classe razionale per antonomasia, potesse accendersi in fiammate selvagge. Volevo mostrare lo sbalordimento di fronte a quell’infiammarsi. Ma il mio bisogno era liberarmene, non ricordarlo. Mi ha aiutato molto la libertà di violare la memoria. Se avessi scritto le mie memorie sarebbe stato più duro. Tra la mia vita e il romanzo che ho scritto c’è uno scarto che è decisivo. Io non so se sono quello lì che racconta in prima persona, anche perché il protagonista è determinato anche dal suo coprotagonista, Arbus: se lui era così, allora “io”, io del libro, dovevo essere cosà. In realtà loro due sono un unico personaggio. So che avere finito questo libro per me ha il significato di chiudere con una parte della mia vita, il posto, e il tempo da dove vengo. Con il mio ambiente. So che io non ci tornerò mai più da un punto di vista letterario. Con questo libro ho chiuso con i preti, con Izzo e con il quartiere Trieste. È l’ultima volta che dico “io”, cioè Edoardo Albinati, in un mio libro. Un’amica mi ha detto che in questo libro ho messo tutto a nudo. È stato un gran complimento, perché la mia intenzione era proprio questa». (Aggiornamento: il romanzo di Enzo Bettiza I fantasmi di Mosca è lungo 2006 pagine). * * * il consumo di carne ovina e caprina è calato del 10 per cento, con punte del 25 il Venerdì santo. Gli allevatori imputano la crisi del settore alle campagne vegane lanciate proprio sotto le feste. Nel 2009, certifica l’Istat, in Italia sono stati uccisi 4,68 milioni di agnelli. Oggi «che mangiarli è come fare peccato mortale», si lamenta il vicepresidente della Confederazione italiana agricoltori Toscana Enrico Rabazzi, siamo scesi a 2,21 milioni, il 55 per cento in meno. Il giro d’affari Immigrati La Stampa, giovedì 31 marzo er il settimanale americano «Fortune» c’è un solo italiano nella lista delle personalità che stanno cambiando il pianeta. Come è ovvio il suo nome comincia per M, ma inopinatamente si tratta di un Mimmo. Mimmo Lucano, detto U Curdu. Quando ne divenne sindaco, Riace era un paesino esausto della Locride abitato da quattrocento anziani a cui avevano tolto tutto, persino i Bronzi. Ma un giorno sbarcò un veliero di curdi e il sindaco ebbe l’idea balzana di ospitarli nelle case abbandonate del centro. Dopo 15 anni di cura-Mimmo, oggi Riace si ritrova duemila residenti, un quarto dei quali sono stranieri che hanno riaperto le botteghe artigiane di tessuti e ceramiche. Un modello di integrazione studiato in tutto il mondo. In Rete i connazionali di Mimmo hanno salutato il riconoscimento internazionale con la generosità consueta. I più moderati gli rinfacciano di avere confezionato il miracolo grazie ai soldi pubblici (avrebbe fatto meglio a sperperarli come certi suoi colleghi?). Altri sostengono che il plauso di «Fortune» è la prova di un complotto mondialista per garantirsi manodopera a basso costo a spese della popolazione locale (che a Riace era emigrata ben prima dell’arrivo dei profughi). Ma la reazione più appassionante è stata quella della politica. Silenzio assoluto, tranne Boldrini. Dagli altri Palazzi nemmeno un tweet. Anche il governatore della Calabria ha ritenuto più educato tacere. E non solo ieri. E non solo lui. Perché in questo Paese che spende miliardi in consulenze di ogni risma, nessuno si è mai degnato di chiedere un parere sul problema degli immigrati all’unico che parrebbe averlo risolto. Massimo Gramellini P Idioti la Repubblica, mercoledì 30 marzo a frase «non è un terrorista, è un idiota» (attribuita a un funzionario del governo egiziano a proposito del dirottatore «per amore») merita approfondito dibattito. Non è una frase qualunque, è il titolo del più grande simposio di psicanalisi mai visto al mondo, è l’epigrafe da incidere sulle Porte del Male, è una battuta di Mel Brooks ma è anche Shakespeare, è il comico e il tragico che si abbracciano e si completano come lo yin e lo yang. Perché la domanda è: quanta idiozia c’è nel terrorismo? E viceversa, quanto terribile può essere l’idiozia? Si capisce che ci sono vicende (questa è una) nel quale l’idiota trionfa. Ma nei tanti casi in cui si attribuisce al terrorista un diabolico magistero, non si tratterà invece di un miserabile imbecille che fa strage solamente per vendicare e/o occultare la propria miserabile imbecillità? Un forte indizio a carico dell’idiozia del terrorismo (e dunque dei terroristi) è la sua conclamata impossibilità di vittoria sul campo. Può terrorizzare (è la sua ragione sociale), può uccidere, può piagare una comunità; ma vincere non è possibile, perché l’umanità è un bersaglio troppo enorme, e la sua inerzia vitale alla fine trionfa. E dunque, quanta idiozia c’è (oltre all’abominevole cattiveria) in un terrorista? Michele Serra L La scuola cattolica, Rizzoli 2016 l cattolicesimo certe volte pare l’antesignano e poi l’epigono del surrealismo. Prende una cosa qualsiasi e poi dice che quella cosa è l’esatto contrario di ciò che quella cosa con tutta evidenza è. Vai a un funerale, sei giù perché ti è morto qualcuno, almeno su questo sembrerebbe che non ci siano dubbi, vorresti che ti si lasciasse piangere in pace, e invece c’è sempre sul pulpito, dico sempre, come una maledizione!, c’è regolarmente un prete che ti assicura che il tuo amico o il tuo caro parente, per cui ti stai rattristando, non è morto. No, non è morto. Enzo non è morto. Silvana non è morta. Cesare non è morto. Rocco è ancora vivo. Ma come, non era morto?! E allora cosa stiamo qui a fare? No, lui non è morto, lui vive, e voialtri non dovete essere tristi, ma esultare con lui… per lui… di lui… godere insieme a lui… Certo, ora lui è in paradiso dun- I della carne ovicaprina è crollato dai 296 milioni del 2000 ai 174 dello scorso anno (Livini, Rep) venerdì 1° aprile Infermiera I carabinieri dei Nas hanno arrestato mercoledì sera all’aeroporto di Pisa, dove stata rientrando da una vacanza, l’infermiera Fausta Bonino, 55 anni, sposata, due figli (uno medico, l’altro chef), origi- naria di Savona da più di 20 anni in Toscana. È accusata di omicidio premeditato, continuato e aggravato dalla crudeltà. Nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Piombino iniettava ai pazienti dosi anche quattordici volte superiori al consentito di eparina, un’anticoagulante. Lo faceva anche con ricoverati non in fin di vita: tra le vittime una con il femore rotto, un’altra con la polmonite, una ricoverata per mettere la protesi all’anca. Ha ucciso (segue a pagina quattro) E nel quieto e tollerante Occidente fece irruzione il fattore rischio. Conseguenze Il Sole 24 Ore, domenica 27 marzo no dei luoghi comuni più radicati della retorica progressista recita più o meno così: è ingiusto e sbagliato trattare in modo eguale soggetti che eguali non sono. Di qui prende lo spunto la critica della «finzione» liberale, colpevole di ignorare che le libertà formali non bastano, in un mondo in cui le condizioni di partenza sono diversissime. C’è molto di ragionevole in questo punto di vista, se non altro perché esso attira l’attenzione su un punto tanto ovvio quanto dimenticato: qualsiasi azione, norma o misura messa in atto dal potere politico esercita effetti diversi, talora profondamente diversi, a seconda dei destinatari. È strano, tuttavia, che questo elementare principio sociologico sia così spesso rimosso, e lo sia in modo particolare dai suoi difensori più accesi. Negli ultimi trent’anni, ad esempio, il drastico abbassamento nel livello degli studi ha colpito i ceti deboli, privi di capitale culturale e di relazioni sociali, assai più di quanto abbia colpito i ceti alti, ricchi di risorse materiali, culturali e relazionali. Curiosamente, tuttavia, questa tanto drammatica quanto macroscopica asimmetria non è mai comparsa sul radar della cultura progressista. Qualcosa di simile, a mio parere, sta accadendo nelle discussioni dell’ultimo anno sulla lotta al terrorismo. La cultura progressista appare impegnata in una spasmodica difesa dei valori liberali (che ha sempre criticato per il loro «astratto universalismo»), e del tutto dimentica del principio della asimmetria degli effetti, che pure tanta parte ha avuto nella storia delle idee progressiste. Proclamando in tutte le sedi che non dobbiamo cambiare una virgola del nostro modo di vivere, che dobbiamo continuare ad accogliere ed integrare anche gli islamici, che va evitato ogni trattamento differenziale degli immigrati rispetto ai cittadini europei, che non possiamo cambiare le nostre leggi e i nostri principi di fondo (salvo dichiarare che «l’islam è parte dell’Europa»: copyright Federica Mogherini), essa dimentica precisamente le differenze, cui pure in altri contesti appare sensibilissima. Qui non mi riferisco però alle differenze ben note (anche se diversamente valutate) fra valori occidentali e islam, ossia al modo di trattare la donna, o al rifiuto del principio di separazione fra religione e politica. No, la differenza su cui voglio attirare l’attenzione è qualcosa di più sottile, che poco ha a che fare con la religione e l’ideologia, e molto con i comportamenti della vita quotidiana. Questo qualcosa non divide solo il terrorista islamico dal comune cittadino europeo, ma spesso divide l’immigrato dal nativo, e talora i nativi stessi fra di loro. Ed è cruciale nel contrasto all’illegalità, alla criminalità e al terrorismo, di qualsiasi fede o non fede essi siano. Di che cosa si tratta? Si tratta di una differenza di cui si occupano pochi, almeno nel dibattito pubblico (fra le eccezioni gli psicologi sociali, e lo scrittore Antonio Scurati). È la differenza fra chi ha una bassa e chi un’elevata propensione al rischio. O, se preferite, fra chi è profondamente avverso al rischio e chi lo accetta, o addirittura lo cerca. Noi, normali cittadini europei, abbiamo una elevatissima avversione al rischio. L’immigrato medio ha un retroterra di esperienze e di sofferenze che lo rende enormemente più disponibile ad assumere rischi, nel bene come nel male. Se una ragazza subisce un’aggressione in un tram, o un bambino rischia di annegare fra i gorghi di un fiume, è più facile che siano soccorsi da un immigrato che da un civilissimo cittadino europeo. Simmetricamente, nella manovalanza criminale gli stranieri sono sistematicamente sovrarappresentati rispetto ai nativi, presumibilmente anche per la loro minore avversione al rischio. Queste differenze diventano ovviamente abissali nel caso dei terroristi islamici autentici, ossia realmente convinti che l’unica cosa che li separa dal paradiso di Allah è la cordicella del detonatore che li farà esplodere. Ebbene, a me pare che nella lotta al terrorismo, ma più in generale alla criminalità (organizzata e comune), sia proprio questo, il diverso atteggiamento verso il rischio, l’elemento costantemente dimenticato. I nostri sistemi legislativi, giudiziari e penali hanno qualche efficacia finché a dover essere governati sono solo gli educati ed impauriti cittadini occidentali, ma diventano drammaticamente inadeguati, per non dire patetici, non appena ci si pone il problema di combattere individui e gruppi la cui propensione al rischio è incomparabilmente maggiore di quel- U que sta meglio di prima, ci arrivo pure io, non sono così rozzo: ciononostante mi sento preso per il culo da questa filosofia. Scatena in me una rabbia infinita, devo uscire dalla chiesa, sono anni che non riesco a terminare una funzione, preferisco aspettare la bara fuori quando la portano a spalla, un paio di parenti e amici paonazzi e gli addetti delle pompe funebri, con i bicipiti che sformano la giacca. È troppo sublime e insieme troppo facile. Basta rovesciare l’evidenza e tac, ottieni la soluzione. Se sei povero in realtà sei ricco; le malattie sono doni di Dio; quando muore qualcuno è una benedizione perché lui ora gioisce con gli angeli, i primi saranno gli ultimi, il bestemmiatore senza saperlo loda il Signore, se ti allontani da Dio vuol dire che lo stai cercando, se Dio non c’è allora vuol dire che di sicuro c’è… Possibile che in questa vita non ci sia una sola co- la del cittadino comune, sia esso nativo o immigrato, di prima, seconda o terza generazione. Il borghese benpensante e rispettabile, ma anche semplicemente il piccolo artigiano che si è fatto da sé, non possono permettersi neppure una notte in gattabuia, o un blando procedimento penale per qualche reato amministrativo. Ma ladri e criminali, che spadroneggiano nelle nostre città e nei nostri quartieri, se la ridono di gusto di fronte alle nostre procedure, tanto più in paesi-colabrodo come l’Italia e il Belgio. Noi italiani siamo straabituati, quando viene commesso un crimine violento, a scoprire quante volte il suo autore era già stato arrestato, condannato e rilasciato, e non può che averci provocato un sussulto di amara consolazione apprendere che uno dei terroristi dell’ultimo attentato di Bruxelles era già stato condannato a 10 anni di reclusione e scarcerato dopo soli 3 anni, nonostante la gravità dei reati commessi (compreso un conflitto a fuoco con la polizia, a colpi di kalashnikov). Certo, possiamo anche trastullarci con le solite parole d’ordine: ci vuole «più coordinamento», «più intelligence», più «unità d’azione», «più investimenti», «più risorse», «più cultura», «più Europa». Possiamo anche raccontarci che un intervento militare massiccio e determinato sarebbe in grado di estirpare il terrorismo islamico alla radice. Ma temo che, per lo meno nel breve periodo, l’unico gesto incisivo, non tanto contro il terrorismo islamico quanto contro la criminalità in generale, sarebbe di prendere atto che, quando una frazione non trascurabile della popolazione ha una bassa avversione al rischio di incorrere nei rigori della legge, l’unico rimedio efficace è di aumentare le probabilità che chi delinque subisca effettivamente delle sanzioni, ivi compresa l’incarcerazione per un tempo non irrisorio. Poche cose sono più criminogene che le norme proclamate e non fatte rispettare, come sa chiunque provi a educare dei figli o a mantenere la disciplina in una classe. Il punto, però, è che per imboccare la strada di una lotta efficace alla criminalità è inevitabile rinunciare a qualche abitudine, a qualche credenza o a qualche tabù. Le forze dell’ordine, ad esempio, dovrebbero abbandonare la prassi di trattare certe porzioni di territorio come zone franche (penso al caporalato nelle campagne, o ai quartieri in cui la polizia non osa entrare o preferisce chiudere un occhio). Le carceri dovrebbero diventare luoghi civili (come giustamente, da decenni, invocano i radicali), ma i soggetti pericolosi dovrebbero permanervi un tempo non irrisorio, perché la cosiddetta «incapacitazione» (ossia la messa di un soggetto nell’impossibilità materiale di compiere crimini), se accompagnata da misure di rieducazione, è uno degli strumenti più efficaci per ridurre il numero di reati. Soprattutto, dovremmo cominciare a renderci conto che l’unico modo per contrastare i soggetti con bassa avversione al rischio è innalzare il rischio stesso, non tanto di essere individuati quanto di essere condannati (celermente) e sanzionati (effettivamente). Questo vale per tutti i cittadini presenti in Europa, ma vale in modo particolare per quanti, rifugiati e migranti economici, l’Europa giustamente cerca di accogliere entro i propri confini. In un paese come l’Italia il tasso di criminalità degli immigrati è circa sei volte quello degli italiani, e probabilmente poggia più su una minore avversione al rischio che su speciali, indimostrate, tendenze criminali connesse alle varie etnie. Come tale può essere ridotto semplicemente alzando il rischio, ovvero il prezzo, della commissione di reati. Se, ad esempio, un ospite di paese europeo che commette reati perdesse definitivamente il diritto ai benefici del welfare (in caso di reati minori) e il diritto di risiedere in Europa (in caso di reati gravi), la maggiore propensione al rischio degli immigrati sarebbe bilanciata dai costi della violazione delle regole. Capisco che questo modo di vedere il problema non può piacere ai più accesi sostenitori dell’integrazione «senza se e senza ma». Però vorrei osservare sommessamente che, fra le diseguaglianze, vi è anche quella fra chi rispetta le regole, spesso facendo sacrifici e rinunce, e chi non le rispetta, spesso con benefici di gran lunga superiori ai costi. E che le pulsioni xenofobe e securitarie vengono anche dalla quotidiana constatazione dell’impunità di determinati comportamenti e di determinati gruppi sociali. Possiamo essere così affezionati ai nostri principi di umanità e accoglienza da non voler cambiare in alcun modo questo stato di cose. In tal caso, tuttavia, prepariamoci anche a vivere in un mondo di intolleranza e risentimento crescenti. Luca Ricolfi sa già messa fin dall’inizio per dritto, che non occorra per forza rovesciare? In mezzo a tutte le virtù, diciamo così, attive, che spingono a essere più e meglio di quello che siamo, quelle invece basate sulla rinuncia restano enigmatiche. Dal rispetto che ispira il sacrificio di sé alla ripugnanza e poi alla ridicolizzazione il passo è breve. L’eventuale vita di un santo, del tipo di quelle narrate nelle agiografie, con la consueta sfilza di mortificazioni e piaghe, se si replicasse oggi sarebbe oggetto del disgusto e della riprovazione generale. Ma un briciolo almeno di santità il prete dovrebbe portarlo con sé, in un angolo del suo cuore, o della sua mente, o del suo abito, altrimenti cos’ha di diverso da noialtri? Se non ce l’ha per niente è un bluff, e se invece ce l’ha, siamo così disabituati al sacro che ci spaventa o ci annoia. Il sacro è appunto la diversità. So(segue a pagina quattro) no sacri quelli che hanno ANNO XXI NUMERO 79 - PAG 4 IL FOGLIO QUOTIDIANO LUNEDÌ 4 APRILE 2016 In quarant’anni il mondo è ingrassato di quarantaquattro milioni di tonnellate. La crisi degli agrumeti in Sicilia tredici persone, di età compresa tra 61 e 88 anni. Qualcuno dice che era depressa, prendeva psicofarmaci e ogni tanto eccedeva con l’alcool (Gasperetti, Cds). (segue da pagina tre) Redditi Secondo le statistiche sulle dichiarazioni dei redditi delle persone fisiche pubblicate dal ministero dell’Economia, nel 2014 il reddito medio degli italiani è stato di 20.320 euro lordi (l’anno precedente era di 20.070 euro). Nella classifica per tipo di lavoro, i più ricchi sono gli autonomi (35.570 euro lordi l’anno), seguiti dai dipendenti, con 20.520. Poi ci sono gli imprenditori con 18.260 euro (sono i titolari di ditte individuali, le micro imprese, perché solo loro presentano il 730 o il modello Unico). A chiudere ci sono i pensionati con 16.700 euro (Salvia, Cds). Peso Negli ultimi 40 anni il peso delle persone è cresciuto di circa 6 chili a testa, per un totale di 44 milioni di tonnellate. Lo dice la rivista The Lancet: dal 1975 al 2014 le persone obese sono passate da 105 milioni a 641 milioni (è obeso chi ha un indice di massa corporea superiore a 30). Gli uomini che si trovano in questa condizione sono più che triplicati, balzando dal 3,2% al 10,8%. Le donne sono rad- doppiate: dal 6,4% sono salite al 14,9%. L’indice di massa corporea (il peso in chili diviso per il quadrato dell’altezza espresso in metri) è passato da 21,7 a 24,2 per gli uomini e da 22,1 a 24,4 per le donne. Di questo passo, nel 2025 un individuo su cinque nel mondo sarà obeso (Dusi, Rep). sabato 2 aprile Disoccupazione Lieve rialzo del tasso di disoccupazione a febbraio. Secondo i dati dell’Istat il tasso dei senza lavoro è salito all’11,7%, lo 0,1% in più su gennaio. A febbraio si contano dunque 7mila disoccupati in più, tutti di sesso maschile, visto che tra le donne la disoccupazione è diminuita, ma solo perché quasi 50mila di loro hanno smesso di cercare lavoro. La disoccupazione giovanile è scesa al 39,1%, in calo dello 0,1%. Nello stesso tempo si registra un calo di 97mila unità tra gli occupati Quel porca puttana così disinvolto del Trap la Repubblica, venerdì 1° aprile na telecronaca parecchio disinvolta, un «porca putt...» scappato in dribbling lungo la fascia laterale di una carriera leggendaria, un «orcozio» in vistoso fuorigioco. Non proprio una grande serata, quella del Trap contro i tedeschi. Più o meno come gli azzurri in campo. Ma adesso Giuàn rischia il posto, e una figuraccia che alla sua età può pesare tanto, troppo. Lui la merita? Allora, mister, è pentito? «Mi è scappata, cosa devo dire? La diretta frega, il trasporto emotivo fa parte di me. Non ho studiato pedagogia o deontologia, non sono mica un professorone». Ma quella mezza bestemmia, Trap… «Eh no, quella è un’esclamazione da sempre mia, orcozio è un modo di dire popolare dalle mie parti, io sono cattolico praticante, avevo una sorella suora, ho portato in panchina l’ampolla con l’acqua benedetta, vi pare che mi metto a tirar giù il bestemmione?». Adesso, però, in tanti le chiedono un passo indietro. Lo farà? «Prima cosa: non chiedo scusa a nessuno. Seconda cosa: se non sto più bene, beh, me lo dicano e io rimango a casa senza mettermi a piangere. Vivo lo stesso anche senza le telecronache. Io ho fatto la storia del calcio italiano, portate pazienza». Ma non ha paura che proprio questo sia il problema? Diventare, da mito, una macchietta? U «No, non mi sento un burattino e neanche un comico. Sono una persona sincera, sanguigna. Il sangue mi circola forte, lo sapete. Il Trap non è un buffone ma uno che capisce di calcio: come commentatore penso di poter spiegare il fatto tecnico, il mio è il contributo di uno specialista. Poi, lo capisco, se qualche solone fissato con la purezza della lingua italiana mi critica io lo accetto, prendo e porto a casa, ma per favore non mi offendete». Mister, si era accorto del “porca putt.”? «Veramente no. Quando sono arrivato a casa, mia moglie mi ha chiesto: Giovanni, ma cosa hai detto? E io: perché, che cosa ho detto? E lei ha risposto: ho registrato tutto, riguardati un po’». E lei, Trap, si è riguardato? «Ehm, per adesso no, non ho avuto tempo, sono stato pieno di cose da fare. Ma stasera ho deciso, stasera mi metto sul divano e ascolto da cima a fondo questa benedetta telecronaca». Sul suo linguaggio pittoresco, però, si scherza da sempre. «Io sono quello di Strunz, lo so bene. Ci ho pure giocato, ho girato quello spot per le lavatrici parlando tedesco e facendo la mia caricatura. Ho 77 anni penso di essere anche autoironico, ma non posso diventare un pagliaccio. È una colpa non essere laureati? Allora sì, sono colpevole». Avrà letto le critiche di questi giorni: cosa ne pensa? Quale le ha dato più fastidio? «Qualcuno tenta di farmi passare per rimbambito e io non ci sto. Anche trent’anni fa parlavo così, mi esprimevo così. Ho girato il mondo, conosco il calcio come pochi, non mi sono rincoglionito di colpo». Ha provato a fermarsi un istante, prima di lasciarsi andare? «No, perché allora sarei falso. Io so sempre quello che dico, questo lo voglio chiarire molto bene: poi, certo, a volte in diretta non sempre penso a quello che dico, lo dico e basta. Ma il valore del sottoscritto, il valore tecnico e umano intendo, non cambia». Crede sia più un problema di sostanza o di forma? «La mia sostanza, scusate, è fuori discussione. Della forma si può parlare, come di quasi tutto. Io esprimo opinioni, lo faccio da una vita e non mi sono mai nascosto. Come dice quel tale: le opinioni sono come le palle e ognuno ha le sue». Però la Rai, mister, è qualcosa di molto istituzionale. «Io non ho legami speciali con nessuno, se non mi vogliono me ne vado. Magari dipende da qualche gelosia. Non vorrei che ci fosse sotto anche qualcosa di politico, in questo Paese tutto è possibile». A parte le scivolate, le viene rimproverato anche quell’intercalare continuo e pieno di «sì, sì, dài, dài, bravo». «Ma forse non hanno capito che Giovanni Trapattoni è rimasto in panchina e da lì non si muove. Giovanni Trapattoni è ancora allenatore. Mi viene spontaneo spingere i giocatori con la voce, è più forte di me: al microfono dico le stesse cose che dicevo a bordo campo. Sono trasparente e immediato. E non sono un giornalista, non sono un telecronista. Sono il Trap. Prendere o lasciare». Lei lascerà? «Se non mi obbligano, manco morto». Maurizio Crosetti Doparsi a 79 anni per non prendere il viagra la Repubblica, domenica 27 marzo ospeso dall’antidoping a 79 anni. Fermato in via cautelativa dal Coni perché nel suo sangue sono stati trovati livelli eccessivi di testosterone e Dhea, un precursore degli ormoni steroidei. Giorgio Maria Bortolozzi, ex primario di Ginecologia all’ospedale di Conegliano (Treviso), lunghista e triplista di livello internazionale, tre volte campione mondiale categoria Master, è stato sospeso dall’attività agonistica a un’età record. Con tanto di comunicazione ufficiale del Tribunale nazionale antidoping del Coni, a seguito del controllo operato dalla Nado-Italia dopo i campionati italiani indoor Master di atletica, disputati ad Ancona lo scorso 28 febbraio. È innegabile che tra gli effetti del deidroepiandrosterone (il Dhea) ci siano l’aumento della forza, della prestanza fisica e della performance sportiva. Ma il medico pizzicato dall’antidoping si ostina a dire che si tratta solo di negligenza: sostiene di non aver presentato la richiesta di esenzione a fini terapeutici e che le tracce rinvenute vadano ricondotte all’assunzione di quello che lui considera un semplice integratore. In America, in effetti, il Dhea non è considerato un farmaco ed è venduto come integratore alimentare. Come ci si può dopare a 79 anni? «Non scherziamo. Qui stiamo parlando della salute dell’anziano, non di doping. Vi rendete conto che per la commissione antidoping andrebbe giustificata anche l’insulina?». Trevigiano doc, sposato, padre di tre figli e nonno di quattro nipotini, lei è stato sospeso dopo tre titoli mondiali, due europei e una decina di tricolori. Come le è venuto in mente di utilizzare il Dhea? «Ci sono milioni di persone che lo usano in America: è considerato un supplemento dietetico, la pillola della giovinezza. Previene il tumore della prostata, il diabete, l’Alzheimer e mantiene attive anche le funzioni sessuali. Così non S ho bisogno del viagra». Un metro e ottantacinque per 82 chili di peso, cocciuto praticante della dieta a zona, accanito sostenitore di integratori come creatina, carnitina e proteine. Non le sembra eccessivo tutto questo? «La cultura dei medici è sotto i tacchi. Quelli dell’antidoping non sapevano nemmeno come si scriveva Dhea. Non solo questo prodotto l’ho consigliato a parenti e amici, ma non ho mai fatto mistero di assumerlo». In Italia è difficile da trovare. Più facile reperirlo negli States. Per quale motivo? «Per forza non si trova in Italia, non consente alcun guadagno. Io ne prendo 50 milligrammi al giorno e un flacone con 70 capsule costa solamente 7 euro. Lo ordino via internet e lo utilizzo da ben 15 anni». Nel 2002 lei fu sottoposto a un controllo antidoping qualche mese dopo l’inizio della cura, ma non venne evidenziato alcun indicatore. Ora ha scritto una lunga relazione per spiegare la sua tesi e l’ha inviata al Tribunale antidoping, che dovrà decidere se procedere o meno con la squalifica. «La mia è una battaglia medica, di conoscenza del problema. L’unico mio errore è non aver comunicato che pratico questa cura. Ma non mi si può imputare la pratica dopante. Credo che dopo i 60 anni tutti dovrebbero farne uso. Io faccio sport e mi tengo in forma per rallentare l’invecchiamento. Ho 79 anni, ma mi sento ancora un leone. Per quale motivo dovrei autocensurarmi?». Lei è esponente di una famiglia di medici tra le più note di Treviso, suo padre fu il più giovane primario d’Italia. È convinto che questa bufera finirà con il ledere la vostra immagine pubblica? «Sono sicuro che tutto sarà chiarito a breve. Ho chiesto la procedura d’urgenza perché voglio partecipare ai campionati europei della settimana prossima. Si gareggia mercoledì e sabato». Enrico Ferro Pizzaballa, l’uomo dalla figurina introvabile pagina99, sabato 26 marzo n sommo stupore colse Gigi Pizzaballa quel giorno davanti alla cassetta delle lettere. Correva il 2011, anno del 50° anniversario della Panini, e a casa sua era recapitata una busta che conteneva una singola figurina: la sua. «Finalmente ne possedevo una, grazie a un professore di Avellino che l’aveva doppia. Non ho mai voluto controllare se fosse vera», scherza oggi che va per i 77. La figurina del numero uno dell’Atalanta, stagione 1963-64, per decenni si era negata persino al più legittimo dei proprietari, un ottimo portiere la cui dote principale rimarrà sempre l’irreperibilità. Pier Luigi Pizzaballa è nato e cresciuto a Bergamo. Settimo di otto fratelli, esordì giovanissimo con i nerazzurri e lì giocò per dieci anni tra il 1958 e il 1980. In mezzo Roma, Verona e Milan, oltre alla convocazione di Mondino Fabbri al Mondiale inglese. «Nel 1963 l’Atalanta era reduce dalla conquista della sua prima e unica Coppa Italia, all’improvviso mi ritrovavo sulla bocca di tutti». Chi lo invocava, chi malediceva la sua sfuggevolezza. Tutti lo volevano, chi lo aveva si scopriva usuraio e alzava la posta. Non è chiaro come né perché, ma l’effige di Pizzaballa era introvabile. La voce fece su e giù per la penisola. «Sulle prime fui infastidito», confida, «parevo più una figurina che un calciatore. Oggi sono felice che il mio nome sia ancora così familiare». Eppure, per quanto il fascino del mistero di coccoina sia rimasto intatto allo scorrere dei campionati, una spiegazione ci deve essere. Com’è che l’ex garzone di Città Bassa è diventato l’uomo più ricercato dai collezionisti dello Stivale? «Ho la mia teoria, ma nessuna certezza. A quei tempi i fotografi venivano al campo raramente per gli scatti ufficiali. Io mi feci male al gomito a Lisbona e saltai un appuntamento, al secondo ero al servizio militare. Può darsi che non fossi in archivio e così mi ritrovai senza la figurina». In nostro soccorso giunge Luca Panini. Classe ’77, ultimo di 26 cugini, per via dinastica è la persona più indicata a svelare l’arcano. È amministratore delegato della Franco Cosimo Panini, casa editrice che stampa il diario Comix e la Pimpa. Il padre la fondò 27 anni fa a Modena, dove assieme ai fratelli Giuseppe, Benito e Umberto aveva avviato l’avventura della Panini. La società, che nel 2014 ha fatto registrare ricavi per 758 milioni, è stata ceduta nel 1989 e oggi distribuisce figurine in tutto il mondo. «L’azienda nacque nel 1961 come una startup. Papà e gli zii, membri di una famiglia di edicolanti, avevano intuito il fenomeno e si ingegnarono per avviare la produzione», esordisce. «Nei primi anni mancavano strumenti e competenze perché Umberto, genio meccanico del gruppo, si unì all’impresa solo nel 1964: fu lui a inventare la macchina che mischiava e imbustava le figurine. Prima tutto era artigianale e la mescola si praticava con un badile nei locali dello stampatore». Poteva così capitare che lo stesso giocatore finisse due volte nella medesima bustina o, peggio ancora, che per via dei lotti di produzione tutti gli esemplari fossero recapitati in una regione. Una cosa Luca Panini può assicurare e, scattata da tempo la prescrizione, vale la pena credergli. «Non c’è mai stata la volontà di creare la figurina mancante, non era la politica della famiglia. Non c’erano meno Piz- quarant’anni meno di noi e devo(segue da pagina tre) no ancora avere il primo rapporto sessuale o devono ancora sposarsi, sono sacri quelli che hanno la pelle di un altro colore o vanno a piedi scalzi, se siamo maschi sono sacre le femmine, se siamo femmine i maschi, è sacro chi porta un fez, un turbante, una bombetta, un cappello da bersagliere, persino il cilindro preso a nolo per un matrimonio conferisce per una serata al capo di chi lo calza l’aura di un paramento sacro. È sacro l’impronunciabile cognome di una donna a ore cingalese. Era sacro per me ieri notte traversare silenziosamente in barca gli stretti canali di Castello, a Venezia. E sono queste briciole di sacro, queste particole di sacro, a infastidire e a scatenare risentimento. E tu saresti uno che parla ogni giorno con Dio? verrebbe da dire al prete. Mostramelo, allora, questo tuo Dio, tiralo fuori adesso, fammi un miracolo qui, su due piedi. Mi accorgo di usare spesso, mentalmente, lo stesso linguaggio degli interrogatori a cui venivano sottoposti i primi cristiani, che subì Cristo stesso, prima di essere messo in croce. Hic Rhodus, hic salta. Da ogni credo religioso si pretende, non del tutto a torto, che si renda immediatamente salvifico: invece tutti promettono cose lontanissime, premi che verranno tardi, troppo tardi, alla fine dei tempi, per cui nel frattempo si finisce per accontentarsi degli aspetti minori e propiziatori, semi-magici, un po’ di consolazione dalle durezze che tocca sopportare qui e ora, qualche piccolo o grande miracolo, la carezza fredda alla statua di un santo che ti ha protetto durante un incidente, airbag gonfiato di preghiere. Un giorno che mi trovavo a Padova uscii la mattina presto dall’albergo e, svoltato l’angolo, mi accorsi di essere a cento metri dalla basilica del Santo (la notte pri- U zaballa rispetto ad altri giocatori. Pensate che verso la fine degli anni ’70, quando la Panini era già una multinazionale, la Svezia obbligò gli importatori a garantire che ogni scatola, la confezione da 100 pacchetti, contenesse tutti i pezzi per completare l’album. Ma da tempo le macchine erano già settate in quella maniera». Fu un bene perché, verità o leggenda, pare che alla dogana i funzionari scandinavi aprissero le bustine a una a una per controllare che nessuno avesse fatto il furbo. E mancasse, chessò, un Albertino Bigon. Insomma, tutto si risolve con una fredda verità tecnica. Che però, in maniera involontaria, si è alimentata negli anni e sedimentata, nelle coscienze. Anche in quelle dei protagonisti, che ancora non si accontentano di una sola risposta per quanto convincente. «Secondo me ha contribuito il cognome insolito», dice Gigi Pizzaballa, «senza dimenticare che io ero il primo elemento della prima squadra in ordine numerico e quindi la mia assenza spiccava». «Allora le figurine», suggerisce Luca Panini, «erano usate per vari giochi: lettera, muretto, numero. In quest’ultimo la prima valeva come un jolly, era preziosissima. Il punto è che ogni giocatore è un po’ introvabile nei posti dove è amato, perché finisce attaccato sui diari scolastici. In questo senso Bandoni, numero uno del Palermo di quegli anni, era il Pizzaballa siciliano». Non si offenderà l’originale, che d’altra parte ha ben altro di cui occuparsi. Oggi l’ex ossessione dei cacciatori di figurine fa il nonno e insegna ai ragazzi delle scuole calcio i valori dello sport. E ancora sorride quando pensa alle facce di Mazzola e Rivera, quel giorno che gli disse «io sono molto più ricercato di voi». Dario Falcini ma arrivando mezzo ubriaco in taxi non l’avevo vista), vi entrai, mi diressi verso l’urna che contiene le sue spoglie e debbo dire che man mano che mi avvicinavo sentivo crescere un’emozione forte e inspiegabile. Non che l’onda di questo nuovo sentimento cancellasse lo scetticismo precedente, dato che io non sono nemmeno scettico, miscredente o ateo, non sono nemmeno quello, non sono niente; le convinzioni personali vi avevano poco a che fare: forse era solo la corrente, l’anello magnetico formato dai voti che intorno a quella pietra circolavano da secoli. Quando fui abbastanza vicino al sepolcro da poterlo toccare con la mano, e lo feci, carezzandone una parete, mi accorsi che i tasselli multicolori che lo rivestivano vistosamente non erano intarsi di marmo, ma fotografie incollate col nastro adesivo, decine di fotografie, ed erano tutte di carcasse di automobili schiacciate o sventrate o bru- (92mila a tempo indeterminato) rispetto a gennaio (Sensini, Cds). Agrumi/1 Secondo i dati Istat, ripresi da Coldiretti, negli ultimi 15 anni in Sicilia è scomparso il 50% dei terreni coltivati a limoni, il 31 % degli aranci e il 18 % dei mandarini. In totale, un terzo dei terreni. Al posto degli agrumeti, distese di cemento, parchi eolici o fotovoltaici, o ter- Firme A cura di Giorgio Dell’Arti. Redazione: Francesco Billi, Luca D’Ammando, Jessica D’Ercole. Grafici: Roberto Vespa, Giuseppe Valli. Hanno collaborato: Daria Egidi, Roberta Mercuri. Realizzato da: Bcd Srl. ACQUAFREDDA Pietro. Critico musicale, ha diretto le riviste Piano Time, Applausi, Music@. Il suo blog è Il menestrello. lena Benini, due figli. AINIS Michele. 61 anni, messinese trapiantato a Roma. Costituzionalista. Insegna Diritto pubblico all’università di Roma Tre. Editorialista del Corriere della Sera e dell’Espresso. Nel 2006 si candidò alla Camera con la Rosa nel Pugno. Ha scritto una quindicina di saggi e un romanzo, Doppio riflesso (Bur). GINZBERG Siegmund. 67 anni, di Istanbul. Storico. Giornalista. È stato corrispondente e inviato dell’Unità in Cina, India, Giappone, Corea, a New York, Washington e Parigi. Collabora con la Repubblica, in passato con Il Foglio. ALBINATI Edoardo. 60 anni, romano. Scrittore. Primo libro Arabeschi della vita morale (Longanesi, 1988); ultimo La scuola cattolica (Rizzoli, 2016). Dal ’94 insegna al carcere Rebibbia di Roma. Si è sposato nel 1984 con Benedetta Loy, da cui ha avuto due figli. ARTUSI Pellegrino. Forlimpopoli 4 agosto 1820 – Firenze 30 marzo 1911. Scrittore, gastronomo, critico letterario. Le 790 ricette de La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene furono pubblicate per la prima volta nel 1891. BONCINELLI Edoardo. 74 anni, nato a Rodi. Genetista, ha dato contributi fondamentali per la conoscenza dei meccanismi biologici dello sviluppo embrionale negli animali superiori e nell’uomo. Appassionato ellenista. Collabora con il Corriere della Sera. BUFACCHI Isabella. 54 anni, romana. Vicecaporedattore del Sole 24 Ore. Ha iniziato a Londra, lavorando per l’agenzia di stampa egiziana Middle East news mentre studiava alla London School of Economics. Rientrata in Italia nell’86, ha lavorato a MF, Plus, Gente Money e nel ’90 è entrata al Sole. Sposata, un figlio, Ivan. Ama il freddo e sciare. COLONNELLI Lauretta. Di Pitigliano (Grosseto), laureata in Filosofia, ha lavorato per 15 anni all’Europeo. Dal 1996 scrive di cultura per il Corriere della Sera. Hobby: leggere, andar per mostre e musei, coltivare ulivi. Ultimo libro: La tavola di Dio per le Edizioni Clichy. CORDISCO Roberta. Lavora alla Stampa, collabora con Il Mattino di Foggia. Laurea in Lettere all’Università di Siena, master in giornalismo all’Unisob di Napoli. CROSETTI Maurizio. 53 anni, torinese. Inviato speciale, a Repubblica dal 1991. È sposato con Cinzia e ha tre figli: Matteo, Maria Chiara ed Eugenia. «Forse è un po’ stringata, ma io non sopporto quelle autobiografie dove il soggetto dice di quella volta che da bambino pioveva e lui decise di prendersi un cane e diventare scrittore, poi passò a suonare lo xilofono e adesso sogna di vedere la Groenlandia un lunedì di marzo, ma solo se piove». Ha appena pubblicato per Baldini & Castoldi Esercizi preparatori alla melodia del mondo. FACCI Filippo. 48 anni, nato a Monza, vive a Milano. Ha collaborato a l’Unità, la Repubblica, L’Avanti, l’Opinione, Il Tempo, Il Riformista, per 15 anni editorialista del Giornale. Ora è inviato speciale di Libero. È pazzo di Wagner e decisamente asociale. Nel tempo libero scala montagne. FALCINI Dario. 31 anni, di Domodossola. Vive a Milano. Redattore a Radio Popolare. Collabora con il Fatto Quotidiano, pagina99, Extratime Gazzetta e Wired. Appassionato di Nba. FELTRI Mattia. 46 anni, bergamasco. Ha iniziato nell’88 a Bergamo Oggi, ha lavorato al Foglio dal ’96 al 2004, poi a Libero. Dal 2005 è alla Stampa. Tifoso del Torino dalla stagione 1976/77. Sposato con Anna- FERRO Enrico. 36 anni, di Este (Padova). Cronista del Mattino di Padova. GRAMELLINI Massimo. 55 anni, torinese. Direttore creativo di Iredi, editrice della Stampa. Ospite fisso del talk show di Raitre Che tempo che fa. Nel tempo libero tifa Toro. Per sua fortuna, dice, ha poco tempo libero. LONGO Morya. 40 anni, milanese. Dal 2000 lavora al Sole 24 Ore, per cui ha seguito tutte le più importanti vicende finanziarie dell’ultimo decennio. Prima ha lavorato per Reuters, il Mondo e Radio 24. Ha due figli, Giacomo ed Edoardo. Segno particolare: un nome di origini tibetane. MALVALDI Marco. 42 anni, di Pisa. Laureato in Chimica, continua a essere appassionato di scienza nonostante ormai faccia lo scrittore da un buon lustro. MERLO Francesco. 64 anni, catanese. Editorialista di Repubblica. È sposato e ha tre figli. Non ama dire curiosità su di sé, «sono cose goliardiche». PAGNONCELLI Nando. 56 anni, bergamasco. Sondaggista. Presidente di Ipsos Italia. Collabora con il Corriere della Sera (in precedenza con il Messaggero) e con diMartedì (La7). Sposato, due figli. Vive a Bergamo. RICOLFI Luca. 66 anni, torinese. Sociologo. Insegna Analisi dei dati all’Università di Torino. Fondatore dell’Osservatorio del Nord Ovest. Sposato con Paola Mastrocola, un figlio. Ama la barca a vela, le immersioni subacquee e l’isolamento dal mondo esterno. Fino ai 16 anni ha giocato molto al trenino elettrico. RIVA Gigi. 56 anni, di Nembro (Bergamo). Caporedattore centrale dell’Espresso, è stato tra l’altro direttore del Giornale di Vicenza. Ha seguito le guerre dei Balcani sino al 1996, conflitti sui quali ha scritto due libri e due film. RONCONE Fabrizio. 52 anni, romano. Ha iniziato a scrivere su Paese Sera a 19 anni, nell’89 è passato a l’Unità e dal ’98 lavora al Corriere della Sera, dove ora è inviato. Tifa Roma, non va in bici e l’estate non gliene importa niente di risalire il Mekong (meglio Ponza). Fuma il toscano. SABADIN Vittorio. 65 anni, padovano. È stato caporedattore centrale, vicedirettore e corrispondente da Londra de La Stampa. Ha incontrato più volte la Regina Elisabetta. In pensione, continua a scrivere, dipinge falsi d’autore, cerca di migliorare il suo golf e tiene conferenze di guida all’ascolto delle opere di Mozart. SERRA Michele. 61 anni, nato a Roma. Giornalista quasi per caso: «Ho iniziato sostituendo uno stenografo dell’Unità partito per il servizio militare». Dal 1996 scrive per Repubblica. Dal 2002 ha la rubrica Satira preventiva sull’Espresso. Dal 2007 cura la rubrica delle lettere sul Venerdì. Ama oziare, leggere e cucinare. Interista senza riserve. STELLA Gian Antonio. 63 anni, di Asolo (Treviso). Editorialista e inviato speciale del Corriere della Sera. Ha iniziato a 22 anni al Corriere di Informazione, è stato corrispondente sportivo di varie testate. Sposato, un figlio, Massimo. Ama cucinare e suonare la chitarra. reni incolti (Anello, Sta). Agrumi/2 Una spremuta di arance che al bar può costare fino a 5 euro, a un coltivatore di agrumi viene pagata 3 centesimi (ibidem). Roberta Mercuri (ogni mattina il Fior da Fiore quotidiano su www.cinquantamila.it) A casa della dolce Fausta, l’infermiera accusata di essere un killer seriale Corriere della Sera, sabato 2 aprile l marito. Poi tutti abbiamo pensato: e il marito? Eccolo. Una casa in ordine, arredata con sobrietà. Le persiane socchiuse. La televisione accesa. Il Tg1 delle 13.30. Parlano di lei, di Fausta Bonino, sua moglie. Le notizie, le stesse: tredici decessi sospetti nel reparto di Anestesia e Rianimazione di Villa Marina, l’ospedale di Piombino, tra il 2014 e il 2015, tredici decessi provocati da inspiegabili, rapide e irreversibili emorragie; e quell’infermiera sempre presente. Lui ascolta distratto. Renato Di Biagio dimostra molto meno dei suoi 66 anni, undici più di Fausta: un uomo asciutto, tonico, di media statura; la barba curata, i capelli brizzolati, le pantofole. Non c’è una regola su come si debba reagire davanti alle brutte notizie, anche a quelle più sconvolgenti: certo questo marito – ex dirigente delle acciaierie, ora in pensione – dimostra di avere nervi saldi e uno sguardo fermo in un miscuglio di rabbia e determinazione. «Mia moglie è innocente». Signor Di Biagio, sua moglie è accusata di... «So tutto, per filo e per segno. Ma le ripeto: mia moglie è completamente innocente». Da cosa nasce questa sua convinzione? «Dall’evidenza dei fatti...». Continui. «È un processo indiziario che ruota tutto, che si fonda solo ed esclusivamente su alcune coincidenze temporali...». Quindi lei ritiene che... «Mi faccia finire: coincidenze temporali che possono essere... Anzi, che certamente sono frutto di pura casualità». È lecito pensare che la Procura e i carabinieri siano in possesso di prove più consistenti di qualche semplice coincidenza. «Senta, con il trascorrere delle ore sta emergendo già una verità: questo processo è stato messo in piedi dalla Procura solo e soltanto sulla base di alcune coincidenze, con la complicità di giornali e telegiornali ai quali non è parso vero di trovare subito una colpevole per quella serie di morti sospette. Ma prove chiare, nette, schiaccianti nei confronti di Fausta, io non le ho lette né le ho sentite». Da quanto siete sposati? «Da 34 anni». Qual è stata la reazione dei vostri due figli? «Lasci stare i miei figli». I carabinieri hanno raccontato che sua moglie avrebbe problemi di epilessia e farebbe uso di antidepressivi. «E queste, secondo lei, sono prove schiaccianti?». È un pomeriggio caldo. Dal secondo piano sale un odore forte di cavolo bollito. Gli inquilini di questa palazzina di via Prima Maggio – la Piombino costruita negli anni Sessanta, strade ad angolo retto, del mare solo la I ciate, del genere che si fa dopo gli incidenti per ottenere il rimborso dall’assicurazione. Anche se a giudicare dalla gravità dei sinistri nessuna delle vetture sarebbe mai stata riparata: ce n’erano alcune il cui muso era completamente rientrato nell’abitacolo in seguito a uno scontro frontale, altre con il tetto ribassato fino all’altezza delle spalliere dei sedili, che lasciavano poco margine all’immaginazione di cosa ne fosse stato degli occupanti. E invece, sorpresa, accanto alle foto della polizia stradale, ce n’erano altre più piccole e recenti, qualche volta delle polaroid, raffiguranti un uomo o una donna sorridenti, e un biglietto di ringraziamento al Santo per averli salvati. Lo seppi decifrando alcuni di questi messaggi scritti in inglese o spagnolo con la calligrafia infantilmente chiara e tondeggiante che hanno, per esempio, i filippini, e in effetti quasi tutte le foto votive appartenevano a immi- brezza – tengono gli usci socchiusi e confessano stupore, angoscia e pena per la Fausta, venuta a vivere qui subito dopo il matrimonio. Un matrimonio felice. Una famiglia felice. «Con due figlioli – racconta la signora Adele Fornaciari, 82 anni, del secondo piano – cresciuti pieni di gioia e di attenzione: Andrea e Lorenzo, dovrebbe vederli, sono due fiori di figli. Uno è medico specializzando nel reparto di Anestesia al Cisanello di Pisa, mentre l’altro è cuoco a Parigi... ed è da lì, poverina, è proprio da Parigi che la Fausta tornava, quando l’hanno arrestata all’aeroporto». La Fausta è generosa. La Fausta è premurosa. La Fausta che se poteva farti un piacere, ecco che lo faceva. «La Fausta arrivò qui da Savona che l’era ancora piccina, una ragazzetta – ricorda la signora Anna del primo piano – e subito si fidanzò con Renato, che invece arrivava da lì di fronte, dall’Elba. Lei l’è sempre stata infermiera. Prima credo che fosse nel reparto di Ginecologia, poi passò lì, dove tutto sarebbe successo». Una porta si apre più lentamente. Una voce nella penombra. Anzi, meno di una voce: un soffio. «Brava donna, sì sì... Però poi, negli ultimi tempi, nervosa e scura, come irrequieta». Scura anche di carnagione, capelli neri, esile, scattante, veste con gusto, ma mai appariscente. Dopo due ore, sugli appunti resta l’identikit di una donna dentro una normalità quasi banale. La parrucchiera all’angolo: «Veniva un paio di volte al mese». Il salumaio: «Faceva la spesa e poi via. Mai una parola di troppo». Qualche volta a messa, nella parrocchia di Santa Maria della Neve. Una vita così. Che nel quartiere nessuno s’è mai accorto di lei. Era solo un’infermiera. Si capiva dai turni, perché a volte rientrava all’alba. E dai piccoli favori che, di tanto in tanto, qualcuno le chiedeva. Dovrei fare una radiografia: mi prenoti tu, Fausta? Poi si scopre che, secondo i carabinieri, avrebbe accoppato tredici pazienti in due anni. Fiala di eparina, uno dei più potenti anticoagulanti del sangue. Siringa. Un sorriso dolce, un’iniezione, un’esplosione nelle arterie di quei poveri disgraziati. Da Livorno, fonte investigativa, arriva la notizia che potrebbe essere necessario procedere con la riesumazione di alcuni cadaveri. Arrivano anche altri fotografi e cameraman. Le telecamere già accese. Tutte le trasmissioni hanno lo stesso eccitante progetto: mandare in diretta il marito del mostro. Ma lui resta su, dentro casa. È un uomo forte, come s’è intuito prima. Con certezze assolute. Incrollabili. Perché quella è sua moglie. E un marito crede a sua moglie. E difende sua moglie. È sorprendente scoprire come in questa storia di morte, ci sia anche una traccia di amore. Fabrizio Roncone grati, orientali o ispanici, come se gli incidenti automobilistici accadessero solo a loro oppure solo loro, oramai, in un paese poco riconoscente, si sentissero in dovere di ringraziare qualcuno lassù per averla scampata. Mi spiacque di non avere con me le foto dell’Honda 125 su cui mia figlia Adelaide poche settimane prima era andata a sbattere contro una macchina correndo la mattina a scuola, e la relativa foto di lei sorridente e illesa. Mi spiacque ma pensai di rimediare dicendo una preghiera, “Ti ringrazio… ti ringrazio… di averla salvata”, ma non sapevo a chi indirizzare esattamente quel grazie, chi fosse il tu a cui rivolgersi. Dio è lontano, il Santo troppo occupato, e semmai ascolterà chi crede veramente in lui. Mi mantenni così nel vago, come nelle poesie in cui si è sicuri che il poeta si rivolge a una donna amata, ma non si sa a quale. Edoardo Albinati