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ANNO XXI NUMERO 79 - PAG 2
IL FOGLIO QUOTIDIANO
LUNEDÌ 4 APRILE 2016
Il primo concerto dei Rolling Stones a L’Avana. L’ultima versione del Cairo sulla morte di Giulio Regeni
Cinquantamila.it,
domenica
27 marzo
Falsario Uno dei
falsari su cui si appog-
FIOR DA FIORE
giava il gruppo degli attentatori di
Bruxelles e Parigi per avere documenti taroccati è stato arrestato ieri
a Belizzi, piccolo comune del Salernitano, su mandato della procura federale del Belgio. Si tratta di un al-
gerino di 40 anni, Djamal Eddine
Ouali. I poliziotti lo hanno catturato per strada, dopo una ricerca che
ha coinvolto i reparti dell’Antiterrorismo. Presto sarà consegnato alle
autorità belghe (Tonacci, Rep).
Regeni L’ultima versione del Cairo
sulla morte di Giulio Regeni – e cioè
che il ricercatore sarebbe stato preso
da una banda specializzata nel se-
questro di stranieri a scopo di rapina
composta da cinque banditi, guarda
caso tutti morti in uno scontro a fuoco giovedì scorso, ipotesi avvalorata
dal ritrovamento di alcuni suoi effetti personali - non solo suscita «perplessità» tra gli inquirenti italiani ma
viene pure smontata dalle dichiarazioni della moglie e della sorella di
uno dei presunti rapinatori, Tarek
Abdel Fatah: le due donne avrebbero negato che la banda abbia ucciso
Regeni, e riferito come il borsone ros-
so che conteneva gli oggetti non appartenesse all’italiano ma a un amico
del congiunto: secondo la moglie, solo «da cinque giorni» il borsone era
arrivato in possesso del marito. Ma,
sottolineano gli inquirenti italiani,
anche altri oggetti mostrati dalle autorità egiziane non appartenevano a
Regeni: non erano suoi nemmeno gli
occhiali da sole, il portafogli e i 15
grammi di hashish, che la moglie del
capobanda avrebbe detto appartenere al marito (Schianchi, Sta).
Giudici di nuovo in campo. Già fecero cadere Prodi e Berlusconi. Ora la sfida è a Renzi
Processi
Toh, si rivede la giustizia a orologeria
C
La Stampa, sabato 2 aprile
abrizio Cicchitto
ha detto apertamente quello che
Matteo Renzi sospetta e si limita a
riferire a beneficio dei retroscena:
«Bisogna parlare
di una bomba ad orologeria fatta
esplodere con il meccanismo procedurale della richiesta di custodie
cautelari e la conseguente pubblicità
degli atti». E poi: «Non a caso questa
richiesta è stata avanzata adesso, indipendentemente dal fatto che l’indagine è stata aperta nel 2014 e in
questo modo si fa esplodere la bomba proprio alla vigilia dei referendum di aprile». Il concetto di «giustizia a orologeria» sembrava ormai fuori moda, almeno da quando
il massimo teorico, Silvio Berlusconi, occupa i margini della cronaca,
compresa quella giudiziaria. Ed è
forse la prima volta che esponenti di
una maggioranza di centrosinistra –
presidente del Consiglio compreso,
e nonostante Cicchitto venga dal
centrodestra – si esprimono così
apertamente sui fini politici dell’azione giudiziaria.
Eppure l’ultimo governo caduto
per effetti penali è stato quello di Romano Prodi nel 2008 (l’altro era
quello di Berlusconi nel 1994). Ora è
preminente e comodissima la tesi secondo cui l’esecutivo era venuto giù
per la corruzione del senatore Sergio De Gregorio, passato con la Casa
delle libertà in cambio di finanziamenti e onori (e sempre che la teoria regga ai tre gradi di giudizio); ma
F
chiunque capirà il diverso peso dell’uscita dalla maggioranza dell’Udeur di Clemente Mastella ministro
della Giustizia. La moglie Sandra Lonardo era stata arrestata e messa ai
domiciliari per una serie di accuse
che otto anni dopo sono evaporate o
disperse, e Mastella, in lite con un
molto turgido Antonio Di Pietro,
chiedeva a Prodi solidarietà. Fra i
due, il Professore scelse naturalmente l’alleato prossimo alla magistratura, e Mastella votò la sfiducia.
È complicato sostenere che a Potenza coltivino progetti politici e
calibrino i tempi d’intervento, anche
perché dell’inchiesta in sé si è capito
poco, nulla di quanti denari siano
eventualmente girati, in che cosa
consistano gli atti corruttivi e se
non siano piuttosto di lobbying, ma
tutto delle imbarazzanti implicazioni della ministra Federica Guidi
e del suo fidanzato.
È uno schema abbastanza ripetitivo. Pochi ricorderanno il nome di
Ercole Incalza, nessuno i contorni
degli addebiti con cui la procura di
Firenze lo ha arrestato un anno fa,
ma tutti del tracollo del ministero
delle Infrastrutture retto da Maurizio Lupi e di cui Incalza era altissimo dirigente. Poche settimane fa Incalza è stato prosciolto nel disinteresse generale, e alla fine l’azione
della procura magari non aveva
obiettivi politici ma le conseguenze
sono state tali, e gravi.
Dall’inizio della Seconda repubblica la maggior causa di mortalità in
politica è dipesa dalle inchieste della magistratura, non sempre concluse con successo, spesso con con-
danne decisamente ridimensionate
rispetto ai presupposti, altre volte
con il trionfo pieno degli imputati (il
caso di Calogero Mannino, assolto
dopo quattordici anni da accuse di
mafia è il più notevole) e viene in
mente per esempio l’inchiesta Why
Not di Luigi De Magistris, una specie
di kolossal giudiziario in cui era finito dentro chiunque, da Prodi in giù.
Alla fine i condannati saranno stati cinque o sei su una cinquantina, e
il pubblico ministero è stato premiato con la fama e l’elezione a sindaco di Napoli. Dimostrare la premeditazione di De Magistris è impossibile e inutile, però è dura trattenere il sospetto che tante inchieste contro la politica (così scalcagnata da offrire occasioni a ripetizione) dipendano almeno in parte
dal rilievo che hanno in tv e sui giornali, dalla reputazione che garantiscono, dall’assenza di conseguenze
in caso di errore, soprattutto dalla
guerra fra politica e magistratura cominciata con Mani pulite nel 1992, e
davanti alla quale una classe dirigente corrotta e squalificata, anche
se ben oltre i suoi demeriti, accettò
di arretrare.
Un regola classica delle dinamiche istituzionali dice che un potere
tende per sua natura ad espandersi:
quello giudiziario ha occupato lo spazio lasciato libero da esecutivo e legislativo e, sempre per sua natura,
non accetta di cederlo. Berlusconi e
Prodi, per motivi opposti, hanno
perso la partita. Ora sembra volerla
riprendere Renzi, e promette di essere una partita avvincente.
Mattia Feltri
Raggi e dintorni, i numeri su Roma
Corriere della Sera,
sabato 2 aprile
ello
scorso
mese
di febbraio
aveva
destat
o
molta sorpresa la dichiarazione della senatrice Taverna secondo la quale a
Roma ci sarebbe stato un
complotto per far vincere il
Movimento 5 Stelle. Sembrava una provocazione,
come se i principali partiti di fronte al compito improbo di amministrare la
capitale d’Italia si stessero
impegnando per non vincere. I risultati del sondaggio odierno, realizzato
presso un campione rappresentativo di elettori romani, sembrerebbero confermare il presagio dell’esponente pentastellata.
Roma appare una città
fortemente provata, e non
solo dalla vicenda dell’inchiesta Mafia capitale. Più
di un romano su due (56%),
infatti, esprime un giudizio
negativo sulla qualità della vita nella propria zona di
residenza laddove il confronto con le altre città
metropolitane evidenzia
che due residenti su tre
(61%) si esprimono positivamente.
A tre mesi dalle elezioni
abbiamo testato notorietà e
gradimento dei diversi candidati che potrebbero contendersi la poltrona di sindaco e gli orientamenti di
voto. Come sempre si ricorda che si tratta di una fotografia istantanea che ritrae gli attuali rapporti di
forza tra i contendenti e
non la prefigurazione dell’esito finale delle elezioni.
Inoltre va sottolineato che
N
le interviste si sono concluse prima dell’annuncio
della mancata candidatura
del sindaco uscente Ignazio
Marino che, viceversa, compare nel sondaggio.
Riguardo al gradimento
è interessante osservare
che con la sola eccezione di
Virginia Raggi per la quale i giudizi positivi (27%)
prevalgono di 2 punti su
quelli critici (25%), per tutti i candidati il saldo è negativo, in particolare per
Storace (-53%), Marino (51%), Bertolaso (-42%), Fassina (-37%) e Razzi (-36%).
D’altra parte le vicende
politiche recenti e le dinamiche che hanno portato alle diverse candidature
hanno acuito tensioni all’interno degli elettorati
delle aree politiche. In particolare nel centrodestra
dove con ogni evidenza appare in corso una competizione per la leadership
nazionale. Salvini sostiene
Giorgia Meloni, osteggiando sia la candidatura di
Bertolaso, fortemente sostenuta da Berlusconi, sia
quella «civica» di Alfio
Marchini.
Virginia Raggi al momento si colloca in testa
alla graduatoria delle intenzioni di voto con il 27,5%
delle preferenze, seguita
da Roberto Giachetti
(22,5%), Giorgia Meloni
(20%) e, più staccati, Guido
Bertolaso (12%) e Alfio Marchini (6,5%). Il sindaco dimissionario Ignazio Marino
che, come detto, non si candiderà è accreditato del
4%. L’area «grigia» costituita da astensionisti
(36,3%) e incerti (15,5%) è
molto ampia e riguarda
poco più di un romano su
due.
Sebbene sia poco opportuno sommare algebri-
Come è stato scrivere un libro di 1.294 pagine
Il più
lungo romanzo
italiano
di sempre (quasi)
camente le intenzioni di
voto per Meloni e Bertolaso, l’area del centrodestra
presenta un risultato di
grande interesse. Tenuto
conto di ciò che potrà avvenire nelle prossime settimane, proprio nello
schieramento di centrodestra (possibile ritiro di candidature per ridurre la
frammentazione e convergere su un solo nome), nel
sondaggio abbiamo voluto
testare diverse ipotesi di
ballottaggio.
Virginia Raggi oggi prevale contro tutti i possibili competitori: nettamente
contro Bertolaso (59,8% a
40,2%), abbastanza nettamente contro Giachetti
(55,4% a 44,6%) e di misura
contro Meloni (50,9% a
49,1%).
Nel caso di ballottaggio
tra il candidato del Pd e
uno di centrodestra, Giachetti prevarrebbe su Bertolaso (52,9% a 47,1%) ma risulterebbe sconfitto da
Giorgia Meloni (46,3% a
53,7%). Infine, nella remota ipotesi di un ballottaggio
tra esponenti di centrodestra, Meloni si affermerebbe con un largo vantaggio su Bertolaso (63,3%
a 36,7%).
Quanto all’orientamento
di voto per i partiti, oggi il
57,3% si dichiara incerto o
intenzionato a non esprimere una scelta preferendo astenersi. Si tratta di un
valore molto vicino al tasso di astensione registrato
in occasione delle Comunali di tre anni fa (56,8%). Il
Movimento 5 Stelle capeggia la graduatoria con il
29,8% delle preferenze, in
crescita rispetto a tutte le
consultazioni precedenti. A
seguire il Pd con il 24,8%, in
forte calo rispetto alle Europee (quando ottenne il
43,1%) e in calo più contenuto rispetto alle precedenti comunali (26,3%%,
quando però la lista Marino ottenne il 7,4%). A seguire Fratelli d’Italia
(11,8%), che raddoppia il
consenso rispetto alle precedenti comunali (5,8%) e
scavalca Forza Italia che si
attesta a 11%. A sinistra Sel
(3,6%) e Si (2,6%) ottengono
lo stesso risultato di Sel
alle europee (6,2%). Quindi,
Lega Nord (3,6%, in crescita) e Lista Marchini (3,4%).
Il quadro che emerge,
quindi, è piuttosto articolato. Raggi e il Movimento
5Stelle sono in testa ma fatica ed emergere un orientamento univoco. Nessuno sembra convincere la
maggioranza dei romani
della bontà delle proprie
scelte e della possibilità di
un cambiamento. E, d’altra
parte, con il commissario
Tronca sono emerse altre
vicende che hanno indignato molti romani, dagli
appalti pubblici alla vicenda delle case comunali date in affitto a canoni
bassissimi, talora nemmeno riscossi. Metter mano all’amministrazione di Roma
è un compito difficile e ingrato che probabilmente
comporterà scelte impopolari. Molti si domandano
se non sarebbe stato utile
prolungare la durata del
commissariamento anziché andare ad elezioni.
Roma è una città ferita.
Chiunque vincerà le elezioni è chiamato non solo a
cambiare profondamente
la situazione ma dovrà porsi il problema di riportare
serenità e ridare alla popolazione un senso di appartenenza e un orgoglio
che sembrano mancare da
troppo tempo.
Nando Pagnoncelli
il Post, giovedì 31 marzo
n una classifica improvvisata – quindi aperta a ogni
contributo e suggerimento – dei libri italiani noti
più lunghi e pesanti (in senso letterale) di sempre, La
scuola cattolica di Edoardo Albinati è terzo, ma primo
nella categoria romanzi e in quella dei libri usciti in
volume unico.
1. Giacomo Casanova, Storia della mia vita, Mondadori, 1.964, 7 volumi, 5591 pagine;
2. Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri, Oscar
Mondadori, 4.615 pagine, 2 Kg;
3. Edoardo Albinati, La scuola cattolica, Rizzoli,
1.294 pagine, 1,3 kg;
Stefano D’Arrigo, Horcynus Orca, Rizzoli, 1.125 pagine 907 g;
Antonio Moresco, Canti del caos, Oscar Mondadori,
1.074 pagine, 699 g;
I
Libero,
venerdì 1° aprile
redo che al Codice di
procedura penale
andrebbero aggiunti tre
commi che dicano più o meno
questo: 1) La celebrità di un
caso giudiziario aumenta
coattivamente lo sforzo
profuso per risolverlo; 2)
Indagini e dibattimenti di
assunta rilevanza mediatica,
riguardanti personaggi
pubblici o divenuti tali a
seguito delle accuse, hanno
diritto a una celebrazione più
rapida rispetto a fascicoli con
caratteristiche differenti; 3)
Indagini e dibattimenti per
reati che dèstino particolare
riprovazione nell’opinione
pubblica autorizzano
l’irrogazione di una pena
maggiorata. Fine. Traduzione:
è inutile fingere che anche il
processo ad Alexander
Boettcher non sia filato come
una lippa (per motivi
mediatici) e che la pena non
sia stata altissima (37 anni
totali) anche per via di una
«odiosità» che il Codice non
contempla. È inutile
dimenticare che il caso Cogne
ha celebrato tre gradi in tre
anni, che per il caso di
Avetrana mancava solo
l’Interpol, che il caso di Yara
ha registrato un dispendio di
mezzi sconosciuto alla norma,
che in Mani pulite c’è stata
gente giudicata in due anni e
altra che aspettava il primo
grado dopo dieci, che se la
giustizia italiana funzionasse
come per Berlusconi sarebbe
la più veloce del globo, che
alcuni processi battono record
di velocità e altri scivolano
nell’oblio, che l’impulso o la
palude siano decisi da
magistrati che non sono Legge,
sono uomini.
Filippo Facci
Tassi
Il Sole 24 Ore,
giovedì 31 marzo
assi negativi, sì. Ma senza
sconfinare nel ridicolo,
come per esempio “se
intendere che la cedola (di un
titolo di Stato a tasso variabile,
ndr.) possa assumere valori
negativi, e in tal caso come
riscuotere il relativo
controvalore da ogni singolo
investitore”. Questo quesito se
l’è dovuto porre il Tesoro
italiano, uno dei più grandi
emittenti di titoli di Stato al
mondo e, tra tutti i grandi
debitori sovrani, quello che
gestisce la più variegata
gamma di strumenti di
raccolta. L’Italia, caso raro,
emette titoli di Stato a cedola
variabile, un’eredità risalente
ai tempi del debito
rifinanziato dai Bot-people. Il
titolo di Stato a cedola
variabile indicizzata al Bot (il
vecchio Cct) oppure al tasso
interbancario Euribor (il
Ccteu come quello collocato
ieri in asta) di questi tempi
deve fare i conti con parametri
di riferimento che viaggiano
sotto zero. Il ridicolo non è
ancora stato sfiorato perchè il
Tesoro paga uno spread sopra
i Bot (+0,30%) e sopra l’Euribor
(+0,70%): un cuscinetto c’è.
Tuttavia andava evitato il
peggio, un giorno in cui al
pagamento della cedola fosse
il risparmiatore a dover
pagare un tasso d’interesse al
Tesoro e non viceversa. La
circolare emanata dal Mef alla
vigilia dell’asta dei Ccteu di
ieri risolve il caso con un
parere dell’Avvocatura
generale dello Stato secondo
la quale “si deve escludere
che eventuali cedole
virtualmente negative possano
dar luogo a recuperi di
interessi a carico dei
possessori, oppure a
decurtazioni a valere su
cedole successive” o capitale.
Cct e Ccteu dunque “in caso di
tassi di rendimento negativi
hanno cedola minima pari a
zero”. Gli investitori, esteri e
non, possono tirare un respiro
di sollievo ma per il Tesoro
questo “floor” implica in
automatico la rinuncia al
maggior risparmio sulla spesa
per interessi che sarebbe dato
da un tasso negativo di Bot o
Euribor oltre lo spread.
Isabella Bufacchi
T
Cuba Oltre 250 mila spettatori erano presenti nel grande piazzale della Ciudad Deportiva dell’Avana per
il primo concerto dei Rolling Stones.
Dopo il primo pezzo, Jumping jack
flash, Mick Jagger, in camicia color
granata, ha cantato It’s only rock and
roll e ricordato gli anni in cui a Cuba Fidel Castro aveva proibito la
musica rock, dai Beatles agli stessi
Stones. Perché, dopo l’abbraccio
della rivoluzione cubana con l’Urss,
quella anglosassone era considerata «musica sovversiva», simbolo della decadenza del capitalismo occidentale. Il concerto gratuito dell’Avana è stato anche l’ultimo del tour
latinoamericano dei Rolling Stones
che prima avevano suonato in Uruguay, Perù, Colombia, Brasile e Messico. Ma era sicuramente il più importante perché si è svolto subito
dopo la visita di Obama, la prima di
un presidente americano nell’isola
dopo 88 anni (Ciai Rep).
martedì 29 marzo
Strage Dopo l’attentato kamikaze
di ieri nel parco di Gulshan-e-Iqbal a
Lahore, Pakistan, Papa Francesco ha
lanciato un appello da San Pietro nel
corso della cerimonia del Regina
Coeli: «Nel Pakistan centrale, la Santa Pasqua è stata insanguinata da un
esecrabile attentato, (segue nell’inserto I)
Elsa Fornero: «Su di me fango maschilista, non solo
ideologico. Vincerò su Salvini con il piacere di spiegare»
la Repubblica, sabato 2 aprile
ignora Fornero, che impressione le fanno quegli
energumeni sotto la sua casa, a San Carlo Canavese?
«Di una cosa sono sicura:
alla fine tra me e Salvini
vincerò io, perché ho dentro una forza morale che
S
lui non ha».
Anche il buonumore, mi pare. Lui ride
spesso, lei invece sorride. E la gente non
lo sa, ma lei non si sente così fragile e così emotiva come dicono.
«Quando vado in bicicletta, proprio a
San Carlo, il paese che Salvini sta rendendo famoso, mi passano accanto persone che mi salutano, ma anche persone
che mi mandano maledizioni. E sono imprecazioni forti, anche se meno gravi di
quelle che mi sono arrivate per altre vie.
Io non mi arrabbio, sorrido e spesso li invito a fermarsi: “Se vuole, le spiego“. E
gli amici mi dicono: “ma Elsa, come fai
a sopportarli”?».
Ieri hanno manifestato sotto la pioggia
davanti a una casa vuota.
«È una casa a due piani, nulla che fare con l’idea della villa. Era la casa dei
miei genitori, che noi abbiamo un po’ ristrutturato. Il pianterreno è mio, il primo
piano di una mia sorella. Io ci vado nel
weekend, lei soprattutto l’estate. Ci sono
le mie radici, ritrovo le mie piante».
San Carlo è un paese industriale. Come
atlante delle emozioni non è il natio borgo selvaggio. Oltre la siepe …
«C’è Torino, a venti chilometri. La
gente si svegliava la mattina e andava a
lavorare alla Fiat. E molti erano immigrati: veneti, calabresi. Appena fuori c’è
anche il poligono militare dove mio padre faceva la guardia. E poi comincia la
Vauda».
La brughiera.
«Mario Soldati diceva che non si conosce il Piemonte se non si conosce la
brughiera».
Lei è tutta piemontese? Non c’è il Meridione nella sue origini? Lo stereotipo dice: distaccato e gentile, guardingo e a sangue ghiaccio. Questo le manca.
«Sono tutta piemontese. E non sono
una donna fragile».
È vero che a San Carlo ci sono altri Fornero e che anche loro ricevono lettere di
insulti? Nell’Italia dominata dalla logica
del cognome questa sua storia è molto singolare.
«Fornero è un nome molto diffuso dalle mie parti. Sono davvero tanti i casi di
omonimia. Ma ci sono anche cugini lontani. Tutti hanno avuto la loro razione» .
Oltre ai cugini lontani, chi vive lì della
sua famiglia d’origine?
«Papà e mamma sono morti. C’è una
mia sorella. E due vecchie zie, una di 90
e l’altra di 87 anni».
Immagino che siano in pensione. Che le
dicono? Avrebbero mai immaginato che
Fornero sarebbe diventato il nome della
riforma più controversa della storia d’Italia, dopo quella agraria?
«Prima non capivano bene. E ovviamente erano molto protettive. Ora si sono abituate a tutto».
In famiglia discutete di pensioni? C’è
qualcuno che la critica?
«Certo che discutiamo. Ma il problema
non sono le critiche, che arricchiscono la
vita».
Dove sono arrivate le minacce?
«Ne ho subite di ogni genere».
L’augurio di ammalarsi?
«Sì».
Promesse di botte?
«Sì».
Di morte?
«Sì».
La più odiosa?
«Gli attacchi a mia figlia. Hanno scritto e detto che nella sua carriera era favorita dal cognome. Purtroppo è vero il
contrario».
Lei ha due figli, uno maschio che fa il
documentarista e appunto Silvia, l’oncologa. Immagino che anche il cognome del
padre, Deaglio, pesi molto su di loro.
«Certo, ma è un peso diciamo così più
naturale».
C’è un sito che si chiama Corriere della Pera che ha scritto che sua figlia a 39
era già in pensione. Ebbene, questa bufala sui social è diventata notizia, poi indignazione, infine insulto: decine di migliaia di condivisioni, rabbia, violenza.
Ippolito Nievo, Le confessioni d’un italiano, Marsilio,
1.022 pagine, 662 g;
Antonio Moresco, Gli increati, Scrittori Mondadori,
1.013 pagine, 1,3 Kg;
Oriana Fallaci, Insciallah, Rizzoli, 865 pagine, 939 g.
Prima che per la sua importanza letteraria – Rizzoli
lo ha candidato al premio Strega – quindi, il nuovo romanzo di Albinati va descritto come un oggetto fisico, cercando di capire se il suo contenuto abbia qualcosa a che fare con la sua eccezionale lunghezza: 1.294
pagine di carta bianchissima appena tendenti al crema – Pamo Super da 50 grammi – che scivolano sottili sotto i polpastrelli dando una sensazione simile a
quella che si prova sfogliando un messale o una bibbia. In copertina un cielo color vergine Maria sovrasta un condominio giallo canarino dalle parti di Piazza Tuscolo a Roma, ma sotto la sopraccoperta il libro
«Inutilmente qualcuno ogni tanto ha
fatto notare che non è vero e non è neppure verosimile. Ci credono lo stesso. Ma
come fa uno a difendersi da questo fango? Devo mandare una lettera di smentita al Corriere delle Pera? Proprio a
San Carlo mi ha fermato un signore, un
uomo colto e gentile, che mi ha chiesto,
anche lui!, se è vero che mia figlia è in
pensione».
Ha mai fatto analisi, va in Chiesa?
«Dalla psicanalisi mi hanno salvato la
solidità dei miei valori e la mia famiglia.
Per quanto riguarda la Chiesa sono cattolica, ma imperfetta».
Come la sua riforma?
«Più imperfetta».
C’è una certa Italia con il brutto ceffo
dei bravi manzoniani che purtroppo non
impara mai e non cambia mai.
«E però anche in Europa non è facile
fare le riforme. Fanno impressione gli
scontri di piazza in Francia, lo sciopero,
gli aeroporti chiusi. Alla fine Hollande
dovrà modificare la sua riforma del lavoro».
Certo, ma la lotta di classe è ancora politica, non è squadrismo ad personam.
«In Italia si imbocca sempre la scorciatoia, e la dialettica diventa turpiloquio, l’opposizione insulto. In questo senso mi piace la voglia di Renzi di cambiare il Paese con le riforme, magari anche
sbagliando».
Visto che spiegare è rimasta la sua cifra,
stavo per dire la sua ossessione, proviamo
a capire perché Fornero non è più un cognome ma un aggettivo negativo. Io penso che c’entri molti l’associazione del duro con il fragile: la riforma delle pensioni
e le lacrime. È insomma passata l’idea della doppiezza: Machiavelli e il melodramma.
«Lo so. E mi dispiace perché non è per
niente così. Davvero quelle furono due
lacrimucce di emozione. Avevo scritto la
riforma in venti giorni, accumulando una
tensione terribile. E bisogna ricordare
che erano momenti drammatici per l’Italia. Ovviamente sapevo di avere pensato una riforma che toccava punti molto vulnerabili. E sapevo anche che la fatica accumulata era nulla rispetto a quella che mi attendeva. Infatti spiegare la
riforma fu più difficile che scriverla».
C’è riuscita?
«Non ancora. Ed è su questo che i vari Salvini si avventano rendendo tutto
ancora più torbido. Ma io ce la farò.
Adesso, per esempio, sto organizzando la
Giornata della Previdenza, sicuramente
a maggio, spero il 7. Chiederò un’aula al
mio rettore e mi metterò a disposizione
di chiunque voglia capire. Per disarmare i Salvini non ho altro che la ragione e
le mie ragioni » .
Ma perché non manifestano davanti all’Inps o davanti al Parlamento? Quando ho
letto che Salvini sotto casa sua ha detto
«meno male che la Fornero non c’è perché
mi prudono le mani» ho pensato che persino un disarmato gli avrebbe mollato due
schiaffoni.
«È quel che cerca: la reazione, il duello, lo scontro. Ai carabinieri che mi chiedevano io ho detto che era meglio non intervenire».
Chissà quanti conduttori televisivi le
propongono il duello.
«In genere una volta la settimana. In
certi periodi ogni giorno. Adesso anche
due volte al giorno. Ma il duello richiede
un codice comune».
Già. Il nemico legittimato, si sa, è il proprio doppio, come la luce e il buio, il caldo e il freddo. Qui…
«Niente di tutto questo. Non c’è alcun
duello possibile. Guardi che nella volgarità che in questi anni mi è arrivata addosso c’è anche il maschilismo italiano,
che non è solo uno spettro ideologico».
Vuole dire che se lei fosse stato il professor Fornero, alto, grande e con due mani nodose…
«Penso che non solo Salvini mi avrebbe insultato in un altro modo. Vedo infatti molta meschinità d’animo».
Anche Grillo non le ha risparmiato ruvidezze.
«Usò un linguaggio ancora più brutto
del solito».
E lei ricordò di averlo visto in Ferrari.
«Ero in Liguria e arrivò lui come Mangiafuoco in mezzo al fumo e al chiasso
della sua Testarossa. Devo dirle però che
i grillini sono spesso animati da una pas-
appare bianco come il vestito del papa.
Il protagonista del romanzo – parzialmente autobiografico e scritto in prima persona – è l’Istituto San
Leone Magno di via Nomentana a Roma, una scuola
maschile gestita dai preti e frequentata da una certa
borghesia e piccola borghesia romana cattolica, molto attenta – la scuola – anzi quasi ossessionata, dal decoro. Al San Leone Magno, negli anni Cinquanta, aveva studiato Sergio Mattarella. A metà degli anni Settanta, della scuola si parlò molto perché tra gli allievi c’erano stati Gianni Guido e Angelo Izzo, due dei
giovani – l’altro, Andrea Ghira, frequentava il Liceo
Giulio Cesare, dove Albinati concluse l’ultimo anno –
che a fine settembre 1975 seviziarono due ragazze di
19 e 17 anni, Rosaria Lopez e Donatella Colasanti, uccidendo la prima. Il «massacro del Circeo» è il centro
del libro, il tema intorno a cui tutto ruota e allude, an-
sione sincera. Ne ricordo uno che mi accolse con espressioni durissime come
“killer degli italiani” e via di seguito. Gli
dissi: “Se mi permette, cerco di spiegarmi”. Mi ascoltò con attenzione e, alla fine, mi sorrise e mi augurò buon lavoro.
Le persone sincere sentono subito la sincerità degli altri».
E la sinistra? L’hanno lasciata sola?
«Spiegare la riforma è il lavoro che
avrebbe dovuto fare la politica. Me l’aspettavo in particolare dal Pd. Mi immaginavo che, una volta fatto il lavoro, il
mio partito di riferimento sarebbe intervenuto, magari anche per correggere, ma
sicuramente per far capire».
È iscritta?
«Mai stata iscritta, ma sono di sinistra
e, se la parola avesse ancora un senso, direi di sinistra moderata».
Voterebbe ancora Pd?
«Questo non lo so, vedremo».
Ma dal Pd qualcuno le avrà pure telefonato. Non le hanno espresso solidarietà?
«No. E mi ferisce questa solitudine».
Alcuni dicono che anche Mario Monti
ha scaricato tutto su di lei. È vero?
«No. Sino a ieri sera tardi mi ha telefonato ».
Il sindacato si è mobilitato contro la
riforma. Oggi la Cgil scende in piazza.
«Certo, sono diversi da Salvini. Ma
proprio per questo più deludenti. Se
guardi una foto di Salvini capisci subito
che è un imbroglia popolo. Il sindacato
invece …».
Forse l’idea del lavoro in Italia è più
«olio e grasso» che «perle e libri»?
«Sono figlia di un operaio. Lui mi ha
insegnato l’importanza dello studio e del
decoro. I suoi valori sono i miei. Ricordo che vennero in più di mille ad un incontro in un hangar dell’aeroporto di Caselle. Parlai e mi capirono. E, andando
via, in tanti vollero stringermi la mano.
Guardi, io penso che le riforme siano organismi vivi, che possono e che debbono
cambiare, ma di sicuro quella riforma è
stata fatta al servizio del Paese, dell’equilibro tra le generazioni, nell’interesse degli italiani».
Anche nel linguaggio del sindacato c’è
stata inciviltà?
«La parola è forte, ma non completamente inappropriata».
Sapeva da ministra che le pensioni dei
sindacalisti, dei distaccati, si formano grazie a una doppia contribuzione?
«No. E non capisco come Bonanni possa difendere la sua pensione».
Un’ingiustizia?
«Un privilegio. Ma i sindacalisti nascono per combattere i privilegi».
Mi hanno detto che lei ha rifiutato il
trattamento pensionistico dovutole come
ministro. Dunque si accontenterà della
pensione che le spetta come professore. È
circa la metà.
«Preferirei che non scrivesse di questo. Glielo chiedo con forza».
Lei non ha mai avuto rapporti facili con
la stampa.
«No. Devo dirle che spesso i giornalisti hanno travisato il mio pensiero. Credo di aver capito che solo la polemica vi
attira. Un suo giovane collega mi ha detto: ci pagano dieci euro a pezzo, e accettano l’articolo solo se è polemico».
La sua reputazione per 10 euro?
«Non dico questo, e magari ho commesso errori anche io. Ma certo è un
campo minato».
Ho letto che in Inghilterra vogliono alzare di molto l’età pensionabile.
«E anche in America, vogliono superare i 67 anni. Si va verso la flessibilità.
E non solo perché cresce l’aspettativa di
vita, ma anche perché aumenta il numero di chi ama lavorare. È già così per
molti professori, forse pure per i giornalisti, ma il lavoro alienato esiste eccome,
provi a chiedere ad un metalmeccanico
quanto si sente realizzato».
Dovremmo privarci del lavoro di Scalfari, oppure impedire a Morricone di comporre e a Muti di dirigere? Ci sono bellissime vite di lavoro che a sessant’anni rifioriscono.
«Io insegnerei anche gratis. Adesso
però mi deve promettere che faremo
un’altra intervista solo sulle pensioni».
Sicuro. Ma con un altro giornalista. È
una materia in cui mi perdo.
«Ragione di più per farla. Spiegare è il
mio piacere».
Francesco Merlo
che se occupa solo una piccola parte del romanzo.
La scuola cattolica procede di digressione in dilazione, descrive le ore di ginnastica, i corpi dei ragazzi e gli scherzi tra i compagni, le lezioni e i professori, il rapporto intensissimo tra i maschi adolescenti e
il pensiero del sesso, e quello con la religione e con
l’impostazione della scuola: apre continue parentesi,
sottolineandole e rimandando più avanti la trattazione di questo o quell’altro argomento, come se il tema
e l’intento del libro – ricostruire un ambiente preciso in un periodo preciso, capire il rapporto tra violenza e apparenza – abbiano imposto un approccio laterale e circolare (più avanti si potrà leggere un
estratto della parte iniziale del libro, ndr).
Anche per questo, le dimensioni fisiche del libro
generano un sacco di domande. La scuola cattolica
avrebbe potuto essere più corto? Ha (segue nell’inserto I)
ANNO XXI NUMERO 79 - PAG I
IL FOGLIO QUOTIDIANO
LUNEDÌ 4 APRILE 2016
Il pr che faceva sesso coi ragazzini e poi li ricattava coi video. L’aereo dirottato a Cipro da uno squilibrato
che ha fatto strage di tante persone innocenti, per la maggior
parte famiglie della
minoranza cristiana —
specialmente donne e
bambini — raccolte in un parco pubblico per trascorrere nella gioia la festività pasquale». Poi, in serata, è
emerso un bilancio secondo cui la
maggioranza dei 71 morti e 250 feriti
potrebbero essere musulmani. La rivendicazione è di una fazione dei ta(segue da pagina due)
lebani pachistani. Il Pakistan ha dichiarato tre giorni di lutto. L’esercito
ha lanciato blitz ia Lahore e in altre
due città del Punjab, arrestando 50
sospetti e sequestrando armi e munizioni; il kamikaze è stato identificato
come Muhammad Yousaf Farid, reclutatore ventottenne del sud della
regione (Mazza, Cds).
Terroristi Nell’estate di un anno fa
Sarà più di un semplice
referendum sulle trivelle
Corriere della Sera, giovedì 31 marzo
vanza a fari
spenti un referendum. Pochi
s’accorgono
della sua marcia silenziosa,
e forse saranno anche di
meno gli italiani che monteranno a
bordo, quando il veicolo avrà raggiunto le urne elettorali. D’altronde
si tratta d’un quesito minimo, minuscolo: sì o no alle trivellazioni sull’Adriatico, però entro le 12 miglia
dalla costa, però senza toccare
l’estrazione di gas e di petrolio in terraferma o in mare aperto, però senza interrompere le trivellazioni in
corso, però senza nemmeno incidere sulle future concessioni, già vietate dalla legge. È in gioco unicamente l’eventualità che le compagnie petrolifere ottengano una proroga finché non s’esaurisca il giacimento,
tutto qui.
Pinzillacchere, direbbe Totò. Tuttavia non è affatto sicuro che questo
referendum ci interroghi su
questioni trascurabili. Nessuna consultazione popolare è mai
insignificante, quale
che sia il suo oggetto.
Perché ogni referendum espone sempre
un doppio tema: l’uno
diretto, che si legge nella domanda trascritta sulla scheda elettorale; l’altro indiretto, dove
s’affaccia viceversa
una
rete
d’allusioni e di rimandi, un’evocazione, una carica simbolica. Così, nel
1985 il referendum sulla scala mobile segnò l’isolamento del Pci. Così,
nel 1991 il referendum sulla preferenza unica modificò un dettaglio
della legge elettorale, ma avviò al
contempo i funerali della Prima
Repubblica. Probabilmente in questo caso non scriveremo un’altra
pagina di storia. Sennonché pure stavolta c’è un significato ulteriore rispetto a quello più immediato. Anzi:
i doppi sensi sono almeno il doppio,
sono quattro.
Primo: il risvolto istituzionale. Il
67º referendum abrogativo dell’Italia repubblicana è anche il primo
promosso dalle Regioni. Dalla Liguria alla Calabria, dal Veneto alla Puglia, sono addirittura nove i Consigli regionali che hanno puntato
l’arma referendaria contro una legge benedetta dal governo nazionale.
Regioni settentrionali e meridionali, amministrate dalla destra oppure dalla sinistra.
Dunque si profila uno scontro
fra poteri, ancor prima che fra partiti e movimenti. La posta in gioco:
chi decide sull’energia? Secondo la
Costituzione vigente, decidono insieme lo Stato e le Regioni; secondo la
Costituzione prossima ventura, deciderà solo lo Stato. E allora ecco,
puntuale, la reazione. Che non ha
mai troppo riguardo alle bandiere di
partito, quando c’è da presidiare
l’orticello delle proprie competenze. E che oltretutto associa nove governatori eletti, contro un presidente del Consiglio non eletto. Sicché il referendum potrà delegittima-
A
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di cui alla legge n. 250/90
Presidente: Giuliano Ferrara
re i primi, rilegittimare il secondo:
un torneo a eliminazione diretta.
Secondo: il risvolto politico. Come
succede fatalmente da un paio
d’anni, ogni occasione diventa altresì un pretesto per regolare i conti all’interno del Pd; e infatti maggioranza e minoranza militano in due
fronti contrapposti. Ma quest’ultima
si trova in compagnia, più o meno rumorosa, della Lega, i Cinque Stelle,
pezzi di Forza Italia, Sel. Guardacaso, lo stesso schieramento che si prepara ad affrontare la madre di tutte le battaglie, il referendum costituzionale d’ottobre. Il 17 aprile ne vedremo perciò le prove generali, e
sarà un gran bel vedere.
Terzo: il risvolto giuridico. Doppio
anche questo, perché il nostro ordinamento contempla, da una parte, il
dovere civico del voto; sicché nei referendum organizzare l’astensione
è «un trucco», un espediente per far
saltare il quorum, come denunziò
Norberto Bobbio nel giugno 1990.
Dall’altra parte, concepisce il
voto come diritto, e i diritti non
sono obbligatori, ciascuno
può scegliere se e quando
esercitarli. Perciò è legittimo ogni appello
all’astensione, tanto più che i costituenti dettarono
un quorum per la
validità dei referendum. È questa
la posizione del
Pd sulle trivelle,
ma i precedenti
sono più lunghi
d’un lenzuolo.
Tuttavia due norme in vigore (l’articolo 98 del testo
unico delle leggi elettorali per la Camera; l’articolo 51 della legge che disciplina i referendum) castigano
l’astensione organizzata da chiunque
sia «investito di un pubblico potere»
con pene detentive (da 6 mesi a 3
anni). Sono norme figlie d’una stagione ormai trascorsa, quando votava il
90% della popolazione, quando
l’astensionista doveva addirittura
giustificarsi presso il sindaco. Ma sta
di fatto che a nessun governo è venuto in mente d’abrogarle.
Quarto: il risvolto ambientale.
Dovrebbe essere al centro della
consultazione, ed è così, quantomeno a parole. Sennonché in questo
caso non si tratta di proteggere
l’udito dei cetacei minacciato dall’air-gun, come sostengono le associazioni ecologiste; tutto sommato non
si tratta nemmeno d’opporre ambiente e occupazione, come prospettano i sindacati. No, la posta in
palio investe la credibilità delle
classi politiche regionali, che rifiutano la trivellazione, però allevano
i colibatteri nelle acque dell’Adriatico, disinteressandosi dei depuratori così come di controllare i fiumi.
E investe perciò il progetto stesso
d’una politica ambientale, lungimirante, coerente, complessiva, dove ci
sia anche spazio per le energie rinnovabili. In Italia coprono il 17% dei
consumi; in Norvegia, Islanda, Svezia, oltre la metà. Non a caso Avvenire, per sposare il referendum, ha
richiamato le parole di Bergoglio, il
monito papale contro le tecnologie
basate sui combustibili. Il 17 aprile
voteremo anche sul papa.
Michele Ainis
Redazione Roma: Lungotevere Raffaello
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ancora senso un libro così lungo
con tutti i classici ancora da leggere in attesa di attenzione, e in tempi di accorciamento delle durate di
lettura? Qualcuno ha ancora il tempo e la concentrazione per tante digressioni? Si sarebbe potuto tagliare di più in fase di editing? L’editore poteva decidere di pubblicarlo in due parti? Come si lavora da un
punto di vista editoriale con così tante pagine? C’è bisogno di un solo editor? Quanti correttori di bozze ci
vogliono? La rilegatura ordinaria è abbastanza forte?
Decidere di scrivere un libro così lungo cambia il modo di scrivere? È stato scritto dall’inizio alla fine, o
montato successivamente? Per leggere un testo così
lungo è più adatto un’eReader o la carta?
Lo abbiamo chiesto ad Albinati stesso.
Il libro di carta
«Il formato è uno dei temi del libro. È la prima co-
(segue da pagina due)
i terroristi di Molenbeek si sono riuniti in Grecia. Almeno tre di loro sono passati dall’Italia. Salah Abdeslam e il suo amico Ahmet Dahmani
hanno preso la via del mare: arrivati in macchina a Bari dal Belgio, sono andati a Patrasso su un traghetto.
Khalid El Bakraoui, l’uomo che si è
fatto esplodere alla fermata di Maelbeek, ha scelto l’aereo. Ha fatto scalo a Treviso, una notte in albergo a
Venezia, poi il volo per Atene. Come
un turista qualunque, nonostante
Sofferenze
Il Sole 24 Ore,
venerdì 1° aprile
creare disagio in Borsa
non è il numero. Che i
nostri istituti di credito
abbiano 200 miliardi lordi di
crediti in sofferenza ormai lo
sanno anche i sassi. Quello che
mette in apprensione Piazza
Affari è invece l’incertezza su
come questi finanziamenti
andati a male dovranno essere
maneggiati in futuro. Le
banche dovranno gestirli con
gradualità (come ha detto
Mario Draghi il 21 gennaio),
oppure sarà caldeggiata dalla
Vigilanza la vendita in blocco
a prezzi di mercato nel più
breve tempo possibile (come
la stessa Bce sembra preferire
nel caso di Carige)? Quale sarà
insomma la cura prescritta?
Quella da cavallo o quella
graduale? È questa la
domanda che assilla gli
operatori di Borsa. Anche
perché la Vigilanza sembra
avere un atteggiamento poco
decifrabile sul tema. Le due
opzioni hanno impatti molto
diversi sugli istituti e sulle
loro valutazioni di Borsa.
Vendere i crediti in sofferenza
a operatori specializzati ha il
vantaggio di liberare i bilanci
bancari e, indirettamente, di
aumentare la loro capacità di
erogare credito a imprese e
famiglie. Questa strada, però,
non è indolore: i fondi
specializzati hanno un
approccio aggressivo e mirano
a realizzare guadagni a due
cifre dal portafoglio di
finanziamenti acquistato. Per
questo sono abituati a
comprare i prestiti in
sofferenza a prezzi molto
bassi, molto inferiori ai valori
degli stessi crediti nei bilanci
delle banche. Venderli,
quindi, significa per gli istituti
incassare perdite. E,
probabilmente, dover varare
aumenti di capitale. I prezzi di
mercato sono infatti
decisamente bassi. Il fondo
americano Apollo ha offerto a
Carige di acquistare l’intero
suo portafoglio al 20% del
valore nominale originario dei
crediti. Le quattro banche
salvate a dicembre (Marche,
Popolare Etruria, CariChieti e
CariFerrara) sono state
costrette a svalutare le loro
sofferenze al 17,5% (che
corrisponde all’82,5% di
perdite) proprio per poterle
dismettere facilmente.
Secondo uno studio effettuato
da Finanziaria Internazionale
sulle cartolarizzazioni di
crediti in sofferenza realizzate
dalle banche italiane negli
ultimi 3 anni, si scopre che in
queste operazioni (per un
importo di 29 miliardi circa) i
crediti sono stati ceduti a un
valore medio del 13,7%. Questi
numeri dimostrano che gli
investitori specializzati sono
disposti a pagare poco. Per
questo le banche non li
vendono. Il problema è che
tenerli nei bilanci crea altrei
problemi, perché la maggior
parte delle banche non li sa
gestire. Recuperare una massa
tale di crediti richiede
personale, organizzazione e
capacità che la maggior parte
degli istituti non ha. Ecco
dunque il dilemma: vendere i
crediti deteriorati e incassare
subito la perdita, oppure
tenerli in bilancio senza
saperli gestire? Il 21 gennaio
scorso Mario Draghi aveva
lasciato intendere che la Bce
non volesse fare pressing sulle
banche. Questo aveva
tranquillizzato gli animi in
Borsa. Ma quando la Vigilanza
della stessa Bce è sembrata
caldeggiare in questi giorni
l’offerta di Apollo per i crediti
di Carige, il mercato è rimasto
disorientato: cosa chiede
veramente Francoforte?
Dismissione veloce o gestione
graduale? L’approccio
dimostrato su Carige dalla Bce
sarà il nuovo trend? Questo
pesa in Borsa.
Morya Longo
fosse in libertà condizionata e avesse un fratello appena arrestato in
Turchia perché ritenuto un foreign
fighter (Tonacci, Rep).
Filmini Claudio Nucci, 56 anni,
noto pierre romano, adescava ragazzini tra i 14 e i 16 anni in cambio di
piccole somme o regali, come la felpa o l’accessorio griffato, e filmava i
rapporti sessuali per poi poterli ri-
cattare. Con una delle vittime, 16 anni, il cinquantaseienne avrebbe fatto
sesso a pagamento per più di un anno, dal 2014 fino a poco prima dell’arresto. Le indagini fotografano
una relazione di dipendenza e ricatto: Nucci lo minacciava di rendere
pubblici foto e video girati nel corso
di uno dei loro appuntamenti. Gesti
di autoerotismo, primi piani di nudo,
immagini molto esplicite. E
l’avvertimento era perentorio: «Faccio vedere ’ste foto ai tuoi». La vicen-
da si è ripetuta con altri minori (Sacchettoni, Cds).
mercoledì 30 marzo
Dirottamento Indossando una finta
cintura esplosiva, uno squilibrato
58enne egiziano ha dirottato a Cipro
un aereo EgyptAir diretto al Cairo.
Gli 81 passeggeri dell’Airbus A320 temevano di essere finiti nelle mani di
un kamikaze, invece dopo una lunga
trattativa sconclusionata Seif Eddin
Mustafa, il dirottatore che alla fine
voleva solo consegnare una lettera alla ex moglie cipriota, li ha rilasciati
un po’ alla volta. Alla fine l’uomo, che
ha un passato da carcerato e precedenti per contraffazione, furto e possesso di droga, è sceso, ha alzato le
mani e si è arreso (Brera, Rep).
Naso Ieri, durante (segue nell’inserto II)
Il moto perpetuo, fonte infinita di energia che nessuno sapeva sfruttare. Finché un matematico italiano non ha inventato l’H24
La macchina che trasforma le onde in elettricità
A
Wired, aprile
isa, estate 2014. Ho da poco installato
un meraviglioso impianto solare da 3
kiloWatt, e ne vado molto orgoglioso.
C’è solo un piccolo particolare: piove
ininterrottamente da un mese. Una
volta avevo letto che la forma di energia più efficiente da convertire è quella idrica: certo, necessità di grandi altezze (l’energia va come il quadrato dell’altezza da cui
casca l’acqua), ma in molti casi si riesce a convertire in
elettricità circa metà della potenza del moto. Se il risultato vi pare scarso, tenete conto che qualsiasi conversione di energia termica al massimo può raggiungere
il 33%, e che la vostra automobile a benzina ha un rendimento di circa il 25%. Per cui, per distrarmi, provo a
calcolare quanta energia riuscirei a estrarre dalla pioggia, se riuscissi a raccoglierla sul tetto e la facessi scorrere dalle grondaie da un’altezza di 10 metri. Il risultato non è troppo confortante: con un tetto da 100 metri quadrati, posto a un’altezza di 10 metri, supponendo una pioggia da 30 millimetri all’ora (cioè, un nubifragio) ottengo in un giorno più o meno l’energia necessaria per caricare il cellulare. La quantità di energia portata dall’acqua dipende, è vero, dall’altezza da cui casca; ma dipende, ancora di più, dalla sua densità. Ora,
anche il più violento dei nubifragi ha una densità ridicola rispetto all’acqua come sostanza pura. Con
l’energia della pioggia non si va molto lontano, quindi.
Bisognerebbe sfruttare l’energia del mare. Delle maree, per esempio, o delle onde.
La stessa cosa che è venuta in mente, circa dieci anni fa, a Michele Grassi, matematico laureato alla Scuola Normale Superiore di Pisa, osservando il rollio di
una barca al largo. È un peccato che tutta quell’energia, l’energia delle onde, vada sprecata. Ci deve essere
un modo per sfruttarla, e Grassi lo individua. Un’onda,
a livello sottomarino, si traduce in una differenza di
pressione: detto in parole povere, un’onda è più alta del
livello del mare davanti e dietro a sé, e quindi contiene più acqua. La colonna d’acqua sotto l’onda ha un peso maggiore, e questo causa una pressione sottomarina.
Sfruttando l’effetto di questa pressione su un meccanismo mobile, si può pensare di convertire l’energia meccanica in energia elettrica. Niente di difficile, e non c’è
nemmeno da cercare troppo lontano: il principio della
dinamo è stato inventato proprio qui, dal fisico Antonio
Pacinotti, all’incirca un secolo e mezzo fa. Quello che
succede dopo, in Italia, ha dell’incredibile. Grassi rinuncia al caro vecchio posto fisso (all’Università di Pisa,
non in fonderia) e si butta cervello e corpo nell’impresa. Fonda una società, fabbrica prototipi, cerca collaborazioni. La prima arriverà con Enel Green Power, che
contribuirà a una parte delle risorse finanziarie necessarie per l’installazione di un prototipo di R115 al largo di Punta Righini, vicino a Castiglioncello. La macchina necessita di un fondale profondo almeno 40 metri, e
P
produce 100 kW di potenza – il fabbisogno di 80 famiglie,
detto in termini umani.
La cosa è migliorabile? Pare di sì. La prima macchina di Grassi, la R115, sfrutta la pressione delle onde
di alto fondale per produrre un moto circolare. Per
questo, il dispositivo ha bisogno di una profondità maggiore di quaranta metri. Ma una differenza di pressione come quella causata dall’onda, in basso fondale
causa una spinta prevalentemente orizzontale: l’acqua
sotto l’onda ha una diversa densità rispetto a quella
davanti o dietro all’onda. Nasce così H24, un modulo
lungo fino a ventiquattro metri provvisto di una sorta
di vela che l’onda di pressione sottomarina fa scorrere su un binario. All’interno del modulo, dei meccanismi appositi trasformano l’energia cinetica (il moto
della vela) in energia elettrica. Tutto questo fornisce 50
kW di potenza a sei metri di profondità. Sei metri è
molto molto meno di quaranta. Più facile da installare (un piccolo pontone e una coppia di sub lo posano
in un paio d’ore) e soprattutto, più facile trovare posti
in cui installarlo. La potenzialità di questo modulo sta
infatti nella sua estrema versatilità: H24 si può installare a poca distanza dalla costa.
Ora, l’Italia ha più di settemila chilometri di coste.
Supponendo di posare uno di questi oggetti ogni trentacinque metri (in realtà è possibile metterli parecchio
più vicini senza interazioni) questi produrrebbero
l’ammontare di circa 10 gigawatt di energia. Dieci centrali nucleari di medio cabotaggio, più o meno. Appurate le possibilità, passiamo al costo: un aspetto che
quando si parla di energia non va troppo sottovalutato. La potenza nominale di questo impianto è di 50 megawatt, e il suo costo al momento è di circa 200.000 euro (installato, chiavi in mano), il che significa che ogni
watt di potenza ha un costo di installazione di circa 4
euro. Un po’ meno dell’eolico domestico (6 €/W) ma parecchio di più rispetto al grande eolico a terra (i grandi parchi eolici producono al costo di 1,5 €/W) e al solare. Parliamo di potenza nominale, ovvero la massima
potenza che l’apparato sprigiona in condizioni di funzionamento ideale. Quello che bisogna considerare,
però, è la potenza media.
Un parco eolico funziona quando c’è vento: duemila ore l’anno, nelle zone più sfigate d’Italia, cioè circa
un quarto del tempo. Peggio ancora il solare:
l’efficienza media del pannello solare è circa del 16%.
Con le onde, invece, va meglio. Le fluttuazioni marine
in grado di muovere l’apparecchio sono molto più frequenti di quelle ventose, e non c’è bisogno di sole per
riscaldarle e renderle pronte allo sforzo. Si calcola che
l’efficienza media del dispositivo sia circa del 30%, e se
ho capito bene è una stima prudenziale. Paragonando
i costi di installazione in euro per watt medio, un watt
H24 verrebbe prodotto al costo di installazione di 12
euro, mentre quello di un grande eolico ne costa 6 e
quello di un solare 8. Per non parlare dell’eolico domestico, che ne è costato 24. L’eolico a terra è più conve-
niente, certo. Però un dispositivo come quello di Grassi si può installare ovunque. Non si vede e non ha impatto ambientale (è di vetroresina, ha lo stesso impatto di una barca, anzi meno: ci sono varie certificazioni comprovanti, come vedremo). Un po’ meglio degli
ecomostri eolici, quindi.
Siccome sono un rompicoglioni, e la cosa mi sembrava troppo bella per essere vera, ho fatto a Grassi alcune domande. La prima domanda è semplice: questi oggetti sono sottomarini, il che significa corrosione e arrugginimento. Di quanta manutenzione hanno bisogno
questi oggetti? Secondo Grassi, non molta. Il problema
della corrosione si ha in realtà quando un oggetto (tipicamente, un oggetto di metallo) viene continuamente immerso in acqua e tirato fuori. L’azione elettrolitica dell’acqua e quella chimica dell’ossigeno, combinate, possono fare danni. Il modulo è fatto invece di fibra di vetro, che non conduce e non arrugginisce, e sulla quale gli organismi marini sono in grado di allignare e crescere. Da chimico, mi tocca dargli ragione. Uno
a zero per lui. La seconda domanda è un pochino più
bastarda: un essere umano, un sub, o un povero delfino, una di quelle tenere creature del cui destino ci
preoccupiamo mentre trangugiamo un bel filetto di
tonno, potrebbero rimanerci impigliati o incastrati, e
lasciarci le penne. Anche qui, no. E non solo secondo
Grassi, visto che l’analisi dei rischi posti dal modulo ha
ricevuto la certificazione Rina (Registro Italiano Navale), un ente noto per la sua particolare severità. Qui, da
chimico, mi tocca fidarmi. La terza domanda è fetente: in Portogallo pochi anni fa hanno costruito un oggetto simile, il Pelamis Energy Wave Converter. Un mostro
in grado di generare 750 kW. Sono falliti in pochi anni. Certo che sono falliti, risponde Grassi. Pelamis era
un mostro che solo di installazione costava 5,6 milioni
di dollari. Il nostro modulo costa venti volte meno. È
una spesa affrontabile da una piccola comunità. Piccola comunità? Sì, la scommessa ulteriore di Grassi è
questa.
Il coronamento ideale del progetto di Grassi, che propone la possibilità di formare una smart community, in
cui una piccola realtà (come un paese di provincia, per
esempio: pare che in Italia abbondino) si fornisca di
una serie di elementi per produrre da sola la propria
energia esclusivamente da fonti rinnovabili, coinvolgendo gli abitanti, i turisti, gli utenti del porto tramite
il crowdfunding. Se volete la mia opinione, questo è un
vero progetto. Un progetto organizzativo, ma basato su
solide innovazioni tecnologiche, non la solita aria fritta in cui si presenta un progetto in cui si mescolano le
due o tre cose che sappiamo fare con quelle che sa fare il tizio che ci siamo trovati accanto a cena due sere
prima, e speriamo che funzioni. È solo la mia opinione. Spero di non confondere la speranza con la convinzione, ma sono convinto che in questo ambito la mia
opinione abbia qualche valore.
Marco Malvaldi
A noi il petrolio va bene solo se d’importazione
Segue dalla prima
Tornando in Basilicata, invece, c’è un altro grande giacimento che l’Italia sfrutta
da molti anni, quello dell’Eni in Val
d’Agri. Anche questo è sotto inchiesta:
fra le accuse c’è quella di avere reimmesso in modo irregolare nel sottosuolo le
acque sotterranee uscite dalla roccia insieme con il petrolio. Di averle classificate con codici scorretti dei rifiuti [5].
In ogni caso, secondo un’analisi Agriregionieuropa, l’attività petrolifera apporta
alla Basilicata un valore aggiunto sui 500
milioni e genera più di 5mila posti di lavoro. Ancora Giliberto: «È una manna
per una regione dove il Pil pro capite per
i 500mila abitanti s’aggira sui 18mila euro e dove l’agricoltura (quante volte è stato detto che “il nostro territorio è vocato
per l’agricoltura”?) è un doloroso 3% dell’intero Pil regionale» [6].
L’impianto di Tempa Rossa si trova nel
comune di Corleto Perticara, 2.500 abitanti. L’attuale sindaco Antonio Massari – il
precedente, Rosaria Vicino, coinvolta
nell’inchiesta di Potenza, è ai domiciliari da giovedì – spiega: «Con la Total lavorano stabilmente circa 150 abitanti del
paese. Ma il cantiere occupa molte più
persone. Oggi sono circa 1.600. La novità
della nostra amministrazione è stata
quella di ottenere che la Total assumesse dopo corsi di formazione collettivi e
non su segnalazione dei politici» [7].
Secondo l’ultimo aggiornamento fatto il
7 gennaio scorso dall’Ufficio nazionale minerario per gli idrocarburi e le georisorse, nel 2015 il gettito delle royalties per la
sola Basilicata è stato di 158 milioni di
sa di cui parlano tutti. Al momento le battute più comuni sono, nell’ordine:
– Viene fornito con un leggìo?
– Il drone di Amazon riesce a trasportarlo?
– Rimborsate l’ortopedico se mi cade sul piede?
Sapevo dall’inizio che sarebbe stato lungo, ma lo
immaginavo sulle 500-600 pagine, non certo di queste
dimensioni. Non mi sono reso conto di quanto lungo
sarebbe diventato fino alla fine, perché lavoravo su
file separati, quindi non avevo nessuna consapevolezza di quanto stavo scrivendo. Ma avevo chiaro in testa che volevo un libro, non una serie di libri. Alla fine ho scritto circa il doppio di quanto poi è stato stampato, e in bozze abbiamo poi tagliato altre 150 pagine».
Il libro elettronico
«Con l’eBook la questione del formato perde importanza. Nel libro elettronico ci sono parti che nell’edi-
euro. E tra il 2001 e il 2013, nelle casse
della Regione e dei 12 Comuni che ricadono nell’area estrattiva, sono finiti 1 miliardo e 158 milioni di euro [8].
Antonello Cassano: «Le polemiche sull’utilizzo di questa montagna di denaro
non mancano. Quel che è certo è che i
soldi del petrolio coprono molte esigenze: 30 milioni vanno alla sanità regionale,
20 al programma di forestazione, altri 10
alle università, un paio finanziano le borse di studio. Ora spuntano 40 milioni per
coprire il reddito minimo garantito a
8mila famiglie in difficoltà economiche.
Per non parlare della carta idrocarburi,
assegnata a ogni lucano possessore di patente, che dà diritto a un centinaio di euro all’anno da spendere in rifornimenti
di benzina» [8].
Paesi petroliferi come la Norvegia e la
Gran Bretagna, ma anche l’Irlanda, hanno zero royalties sul petrolio. Hanno
spostato sulla fiscalità, sulle tasse alle
compagnie, tutto il prelievo pubblico su
gas e petrolio. In Italia variano se il giacimento è su terra o su mare, se di gas o
di petrolio. Alle royalties l’Italia aggiunge la normale fiscalità sugli utili delle
compagnie. In tutto preleviamo alle
compagnie petrolifere circa il 50-60%
del valore del petrolio estratto [6].
In totale in Italia nel 2014 la voce royalties è stata pari a 402 milioni, di cui 182,4
alle Regioni petrolifere (pari al 45%), 70,6
milioni allo Stato e 29,2 milioni ai Comuni con i pozzi. Le compagnie che nel 2014
hanno pagato di più sono l’Eni (258,7 milioni) e la Shell (106 milioni) [8].
Oggi per il suo fabbisogno energetico –
gas e petrolio – l’Italia dipende dal 90%
STOMACI
Piccione in gratella
La carne di piccione
per la quantità grande di
fibrina e di albumina che
contiene è molto nutriente ed
è prescritta alle persone deboli per
malattia o per altra qualunque cagione. Il vecchio Nicomaco nella Clizia del
Machiavelli, per trovarsi abile a una
giostra amorosa, proponevasi di mangiare uno pippione grosso, arrosto così
verdemezzo che sanguigni un poco. Prendete un piccione grosso, ma giovine, dividetelo in due parti per la sua lunghezza e stiacciatele bene colle mani. Poi
zione di carta sono state tagliate. Per esempio nell’eBook la trascrizione del quaderno del professore di
italiano Cosmo della Nona parte è integrale, mentre
su carta c’è solo una selezione. Mi capita di consigliare l’eBook anche perché è più leggero e costa meno,
anche oggi alla guardia carceraria (Albinati da oltre
vent’anni insegna in carcere, ndr) che si congratulava
con me perché mi aveva visto in tv assieme ad Alba
Parietti e che voleva comprarlo per iniziare a leggerlo a Pasqua. Però vedo anche che molti sono infastiditi dal non vedere i numeri di pagina e non sapere
bene a che punto del libro si trovano. Non è per snobismo, né per nostalgia verso la carta, ma alla fine anche a me pare che il libro di carta sia ancora il formato più adatto per un libro come questo».
La fase della scrittura
«Il lavoro è incominciato nel 2006 ed è finito nel
FOR TI
mettetele a soffriggere nell’olio per
quattro o cinque minuti, tanto per assodarne la carne. Conditelo così caldo con
sale e pepe, e poi condizionatelo in questa maniera: disfate al fuoco, senza farlo bollire, 40 grammi di burro; frullate
un uovo e mescolate l’uno e l’altro insieme. Intingete bene il piccione in questo
miscuglio e dopo qualche tempo involtatelo tutto nel pangrattato. Cuocetelo
in gratella a lento fuoco e servitelo con
una salsa o con un contorno.
(La scienza in cucina e l’arte
di mangiar bene di Pellegrino
Artusi, prima edizione 1891)
2015, quindi ci ho messo nove anni. È un romanzo che
ha avuto uno sviluppo lungo e diseguale, sia nell’impegno che nelle varie fasi del progetto. Verso il 2010 ho
avuto una crisi esistenziale molto forte dovuta a guai
personali. È durata due anni durante i quali ho smesso di scrivere. Per ironia della sorte sarebbero stati gli
anni in cui avevo più tempo, invece li ho persi. In quel
periodo ho pensato che sarebbe rimasto incompiuto.
A parte l’inizio e la fine, che sono più o meno rimasti
identici, la scansione interna è cambiata decine di volte. Parecchie parti sono cadute. Scrivevo solo il giovedì, venerdì, sabato e domenica, perché un certo calo di energia dovuto all’età faceva sì che dopo essere
stato in galera dove insegno da vent’anni ero troppo
stanco. Per la prima volta in vita mia ho fatto tutto da
solo. Non ho fatto leggere niente a nessuno, tranne il
mio agente. Neanche a Francesca D’Aloja, la mia don-
dalle esportazioni estere e da paesi assai
problematici come Russia e Algeria [9].
Eppure, negli anni del boom economico
l’Italia aveva trovato uno slancio energetico che sembrava prospettare uno scenario più roseo, con oltre cento pozzi petroliferi l’anno scavati tra il 1949 e il 1964 e
settemila impianti attivi – oggi siamo sotto i mille – a pompare dal suo sottosuolo
quasi il 50% del gas di cui il Paese aveva
bisogno [10].
Scriveva Ettore Livini nel 2012: «Tutto
è cambiato. Il volume di idrocarburi made in Italy è sceso da 20 a 8 miliardi di
metri cubi. Il boom del greggio della Val
d’Agri, complici le lungaggini di casa nostra – Total e Shell hanno avuto bisogno
di 400 permessi prima di far partire i lavori a Tempa Rossa – ci ha regalato la miseria di pochi milioni di barili l’anno. E
in pochi hanno voglia di imbarcarsi in interminabili odissee burocratiche per scavare sottoterra» [10].
Ora, con l’inchiesta che coinvolge Tempa Rossa, gli investimenti rischiano di fermarsi ancora una volta, «mentre sempre
più aziende del settore – Shell, Petroceltic, Transunion – nelle ultime settimane
hanno abbandonato i progetti nell’Italia
che sembra volere sempre più petrolio a
patto che sia solo di importazione» (Jacopo Giliberto) [1].
(a cura di Luca D’Ammando)
Note: [1] Jacopo Giliberto, Il Sole 24 Ore 1/4; [5]
Domenico Palmiotti, Il Sole 24 Ore 2/4; [6] Jacopo Giliberto, Il Sole 24 Ore 2/4; [7] Paolo Griseri, la Repubblica 2/4; [8] Antonello Cassano, la Repubblica
13/1; [9] Oscar Giannino, Il Messaggero 2/4; [10] Ettore Livini, la Repubblica 14/8/2012.
na, che mi vedeva lavorare e lavorare senza leggere
mai niente. Quello che ho avuto chiaro fin da subito è
che il tema permetteva e, anzi, richiedeva sviluppi in
direzioni molteplici, e ho voluto assecondarli invece
che reprimerli, andando avanti a scrivere in attesa di
un montaggio che avrei fatto alla fine e che è stato di
gran lunga la cosa più complicata del libro».
La fase del montaggio, appunto
«Dopo aver finito di scrivere, mi sono costruito uno
storyboard come quelli che si adoperano nel montaggio del cinema: non ne avevo mai visto uno, mi ha aiutato un amico regista, Matteo Garrone, che è venuto a
casa mia a insegnarmi come fare (Albinati è tra gli
sceneggiatori di Il racconto dei racconti, l’ultimo film di
Matteo Garrone, ndr). Ce l’ho ancora montato nel mio
studio, è una specie di cartellone grande come tutta la
parete su cui sono incollate delle (segue nell’inserto II)
ANNO XXI NUMERO 79 - PAG II
IL FOGLIO QUOTIDIANO
LUNEDÌ 4 APRILE 2016
Il leader scelto dall’Onu sbarca a Tripoli: tumulti e spari per le strade. Altri 23 anni di carcere a Boettcher
l
a
conferenza stampa organizzata da Luigi Manconi e da Amnesty International per chiedere la verità sul
caso Regeni, ha parlato anche la signora Paola, mamma del ricercatore:
«Giulio aveva uno sguardo aperto eppure dopo la morte il suo volto era
piccolo piccolo, in obitorio a Roma
l’ho riconosciuto dalla punta del naso e ci ho visto sopra tutto il male del
mondo. E’ forse dall’antifascismo
(segue dall’inserto I)
che in Italia non ci troviamo di fronte alla tortura ma Giulio non era in
guerra e non lavorava per i servizi,
come provano i suoi conti bancari faceva ricerca» (fra. pa., Sta).
Erasmus Laura Ferrari, 23 anni, di
Modena, faceva parte della comitiva
di studenti Erasmus che tornava in
pullman, da Valencia a Barcellona,
domenica 20 marzo all’alba. Il pull-
man che ha sbandato sull’autostrada
per Tarragona e ha fatto strage di chi
era a bordo: 13 morti e 34 feriti. Dopo dieci giorni di coma farmacologico nel reparto di terapia intensiva
dell’ospedale Santa Creu e San Pau
di Barcellona ieri si è svegliata. Suo
fratello Lorenzo: «Mia sorella ha
aperto gli occhi. Prima ha fatto un
sorriso a mamma Annunziata che
era lì accanto al letto e quasi sveniva dall’emozione, poi ha mosso la testa per far capire che riconosceva
anche papà Riccardo. È stato bellissimo, un grandissimo giorno per noi»
(Caccia, Cds).
giovedì 31 marzo
Libia Il nuovo capo del governo
nazionale libico Fayez Serraj è arrivato a Tripoli. Il leader, sostenuto
dalle Nazioni Unite, è sbarcato nella capitale arrivando via mare su un
gommone dalla Tunisia per aggirare
tutti i possibili blocchi di chi non lo
voleva lì: gli uomini di Khalifa Gweil
che tengono in piedi il governo non
riconosciuto di Tripoli e l’esercito libico del generale Khalifa Haftar,
che da settimane sta boicottando
l’unità nazionale. In serata nella capitale si sentivano gli spari, e il governo non riconosciuto s’appellava a
«tutti i rivoluzionari perché si schierino contro questo gruppo d’intrusi,
che infiammerà la situazione a Tripoli e c’imporrà la tutela internazio-
Il sospiro, questo estenuato anelito di vita
È uno di quegli eventi ordinari di cui la scienza si è occupata poco (la letteratura anche troppo). Ecco come si genera e a cosa serve
La Lettura, domenica 27 marzo
uando eravamo ragazzi e leggevamo
i fumetti, incontravamo una scritta –
SOB – ogni volta che qualcuno singhiozzava e un’altra – SIGH – quando qualcuno sospirava, mentre si
tossiva come COUGH COUGH. Abbiamo così imparato che in inglese
to sob vuol dire singhiozzare, to sigh vuol dire sospirare e to cough tossire, tre verbi di presumibile natura
onomatopeica. Le lingue si imparano anche così.
Il sospiro è un protagonista della nostra vita, individuale e di relazione, uno di quegli eventi ordinari
dei quali la scienza si è occupata poco e la letteratura, di pregio o di dozzina, anche troppo. Una di quelle evenienze della vita quotidiana delle quali coloro
che credono di sapere, sanno tutto. E ne discettano.
Come il sorriso, il riso o il singhiozzo, che arricchiscono il repertorio delle nostre manifestazioni emotive, repertorio vario e affascinante del quale gli uomini hanno sempre discorso senza saperne quasi niente.
D’altra parte, chi di noi non ha mai
sospirato – di nostalgia, di desiderio, di rimpianto, per ricordi fuggevoli o per angustie presenti, per
amore, per scommessa o per rabbia, nelle diverse vicissitudini che
costellano il cammino della vita?
Talvolta il sospiro è incoercibile
e può fungere da spia di un nostro
stato d’animo profondo, al punto
che ai tempi del romanticismo dichiarato si diceva che l’amore si può
fingere e ostentare, ma mai nascondere. Un improvviso rossore e un sospiro non trattenuto hanno smascherato un gran
numero di passioni inconfessate e hanno tradito le
trame sentimentali più accortamente celate.
Anche i bambini piccoli spesso sospirano, quando meno te l’aspetti, e in alcuni casi a un sospiro improvviso si associa un breve incantevole brivido di
tutta la personcina. Sospira chi sta male e chi sta bene, chi si accinge a compiere uno sforzo e chi lo ha
portato a compimento con successo, chi spera e chi
dispera, chi anela e chi è sazio, chi cerca comprensione e chi semplicemente ascolta, chi canta e chi
ascolta cantare. Il sospiro può essere generato tanto
da un’aspirazione quanto dal soddisfacimento della
stessa. Ci sono i sospiri dei condannati della Repubblica Veneta che attraversavano il ponte detto appunto dei sospiri e i sospiri di un cane che assiste ai
preparativi per la sua pappa. Il sospiro, insomma, fa
parte del concertino delle passioni, in un’epoca che
qualche nostalgico ha definito, chissà perché, l’epoca
delle passioni tristi.
Ma cos’è il sospiro? È una sorta di ripensamento,
che fa partire un secondo movimento di inspirazione
prima che sia finito quello in atto; un doppio passo
del processo respiratorio, un sincopato nel balletto
della vita, un estenuato anelito di vita, proprio laddove l’anima si trova a questionare con il corpo.
Può avere un’origine organica come una psicologica, ma ha in genere sempre lo stesso decorso, finalizzato a introdurre più aria nei polmoni, coinvolgendo
quasi sempre l’abbassamento del diaframma. Io sospiro molto nella giornata. Più oggi che ho la «pancetta», che nei tempi passati, a proposito dei quali
Leopardi direbbe: «Chi rimembrar vi può senza sospiri?». Chi controlla l’affiorare di un sospiro e il suo decorso? Come quasi tutti i moti del nostro corpo e della nostra psiche, il sospiro è regolato da due processi antagonisti che agiscono sul centro del respiro, come rivelato in dettaglio da un recentissimo articolo
scientifico (curato da Li Peng e collaboratori, pubblicato sul volume 530 di Nature), in
un ennesimo esempio di fenomeno biologico complesso e a suo
modo misterioso spiegato con semplicità e immediatezza dall’indagine sperimentale.
Il ritmo del respiro si trova sotto il controllo di uno specifico centro nervoso localizzato alla base del
cervello vero e proprio, più o meno
dove questo si assottiglia per divenire midollo spinale. Il centro
porta il nome di Complesso preBötzinger (CpB), comprendente
qualche migliaio di neuroni. La
sua attivazione è richiesta per
dare inizio a un movimento di
inspirazione e il fenomeno si
può osservare anche in laboratorio, operando su fettine di tessuto
coltivato in vitro. Ogni attivazione di tale centro genera a sua volta una contrazione nel diaframma e in
diversi muscoli inspiratori, e tale contrazione dà inizio a un moto di inspirazione. Di tanto in tanto una
seconda ondata di attivazione del Complesso CpB segue prontamente quella già in atto, e a questa doppia inspirazione, che ci fa immettere nei polmoni più
o meno il doppio dell’aria che inspiriamo di solito,
noi diamo il nome di sospiro.
Questo può accadere per una reale esigenza di più
aria nei polmoni e per una serie di eventi psichici che
ci coinvolgono emotivamente, tanto nella normalità
quanto nei disordini psichici che coinvolgono un’aumentata quantità di ansia. Il sospiro e il normale respiro partono in conclusione entrambi dal Complesso CpB. Si sapeva che un certo numero di neuromodulatori di natura peptidica – cioè proteica, e non appartenenti alla famiglia delle catecolamine, come la
serotonina e l’adrenalina – possono influenzare nei
ratti di laboratorio il presentarsi del sospiro, ma non
era fino a oggi noto il meccanismo fisiologico di tale
azione. Si è visto allora, non senza sorpresa, che i neuroni che costituiscono il Complesso CpB possono generare da soli il segnale per un normale processo di
inspirazione, ma per dar luogo a un sospiro hanno bisogno di un segnale speciale proveniente da un centro nervoso supervisore, capace di tenere sotto controllo il Complesso CpB stesso. Questo centro di supervisione controlla il Complesso CpB attraverso
l’azione di due tipi di circuiti nervosi paralleli, ma antagonisti, che utilizzano come mediatori l’uno la neuromedina B (NMB) e l’altro un derivato della gastrina (GRP).
Uno dei risultati più sorprendenti di questo studio
è che evidentemente esistono tipi di sospiro diversi,
dei quali prima non ci eravamo accorti e che prospettano sotto una luce nuova la comprensione e la modulazione di questo fenomeno e la sua collocazione nel
quadro dei rapporti esistenti fra respirazione e sospiro in condizioni normali e patologiche. Questa storia
suggerisce almeno tre ordini di considerazioni. Per
prima cosa abbiamo la conferma del fatto che lo studio attento e dettagliato dei fenomeni biologici ci può
fornire una loro effettiva comprensione, spesso anche
più precisa di quanto ci aspettavamo. Non è che per
questo smetteremo di sospirare o lo faremo in maniera diversa, ma ora sappiamo quello che ci sta sotto.
In secondo luogo si trova una volta ancora che ogni
moto del nostro corpo e della nostra psiche è regolato da processi di natura antitetica, in maniera che uno
promuove e l’altro frena l’occorrenza del moto stesso. Questo accade essenzialmente per due ragioni:
perché ogni moto si deve prima o poi estinguere per
potere magari ripresentarsi, e perché non deve essere mai né troppo esangue né troppo prorompente.
Questo doppio controllo, ormonale o nervoso, delle
nostre manifestazioni interne ed esterne fa sì che la
nostra vita si estenda sempre fra il desiderio di fare
una cosa e il senso di colpa per averla fatta, una situazione psicologica di fondo che caratterizza il nostro
modo di vivere la vita in tutte le sue manifestazioni.
In terzo luogo, lo studio scientifico, di natura inevitabilmente riduzionistica, dei fenomeni può a volte portare a riconoscere nuove sfumature di quelli e
ad aprire così nuovi inusitati orizzonti interpretativi,
alla barba di coloro che amano sempre tessere le lodi di un approccio olistico, che non si capisce mai bene in cosa consista. Se si parla in particolare di fenomeni biologici, occorre considerare che per le cose vive tutto ciò che conta accade a livello molecolare. Si
tratta cioè di mobilitazioni, trasformazioni e interazioni ordinate di molecole, fluide o semifluide, anche
se ospitate e sorrette da strutture più stabili che possono anche essere di dimensioni macroscopiche, come organelli, membrane, vasi o impalcature rigide.
Queste strutture costituiscono ciò che osserviamo di
una cellula o di un organismo vivente, ma la vita vera ha luogo dentro di queste e fra di esse, al livello
essenzialmente molecolare, e talvolta anche atomico.
Edoardo Boncinelli
Storia dell’uomo attraverso la sua barba
la Repubblica, giovedì 24 marzo
os’è più “naturale”,
farsi crescere barba e
baffi, o radersi? Posta
così, la domanda potrebbe far ridere. Eppure è una faccenda
tremendamente seria, su cui ne può andare della testa. Lo zar Pietro il Grande voleva modernizzare la Russia tagliando le barbe. Chi rifiutava veniva
mandato al patibolo. Fino al 1917, il diritto canonico cattolico scomunicava i
preti che si facessero crescere la barba e i monaci che rifiutassero la tonsura. I taliban prescrivevano, con pari severità, burqa per le donne e barba per
gli uomini. I governi dell’Iraq del dopo Saddam avevano bandito barba e
baffi nelle forze armate e di polizia, suscitando risentimenti tra le reclute. E
su questo risentimento aveva fatto leva
l’Is, incoraggiando barbe incolte anche
più lunghe di quelle già in voga nei
raggruppamenti islamici concorrenti.
Nell’Egitto di Mubarak era vietata la
barba agli uomini in divisa. Ma ora si
può finire in galera, essere torturati e
uccisi se una barba lunga conduce al
sospetto di simpatie islamiste.
Paese o epoca che vai, problemi di
pelo facciale che ti ritrovi. Per la mia
generazione la barba alla Che Guevara
era un segno di anticonformismo. Ora
è tornata, ma per tutt’altre ragioni: non
c’è modello in posa su carta patinata o
manager rampante che non sfoggi un
accenno di barba come moda comanda. La Corte suprema Usa consente ai
datori di lavoro di decidere se i propri
C
dipendenti possono farsi crescere barba e baffi, o meno. Ma i marines, ai
quali era sinora proibito, ora aprono
alla barba, alle chiome e ai turbanti
dei sikh, e forse anche ai riccioli degli
ebrei ortodossi e alle barbe islamiche.
L’Inghilterra ha inventato gli skinhead,
ma anche il Movember (Mustache-November), il fenomeno di massa per cui
ci si fa crescere i baffi più bizzarri per
sostenere cause benefiche.
La casistica è infinita. Così come infinita è la discussione sull’argomento.
Se proprio volete leggere tutto quello
che avete sempre voluto sapere su barba e baffi, potete rivolgervi all’ultimo
libro di Christopher Oldstone-Moore,
Of Beards and Men: The Revealing History of Facial Hair (University of Chicago Press). Si fonda sull’assunto che «la
storia dell’umanità è letteralmente
scritta sulla faccia degli uomini», che
le mutazioni del pelo facciale esprimono «la mutabilità e varietà dell’idea di
mascolinità in un determinato periodo
e nel corso del tempo». Diventa questione politica quando questo attributo maschile viene caricato di significati morali e religiosi che non hanno più
nulla a che fare con la moda o col gusto personale. L’unica cosa certa è che
la “natura” c’entra poco.
Non è affatto il primo studio sull’argomento, ed è improbabile che sia
quello definitivo. Spazia dalla biologia
evolutiva (ma perché mai i maschi della specie homo sapiens hanno la barba
e le femmine no?) all’antropologia, dalla storia antica alla cronaca, con dovizia di riferimenti, curiosità, discussioni dotte e aneddoti. Il primo trattato
tasche in plastica trasparente in
(segue dall’inserto I)
cui infilare i cartoncini con le varie scene per poi spostarli fino a che non ti sembra di avere trovato il montaggio giusto. È stato un lavoro sfiancante. Una volta
che l’ho finito ho scoperto di non avere più nessuna
forza. Mi sono spremuto troppo. Adesso non posso immaginare di scrivere niente di nuovo».
Il lavoro con l’editore
«Rizzoli è stato fondamentale, perché ha saputo
usare il pungolo e l’affetto, aspettandomi, ma facendomi anche sentire che avevano voglia di vedere il libro.
Volevo consegnare un testo definitivo, o almeno che
non richiedesse grandi interventi, ma non ci sono riuscito. Alla fine è stato un lavoro in progress che ha richiesto più redattori, più correttori di bozze, più editor. Nessuno a cominciare da me era in grado di maneggiare da solo tutto il testo. Quando ci siamo resi
dedicato al pelo facciale fu l’Apologia
de Barbis del duecentesco abate Burcardo di Bellevaux, per il quale la barba era una «tentazione di vanità» in
questo mondo, ma avrebbe accomunato tutti, chierici tonsi e laici intonsi,
nell’aldilà. La sua contemporanea Ildegarda di Bingen spiegava che gli uomini sono più pelosi perché formati
dalla terra e le donne meno perché
formate dalla costola dell’uomo. Bisognava arrivare al 1967 perché il fondamentalista marocchino Muhammad al
Zamzami pubblicasse un opuscolo intitolato: Chiara evidenza del fatto che coloro che si radono sono maledetti, e le loro preghiere sono prive di efficacia. Nelle miniature del Trecento i buoni sono
in genere sbarbati e i cattivi barbuti.
Ma poi si alternano, anche a pochi decenni di distanza, momenti in cui sfoggiare la barba è segno di progresso, o
al contrario di bieco oscurantismo.
My hair like Jesus wore it suona la
canzone del musical del 1967 che fece
furore per molti decenni. Ma le rappresentazioni di Gesù lo mostrano con
la barba solo dal VI secolo. Da qualche
secolo i papi si radono, i patriarchi ortodossi hanno immancabilmente una
lunga barba. Il culto della barba accomuna ebrei ortodossi e musulmani ultrà. Nella Turchia dove sono nato i
papà ritratti nei miei libri di scuola
avevano immancabilmente i baffi, e io
ero un po’ a disagio perché mio padre
invece non li portava. In quella di Erdogan si può scandire slogan islamisti
allo stadio anche a viso glabro. Capita
che ci sia una divisione animata, anche
in una stessa epoca e in uno stesso mi-
conto della mole, eravamo anche preoccupati che
l’oggetto tenesse da un punto di vista tecnico: che la rilegatura fosse abbastanza forte, che il corpo tipografico non fosse troppo piccolo e che la carta fosse abbastanza sottile perché il libro si potesse tenere in
mano, ma resistente, che si potesse sfogliare. Abbiamo valutato l’idea di farlo in due volumi, anche perché da un punto di vista economico sarebbe stato più
conveniente per l’editore (il libro costa 22 euro, poco
più dei 18-20 dei nuovi romanzi di 300-400 pagine, ndr),
ma ci siamo accorti che non era divisibile, non c’era
un punto dove smezzarlo. Abbiamo anche pensato di
ridurlo, ma anche tagliando sarebbe rimasto molto
lungo. Gli editor che prima mi convincevano a tagliare, poi ci ripensavano e mi dicevano di reinserire le
parti tagliate. È un libro che è nato con una sproporzione non sanabile. E io non ero disposto a tagliare an-
lieu tra chi si rade e chi no. Capita anche che si passi da un campo all’altro.
Perché aiuta a nascondere faccione o
doppio mento. O per pigrizia. O perché
ogni tanto diventa impellente il bisogno di cambiare faccia, l’immagine riflessa dallo specchio.
L’Ottocento progressista era barbuto, come Marx e Darwin. Il Novecento,
specie dopo che il signor Gillette aveva brevettato la sua invenzione (1904),
preferiva i baffi. Famosi quelli di
Clark Gable ed Einstein. Ancora più
famosi i baffi di Stalin e di Hitler. Un’ipotesi è che i due dittatori fossero accomunati dal desiderio di rendersi imperscrutabili. Pare che il Führer avesse sperimentato diverse acconciature
facciali prima di decidersi per quella.
James Abbe, il primo fotografo non tedesco che ebbe accesso a Hitler, raccontò del disagio per quei baffetti che
impedivano all’obiettivo della macchina fotografica di scrutare la personalità dietro la maschera. Lo stesso Abbe aveva fotografato un altro personaggio che sfoggiava sullo schermo identici baffetti, Charlie Chaplin, e aveva ottenuto che posasse per lui senza baffi.
Ma nel caso di Hitler il personaggio si
identificava con la propria maschera.
La somiglianza tra i baffetti di Charlot
e quelli di Hitler è alla base del bellissimo film Il grande dittatore, in cui
Chaplin si sdoppia nel ringhioso
Hynkel e nel suo sosia per caso, un
gentile barbiere ebreo. Gli fu rimproverato che, ridicolizzando Hitler, aveva
favorito una sottovalutazione della tragedia che si stava profilando.
Siegmund Ginzberg
cora. Ho seguito un criterio letterario, non editoriale».
La consegna
«A Rizzoli avevo dato circa 400 pagine, giusto per
dimostrargli che non stavo scrivendo solo “Il mattino
ha l’oro in bocca” come Jack Nicholoson in Shining.
Però mi chiedevano una data di consegna. Ho lavorato furiosamente fino al settembre 2015 per consegnare una bozza il più possibile conclusa, altrimenti avrei
dovuto lavorare di nuovo sulla bozza, e nessuno sapeva come lavorare sulle bozze di un libro così lungo. Il
momento in cui ho inviato il manoscritto, però, è stato segnato da una coincidenza cabalistica abbastanza
incredibile. A fine settembre 2015 ero sfinito e loro insistevano. Così l’ho mandato, anche se il libro non aveva raggiunto lo stato che avevo sperato. La sera ho detto a Francesca che lo avevo mandato finalmente. E lei
mi dice: “Ma lo sai che giorno è oggi?”. “Il 29 settem-
Lavarsi
Corriere della Sera,
marcoledì 23 marzo
il Re Sole, allora? Quanto
puzzava il Re Sole? La
provocazione di Mauro Corona
che, ridendone con Giuseppe
Cruciani e David Parenzo a La
Zanzara ha detto (vero o no?) di
aver l’abitudine di lavarsi solo
«lì» perché «non si sa mai» e di
farsi una doccia ogni mese e
mezzo o due mesi (fornendo al
nostro Aldo Grasso lo spunto
per infilzarlo) è l’occasione per
rileggere un libro strepitoso. Si
intitola Storia sociale dell’acqua,
è firmato da Paolo Sorcinelli, e
racconta di come sia cambiato
nei secoli il nostro rapporto con
la fonte di vita e con l’igiene.
Spiega dunque lo storico che «i
tre medici di Luigi XIV, che fra
il 1647 e il 1711 stendono il
Journal de la santé del re
francese, annotano in
sessantaquattro anni una sola
occasione di bagno completo,
limitandosi di norma la toilette
alla sola pulizia del viso – a
giorni alterni – con un panno
imbevuto di alcol etilico». Si
cambiava, in compenso, sei o
sette camicie al giorno: lavaggio
a secco. Tutto perché per molto
tempo i nostri avi, come il
medico veronese Girolamo
Fracastoro, erano convinti che
l’acqua portasse malattie. Era
accusata infatti «di aprire la
strada alle infezioni
dall’esterno attraverso i pori
dilatati della pelle. L’acqua,
scrive Leonardo, «penetra tutti
li porosi corpi». Così, dal XVI
secolo in poi, (quando la peste è
un accidente ciclico che
provoca vere e proprio ondate
di panico in cui incorrono tutte
le generazione), il timore che i
pori della pelle possano aprirsi
in seguito a un bagno caldo
diventa quasi una ossessione».
Secondo lo storico francese
Georges Vigarello, autore de Lo
sporco e il pulito, c’era anzi chi
teorizzava che «una donna può
rimanere incinta immergendosi
nei bagni nei quali sono rimasti
per qualche tempo degli
uomini» per colpa di certi
residui lasciati lì dai maschi.
Non bastassero queste idee
demenziali, racconta Sorcinelli,
ci si mise di mezzo pure la
religione: «San Benedetto, da
quanto sappiamo, era solito
ripetere che, “a coloro che
stanno bene di salute, e
specialmente ai giovani, il
bagno si dovrà concedere assai
di rado”. Sant’Agnese morì a
tredici anni senza essersi mai
lavata, forse per non cancellare
il crisma del battesimo, ma
molto probabilmente anche per
non incorrere in inutili
tentazioni». Insomma:
«Cristianesimo e sudiciume
marceranno a braccetto, perché,
almeno da San Gerolamo in poi,
prevalse il principio che l’uomo
battezzato non avesse più avuto
bisogno di nessun altro rito
purificatore». Il famoso «odore
di santità» forse non era solo un
eufemismo…
Gian Antonio Stella
E
Colorare
La Stampa,
martedì 22 marzo
e anche gli adulti scoprono
la passione per i libri da
colorare, il rischio è che le
matite non bastino per tutti. Le
scorte sono a secco e in tutto il
mondo i produttori, sempre più
con l’acqua alla gola, lanciano
l’allarme: la Faber Castell,
l’azienda tedesca che detiene il
primato della produzione di
matite, fa sapere che per far
fronte alla domanda in crescita
è stata costretta ad accelerare i
ritmi di lavoro. Tenere il passo è
ormai un’impresa. «Nel nostro
stabilimento di Stein, in Baviera
– ha dichiarato Sandra Suppa
della Faber – abbiamo
organizzato più turni del solito e
la produzione ha sorpassato
quella dell’anno precedente».
Dal Sud America all’Asia la
mania di colorare non
risparmia nessuno. Il Brasile è
tra i paesi più contagiati. Ma
anche in Europa gli adulti con
la passione per i pastelli stanno
mettendo in difficoltà i
produttori, a cominciare dai
famosi Stablio e Staedtler. E
quando colorare non è solo un
passatempo per i più piccoli, la
qualità fa la differenza. Gli
adulti non si accontentano.
«Investono sulle matite migliori
– continua la Suppa – e la
confezione da 36 li lascia
insoddisfatti». Pare che per
esprimersi al meglio le persone
attempate abbiano bisogno di
una tavolozza più ampia. Meglio
la confezione da 72, meglio
ancora se è da 120.
Roberta Cordisco
S
nale» (Battistini, Cds).
Acido Alexander Boettcher ieri è
stato condannato a altri 23 anni di
carcere più 3 anni di libertà vigilata quando avrà scontato tutta la pena più 1 milione e 200 mila euro di
provvisionale di risarcimento a Stefano Savi, uno dei giovani sfregiato
con l’acido il 2 novembre di due anni fa. I 23 anni di carcere si aggiun-
gono ai 14 anni già incassati nel processo parallelo per un altro episodio. Commento di Stefano Savi, cappellino nero con la visiera e un paio
di occhiali scuri a nascondere i segni di sedici interventi chirurgici:
«Spero che non esca più di cella. Mi
sento sollevato da questa condanna.
Se l’è cercata lui. In questo momento non me la sento di perdonare...»
(Poletti, Sta).
(segue a pagina tre)
La sfida a colpi di Crocifissi
tra Donatello e Brunelleschi
La Lettura, domenica 27 marzo
a i capelli impastati di sangue,
che cola sotto le
ciocche fin sulla
fronte e ai lati del
viso. Gli zigomi
tumefatti. Le palpebre lunghissime ormai ridotte a feritoie. Le labbra
semiaperte nell’esalazione dell’ultimo
respiro. Il corpo sfigurato nello spasimo della morte. È il Crocifisso di Donatello, conservato nel transetto settentrionale della basilica fiorentina di
Santa Croce, in un’area esclusa dai
percorsi di visita. Si può ora vedere
nella mostra «Fece di scoltura dipinta
e colorì», curata da Alfredo Bellandi.
Crocifisso famoso, non solo perché segna una nuova concezione del divino,
sostanzialmente incarnato nell’uomo,
ma anche il passaggio dall’arte gotica,
che stilizzava il Cristo sulla croce, a
una nuova rappresentazione in cui il figlio di Dio appare come un uomo di
carne e nervi, che muore trafitto dal
dolore come ogni uomo torturato.
La notorietà dell’opera, bellissima
ma non certo tra le più tipiche di Donatello, si deve tuttavia a una storia riferita dal Vasari nella biografia di
Brunelleschi e subito dopo in quella
di Donatello. Lo scultore intagliò il
Crocifisso intorno al 1408, quando aveva poco più di vent’anni. Concluso il
lavoro, «parendogli di avere fatto una
opera lodatissima, chiamò per il primo Filippo di Ser Brunellesco, che era
domestico amico suo, che lo venisse a
vedere». Ma Brunelleschi, più anziano
di una decina di anni, raffreddò
l’entusiasmo: «Gli pareva ch’egli avesse messo in croce un contadino e non
il corpo di Cristo, il quale fu delicatissimo di membra e d’aspetto gentile ornato». Donatello si offese e sfidò
l’altro: «Piglia del legno e prova a farne uno tu». La risposta è custodita nella basilica di Santa Maria Novella: un
crocifisso scolpito e dipinto in un tronco di pero che venne immediatamente recepito dagli altri artisti del Rinascimento come opera esemplare: naturale e al tempo stesso nobile, perfetto
nelle proporzioni che rimandano all’ideale «homo quadratus» di Vitruvio
ma anche illuminato dall’idea neoplatonica della divinità, caratterizzata
dalla bellezza e dal fulgore. Per esaltare l’armonia quasi musicale di questo
corpo lo fece completamente nudo,
iniziando una tradizione che arriverà
fino a Michelangelo, nel Crocifisso
della Chiesa di Santo Spirito.
Riferisce il Vasari che, dopo aver
H
terminato in gran segreto la scultura
«fatta a gara», Brunelleschi invitò Donatello a pranzo. Passando dal mercato fecero la spesa: formaggio, uova e
frutta. E con queste cose inviò l’amico
a casa dandogli le chiavi e dicendo
che lui si fermava per il pane dal fornaio. Donatello entrò e si trovò davanti il Crocifisso, «di perfezzione e sì maravigliosamente finito, che di stupore
e di terror ripieno, ne rimase vinto talmente, che la tenerezza dell’arte e la
bontà di quella opera gli aperse le
mani, con le quali strette teneva il
grembiule pieno di quelli frutti et uova e formaggio, sì che il tutto si versò
in terra e si fracassò». Vedendo la frittata sul pavimento, Brunelleschi rimproverò l’amico di aver rovinato il desinare. Donatello rispose che per quel
giorno aveva avuto la sua parte, pensasse lui a raccogliere il resto «imperoché conosco e veramente confesso
ch’a te è conceduto fare i Cristi et a
me i contadini».
I due rimasero amici e al tempo
stesso in competizione. Nel 1418 Donatello aiutò Brunelleschi a realizzare il modello della cupola del Duomo,
in mattoni e calcina, senza armature,
per dimostrare che poteva crescere
sostenendosi da sola, secondo il modo
di murare degli antichi, che avevano
studiato durante il loro viaggio a Roma, nel 1402. Aveva pagato Filippo tutte le spese, vendendo un poderetto
nelle campagne di Settignano. Era figlio di un ricchissimo notaio, ser Brunellesco Lippi, a cui il Comune di Firenze, sul finire del Trecento, aveva
affidato la difesa della città. Donatello invece era figlio di un cardatore di
lana, che per avere una bocca in meno da sfamare l’aveva messo a bottega dai Ghiberti. Fu qui che nacque
l’amicizia con Brunelleschi. A Roma,
dissotterrando e misurando i ruderi
affioranti dal terreno, l’architetto cercava di capire il segreto della divina
proporzione. E incitava Donatello a
guardare bene le sculture, a disegnarle. A Firenze realizzarono altre statue
in legno dipinto, come quelle raffiguranti la Maddalena orante, che insieme ai due Crocifissi fecero da modello alla scultura lignea del Quattrocento, alla quale è dedicata la mostra fiorentina. Nelle opere, una cinquantina, si assommano la riscoperta della
plasticità classica, la policromia,
l’assemblaggio di materiali diversi.
Come nel Crocifisso del Pollaiolo, con
il corpo in sughero, il perizoma di tela gessata, i capelli di stoppa impastati di stucco.
Lauretta Colonnelli
«Nella tomba non c’è». Che fine
ha fatto la testa di Shakespeare?
La Stampa, domenica 27 marzo
ulla lapide della tomba
di William Shakespeare nella Holy Trinity
Church di Stratfordupon-Avon non è stato
inciso il suo nome, ma
un invito in versi a non
toccare le ossa che quel
sepolcro contiene. Un esame del loculo effettuato con un radar in grado di
penetrare il terreno ha però permesso
di scoprire che l’invito, pure accompagnato da una maledizione, non è stato
rispettato: la tomba è stata profanata
probabilmente due secoli fa, e il teschio di Shakespeare è stato rubato.
L’indagine commissionata da Channel 4, che ha mandato in onda ieri sera in Gran Bretagna un documentario
sulla sepoltura del più grande poeta
inglese, ha permesso di sfatare alcune
leggende che si tramandano da tempo:
Shakespeare non è sepolto in piedi come il suo amico e scrittore Ben Jonson
all’Abbazia di Westminster; il corpo
non si trova a cinque metri di profondità come si diceva, ma a 90 centimetri dalla superficie; è avvolto in un lenzuolo e non rinchiuso in una cassa. Ma
dove si sarebbe dovuta trovare la testa
del poeta ci sono segni di uno scavo e
S
bre”, ho risposto. Pensavo parlasse della canzone Lucio Battisti. Poi ho capito: era il quarantesimo anniversario della strage del Circeo, che è l’evento da cui
il libro è partito e intorno a cui il libro gira».
I fatti del Circeo
«Il Circeo occupa un decimo del libro, però forse lo
occupa tutto, non so, si scioglie nelle storie degli altri,
in quell’ambiente preciso. Il libro è nato nell’aprile
2005 quando venne fuori che Angelo Izzo aveva ucciso e torturato un’altra donna e la figlia di 14 anni. Per
me è stata una chiamata. Mi sono detto che quella storia che avevo sepolto riemergeva dalle nebbie, che doveva essere scritta e che dovevo farlo io. Ero compagno di classe del fratello di Izzo, e conoscevo gli altri,
o le loro famiglie. Sentivo di dovere raccontare quella scuola, quell’ambiente, quel particolare modo di essere ragazzo che per me rappresentava l’ultimo spraz-
di terra frettolosamente rimessa a posto. È visibile anche una strana «scatola» di mattoni, della quale si ignora lo
scopo.
La voce che il teschio di Shakespeare fosse stato rubato era circolata già
nel XVIII secolo, un’epoca nella quale
la violazione delle tombe era molto frequente. «C’era l’abitudine – ha spiegato l’archeologo Kevin Colls, direttore
del progetto – di prelevare i teschi delle persone famose per analizzarli e per
scoprire le ragioni anatomiche del loro genio. Da questo punto di vista il teschio di Shakespeare era un obiettivo
molto appetibile».
Il 23 aprile si celebreranno i 400 anni dalla morte del drammaturgo, una
ricorrenza così importante da avere
convinto il vicario della Holy Trinity,
Patrick Taylor, a concedere il permesso di esaminare con il radar la tomba.
La scritta sulla lapide maledice solo
chi «muoverà le mie ossa», e sembra
dunque autorizzare uno scanner. «Ma
non faremo altro – ha detto Taylor – e
rispetteremo la richiesta di Shakespeare di non essere disturbato. Il mistero della sua tomba non sarà svelato, e non sapremo mai che cosa esattamente contiene».
Vittorio Sabadin
zo di una società tradizionale che stava scomparendo.
Sono andato a vedermi i film e i giornali porno di quel
periodo, quei colori, e quelle immagini sgranate. Ho
incominciato a documentarmi, ma non ho fatto un lavoro investigativo, semmai archivistico e storico. Nel
libro ci sono dei documenti di allora, per esempio le
intercettazioni tra la mamma e la zia di Ghira, un altro degli autori del massacro, che per uno scrittore sono oro, un materiale preziosissimo perché rappresentano la verità dal basso. Quando si parla degli anni ’70
si pensa sempre alla violenza politica, ma ci si dimentica che c’era anche un estremismo fortissimo del costume, una furia sperimentale che distruggeva un’epoca che peraltro era ancora molto attaccata alla tradizione. Erano due faglie epocali che si scontravano».
Autobiografia o invenzione
«Volevo mostrare e capire come (segue a pagina tre)
ANNO XXI NUMERO 79 - PAG 3
IL FOGLIO QUOTIDIANO
LUNEDÌ 4 APRILE 2016
Le pensioni di vecchiaia si sono dimezzate. È crollato a Pasqua il consumo di carne ovina e caprina
Pensioni 1 Pensioni 1 Dai dati diffusi ieri dall’Inps risulta che
in 13 anni, dal 2003 al
2015, le pensioni di vecchiaia liquidate ogni anno si sono
quasi dimezzate, passando dalle 494
mila circa del 2003 alle 286 mila dell’anno scorso. È la conseguenza delle ripetute riforme delle pensioni.
L’età media al pensionamento è infatti cresciuta di tre anni: da 59,7 anni nel 2003 a 62,7 nel 2015. Le nuove
(segue dall’inserto II)
prestazioni assistenziali (non sorrette dai contributi ma erogate a invalidi e a persone a bassissimo reddito) messe in pagamento ogni anno
sono invece aumentate: dalle 465
mila del 2003 alle 571 mila del 2015,
il 51% di tutte quelle liquidate
l’anno scorso. La spesa complessiva
per tutte le pensioni private Inps è
stata nel 2015 di 196,8 miliardi, di
cui 176,7 per le prestazioni previdenziali e 20,1 miliardi per quelle
assistenziali (Marro, Cds).
Pensioni 2 Il 63,4% delle pensioni
sotto i 750 euro, percentuale che sale al 77,1% per le donne, ma questo
dato «costituisce solo una misura indicativa della povertà, per il fatto
che molti pensionati sono titolari di
più prestazioni o comunque di altri
redditi». Infatti, su 11,5 milioni di assegni inferiori a 750 euro, quelli che
beneficiano di assegni per i redditi
bassi (integrazioni al minimo, mag-
giorazioni, invalidità) sono 5,2 milioni, il 45,4%. Secondo il rapporto di
Itinerari previdenziali su tutte le
pensioni esistenti in Italia nel 2014,
«ogni pensionato riceve in media
1,434 prestazioni il che porta la pensione media da 11.695 euro annui a
16.638 euro, ben al di sopra dei mille euro al mese» (ibidem).
Agnello Durante l’ultima Pasqua,
Quindici anni con il terrore addosso
Da bin Laden a Bruxelles, passando su 150mila morti. Analisi ed evoluzione del fenomeno che ci ha cambiato l’esistenza
l’Espresso, venerdì 1° aprile governo di destra di José Maria Aznar, colpevo- Bashar Assad, che resiste grazie all’aiuto di Mobderrahmane Ameroud, chi le di aver seguito gli Usa nelle avventure belli- sca e alle divisioni nel fronte che lo combatte.
è costui? Nella confusione che, e determina la sua sconfitta nelle elezioni Ma il 2011 è anche l’anno in cui finalmente gli
generata dai troppi nomi successive a favore del socialista José Luis Zapa- americani scovano e eliminano bin Laden nel
arabi che entrano nella no- tero. Così come un anno dopo, 7 luglio 2005, le 56 suo nascondiglio di Abbottabad (Pakistan) poco
stra cronaca, sarebbe bene vittime nel metro e negli autobus di Londra so- distante da una caserma dell’esercito di quel
ricordarsi di lui. Personag- no il fio che Tony Blair paga per essere stato il Paese in bilico tra alleanza con l’Occidente e
gio minore, certo, rispetto ai più fedele alleato di Bush.
tentazioni estremiste.
campioni del terrorismo. Ma
A dispetto di quella che sembra «geometrica
La morte dello sceicco fa esplodere la rivalità
l’unico che ci ricorda, almeno sinora, che esiste potenza» lo sceicco del terrore è in oggettiva dif- tra le due sigle del terrore. Il suo successore, il
un filo rosso a tenere legata una storia vecchia ficoltà. Comunica coi suoi luogotenenti solo con pediatra egiziano Ayman al-Zawahiri, non ha né
di 15 anni, iniziata l’11 settembre 2001 a New «pizzini» come fosse un qualunque padrino ma- la forza né il carisma per opporsi alla crescita
York, quando il mondo cambiò. E noi con lui.
fioso. Proliferano, è vero, varie filiazioni di al veemente di quello che diventerà lo Stato islaAmeroud aveva infatti reclutato, per conto di Qaeda in Iraq, nella Penisola arabica, nel Magh- mico. Nel mondo la frattura produce una corsa
al Qaeda, i due finti reporter tunisini che il 9 set- reb eccetera, ma con legami sempre meno stret- all’attentato più reboante per decidere chi ha la
tembre 2001 uccisero con una bomba nascosta ti con la casa madre che sfociano persino in ri- faccia più truce. Si insanguinano le strade delnella telecamera il comandante Ahmad Shah bellioni impronosticabili sino a pochi anni pri- l’Africa come dell’Asia. La campagna acquisti è
Massoud, il «leone del Panshir», unico serio ma. La sua idea che spargendo il terrore nel più proficua per al-Baghdadi che vede assoggetostacolo sulla strada dello sceicco Osama bin La- campo del nemico produrrà alla lunga il consen- tarsi al suo comando varie sigle in Libia, sopratden per il controllo dell’Afghanistan. Ebbene so necessario per l’edificazione del califfato, vie- tutto Boko Haram in Nigeria. Gli Shabaab somaAmeroud (23 anni allora, 38 oggi) è ricomparso lo ne apertamente contestata dalle nuove leve del li oscillano e comunque si distinguono per feroscorso venerdì 25 marzo nelle strade di Schaer- fondamentalismo, assai più pragmatiche. E nien- cia (come all’università di Garissa, Kenya, 150
beek, quartiere di Bruxelles gemello di Molen- te affatto convinte che l’obiettivo primario sia morti il 2 aprile 2015). Ma è soprattutto nell’area
beek (la culla degli attentatori in Francia e Bel- sconfiggere i lontani Stati Uniti o l’Europa. An- siro-irachena che si gioca la partita decisiva. Algio), mano nella mano con la figlia alla fermata che perché la «rinascita sciita» dei primi dieci Baghdadi vuole che si sottometta ai suoi ordini
del tram. È l’uomo che – lo avrete visto - viene anni del millennio, obbliga i sunniti a un sangui- anche il Fronte al Nursa, filiazione di al Qaeda.
ferito dalle forze speciali prima di essere arre- noso confronto interconfessionale.
La risposta di al-Zawahiri è un no. Nella «madre
stato perché in contatto con un jihadista cattuNel martoriato Iraq, e perciò zodi tutte le battaglie» la posta in gioco è
rato ad Argenteuil, Francia, ora supposto segua- na fertile per qualunque
la cancellazione dei confini del Medio
ce dello Stato islamico di Abu Bakr al-Baghda- esperimento di un nuovo
Oriente tracciati un secolo fa dai didi. Belgio-Afghanistan-Stati Uniti-Francia-Bel- corso jihadista, cresce la
plomatici inglese e francese, Sykes e
gio. Al Qaeda-Stato islamico.
stella di Abu Musab alPicot. Al Baghdadi abbatte quelle
Tout se tient, tutto si tiene nella galassia fon- Zarqawi, un giordano
frontiere anche fisicamente e il 29
damentalista talvolta in competizione, talvolta che si intesta la filiale
giugno del 2014 proclama la nasciin collaborazione. Comunque nel segno di una irachena di al-Qaeda
ta dello Stato islamico a cavallo tra
continuità nemmeno troppo difficile da decritta- ma coltiva le ambizioni
Siria e Iraq, con due «capitali» di
re se, con tattiche diverse, persegue un’unica del leader. Inaugura la
riferimento, Raqqa e Mosul. In
strategia: far nascere il «Califfato universale» stagione delle decapitaquell’area, l’autoproclamato cadove tutti i musulmani possano vivere nell’osser- zioni e della caccia indiliffo impone le tasse, organizza il
vanza della Sharia.
scriminata agli sciiti. La
welfare e una larva di Stato per i
Eliminato Massoud, due giorni dopo è l’11 set- sua stella nel firmamento
musulmani che contempla il getembre: sono le Torri Gemelle che crollano, so- estremista cessa di brillare il
nocidio degli yazidi, la persecuno i 2.996 morti dell’attacco all’America, dunque 7 giugno del 2006 quando non sozione dei cristiani, la decapitazioall’Occidente. Bilancio spaventoso e nemmeno pravvive a un bombardamento americane degli occidentali.
preventivato nelle proporzioni dagli organizzato- no. Ha avuto il tempo, tuttavia, di gettare le baL’effetto immediato è l’arrivo nello
ri, almeno stando a un video ritrovato in un co- si per una nuova strategia e i semi dell’incubo Stato islamico di migliaia di foreign fighters, atvo dove bin Laden commenta con alcuni segua- dei giorni nostri: lo Stato islamico. Non più un tratti dal sogno di essere protagonisti nel «paraci l’acme della sua ascesa. Il presidente George califfato di là da venire e da far sorgere contem- diso in terra dei musulmani». Vengono dalla
W. Bush, eletto meno di un anno prima con un poraneamente dal Marocco all’Indonesia lungo Russia (Cecenia), dalla Francia, dal Belgio, dalprogramma che allude a un neo-isolazionismo tutta la dorsale musulmana, ma uno concreto, la Gran Bretagna, dalla Tunisia... Alcune decine
della superpotenza, è costretto dagli eventi a far- seppur più piccolo, da espandere a poco a poco. anche dall’Italia. Hanno accumulato un odio
si «Marte» in opposizione a un’Europa «Venere» L’eredità di al-Zarqawi viene raccolta da Abu profondo verso i Paesi di provenienza dove si
e riluttante a ingaggiare guerre, per parafrasare Ayub al-Masri che, nell’ottobre 2006 annuncia il sentono cittadini di serie B. Un odio che viene
il credo dei suoi consiglieri neo-conservatori che cambio del nome del movimento in «Stato isla- incanalato dai capi verso azioni suicide. Dopo
lo spingono a «esportare la democrazia» laddo- mico in Iraq» e designa come leader Abu Omar aver a lungo sottovalutato il pericolo,
ve ci sono dittature ostili. Attacca l’Afghanistan al-Baghdadi. Mentre il mondo occidentale con- l’Occidente e alcuni partner arabi creano una
(7 ottobre dello stesso anno) dopo il rifiuto del re- tinua a dare la caccia a bin Laden, la nuova si- coalizione anti-Is per contenerne l’espansione.
gime talebano di consegnargli bin Laden. Appog- gla lavora quasi al coperto. Vengono assoldati al- Soprattutto dopo Charlie Hebdo (Parigi, 7-9 gengiato da una corposa coalizione che ben presto la causa ex ufficiali dell’esercito di Saddam, nel- naio 2015, colpiti la sede del giornale satirico e
espugna Kabul, senza tuttavia catturare la pre- le carceri americane tra il Tigri e l’Eufrate, in un supermercato ebraico, firme in coabitazione
da più ambita. Lo sceicco resiste nella ridotta di particolare a camp Bucca, si forma una nuova Is-al Qaeda, sarà l’ultima volta per ora),
Tora Bora per poi svanire nelle aree tribali del classe dirigente che ha come punto di riferimen- l’offensiva erode i possedimenti del sedicente
confinante Pakistan, protetto da una popolazio- to l’imam Abu Bakr al Baghdadi, issato al co- califfo. Che decide di bilanciare con l’attacco al
ne come minimo fiancheggiatrice. Coalizione che mando nel 2010 dopo la morte sia di al-Masri che cuore dell’Europa. A Parigi, il 13 novembre scorsi assottiglia un anno e mezzo più tardi quando del suo quasi omonimo Abu Omar al-Baghdadi.
so, tra stadio e ristoranti, restano per terra 130
Washington decide di ripetere lo schema (marzo
Le circostanze esterne sono indispensabili nei cadaveri. Sono figli di Francia e del Belgio gli
2003) con l’Iraq di Saddam Hussein. Bush vuole destini degli umani. E il futuro califfo ha la for- autori. L’unico sopravvissuto è Salah Abdeslam.
completare l’opera lasciata a metà dal padre nel tuna, poco dopo la nomina, di assistere a eventi Si scatena una caccia all’uomo tra clamorosi er1991 all’epoca della prima guerra del Golfo, epocali che agevolano il suo disegno. Le prima- rori dell’intelligence e coperture del suo clan a
quando vinse ma non rovesciò il tiranno. Il pre- vere arabe (inizio 2011) nascono nella speranza Molenbeek dove è cresciuto e dove termina la
testo sono non meglio identificate armi di distru- di un processo liberale in Paesi che non hanno sua latitanza lo scorso 18 marzo. Quattro giorni
zione di massa di cui Baghdad sarebbe in posses- mai conosciuto la democrazia: ben presto però dopo, alcuni jihadisti della sua stessa cellula seso (non saranno mai trovate). La sciagurata spe- prevalgono le formazioni islamiche che eleggo- minano la morte all’aeroporto e nella metropolidizione, felice solo all’inizio e solo sul piano mi- no la Sharia a legge fondante. Con la (parziale) tana della capitale dell’Unione europea (35 le
litare, spalanca il vaso di Pandora invero già eccezione della Tunisia, nel Nord Africa e in Me- vittime). Cinque giorni dopo è Pasqua per i cataperto, del terrorismo globale. Anche in seguito dio Oriente scoppia il caos. Con punte di anar- tolici: un kamikaze ammazza in un parco giochi
all’improvvida decisione del governatore nomi- chia assoluta nella Libia del dopo-Gheddafi, un di Lahore (Pakistan) 70 persone tra cui una trennato dell’Iraq, Lewis Paul Bremer, di sciogliere altro despota rimosso e trucidato, e nella Siria di tina di bambini. Quasi a ricordarci che, mentre
l’esercito di Saddam: 300mila persone
piangiamo i nostri morti, non dobbiain armi e dalla mattina alla sera senmo dimenticare che il terrorismo mieza un lavoro. Quasi tutti sunniti e con
te assai più vittime altrove, in particodi Pietro Acquafredda
l’incubo della rivincita degli sciiti, in
lare in terre di Islam.
maggioranza e destinati a prendere il
Questa storia non ha una conclusionsistentemente imploro che al- viaggio così lungo, mi ero accom- ne, se non parziale. Nel tirare le sompotere, come succederà, per il princimeno le pubbliche vie, quelle pagnato a due eccellenti pellegri- me del breve viaggio nel passato repio democratico «una testa un voto»
in una terra dove si sceglie per appar- più battute che portano fra le vo- ni: un venerando abate e un uomo cente, si può solo notare che dopo l’11
tenenza etnica e non per ideologia. stre mura – essendo il Giubileo ricco di scienza e di eloquenza settembre 2001, e a dispetto delle
Non per caso le province sunnite, Al imminente, durante il quale vi grande... Come passano gli anni e «guerre al terrorismo», lo stesso terroAnbar al confine con la Siria su tutte, sarà gran concorso di fedeli da come mutano le cose e variano i rismo ha causato circa 150mila morti
sono protagoniste della resistenza al- ogni parte del mondo – siano libe- disegni degli uomini. Che questo in tutto il mondo. Il numero degli atl’invasore. Vaste aree sono fuori dal re da malandrini e si aprano ai mio quinto viaggio a Roma non sia tentati è decuplicato. Lo Stato islamicontrollo centrale, basi perfette dove pellegrini. C'è infatti pericolo che l'ultimo? Ma questo è il più felice co controlla una fetta di costa della
organizzare la guerriglia e progettare costoro, spaventati da giustificato di tutti i precedenti, anche più Libia, sul braccio di mare prospicienterrore, siano indotti a non parte- splendido di quello del 1341, te l’Italia. Nella sua culla mediorienattentati.
Abbiamo lasciato bin Laden in cipare al Giubileo o a raggiungere quando il dolce desiderio della tale si rimpicciolisce mentre si anqualche remoto rifugio a leccarsi le Roma cambiando strada» – scrive- laurea poetica mi aveva spinto a nuncia per questa primavera il granferite per la perdita di uno Stato, va ai Fiorentini Francesco Petrar- Roma invece che a Parigi. E per- de attacco per scacciare i suoi milizial’Afghanistan, braccato dagli america- ca; e all'amico Giovanni Boccac- ché proprio il più felice? Perché ni da Mosul, la piazza simbolo dell’eni e con la necessità, dopo i rovesci, di cio raccontava del suo pellegri- ora mi curo dell'anima, ora mi spansione, che sarà difesa a costo di
riaffermare la centralità di al Qaeda. naggio a Roma: «Dopo averti salu- preoccupo della salvezza eterna e ingenti perdite. Il timore è che, anche
A suon di bombe. L’11 marzo 2004 di tato a Firenze, mi dirigevo verso non penso affatto alla gloria che se l’Is ne uscirà sconfitto, le schegge
Madrid, stazione di Atocha, 191 mor- Roma, dove, da questo anno da passa!».
di una diaspora dei foreign fighters si
(Anno Santo 1350. spargeranno per ogni dove. Pure nelti, è la perdita dell’innocenza dell’Eu- noi, poveri peccatori ardentemenFrancesco Petrarca. Lettere ai l’Europa dove anche la pace kantiana
ropa, fino ad allora convinta di vive- te desiderato, quasi ogni cristiano
Fiorentini e a Giovanni Boccaccio) fa parte del mondo «ex».
re in una sorta di pace perpetua kan- viene. Per non annoiarmi in un
tiana. La strage è la punizione per il
Gigi Riva
A
GIUBILEI
I
sotto la superficie del decoro stia(segue dall’inserto II)
no crimini e miserie. Volevo tirare i fili di quell’ambiente preciso in quel momento preciso: il quartiere
Trieste a Roma nella prima metà degli anni ’70, un
quartiere della piccola borghesia cattolica. Volevo
mostrare come il risentimento borghese, cioè della
classe razionale per antonomasia, potesse accendersi in fiammate selvagge. Volevo mostrare lo sbalordimento di fronte a quell’infiammarsi. Ma il mio bisogno
era liberarmene, non ricordarlo. Mi ha aiutato molto
la libertà di violare la memoria. Se avessi scritto le
mie memorie sarebbe stato più duro. Tra la mia vita
e il romanzo che ho scritto c’è uno scarto che è decisivo. Io non so se sono quello lì che racconta in prima persona, anche perché il protagonista è determinato anche dal suo coprotagonista, Arbus: se lui era
così, allora “io”, io del libro, dovevo essere cosà. In
realtà loro due sono un unico personaggio. So che avere finito questo libro per me ha il significato di chiudere con una parte della mia vita, il posto, e il tempo
da dove vengo. Con il mio ambiente. So che io non ci
tornerò mai più da un punto di vista letterario. Con
questo libro ho chiuso con i preti, con Izzo e con il
quartiere Trieste. È l’ultima volta che dico “io”, cioè
Edoardo Albinati, in un mio libro. Un’amica mi ha
detto che in questo libro ho messo tutto a nudo. È stato un gran complimento, perché la mia intenzione era
proprio questa».
(Aggiornamento: il romanzo di Enzo Bettiza I fantasmi di Mosca è lungo 2006 pagine).
* * *
il consumo di carne ovina e caprina è
calato del 10 per cento, con punte del
25 il Venerdì santo. Gli allevatori imputano la crisi del settore alle campagne vegane lanciate proprio sotto
le feste. Nel 2009, certifica l’Istat, in
Italia sono stati uccisi 4,68 milioni di
agnelli. Oggi «che mangiarli è come
fare peccato mortale», si lamenta il
vicepresidente della Confederazione
italiana agricoltori Toscana Enrico
Rabazzi, siamo scesi a 2,21 milioni, il
55 per cento in meno. Il giro d’affari
Immigrati
La Stampa,
giovedì 31 marzo
er il settimanale
americano «Fortune» c’è
un solo italiano nella lista
delle personalità che stanno
cambiando il pianeta. Come è
ovvio il suo nome comincia
per M, ma inopinatamente si
tratta di un Mimmo. Mimmo
Lucano, detto U Curdu.
Quando ne divenne sindaco,
Riace era un paesino esausto
della Locride abitato da
quattrocento anziani a cui
avevano tolto tutto, persino i
Bronzi. Ma un giorno sbarcò
un veliero di curdi e il
sindaco ebbe l’idea balzana
di ospitarli nelle case
abbandonate del centro. Dopo
15 anni di cura-Mimmo, oggi
Riace si ritrova duemila
residenti, un quarto dei quali
sono stranieri che hanno
riaperto le botteghe artigiane
di tessuti e ceramiche. Un
modello di integrazione
studiato in tutto il mondo. In
Rete i connazionali di Mimmo
hanno salutato il
riconoscimento
internazionale con la
generosità consueta. I più
moderati gli rinfacciano di
avere confezionato il
miracolo grazie ai soldi
pubblici (avrebbe fatto meglio
a sperperarli come certi suoi
colleghi?). Altri sostengono
che il plauso di «Fortune» è
la prova di un complotto
mondialista per garantirsi
manodopera a basso costo a
spese della popolazione
locale (che a Riace era
emigrata ben prima
dell’arrivo dei profughi). Ma
la reazione più appassionante
è stata quella della politica.
Silenzio assoluto, tranne
Boldrini. Dagli altri Palazzi
nemmeno un tweet. Anche il
governatore della Calabria ha
ritenuto più educato tacere. E
non solo ieri. E non solo lui.
Perché in questo Paese che
spende miliardi in
consulenze di ogni risma,
nessuno si è mai degnato di
chiedere un parere sul
problema degli immigrati
all’unico che parrebbe averlo
risolto.
Massimo Gramellini
P
Idioti
la Repubblica,
mercoledì 30 marzo
a frase «non è un
terrorista, è un idiota»
(attribuita a un funzionario
del governo egiziano a
proposito del dirottatore «per
amore») merita approfondito
dibattito. Non è una frase
qualunque, è il titolo del più
grande simposio di
psicanalisi mai visto al
mondo, è l’epigrafe da
incidere sulle Porte del Male,
è una battuta di Mel Brooks
ma è anche Shakespeare, è il
comico e il tragico che si
abbracciano e si completano
come lo yin e lo yang. Perché
la domanda è: quanta idiozia
c’è nel terrorismo? E
viceversa, quanto terribile
può essere l’idiozia? Si
capisce che ci sono vicende
(questa è una) nel quale
l’idiota trionfa. Ma nei tanti
casi in cui si attribuisce al
terrorista un diabolico
magistero, non si tratterà
invece di un miserabile
imbecille che fa strage
solamente per vendicare e/o
occultare la propria
miserabile imbecillità? Un
forte indizio a carico
dell’idiozia del terrorismo (e
dunque dei terroristi) è la sua
conclamata impossibilità di
vittoria sul campo. Può
terrorizzare (è la sua ragione
sociale), può uccidere, può
piagare una comunità; ma
vincere non è possibile,
perché l’umanità è un
bersaglio troppo enorme, e la
sua inerzia vitale alla fine
trionfa. E dunque, quanta
idiozia c’è (oltre
all’abominevole cattiveria) in
un terrorista?
Michele Serra
L
La scuola cattolica, Rizzoli 2016
l cattolicesimo certe volte pare l’antesignano e poi
l’epigono del surrealismo. Prende una cosa qualsiasi e poi dice che quella cosa è l’esatto contrario di ciò
che quella cosa con tutta evidenza è. Vai a un funerale, sei giù perché ti è morto qualcuno, almeno su questo sembrerebbe che non ci siano dubbi, vorresti che
ti si lasciasse piangere in pace, e invece c’è sempre sul
pulpito, dico sempre, come una maledizione!, c’è regolarmente un prete che ti assicura che il tuo amico o
il tuo caro parente, per cui ti stai rattristando, non è
morto. No, non è morto. Enzo non è morto. Silvana non
è morta. Cesare non è morto. Rocco è ancora vivo. Ma
come, non era morto?! E allora cosa stiamo qui a fare? No, lui non è morto, lui vive, e voialtri non dovete
essere tristi, ma esultare con lui… per lui… di lui… godere insieme a lui… Certo, ora lui è in paradiso dun-
I
della carne ovicaprina è crollato dai
296 milioni del 2000 ai 174 dello scorso anno (Livini, Rep)
venerdì 1° aprile
Infermiera I carabinieri dei Nas
hanno arrestato mercoledì sera all’aeroporto di Pisa, dove stata rientrando da una vacanza, l’infermiera
Fausta Bonino, 55 anni, sposata, due
figli (uno medico, l’altro chef), origi-
naria di Savona da più di 20 anni in
Toscana. È accusata di omicidio premeditato, continuato e aggravato dalla crudeltà. Nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Piombino
iniettava ai pazienti dosi anche quattordici volte superiori al consentito di
eparina, un’anticoagulante. Lo faceva
anche con ricoverati non in fin di vita: tra le vittime una con il femore rotto, un’altra con la polmonite, una ricoverata per mettere la protesi all’anca. Ha ucciso
(segue a pagina quattro)
E nel quieto e tollerante Occidente fece
irruzione il fattore rischio. Conseguenze
Il Sole 24 Ore, domenica 27 marzo
no dei luoghi comuni più
radicati della retorica
progressista recita più o
meno così: è ingiusto e
sbagliato trattare in modo eguale soggetti che
eguali non sono. Di qui
prende lo spunto la critica della «finzione» liberale, colpevole di ignorare che le libertà formali non bastano, in un
mondo in cui le condizioni di partenza sono
diversissime. C’è molto di ragionevole in questo punto di vista, se non altro perché esso attira l’attenzione su un punto tanto ovvio quanto dimenticato: qualsiasi azione, norma o misura messa in atto dal potere politico esercita effetti diversi, talora profondamente diversi, a seconda dei destinatari. È strano, tuttavia, che questo elementare principio sociologico sia così spesso rimosso, e lo sia in modo
particolare dai suoi difensori più accesi. Negli ultimi trent’anni, ad esempio, il drastico
abbassamento nel livello degli studi ha colpito i ceti deboli, privi di capitale culturale e di
relazioni sociali, assai più di quanto abbia
colpito i ceti alti, ricchi di risorse materiali,
culturali e relazionali. Curiosamente, tuttavia,
questa tanto drammatica quanto macroscopica asimmetria non è mai comparsa sul radar
della cultura progressista.
Qualcosa di simile, a mio parere, sta accadendo nelle discussioni dell’ultimo anno sulla lotta al terrorismo. La cultura progressista
appare impegnata in una spasmodica difesa
dei valori liberali (che ha sempre criticato per
il loro «astratto universalismo»), e del tutto dimentica del principio della asimmetria degli
effetti, che pure tanta parte ha avuto nella storia delle idee progressiste. Proclamando in
tutte le sedi che non dobbiamo cambiare una
virgola del nostro modo di vivere, che dobbiamo continuare ad accogliere ed integrare anche gli islamici, che va evitato ogni trattamento differenziale degli immigrati rispetto ai cittadini europei, che non possiamo cambiare le
nostre leggi e i nostri principi di fondo (salvo
dichiarare che «l’islam è parte dell’Europa»:
copyright Federica Mogherini), essa dimentica precisamente le differenze, cui pure in altri contesti appare sensibilissima. Qui non mi
riferisco però alle differenze ben note (anche
se diversamente valutate) fra valori occidentali e islam, ossia al modo di trattare la donna,
o al rifiuto del principio di separazione fra religione e politica. No, la differenza su cui voglio attirare l’attenzione è qualcosa di più sottile, che poco ha a che fare con la religione e
l’ideologia, e molto con i comportamenti della vita quotidiana. Questo qualcosa non divide solo il terrorista islamico dal comune cittadino europeo, ma spesso divide l’immigrato
dal nativo, e talora i nativi stessi fra di loro.
Ed è cruciale nel contrasto all’illegalità, alla
criminalità e al terrorismo, di qualsiasi fede
o non fede essi siano.
Di che cosa si tratta?
Si tratta di una differenza di cui si occupano pochi, almeno nel dibattito pubblico (fra le
eccezioni gli psicologi sociali, e lo scrittore Antonio Scurati). È la differenza fra chi ha una
bassa e chi un’elevata propensione al rischio.
O, se preferite, fra chi è profondamente avverso al rischio e chi lo accetta, o addirittura lo
cerca. Noi, normali cittadini europei, abbiamo
una elevatissima avversione al rischio.
L’immigrato medio ha un retroterra di esperienze e di sofferenze che lo rende enormemente più disponibile ad assumere rischi, nel
bene come nel male. Se una ragazza subisce
un’aggressione in un tram, o un bambino rischia di annegare fra i gorghi di un fiume, è
più facile che siano soccorsi da un immigrato
che da un civilissimo cittadino europeo. Simmetricamente, nella manovalanza criminale
gli stranieri sono sistematicamente sovrarappresentati rispetto ai nativi, presumibilmente
anche per la loro minore avversione al rischio.
Queste differenze diventano ovviamente abissali nel caso dei terroristi islamici autentici,
ossia realmente convinti che l’unica cosa che
li separa dal paradiso di Allah è la cordicella
del detonatore che li farà esplodere.
Ebbene, a me pare che nella lotta al terrorismo, ma più in generale alla criminalità (organizzata e comune), sia proprio questo, il diverso atteggiamento verso il rischio,
l’elemento costantemente dimenticato. I nostri sistemi legislativi, giudiziari e penali hanno qualche efficacia finché a dover essere governati sono solo gli educati ed impauriti cittadini occidentali, ma diventano drammaticamente inadeguati, per non dire patetici, non
appena ci si pone il problema di combattere
individui e gruppi la cui propensione al rischio è incomparabilmente maggiore di quel-
U
que sta meglio di prima, ci arrivo pure io, non sono così rozzo: ciononostante mi sento preso per il culo da
questa filosofia. Scatena in me una rabbia infinita, devo uscire dalla chiesa, sono anni che non riesco a terminare una funzione, preferisco aspettare la bara fuori quando la portano a spalla, un paio di parenti e amici paonazzi e gli addetti delle pompe funebri, con i bicipiti che sformano la giacca. È troppo sublime e insieme troppo facile. Basta rovesciare l’evidenza e tac, ottieni la soluzione. Se sei povero in realtà sei ricco; le
malattie sono doni di Dio; quando muore qualcuno è
una benedizione perché lui ora gioisce con gli angeli,
i primi saranno gli ultimi, il bestemmiatore senza saperlo loda il Signore, se ti allontani da Dio vuol dire
che lo stai cercando, se Dio non c’è allora vuol dire che
di sicuro c’è…
Possibile che in questa vita non ci sia una sola co-
la del cittadino comune, sia esso nativo o immigrato, di prima, seconda o terza generazione. Il borghese benpensante e rispettabile, ma
anche semplicemente il piccolo artigiano che
si è fatto da sé, non possono permettersi neppure una notte in gattabuia, o un blando procedimento penale per qualche reato amministrativo. Ma ladri e criminali, che spadroneggiano nelle nostre città e nei nostri quartieri,
se la ridono di gusto di fronte alle nostre procedure, tanto più in paesi-colabrodo come
l’Italia e il Belgio. Noi italiani siamo straabituati, quando viene commesso un crimine violento, a scoprire quante volte il suo autore era
già stato arrestato, condannato e rilasciato, e
non può che averci provocato un sussulto di
amara consolazione apprendere che uno dei
terroristi dell’ultimo attentato di Bruxelles
era già stato condannato a 10 anni di reclusione e scarcerato dopo soli 3 anni, nonostante la
gravità dei reati commessi (compreso un conflitto a fuoco con la polizia, a colpi di kalashnikov).
Certo, possiamo anche trastullarci con le solite parole d’ordine: ci vuole «più coordinamento», «più intelligence», più «unità
d’azione», «più investimenti», «più risorse»,
«più cultura», «più Europa». Possiamo anche
raccontarci che un intervento militare massiccio e determinato sarebbe in grado di estirpare il terrorismo islamico alla radice. Ma temo
che, per lo meno nel breve periodo, l’unico gesto incisivo, non tanto contro il terrorismo islamico quanto contro la criminalità in generale,
sarebbe di prendere atto che, quando una frazione non trascurabile della popolazione ha
una bassa avversione al rischio di incorrere
nei rigori della legge, l’unico rimedio efficace
è di aumentare le probabilità che chi delinque
subisca effettivamente delle sanzioni, ivi compresa l’incarcerazione per un tempo non irrisorio. Poche cose sono più criminogene che le
norme proclamate e non fatte rispettare, come
sa chiunque provi a educare dei figli o a mantenere la disciplina in una classe.
Il punto, però, è che per imboccare la strada di una lotta efficace alla criminalità è inevitabile rinunciare a qualche abitudine, a
qualche credenza o a qualche tabù. Le forze
dell’ordine, ad esempio, dovrebbero abbandonare la prassi di trattare certe porzioni di territorio come zone franche (penso al caporalato nelle campagne, o ai quartieri in cui la polizia non osa entrare o preferisce chiudere un
occhio). Le carceri dovrebbero diventare luoghi civili (come giustamente, da decenni, invocano i radicali), ma i soggetti pericolosi dovrebbero permanervi un tempo non irrisorio,
perché la cosiddetta «incapacitazione» (ossia
la messa di un soggetto nell’impossibilità materiale di compiere crimini), se accompagnata
da misure di rieducazione, è uno degli strumenti più efficaci per ridurre il numero di reati. Soprattutto, dovremmo cominciare a renderci conto che l’unico modo per contrastare
i soggetti con bassa avversione al rischio è innalzare il rischio stesso, non tanto di essere individuati quanto di essere condannati (celermente) e sanzionati (effettivamente). Questo
vale per tutti i cittadini presenti in Europa, ma
vale in modo particolare per quanti, rifugiati e
migranti economici, l’Europa giustamente cerca di accogliere entro i propri confini.
In un paese come l’Italia il tasso di criminalità degli immigrati è circa sei volte quello degli italiani, e probabilmente poggia più su una
minore avversione al rischio che su speciali,
indimostrate, tendenze criminali connesse alle varie etnie. Come tale può essere ridotto
semplicemente alzando il rischio, ovvero il
prezzo, della commissione di reati. Se, ad
esempio, un ospite di paese europeo che commette reati perdesse definitivamente il diritto ai benefici del welfare (in caso di reati minori) e il diritto di risiedere in Europa (in caso di reati gravi), la maggiore propensione al
rischio degli immigrati sarebbe bilanciata dai
costi della violazione delle regole.
Capisco che questo modo di vedere il problema non può piacere ai più accesi sostenitori dell’integrazione «senza se e senza ma».
Però vorrei osservare sommessamente che,
fra le diseguaglianze, vi è anche quella fra chi
rispetta le regole, spesso facendo sacrifici e rinunce, e chi non le rispetta, spesso con benefici di gran lunga superiori ai costi. E che le
pulsioni xenofobe e securitarie vengono anche dalla quotidiana constatazione dell’impunità di determinati comportamenti e di determinati gruppi sociali. Possiamo essere così affezionati ai nostri principi di umanità e accoglienza da non voler cambiare in alcun modo
questo stato di cose. In tal caso, tuttavia, prepariamoci anche a vivere in un mondo di intolleranza e risentimento crescenti.
Luca Ricolfi
sa già messa fin dall’inizio per dritto, che non occorra
per forza rovesciare? In mezzo a tutte le virtù, diciamo così, attive, che spingono a essere più e meglio di
quello che siamo, quelle invece basate sulla rinuncia
restano enigmatiche. Dal rispetto che ispira il sacrificio di sé alla ripugnanza e poi alla ridicolizzazione il
passo è breve. L’eventuale vita di un santo, del tipo di
quelle narrate nelle agiografie, con la consueta sfilza
di mortificazioni e piaghe, se si replicasse oggi sarebbe oggetto del disgusto e della riprovazione generale.
Ma un briciolo almeno di santità il prete dovrebbe portarlo con sé, in un angolo del suo cuore, o della sua
mente, o del suo abito, altrimenti cos’ha di diverso da
noialtri? Se non ce l’ha per niente è un bluff, e se invece ce l’ha, siamo così disabituati al sacro che ci spaventa o ci annoia. Il sacro è appunto la diversità. So(segue a pagina quattro)
no sacri quelli che hanno
ANNO XXI NUMERO 79 - PAG 4
IL FOGLIO QUOTIDIANO
LUNEDÌ 4 APRILE 2016
In quarant’anni il mondo è ingrassato di quarantaquattro milioni di tonnellate. La crisi degli agrumeti in Sicilia
tredici persone, di età compresa tra 61 e 88 anni.
Qualcuno dice che era
depressa, prendeva psicofarmaci e
ogni tanto eccedeva con l’alcool (Gasperetti, Cds).
(segue da pagina tre)
Redditi Secondo le statistiche sulle dichiarazioni dei redditi delle persone fisiche pubblicate dal ministero
dell’Economia, nel 2014 il reddito
medio degli italiani è stato di 20.320
euro lordi (l’anno precedente era di
20.070 euro). Nella classifica per tipo
di lavoro, i più ricchi sono gli autonomi (35.570 euro lordi l’anno), seguiti dai dipendenti, con 20.520. Poi ci
sono gli imprenditori con 18.260 euro (sono i titolari di ditte individuali,
le micro imprese, perché solo loro
presentano il 730 o il modello Unico).
A chiudere ci sono i pensionati con
16.700 euro (Salvia, Cds).
Peso Negli ultimi 40 anni il peso
delle persone è cresciuto di circa 6
chili a testa, per un totale di 44 milioni di tonnellate. Lo dice la rivista The
Lancet: dal 1975 al 2014 le persone
obese sono passate da 105 milioni a
641 milioni (è obeso chi ha un indice
di massa corporea superiore a 30). Gli
uomini che si trovano in questa condizione sono più che triplicati, balzando
dal 3,2% al 10,8%. Le donne sono rad-
doppiate: dal 6,4% sono salite al 14,9%.
L’indice di massa corporea (il peso in
chili diviso per il quadrato dell’altezza espresso in metri) è passato da 21,7
a 24,2 per gli uomini e da 22,1 a 24,4
per le donne. Di questo passo, nel
2025 un individuo su cinque nel mondo sarà obeso (Dusi, Rep).
sabato 2 aprile
Disoccupazione Lieve rialzo del
tasso di disoccupazione a febbraio.
Secondo i dati dell’Istat il tasso dei
senza lavoro è salito all’11,7%, lo
0,1% in più su gennaio. A febbraio si
contano dunque 7mila disoccupati in
più, tutti di sesso maschile, visto che
tra le donne la disoccupazione è diminuita, ma solo perché quasi 50mila di loro hanno smesso di cercare
lavoro. La disoccupazione giovanile
è scesa al 39,1%, in calo dello 0,1%.
Nello stesso tempo si registra un calo di 97mila unità tra gli occupati
Quel porca puttana così disinvolto del Trap
la Repubblica, venerdì 1° aprile
na telecronaca parecchio disinvolta, un «porca putt...» scappato in dribbling lungo la fascia
laterale di una carriera leggendaria, un «orcozio» in vistoso
fuorigioco. Non proprio una
grande serata, quella del Trap
contro i tedeschi. Più o meno
come gli azzurri in campo. Ma adesso Giuàn rischia
il posto, e una figuraccia che alla sua età può pesare tanto, troppo. Lui la merita?
Allora, mister, è pentito?
«Mi è scappata, cosa devo dire? La diretta frega,
il trasporto emotivo fa parte di me. Non ho studiato pedagogia o deontologia, non sono mica un professorone».
Ma quella mezza bestemmia, Trap…
«Eh no, quella è un’esclamazione da sempre mia,
orcozio è un modo di dire popolare dalle mie parti, io sono cattolico praticante, avevo una sorella
suora, ho portato in panchina l’ampolla con l’acqua
benedetta, vi pare che mi metto a tirar giù il bestemmione?».
Adesso, però, in tanti le chiedono un passo indietro. Lo farà?
«Prima cosa: non chiedo scusa a nessuno. Seconda cosa: se non sto più bene, beh, me lo dicano e io
rimango a casa senza mettermi a piangere. Vivo lo
stesso anche senza le telecronache. Io ho fatto la storia del calcio italiano, portate pazienza».
Ma non ha paura che proprio questo sia il problema? Diventare, da mito, una macchietta?
U
«No, non mi sento un burattino e neanche un comico. Sono una persona sincera, sanguigna. Il sangue mi circola forte, lo sapete. Il Trap non è un buffone ma uno che capisce di calcio: come commentatore penso di poter spiegare il fatto tecnico, il mio è
il contributo di uno specialista. Poi, lo capisco, se
qualche solone fissato con la purezza della lingua
italiana mi critica io lo accetto, prendo e porto a casa, ma per favore non mi offendete».
Mister, si era accorto del “porca putt.”?
«Veramente no. Quando sono arrivato a casa, mia
moglie mi ha chiesto: Giovanni, ma cosa hai detto?
E io: perché, che cosa ho detto? E lei ha risposto: ho
registrato tutto, riguardati un po’».
E lei, Trap, si è riguardato?
«Ehm, per adesso no, non ho avuto tempo, sono
stato pieno di cose da fare. Ma stasera ho deciso, stasera mi metto sul divano e ascolto da cima a fondo
questa benedetta telecronaca».
Sul suo linguaggio pittoresco, però, si scherza da
sempre.
«Io sono quello di Strunz, lo so bene. Ci ho pure
giocato, ho girato quello spot per le lavatrici parlando tedesco e facendo la mia caricatura. Ho 77 anni
penso di essere anche autoironico, ma non posso diventare un pagliaccio. È una colpa non essere laureati? Allora sì, sono colpevole».
Avrà letto le critiche di questi giorni: cosa ne pensa? Quale le ha dato più fastidio?
«Qualcuno tenta di farmi passare per rimbambito e io non ci sto. Anche trent’anni fa parlavo così, mi
esprimevo così. Ho girato il mondo, conosco il calcio come pochi, non mi sono rincoglionito di colpo».
Ha provato a fermarsi un istante, prima di lasciarsi andare?
«No, perché allora sarei falso. Io so sempre quello che dico, questo lo voglio chiarire molto bene: poi,
certo, a volte in diretta non sempre penso a quello
che dico, lo dico e basta. Ma il valore del sottoscritto, il valore tecnico e umano intendo, non cambia».
Crede sia più un problema di sostanza o di forma?
«La mia sostanza, scusate, è fuori discussione.
Della forma si può parlare, come di quasi tutto. Io
esprimo opinioni, lo faccio da una vita e non mi sono mai nascosto. Come dice quel tale: le opinioni sono come le palle e ognuno ha le sue».
Però la Rai, mister, è qualcosa di molto istituzionale.
«Io non ho legami speciali con nessuno, se non mi
vogliono me ne vado. Magari dipende da qualche gelosia. Non vorrei che ci fosse sotto anche qualcosa di
politico, in questo Paese tutto è possibile».
A parte le scivolate, le viene rimproverato anche
quell’intercalare continuo e pieno di «sì, sì, dài, dài,
bravo».
«Ma forse non hanno capito che Giovanni Trapattoni è rimasto in panchina e da lì non si muove. Giovanni Trapattoni è ancora allenatore. Mi viene spontaneo spingere i giocatori con la voce, è più forte di
me: al microfono dico le stesse cose che dicevo a bordo campo. Sono trasparente e immediato. E non sono un giornalista, non sono un telecronista. Sono il
Trap. Prendere o lasciare».
Lei lascerà?
«Se non mi obbligano, manco morto».
Maurizio Crosetti
Doparsi a 79 anni per non prendere il viagra
la Repubblica, domenica 27 marzo
ospeso dall’antidoping a 79 anni. Fermato in via cautelativa dal
Coni perché nel suo sangue sono stati trovati livelli eccessivi di
testosterone e Dhea, un precursore degli ormoni steroidei. Giorgio Maria Bortolozzi, ex primario di Ginecologia all’ospedale di
Conegliano (Treviso), lunghista e triplista di livello internazionale, tre volte campione mondiale categoria Master, è stato sospeso dall’attività agonistica a un’età record. Con tanto di comunicazione ufficiale del Tribunale nazionale antidoping del Coni, a
seguito del controllo operato dalla Nado-Italia dopo i campionati italiani indoor
Master di atletica, disputati ad Ancona lo scorso 28 febbraio.
È innegabile che tra gli effetti del deidroepiandrosterone (il Dhea) ci siano
l’aumento della forza, della prestanza fisica e della performance sportiva. Ma il
medico pizzicato dall’antidoping si ostina a dire che si tratta solo di negligenza:
sostiene di non aver presentato la richiesta di esenzione a fini terapeutici e che
le tracce rinvenute vadano ricondotte all’assunzione di quello che lui considera un semplice integratore. In America, in effetti, il Dhea non è considerato un
farmaco ed è venduto come integratore alimentare.
Come ci si può dopare a 79 anni?
«Non scherziamo. Qui stiamo parlando della salute dell’anziano, non di doping. Vi rendete conto che per la commissione antidoping andrebbe giustificata anche l’insulina?».
Trevigiano doc, sposato, padre di tre figli e nonno di quattro nipotini, lei è stato
sospeso dopo tre titoli mondiali, due europei e una decina di tricolori. Come le è
venuto in mente di utilizzare il Dhea?
«Ci sono milioni di persone che lo usano in America: è considerato un supplemento dietetico, la pillola della giovinezza. Previene il tumore della prostata, il diabete, l’Alzheimer e mantiene attive anche le funzioni sessuali. Così non
S
ho bisogno del viagra».
Un metro e ottantacinque per 82 chili di peso, cocciuto praticante della dieta a
zona, accanito sostenitore di integratori come creatina, carnitina e proteine. Non
le sembra eccessivo tutto questo?
«La cultura dei medici è sotto i tacchi. Quelli dell’antidoping non sapevano
nemmeno come si scriveva Dhea. Non solo questo prodotto l’ho consigliato a parenti e amici, ma non ho mai fatto mistero di assumerlo».
In Italia è difficile da trovare. Più facile reperirlo negli States. Per quale motivo?
«Per forza non si trova in Italia, non consente alcun guadagno. Io ne prendo
50 milligrammi al giorno e un flacone con 70 capsule costa solamente 7 euro. Lo
ordino via internet e lo utilizzo da ben 15 anni».
Nel 2002 lei fu sottoposto a un controllo antidoping qualche mese dopo l’inizio
della cura, ma non venne evidenziato alcun indicatore. Ora ha scritto una lunga
relazione per spiegare la sua tesi e l’ha inviata al Tribunale antidoping, che dovrà
decidere se procedere o meno con la squalifica.
«La mia è una battaglia medica, di conoscenza del problema. L’unico mio errore è non aver comunicato che pratico questa cura. Ma non mi si può imputare la pratica dopante. Credo che dopo i 60 anni tutti dovrebbero farne uso. Io
faccio sport e mi tengo in forma per rallentare l’invecchiamento. Ho 79 anni, ma
mi sento ancora un leone. Per quale motivo dovrei autocensurarmi?».
Lei è esponente di una famiglia di medici tra le più note di Treviso, suo padre
fu il più giovane primario d’Italia. È convinto che questa bufera finirà con il ledere la vostra immagine pubblica?
«Sono sicuro che tutto sarà chiarito a breve. Ho chiesto la procedura d’urgenza
perché voglio partecipare ai campionati europei della settimana prossima. Si gareggia mercoledì e sabato».
Enrico Ferro
Pizzaballa, l’uomo dalla figurina introvabile
pagina99, sabato 26 marzo
n sommo stupore colse Gigi Pizzaballa quel giorno davanti alla
cassetta delle lettere. Correva il
2011, anno del 50° anniversario
della Panini, e a casa sua era recapitata una busta che conteneva una singola figurina: la sua.
«Finalmente ne possedevo una,
grazie a un professore di Avellino che l’aveva doppia.
Non ho mai voluto controllare se fosse vera», scherza oggi che va per i 77. La figurina del numero uno
dell’Atalanta, stagione 1963-64, per decenni si era negata persino al più legittimo dei proprietari, un ottimo portiere la cui dote principale rimarrà sempre
l’irreperibilità.
Pier Luigi Pizzaballa è nato e cresciuto a Bergamo.
Settimo di otto fratelli, esordì giovanissimo con i nerazzurri e lì giocò per dieci anni tra il 1958 e il 1980.
In mezzo Roma, Verona e Milan, oltre alla convocazione di Mondino Fabbri al Mondiale inglese. «Nel
1963 l’Atalanta era reduce dalla conquista della sua
prima e unica Coppa Italia, all’improvviso mi ritrovavo sulla bocca di tutti». Chi lo invocava, chi malediceva la sua sfuggevolezza. Tutti lo volevano, chi lo
aveva si scopriva usuraio e alzava la posta. Non è
chiaro come né perché, ma l’effige di Pizzaballa era
introvabile. La voce fece su e giù per la penisola.
«Sulle prime fui infastidito», confida, «parevo più
una figurina che un calciatore. Oggi sono felice che
il mio nome sia ancora così familiare».
Eppure, per quanto il fascino del mistero di coccoina sia rimasto intatto allo scorrere dei campionati,
una spiegazione ci deve essere. Com’è che l’ex garzone di Città Bassa è diventato l’uomo più ricercato dai
collezionisti dello Stivale?
«Ho la mia teoria, ma nessuna certezza. A quei
tempi i fotografi venivano al campo raramente per gli
scatti ufficiali. Io mi feci male al gomito a Lisbona e
saltai un appuntamento, al secondo ero al servizio
militare. Può darsi che non fossi in archivio e così mi
ritrovai senza la figurina».
In nostro soccorso giunge Luca Panini. Classe ’77,
ultimo di 26 cugini, per via dinastica è la persona più
indicata a svelare l’arcano. È amministratore delegato della Franco Cosimo Panini, casa editrice che
stampa il diario Comix e la Pimpa. Il padre la fondò
27 anni fa a Modena, dove assieme ai fratelli Giuseppe, Benito e Umberto aveva avviato l’avventura della Panini. La società, che nel 2014 ha fatto registrare
ricavi per 758 milioni, è stata ceduta nel 1989 e oggi
distribuisce figurine in tutto il mondo.
«L’azienda nacque nel 1961 come una startup.
Papà e gli zii, membri di una famiglia di edicolanti, avevano intuito il fenomeno e si ingegnarono per
avviare la produzione», esordisce. «Nei primi anni
mancavano strumenti e competenze perché Umberto, genio meccanico del gruppo, si unì all’impresa
solo nel 1964: fu lui a inventare la macchina che mischiava e imbustava le figurine. Prima tutto era artigianale e la mescola si praticava con un badile nei
locali dello stampatore».
Poteva così capitare che lo stesso giocatore finisse due volte nella medesima bustina o, peggio ancora, che per via dei lotti di produzione tutti gli
esemplari fossero recapitati in una regione. Una cosa Luca Panini può assicurare e, scattata da tempo
la prescrizione, vale la pena credergli. «Non c’è mai
stata la volontà di creare la figurina mancante, non
era la politica della famiglia. Non c’erano meno Piz-
quarant’anni meno di noi e devo(segue da pagina tre)
no ancora avere il primo rapporto sessuale o devono
ancora sposarsi, sono sacri quelli che hanno la pelle di
un altro colore o vanno a piedi scalzi, se siamo maschi
sono sacre le femmine, se siamo femmine i maschi, è
sacro chi porta un fez, un turbante, una bombetta, un
cappello da bersagliere, persino il cilindro preso a nolo per un matrimonio conferisce per una serata al capo di chi lo calza l’aura di un paramento sacro. È sacro l’impronunciabile cognome di una donna a ore cingalese. Era sacro per me ieri notte traversare silenziosamente in barca gli stretti canali di Castello, a Venezia. E sono queste briciole di sacro, queste particole
di sacro, a infastidire e a scatenare risentimento.
E tu saresti uno che parla ogni giorno con Dio? verrebbe da dire al prete. Mostramelo, allora, questo tuo
Dio, tiralo fuori adesso, fammi un miracolo qui, su due
piedi. Mi accorgo di usare spesso, mentalmente, lo
stesso linguaggio degli interrogatori a cui venivano sottoposti i primi cristiani, che subì Cristo stesso, prima
di essere messo in croce. Hic Rhodus, hic salta. Da
ogni credo religioso si pretende, non del tutto a torto,
che si renda immediatamente salvifico: invece tutti
promettono cose lontanissime, premi che verranno tardi, troppo tardi, alla fine dei tempi, per cui nel frattempo si finisce per accontentarsi degli aspetti minori e
propiziatori, semi-magici, un po’ di consolazione dalle durezze che tocca sopportare qui e ora, qualche piccolo o grande miracolo, la carezza fredda alla statua di
un santo che ti ha protetto durante un incidente, airbag gonfiato di preghiere.
Un giorno che mi trovavo a Padova uscii la mattina
presto dall’albergo e, svoltato l’angolo, mi accorsi di essere a cento metri dalla basilica del Santo (la notte pri-
U
zaballa rispetto ad altri giocatori. Pensate che verso la fine degli anni ’70, quando la Panini era già
una multinazionale, la Svezia obbligò gli importatori a garantire che ogni scatola, la confezione da 100
pacchetti, contenesse tutti i pezzi per completare
l’album. Ma da tempo le macchine erano già settate in quella maniera». Fu un bene perché, verità o
leggenda, pare che alla dogana i funzionari scandinavi aprissero le bustine a una a una per controllare che nessuno avesse fatto il furbo. E mancasse,
chessò, un Albertino Bigon.
Insomma, tutto si risolve con una fredda verità tecnica. Che però, in maniera involontaria, si è alimentata negli anni e sedimentata, nelle coscienze. Anche
in quelle dei protagonisti, che ancora non si accontentano di una sola risposta per quanto convincente.
«Secondo me ha contribuito il cognome insolito»,
dice Gigi Pizzaballa, «senza dimenticare che io ero
il primo elemento della prima squadra in ordine numerico e quindi la mia assenza spiccava».
«Allora le figurine», suggerisce Luca Panini, «erano usate per vari giochi: lettera, muretto, numero. In
quest’ultimo la prima valeva come un jolly, era preziosissima. Il punto è che ogni giocatore è un po’ introvabile nei posti dove è amato, perché finisce attaccato sui diari scolastici. In questo senso Bandoni, numero uno del Palermo di quegli anni, era il Pizzaballa siciliano». Non si offenderà l’originale, che d’altra
parte ha ben altro di cui occuparsi. Oggi l’ex ossessione dei cacciatori di figurine fa il nonno e insegna ai
ragazzi delle scuole calcio i valori dello sport. E ancora sorride quando pensa alle facce di Mazzola e Rivera, quel giorno che gli disse «io sono molto più ricercato di voi».
Dario Falcini
ma arrivando mezzo ubriaco in taxi non l’avevo vista),
vi entrai, mi diressi verso l’urna che contiene le sue
spoglie e debbo dire che man mano che mi avvicinavo sentivo crescere un’emozione forte e inspiegabile.
Non che l’onda di questo nuovo sentimento cancellasse lo scetticismo precedente, dato che io non sono
nemmeno scettico, miscredente o ateo, non sono nemmeno quello, non sono niente; le convinzioni personali vi avevano poco a che fare: forse era solo la corrente, l’anello magnetico formato dai voti che intorno a
quella pietra circolavano da secoli. Quando fui abbastanza vicino al sepolcro da poterlo toccare con la mano, e lo feci, carezzandone una parete, mi accorsi che
i tasselli multicolori che lo rivestivano vistosamente
non erano intarsi di marmo, ma fotografie incollate col
nastro adesivo, decine di fotografie, ed erano tutte di
carcasse di automobili schiacciate o sventrate o bru-
(92mila a tempo indeterminato) rispetto a gennaio (Sensini, Cds).
Agrumi/1 Secondo i dati Istat, ripresi da Coldiretti, negli ultimi 15
anni in Sicilia è scomparso il 50%
dei terreni coltivati a limoni, il 31 %
degli aranci e il 18 % dei mandarini.
In totale, un terzo dei terreni. Al posto degli agrumeti, distese di cemento, parchi eolici o fotovoltaici, o ter-
Firme
A cura di Giorgio Dell’Arti. Redazione: Francesco
Billi, Luca D’Ammando, Jessica D’Ercole.
Grafici: Roberto Vespa, Giuseppe Valli.
Hanno collaborato: Daria Egidi, Roberta Mercuri.
Realizzato da: Bcd Srl.
ACQUAFREDDA Pietro.
Critico musicale, ha diretto
le riviste Piano Time, Applausi, Music@. Il suo blog è
Il menestrello.
lena Benini, due figli.
AINIS Michele. 61 anni,
messinese trapiantato a Roma. Costituzionalista. Insegna Diritto pubblico all’università di Roma Tre. Editorialista del Corriere della
Sera e dell’Espresso. Nel
2006 si candidò alla Camera
con la Rosa nel Pugno. Ha
scritto una quindicina di
saggi e un romanzo, Doppio
riflesso (Bur).
GINZBERG Siegmund.
67 anni, di Istanbul. Storico.
Giornalista. È stato corrispondente e inviato dell’Unità in Cina, India, Giappone, Corea, a New York, Washington e Parigi. Collabora
con la Repubblica, in passato con Il Foglio.
ALBINATI Edoardo. 60
anni, romano. Scrittore. Primo libro Arabeschi della vita
morale (Longanesi, 1988); ultimo La scuola cattolica (Rizzoli, 2016). Dal ’94 insegna al
carcere Rebibbia di Roma.
Si è sposato nel 1984 con
Benedetta Loy, da cui ha
avuto due figli.
ARTUSI Pellegrino. Forlimpopoli 4 agosto 1820 –
Firenze 30 marzo 1911.
Scrittore, gastronomo, critico letterario. Le 790 ricette de La scienza in cucina e
l’arte di mangiar bene furono pubblicate per la prima
volta nel 1891.
BONCINELLI Edoardo.
74 anni, nato a Rodi. Genetista, ha dato contributi fondamentali per la conoscenza dei meccanismi biologici
dello sviluppo embrionale
negli animali superiori e
nell’uomo. Appassionato ellenista. Collabora con il
Corriere della Sera.
BUFACCHI Isabella. 54
anni, romana. Vicecaporedattore del Sole 24 Ore. Ha
iniziato a Londra, lavorando per l’agenzia di stampa
egiziana Middle East news
mentre studiava alla London School of Economics.
Rientrata in Italia nell’86,
ha lavorato a MF, Plus, Gente Money e nel ’90 è entrata
al Sole. Sposata, un figlio,
Ivan. Ama il freddo e sciare.
COLONNELLI Lauretta.
Di Pitigliano (Grosseto), laureata in Filosofia, ha lavorato per 15 anni all’Europeo.
Dal 1996 scrive di cultura
per il Corriere della Sera.
Hobby: leggere, andar per
mostre e musei, coltivare
ulivi. Ultimo libro: La tavola
di Dio per le Edizioni Clichy.
CORDISCO Roberta. Lavora alla Stampa, collabora
con Il Mattino di Foggia.
Laurea in Lettere all’Università di Siena, master in
giornalismo all’Unisob di
Napoli.
CROSETTI Maurizio. 53
anni, torinese. Inviato speciale, a Repubblica dal
1991. È sposato con Cinzia e
ha tre figli: Matteo, Maria
Chiara ed Eugenia. «Forse
è un po’ stringata, ma io non
sopporto quelle autobiografie dove il soggetto dice di
quella volta che da bambino pioveva e lui decise di
prendersi un cane e diventare scrittore, poi passò a
suonare lo xilofono e adesso sogna di vedere la Groenlandia un lunedì di marzo,
ma solo se piove». Ha appena pubblicato per Baldini &
Castoldi Esercizi preparatori
alla melodia del mondo.
FACCI Filippo. 48 anni,
nato a Monza, vive a Milano.
Ha collaborato a l’Unità, la
Repubblica,
L’Avanti,
l’Opinione, Il Tempo, Il
Riformista, per 15 anni editorialista del Giornale. Ora
è inviato speciale di Libero.
È pazzo di Wagner e decisamente asociale. Nel tempo
libero scala montagne.
FALCINI Dario. 31 anni,
di Domodossola. Vive a Milano. Redattore a Radio Popolare. Collabora con il
Fatto Quotidiano, pagina99,
Extratime Gazzetta e Wired.
Appassionato di Nba.
FELTRI Mattia. 46 anni,
bergamasco. Ha iniziato
nell’88 a Bergamo Oggi, ha
lavorato al Foglio dal ’96 al
2004, poi a Libero. Dal 2005
è alla Stampa. Tifoso del
Torino
dalla
stagione
1976/77. Sposato con Anna-
FERRO Enrico. 36 anni,
di Este (Padova). Cronista
del Mattino di Padova.
GRAMELLINI Massimo.
55 anni, torinese. Direttore
creativo di Iredi, editrice
della Stampa. Ospite fisso
del talk show di Raitre Che
tempo che fa. Nel tempo libero tifa Toro. Per sua fortuna,
dice, ha poco tempo libero.
LONGO Morya. 40 anni,
milanese. Dal 2000 lavora al
Sole 24 Ore, per cui ha seguito tutte le più importanti vicende finanziarie dell’ultimo decennio. Prima ha
lavorato per Reuters, il
Mondo e Radio 24. Ha due
figli, Giacomo ed Edoardo.
Segno particolare: un nome
di origini tibetane.
MALVALDI Marco. 42
anni, di Pisa. Laureato in
Chimica, continua a essere
appassionato di scienza nonostante ormai faccia lo
scrittore da un buon lustro.
MERLO Francesco. 64
anni, catanese. Editorialista di Repubblica. È sposato e ha tre figli. Non ama dire curiosità su di sé, «sono
cose goliardiche».
PAGNONCELLI Nando.
56 anni, bergamasco. Sondaggista. Presidente di
Ipsos Italia. Collabora con
il Corriere della Sera (in
precedenza con il Messaggero) e con diMartedì (La7).
Sposato, due figli. Vive a
Bergamo.
RICOLFI Luca. 66 anni,
torinese. Sociologo. Insegna
Analisi dei dati all’Università di Torino. Fondatore
dell’Osservatorio del Nord
Ovest. Sposato con Paola
Mastrocola, un figlio. Ama
la barca a vela, le immersioni subacquee e l’isolamento
dal mondo esterno. Fino ai
16 anni ha giocato molto al
trenino elettrico.
RIVA Gigi. 56 anni, di
Nembro (Bergamo). Caporedattore centrale dell’Espresso, è stato tra l’altro direttore del Giornale di Vicenza. Ha seguito le guerre
dei Balcani sino al 1996,
conflitti sui quali ha scritto
due libri e due film.
RONCONE Fabrizio. 52
anni, romano. Ha iniziato a
scrivere su Paese Sera a 19
anni, nell’89 è passato a
l’Unità e dal ’98 lavora al
Corriere della Sera, dove
ora è inviato. Tifa Roma,
non va in bici e l’estate non
gliene importa niente di risalire il Mekong (meglio
Ponza). Fuma il toscano.
SABADIN Vittorio. 65 anni, padovano. È stato caporedattore centrale, vicedirettore e corrispondente da
Londra de La Stampa. Ha
incontrato più volte la Regina Elisabetta. In pensione,
continua a scrivere, dipinge
falsi d’autore, cerca di migliorare il suo golf e tiene
conferenze di guida all’ascolto delle opere di Mozart.
SERRA Michele. 61 anni,
nato a Roma. Giornalista
quasi per caso: «Ho iniziato
sostituendo uno stenografo
dell’Unità partito per il servizio militare». Dal 1996
scrive per Repubblica. Dal
2002 ha la rubrica Satira preventiva sull’Espresso. Dal
2007 cura la rubrica delle
lettere sul Venerdì. Ama
oziare, leggere e cucinare.
Interista senza riserve.
STELLA Gian Antonio. 63
anni, di Asolo (Treviso). Editorialista e inviato speciale
del Corriere della Sera. Ha
iniziato a 22 anni al Corriere di Informazione, è stato
corrispondente sportivo di
varie testate. Sposato, un figlio, Massimo. Ama cucinare e suonare la chitarra.
reni incolti (Anello, Sta).
Agrumi/2 Una spremuta di arance
che al bar può costare fino a 5 euro,
a un coltivatore di agrumi viene pagata 3 centesimi (ibidem).
Roberta Mercuri
(ogni mattina il Fior da Fiore quotidiano su www.cinquantamila.it)
A casa della dolce Fausta,
l’infermiera accusata
di essere un killer seriale
Corriere della Sera,
sabato 2 aprile
l marito. Poi tutti
abbiamo pensato:
e il marito?
Eccolo.
Una casa in ordine, arredata con
sobrietà. Le persiane socchiuse.
La televisione accesa. Il Tg1
delle 13.30.
Parlano di lei, di Fausta
Bonino, sua moglie. Le notizie, le stesse: tredici decessi
sospetti nel reparto di Anestesia e Rianimazione di Villa Marina, l’ospedale di
Piombino, tra il 2014 e il
2015, tredici decessi provocati da inspiegabili, rapide e
irreversibili emorragie; e
quell’infermiera
sempre
presente.
Lui ascolta distratto.
Renato Di Biagio dimostra molto meno dei suoi 66
anni, undici più di Fausta:
un uomo asciutto, tonico, di
media statura; la barba curata, i capelli brizzolati, le
pantofole.
Non c’è una regola su come si debba reagire davanti
alle brutte notizie, anche a
quelle più sconvolgenti: certo questo marito – ex dirigente delle acciaierie, ora in
pensione – dimostra di avere
nervi saldi e uno sguardo
fermo in un miscuglio di rabbia e determinazione.
«Mia moglie è innocente».
Signor Di Biagio, sua moglie è accusata di...
«So tutto, per filo e per
segno. Ma le ripeto: mia moglie è completamente innocente».
Da cosa nasce questa sua
convinzione?
«Dall’evidenza dei fatti...».
Continui.
«È un processo indiziario
che ruota tutto, che si fonda
solo ed esclusivamente su
alcune coincidenze temporali...».
Quindi lei ritiene che...
«Mi faccia finire: coincidenze temporali che possono essere... Anzi, che certamente sono frutto di pura casualità».
È lecito pensare che la Procura e i carabinieri siano in
possesso di prove più consistenti di qualche semplice
coincidenza.
«Senta, con il trascorrere
delle ore sta emergendo già
una verità: questo processo
è stato messo in piedi dalla
Procura solo e soltanto sulla
base di alcune coincidenze,
con la complicità di giornali e telegiornali ai quali non
è parso vero di trovare subito una colpevole per quella
serie di morti sospette. Ma
prove chiare, nette, schiaccianti nei confronti di Fausta, io non le ho lette né le
ho sentite».
Da quanto siete sposati?
«Da 34 anni».
Qual è stata la reazione dei
vostri due figli?
«Lasci stare i miei figli».
I carabinieri hanno raccontato che sua moglie avrebbe problemi di epilessia e farebbe uso di antidepressivi.
«E queste, secondo lei, sono prove schiaccianti?».
È un pomeriggio caldo.
Dal secondo piano sale un
odore forte di cavolo bollito.
Gli inquilini di questa palazzina di via Prima Maggio – la
Piombino costruita negli anni Sessanta, strade ad angolo retto, del mare solo la
I
ciate, del genere che si fa dopo gli incidenti per ottenere il rimborso dall’assicurazione. Anche se a giudicare dalla gravità dei sinistri nessuna delle vetture sarebbe mai stata riparata: ce n’erano alcune il cui muso era completamente rientrato nell’abitacolo in seguito a uno scontro frontale, altre con il tetto ribassato fino all’altezza delle spalliere dei sedili, che lasciavano poco margine all’immaginazione di cosa ne fosse
stato degli occupanti. E invece, sorpresa, accanto alle
foto della polizia stradale, ce n’erano altre più piccole e recenti, qualche volta delle polaroid, raffiguranti
un uomo o una donna sorridenti, e un biglietto di ringraziamento al Santo per averli salvati. Lo seppi decifrando alcuni di questi messaggi scritti in inglese o
spagnolo con la calligrafia infantilmente chiara e tondeggiante che hanno, per esempio, i filippini, e in effetti quasi tutte le foto votive appartenevano a immi-
brezza – tengono gli usci socchiusi e confessano stupore,
angoscia e pena per la Fausta, venuta a vivere qui subito dopo il matrimonio. Un
matrimonio felice. Una famiglia felice.
«Con due figlioli – racconta la signora Adele Fornaciari, 82 anni, del secondo
piano – cresciuti pieni di
gioia e di attenzione: Andrea
e Lorenzo, dovrebbe vederli,
sono due fiori di figli. Uno è
medico specializzando nel
reparto di Anestesia al Cisanello di Pisa, mentre l’altro
è cuoco a Parigi... ed è da lì,
poverina, è proprio da Parigi che la Fausta tornava,
quando l’hanno arrestata all’aeroporto».
La Fausta è generosa. La
Fausta è premurosa. La Fausta che se poteva farti un
piacere, ecco che lo faceva.
«La Fausta arrivò qui da
Savona che l’era ancora piccina, una ragazzetta – ricorda la signora Anna del primo piano – e subito si fidanzò con Renato, che invece arrivava da lì di fronte,
dall’Elba. Lei l’è sempre stata infermiera. Prima credo
che fosse nel reparto di Ginecologia, poi passò lì, dove
tutto sarebbe successo».
Una porta si apre più lentamente. Una voce nella penombra. Anzi, meno di una
voce: un soffio. «Brava donna, sì sì... Però poi, negli ultimi tempi, nervosa e scura,
come irrequieta».
Scura anche di carnagione, capelli neri, esile, scattante, veste con gusto, ma
mai appariscente. Dopo due
ore, sugli appunti resta
l’identikit di una donna
dentro una normalità quasi
banale.
La parrucchiera all’angolo: «Veniva un paio di volte
al mese». Il salumaio: «Faceva la spesa e poi via. Mai una
parola di troppo». Qualche
volta a messa, nella parrocchia di Santa Maria della
Neve.
Una vita così. Che nel
quartiere nessuno s’è mai
accorto di lei. Era solo un’infermiera. Si capiva dai turni,
perché a volte rientrava all’alba. E dai piccoli favori
che, di tanto in tanto, qualcuno le chiedeva. Dovrei fare una radiografia: mi prenoti tu, Fausta?
Poi si scopre che, secondo
i carabinieri, avrebbe accoppato tredici pazienti in due
anni. Fiala di eparina, uno
dei più potenti anticoagulanti del sangue. Siringa. Un
sorriso dolce, un’iniezione,
un’esplosione nelle arterie
di quei poveri disgraziati.
Da Livorno, fonte investigativa, arriva la notizia che
potrebbe essere necessario
procedere con la riesumazione di alcuni cadaveri. Arrivano anche altri fotografi e
cameraman. Le telecamere
già accese. Tutte le trasmissioni hanno lo stesso eccitante progetto: mandare in
diretta il marito del mostro.
Ma lui resta su, dentro casa.
È un uomo forte, come s’è
intuito prima. Con certezze
assolute. Incrollabili. Perché quella è sua moglie. E
un marito crede a sua moglie. E difende sua moglie. È
sorprendente scoprire come
in questa storia di morte, ci
sia anche una traccia di
amore.
Fabrizio Roncone
grati, orientali o ispanici, come se gli incidenti automobilistici accadessero solo a loro oppure solo loro, oramai, in un paese poco riconoscente, si sentissero in dovere di ringraziare qualcuno lassù per averla scampata. Mi spiacque di non avere con me le foto dell’Honda 125 su cui mia figlia Adelaide poche settimane prima era andata a sbattere contro una macchina correndo la mattina a scuola, e la relativa foto di lei sorridente e illesa. Mi spiacque ma pensai di rimediare dicendo una preghiera, “Ti ringrazio… ti ringrazio… di
averla salvata”, ma non sapevo a chi indirizzare esattamente quel grazie, chi fosse il tu a cui rivolgersi. Dio
è lontano, il Santo troppo occupato, e semmai ascolterà chi crede veramente in lui. Mi mantenni così nel
vago, come nelle poesie in cui si è sicuri che il poeta
si rivolge a una donna amata, ma non si sa a quale.
Edoardo Albinati