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SEMIOTIC BRAND MANAGEMENT
LO STUDIO DELL’IMMAGINE A SERVIZIO DELL’IMPRESA
Strategie comunicative delle imprese Fortuny
Borsista: Valeria Burgio
Referente Universitario: Patrizia Magli
Università Iuav di Venezia
Anno accademico 2010-2011
2
Indice
03
Introduzione
05
Parte I – Immagine, Impresa, Territorio
07
1.
07
Paesaggi della Marca
1.1 Marchiatura e Marcatezza: semiotica per il marketing
07
1.2 “Tra tradizione e innovazione”: l’identità
10
1.3. Verso un’interpretazione letterale della marca
13
1.4 L’Autore, la firma e la marca
15
2.
18
La gestione dell’innovazione
2.1 Gestire il cambiamento dal progetto alle sue manifestazioni
18
2.2 Innovazione nel prodotto: diversificazione ed estensione di linea
20
2.3. Innovazione nella comunicazione: le trappole del rebranding
21
2.4 Innovazione nella distribuzione: showroom e forme di vita
22
2.5 Cambiare politiche dei prezzi?
24
3.
27
Il discorso della tradizione e del localismo nel discorso di marca
3.1 La ricerca dell’autentico e l’apologia dell’Artigiano
27
3.2 Il Made in Italy come supermarca o metabrand
31
3.3 Il Made in Venice
36
3.4 Il settore tessile a Venezia
37
3.5 Il Lusso prima della Moda
40
3.6 Beni di lusso e consumi culturali
42
Parte II - Caso Studio: Tessuti Artistici Fortuny SPA
46
4.
48
Fortuny: storia e mito dietro la costruzione dei marchi
4.1 L’artista artigiano
48
4.2 L’artista, le luci e il teatro
50
4.3 Il Delphos: l’immortalità nell’innovazione vestimentiaria
53
4.4 Vestire gli interni
57
4.5 Gestire Fortuny dopo Fortuny
59
4.6 Palazzo Fortuny: dalla collezione permanente a un nuovo stile espositivo
61
5.
67
L’azienda Fortuny: a tappe verso l’innovazione
5.1 Nuovi prodotti, nuove linee, nuove collaborazioni
68
5.2 Il marchio è la firma
70
3
5.3 Etichette: fiumi di parole
72
5.4 Rassegna Stampa: della discrezione
74
5.5 Posizionamento di rete
76
5.6 Sinergie tra azienda e museo
78
5.7. Distribuzione e showroom
80
6.
85
Il segreto e il labirinto
Bibliografia
88
4
Semiotic Brand Management: lo studio dell’immagine a servizio dell’impresa.
Strategie comunicative delle imprese legate alla figura di Mariano Fortuny
Introduzione
Scopo di questa ricerca è l’analisi delle strategie messe in atto da un’impresa in relazione ai comportamenti delle istituzioni che ne portano lo stesso nome. Il singolare caso riguarda l’azienda Tessuti Artistici Fortuny S.P.A. che produce tessuti dal 1922; la sua fabbrica è situata nell’isola della Giudecca e il suo quartier generale a New York. L’azienda sta tentando da quasi un anno di rilanciarsi su diversi fronti: sta innovando sul fronte dei prodotti, avendo esteso la produzione dai tessuti agli oggetti d’arredo e di design; ha riprogettato i due showroom, a Venezia e New York; ha intensificato la frequenza di eventi mirati a rinforzare la comunicazione con un pubblico di ospiti selezionati. Per affrontare questi cambiamenti, l’azienda si trova in tensione tra due forze opposte: da una parte le redini conservative assoggettano ogni nuova idea e produzione alla sanzione ipotetica del fondatore e creatore del marchio; dall’altra lo sprone innovativo impone al management di inventare qualcosa di nuovo. L’innovazione consente anche di emettere un’immagine di sé proiettata verso il futuro, non fondata soltanto sulla riproduzione di un passato affascinante ma, per altri versi, decadente e stantio. Il passato però, per quanto freni e limiti, non è un genitore asfissiante che reprime ogni impulso al cambiamento: come dimostreremo con l’approfondimento teorico dei valori sottesi alla marca, il passato dà continuità e coerenza ed è spesso (e soprattutto in questi anni) invocato per costruire un rapporto di fiducia con il consumatore. La visione del futuro è però più che necessaria nella cultura progettuale. Questo rapporto tra passato e futuro, storia e progetto, è alla base di ogni identità personale o collettiva che sia. Nel nostro caso studio, questa identità si chiama Mariano Fortuny e ha una personalità estremamente marcata; per questo, l’azienda continua a richiamarne lo spirito e a richiederne virtualmente l’approvazione per ogni decisione presa. Intanto però l’azienda inizia la collaborazione con altri marchi di design e si lancia nell’ideazione e nella produzione di nuovi oggetti. In questa tensione continua tra storia e progetto, sono oltremodo importanti i rapporti con il museo Fortuny. Non di “museo d’azienda” si tratta, chiaramente, perché il museo nasce dalla donazione della vedova Fortuny al Comune di Venezia della casa e laboratorio di Mariano Fortuny; non è quindi un ramo dell’azienda che voglia comunicarne il marchio. Al contrario, è dal museo che emana lo spirito di Fortuny che continua a dominare la cultura della produzione. Le sinergie con questa istituzione cittadina sono un obiettivo fondamentale per l’azienda. Tra l’altro il museo sta scegliendo una politica analoga a quella della fabbrica, che da una parte difende la conservazione tramite una grande rilevanza data agli archivi; dall’altra associa alla tutela del patrimonio 5
una programmazione di mostre temporanee improntate sulla ricerca e sull’innovazione. Vedremo quindi in questa sede se ci siano e quali siano le sinergie tra le due istituzioni. Per comprendere il cambiamento del marchio e valutarne la fattibilità e la validità, ci serviremo di un vasto apparato teorico. Ci interrogheremo in particolare sul funzionamento dell’identità di marca, come già detto tesa tra i due poli della tradizione e dell’innovazione, fatta di tratti pertinenti rilevabili in tutti gli elementi del marketing mix; vedremo poi come si coordinino le azioni innovative di una marca, dall’estensione di linea al rinnovamento del marchio; come funzioni il raggruppamento dei marchi sotto una macroetichetta come “il made in Italy” o l’Alta Gamma. Approfondiremo a questo punto l’argomento del mercato del lusso e il suo rapporto con il marketing dell’arte, secondo il principio della rarefazione dell’offerta e quello del bene da investimento. A questo punto saremo pronti per un’analisi del caso studio, con una valutazione del suo posizionamento nei confronti dei marchi legati allo stesso settore merceologico, e, più in particolare, di quelli legati al suo stesso nome. Valuteremo i cambiamenti fatti in questi ultimi mesi e, con la dovuta modestia e cautela, proporremo la direzione verso cui andare e i passi da fare per imporre la propria immagine. 6
Parte I – Immagine, Impresa, Territorio
1.
Paesaggi della Marca
1.1 Marchiatura e Marcatezza: semiotica per il marketing
La semiotica è la disciplina che studia i processi di costruzione del senso e i modi in cui si costruisce la cultura del consumo. Lo scopo di quest’intervento è rendere evidente l’importanza di saperi considerati umanistici e lontani dall’ambito economico entro cui il fenomeno della marca si situa non come apparati di una sovrastruttura accessoria utile semplicemente a imbellettare i prodotti, ma come strumenti in grado di costruire strategie di mercato vincenti. Già da tempo il marketing ha smesso di considerare il prodotto soltanto nella sua dimensione concreta, oggettuale e utilitaristica, per cui la sua qualità dipende unicamente dalle sue qualità materiali, come la robustezza, il peso, la durabilità. Esiste un plusvalore del prodotto costruito dalla comunicazione e dalle qualità immateriali dell’oggetto. Se il prodotto non è un oggetto fatto da sole qualità materiali, il consumo stesso non si definisce nei termini dell’usura e della distruzione finale dell’oggetto. Il consumo è principalmente una pratica significante. Se si definisce la merce in termini fisico‐tecnici e utilitaristici, il suo utente è definibile come somma di bisogni semplici o complessi da soddisfare e da creare. Questo tipo di consumatore mosso da bisogni sempre più complessi in relazione all’evoluzione e alla sofisticazione della società in cui vive, è ritratto nella piramide di Maslow, utilizzata dal marketing di impronta behaviorista degli anni Cinquanta e Sessanta. Quando si comincia a considerare il prodotto non soltanto nelle sue caratteristiche materiali ma anche per le sue qualità immateriali, il consumatore costruisce con esso una relazione di tipo diverso, lo include nelle sue pratiche di vita quotidiana, e sceglie di acquistare sulla base di un progetto di forma di vita e quindi di teatralizzazione, di comunicazione, del suo comportamento di consumo. C’è una “osservazione di secondo ordine” (Luhmann, 1984) nella pratica di consumo, molto più complessa del piatto rapporto stimolo/risposta, bisogno/soddisfazione del bisogno. C’è un compiaciuto guardarsi, rappresentarsi come rappresentante di quei valori implicati nel prodotto e nella sua comunicazione. Uscire dalla logica behaviorista ci impone anche di considerare le pratiche significanti come non necessariamente aderenti agli inviti della marca. Da una parte esiste un modello di consumatore ideale che si fa portatore dello spirito incarnato nelle proposte della marca; dall’altra parte sono infinite le forme d’uso e d’abuso della marca stessa, oltre che dei suoi prodotti e della sua comunicazione. La marca entra nell’insieme delle pratiche sociali e lì viene risemantizzata attraverso strategie di appropriazione o di rifuto. 7
La “personalità” della marca, la sua “identità”, diventano fattori di primaria importanza nelle logiche di mercato, perché rimbalzano dal prodotto al consumatore, e costruiscono il loro senso nella negoziazione intersoggettiva. Parlare di “marca” ci proietta direttamente nell’universo del vocabolario semiotico. La marca infatti è un “nome proprio” che si dà agli oggetti per differenziarli dagli altri1. La strategia basilare del discorso di marca è di differenziare quello che è marcato da quello che non lo è, costruire una riconoscibilità basata sui termini opposti essere/non‐essere. Un prodotto appartiene a una marca o no e il prodotto “di marca”, rispetto a quello non marcato, si presenta implicitamente come superiore, dotato di maggiore personalità. La marca usufruisce del meccanismo dialettico della costruzione identitaria sulla base del quale il Sé si determina in funzione dell’Altro, principio basilare del posizionamento. Passando dalla linguistica alla semiotica discorsiva, la marca è il segno che l’autore lascia dentro il testo, la sua dichiarazione di presenza e la presa in carico della responsabilità riguardante quel testo. Nel testo linguistico, la soggettività si manifesta attraverso un sistema di marche d’enunciazione personali (“io”), temporali (“ora”) e spaziali (“qui”). L’installazione dell’io/qui/ora costituisce un ancoraggio del soggetto all’interno dell’enunciato, un punto di partenza da cui orientarsi verso l’alterità e il resto del mondo, verso spazi più o meno distanti, verso il passato e il futuro (cfr. Benveniste, 1966; Magli 2004). L’enunciazione esiste anche nei testi visivi, quando l’autore si rappresenta nel testo o lascia tracce della sua presenza, o chiama in causa lo spettatore puntando lo sguardo fuori quadro. L’enunciazione è l’aspetto più importante del discorso di marca, perché è il modo in cui l’Autorialità s’iscrive nell’insieme del marketing mix, dal prodotto alla comunicazione, rendendo percepibili i valori sottesi alla marca. Questo non significa che la marca sia una semplice firma, un logo che si appone sui prodotti, sulle etichette e sulle insegne dei negozi, che si veicola nelle campagne pubblicitarie: questo significherebbe ridurre la marca a marchio. La marca è invece un insieme di valori, un progetto che si esteriorizza attraverso diverse forme espressive – le sue manifestazioni. Se già la compatibilità tra i due domini del marketing e della semiotica è fondata a livello lessicale, la costruzione di modelli che formalizzano la doppia faccia della marca – vista come forma del contenuto che si fa espressione in varie forme traduttive, progetto che si estrinseca attraverso manifestazioni – ne dimostra la “natura eminentemente semiotica” (Marrone, 2007: 3). L’approccio semiotico è entrato nella consuetudine delle ricerche di mercato già da tempo, soprattutto grazie al lavoro svolto da Jean‐Marie Floch (1990 e 1995), che ha dimostrato in modo scientifico e rigoroso, con un rispetto congiunto di teoria e applicazione pratica, come la semiotica sia non solo una valigetta degli attrezzi utile 1
In linguistica la marcatezza è ciò che differenzia un elemento dall’altro, il tratto pertinente la cui presenza o assenza in un’unità linguistica data, fonda un’opposizione (Trubeckoj, 1939 e Jakobson, 1958). Per fare un esempio, in fonologia il fonema [d] è termine marcato rispetto a [t] perché prodotto con la vibrazione delle corde vocali, è sonoro mentre [t] è non sonoro. Le lingue evolvono verso una sempre maggiore marcatezza, e anche quando i bambini apprendono il linguaggio, prima imparano i termini non marcati e poi quelli marcati. La marcatezza è dunque segno di evoluzione (a questo proposito, cfr. Simone, 1990:113). 8
per l’analisi della comunicazione di marca, ma sia strettamente connaturata a ogni fase della produzione del senso, dalla pianificazione della comunicazione al design del prodotto e del punto vendita. Secondo Andrea Semprini (1992), il contributo di Jean‐Marie Floch è importantissimo per aver spostato l’oggetto della ricerca di marketing dal consumo materiale del prodotto alla produzione di senso da parte dell’utente che impone una valorizzazione del bene in linea con le sue abitudini, e per aver concepito in nuce una teoria della Marca. La marca infatti “occupa lo snodo che articola nel modo più evidente l’incontro tra semiotica e marketing: la problematica della significazione applicata al mondo dei prodotti e della comunicazione, la testualizzazione delle pratiche di consumo e la dialettica tra produzione di senso e consumo di senso” (Semprini, 1992: 31). Floch legittima la propria posizione di ricercatore prestato al marketing, presentando la semiotica come disciplina a vocazione scientifica, in grado di dare maggiore intelligibilità, pertinenza e differenziazione a un campo in cui la produzione e la gestione del senso è affidata a un team che lavora con tempi molto limitati e senza possibilità di approfondimento, sull’onda dell’intuizione. La semiotica è invece in grado di dare struttura e riformulare concetti “nebulosi” (intelligibilità), gerarchizzare i livelli di descrizione e trovare nella marca le invarianti a livello sia di significante che di significato (pertinenza), lavorare con coerenza e consapevolezza attraverso diversi linguaggi e diversi media (differenziazione). È attraverso queste tre proprietà che la semiotica affronta il discorso di marca, considerando che spesso nel mondo del marketing mancano chiarezza e riconoscibilità immediata sul piano del significante, e si perdano pertinenza e coerenza nei valori proposti (Floch, 1990). Da Floch in poi, è diventato quasi scontato utilizzare strumenti semiotici per analizzare il cosiddetto “communication mix” di un’azienda, costituito da nome, logo, packaging, pubblicità e punto vendita (Ceriani, 1996: 11). Andrea Semprini in un libro che è seminale per gli studiosi del fenomeno marca “Marche e mondi possibili” (1993) ha illustrato come la marca fosse un fenomeno di natura fondamentalmente semiotica: la marca è legata al tempo in cui vive perché seleziona alcuni elementi all’interno del flusso dei significati che attraversa lo spazio sociale, e li organizza in un racconto pertinente e attraente per il pubblico. In poche parole, per Semprini, la specificità principale della marca è di essere “un’istanza semiotica, una maniera di segmentare e di attribuire del senso in modo ordinato, strutturato e volontario” (Semprini, 1993: 55). Non solo quindi la marca entra nello spazio sociale e lì viene accolta attraverso strategie diverse di appropriazione, ma temi circolanti nel discorso sociale vengono reincorniciati dal discorso di marca, entrano a far parte del suo bagaglio valoriale. La marca nasce quindi sempre da questo scambio, e la sua natura semiotica è ribadita da questa continua negoziazione di stili e di valori con la comunità a cui si riferisce. 9
1.2 “Tra tradizione e innovazione”: l’identità
La natura negoziale del discorso di marca ci mette di fronte al problema dell’identità, modo in cui un soggetto si propone agli altri, secondo le aspettative che gli altri hanno di lui. L’identità si costruisce per differenza, ma la riconoscibilità è fondata su continuità e omologia. Per gestire il cambiamento, bisogna mantenere quei tratti caratterizzanti che ci rendono unici ma anche adattarli a una situazione in evoluzione. Secondo Paul Ricoeur (1990), l’identità narrativa è risultante del confronto dialettico tra due componenti, da una parte il carattere, il sé idem, sorta di codice genetico invariabile e immutabile; dall’altra la parola mantenuta, il sé ipse, che mantiene una coerenza nonostante il cambiamento. C’è in ogni identità la tendenza a rimanere uguale data da caratteri distintivi, genetici, incancrenita in abitudini, situazioni in cui ci si riconosce e si è riconosciuti; dall’altra parte la “parola data” è la tensione verso un progetto, la capacità di perseguire uno scopo che ci si è prefissi, di mantenere una promessa. Il carattere è fatto di preservazione e tende al proseguimento e alla continuità, alla permanenza e alla sedimentazione; la parola data si sviluppa nell’evolutività della perseveranza e della costanza: è la dimensione etica dell’identità, capace sì di rinforzare il carattere, ma anche di capovolgere abitudini e tendenze. Questa teoria dell’identità, e la sua matrice anti‐sostanzialista e basata invece sulla relazione, è presa in carico e consolidata da Jean‐Marie Floch, che ne fa base per le sue ricerche sulle “identità visive”. La natura dell’identità è sintagmatica e processuale, secondo Floch, proprio perché nasce in questa tensione costitutiva tra sedimentazione e innovazione, tra l’accumulazione delle esperienze e la direzionalità etica: in ogni connessione e in ogni strappo rispetto al passato, c’è un soggetto narrativo in fieri che mantiene la sua specificità, cioè i caratteri pertinenti che lo rendono riconoscibile, ma nello stesso tempo si evolve, secondo delle linee di coerenza che non lo rendano altro rispetto a se stesso. Idem e ipse non esisterebbero se non in presenza dell’alterità, ed è sulla base di questa opposizione che mantengono la loro linea etica. Floch modellizza questa nozione di identità distinguendo due componenti nel discorso di marca: una componente invariabile (il sé ipse, per così dire, della marca) e una componente variabile (il sé idem): queste due componenti si trovano rispecchiate su due dimensioni: quella sensibile (il piano del significante, riprendendo Hjelmslev a cui Floch si riferisce esplicitamente) e quella intellegibile (il piano del significato). Le due dimensioni sono unite da una “cerniera”, utilizzando la metafora di Floch stesso: quando cambia qualcosa sul livello del contenuto, cambia qualcosa anche su quello dell’espressione e viceversa. La componente invariabile della dimensione intellegibile è chiamata da Floch “etica della marca”; la componente invariabile della dimensione sensibile è invece chiamata “estetica della marca”. Sono le componenti che devono essere mantenute, pena la fine della marca stessa, anche a fronte di un dinamismo delle parti variabili, nuovi materiali, nuovi colori, nuovi prodotti se è necessario, che non facciano però perdere personalità a qualcosa di fortemente radicato. 10
Questa teoria filosofica è alla base dello slogan più utilizzato degli ultimi dieci anni, quello che vede protagonista il binomio tradizione/innovazione. È una formula efficace, perché attribuisce al soggetto istituzionale (pubblico o privato che sia) la capacità di rispettare e tenere in considerazione il passato e nello stesso tempo di immaginare e pianificare il futuro, racchiude conservazione e progresso, continuità storica e propensione al cambiamento. Il binomio gestisce attraverso due parole apparentemente antitetiche le due forze che sono sottese alla gestione del principio base dell’esistenza del soggetto nella relazione: l’identità. Innovazione e tradizione non sono che due polarità necessarie perché ogni identità di marca mantenga la propria “faccia” il proprio “stile”, non per questo rifiutando il cambiamento. Alla base di slogan apparentemente semplici, esiste un discorso filosofico complesso, molto utile per capire come le marche ci somiglino, e come e perché tendiamo a dar loro fiducia come se fossero dotate di personalità. Di questa personalità delle marche ha fatto una vera e propria ideologia pubblicitaria Jacques Séguéla, teorico della cosiddetta “Star Strategy” (Séguéla, 1982). Secondo questa strategia, la marca, come la persona e in particolare la persona “famosa”, è composta da tre elementi: il fisico, il carattere e lo stile. Trasposta sull’universo commerciale, il fisico consiste nel prodotto, mentre il suo carattere è costituito dai valori invariabili; lo stile è l’insieme dei tratti riconoscibili al livello dell’espressione. È la prima teoria involontariamente semiotica della marca, dato che tiene conto della separazione tra l’istanza dell’espressione e quella del contenuto. La sua forza consiste nell’aver considerato l’identità di marca al pari di quella degli attori, che sono costruiti da una logica industriale tanto quanto i prodotti, ma che non sono solo dei corpi venduti all’industria dello spettacolo, ma entità più complesse, costruite a partire dalla somma dei ruoli che hanno rivestito nella loro carriera. Per essere riconoscibile e ottenere la fiducia del consumatore, la marca deve quindi avere “tenuta”, mantenere cioè la sua specificità di carattere e gestire i suoi cambiamenti in base alle promesse fatte. Il problema dell’identità e dei suoi cambiamenti si pone sia dalla parte della marca che dalla parte del consumatore ed è connessa alla nozione di “stile”. Lo stile infatti si realizza nella proposta sempre rinnovata di valori costanti: una marca mantiene lo stile se conia prodotti che corrispondono allo spirito dei prodotti precedenti; una persona mantiene il proprio stile se il suo consumo non cade su prodotti che rendano la sua identità vacillante. Bisogna fare attenzione però al fatto che l’identità di marca si basa anche sulla tendenza maggiore o minore al cambiamento: ci sono marche più tradizionali meno inclini al cambiamento, e marche che invece hanno la tendenza a innovare con più frequenza. È la differenza tra “stile” e “moda” coniata dal celebre refrain di Coco Chanel: “La moda cambia, lo stile resta”. Ecco che allora ci sono marchi con una solida gestione dello stile, e marchi invece più soggetti a seguire l’onda del momento e probabilmente più esposti al fallimento: per Chevalier e Mazzalovo (2008), uno dei criteri di distinzione tra moda e lusso è rilevabile nelle qualità della “stabilità” e della “perennità”: un brand di moda assurge allo stato di marchio di lusso quando possiede dei modelli classici e ha dei best‐seller 11
permanenti. Ecco perché Chanel dura, mentre Courrèges è tramontato dopo qualche gloriosa stagione (Barthes, 1967). Sottolineando però i valori perenni della marca, si rischia di svalutare il fattore più importante per la vita di un marchio, di lusso o di moda che sia, ossia la capacità di innovare. Per questo Gérard Mazzalovo considera altrettanto importanti la capacità di mantenere un’identità e la capacità di saper cambiare. Così traduce in termini immediatamente comprensibili per l’uomo di marketing a cui rivolge la sua ricerca, l’equilibrio identitario di Ricoeur e la distinzione espressione/contenuto della semiotica Hjemsleviana/Greimasiana: nella concezione della “cerniera” cara a Jean Marie Floch, esiste nel brand una parte invariabile – il nucleo idem dell’identità di marca – e una parte variabile – la gestione del cambiamento secondo linee di coerenza. Stabilità e cambiamento appartengono sia alla dimensione sensibile, cioè al livello dei prodotti e della comunicazione, dei prezzi e dei punti vendita, sia alla dimensione intellegibile, cioè al livello dei valori e dell’etica di marca. La “cerniera” è il meccanismo attraverso cui un’innovazione sul piano sensibile si ripercuote immediatamente sul piano dell’intellegibile, e viceversa: se cambia l’estetica della marca, cambia inevitabilmente anche la sua etica; e se la marca si fa portatrice di nuovi valori, questo viene subito evidenziato da nuovi modi di produzione e nuovi prodotti, e necessariamente viene anche comunicato in campagne pubblicitarie ad hoc. Passare in rassegna i fattori di mantenimento e quelli di cambiamento permette di avere una visione più ampia degli orizzonti verso cui va la marca e di ridirezionarne il senso nel caso in cui si stessero facendo degli errori. Il problema dell’identità si pone anche al livello del consumatore: è vero che questo costruisce tendenzialmente forme di vita coerenti, ma può permettersi anche comportamenti incoerenti e imprevedibili nell’associare un prodotto a un altro. Anzi il bricolage e la costruzione di uno stile personale oggi sono molto più ricercati piuttosto che un “total look”, considerato banale e privo di inventiva (Heilbrunn B. et Hetzel P., 2003). Fino agli anni Ottanta, molti studiosi hanno sostenuto la differenza tra immagine, corporate identity e identità d’impresa, vedendo l’immagine come costruzione sociale, somma delle percezioni collettive, la corporate identity come immagine “interna”, modo di percepirsi dei dipendenti; l’identità d’impresa è invece letta come costruzione individuale, modo in cui la corporation vuole essere vista. Un certo tipo di approccio cognitivista (come quello di Keller, 1998) ha letto il rapporto tra identità e immagine in termini quantitativi, all’interno della nozione di brand knowledge o brand awareness, concetto che “misura il numero di persone che sa a cosa si riferisce il marchio e quali sono le sue promesse” (Kapferer 1997: 137). Il successo di una marca, cioè, sarebbe rilevabile nella sua capacità a restare nella memoria del pubblico a lungo termine: l’immagine che ci si costruisce della marca influenzerà poi i comportamenti di consumo. È una visione di tipo behaviorista che non tiene conto delle interpretazioni, ricostruzioni e trasposizioni della marca nella vita quotidiana del consumatore, che viene considerato “come una superficie d’iscrizione e memorizzazione più o meno efficace degli stimoli inviati dalla marca”(Semprini, 2006: 100) piuttosto che il luogo della negoziazione del senso. La brand awareness è fondata soltanto su un meccanismo quantitativo, 12
poiché è rilevabile nel numero di persone che cita il nome di una marca, quando il ricercatore propone di pensare a quali siano le aziende rappresentative di un certo settore merceologico; in seconda istanza il ricercatore chiede all’intervistato se abbia mai sentito il nome di una certa marca. Come vedremo nel nostro caso studio, a volte non basta conoscere il nome per conoscere il prodotto: spesso si associano a un nome di marca prodotti appartenenti ad altre marche. La commistione di valore economico‐finanziario e valore socioculturale che è implicata nella distinzione identità/immagine è stata condensata nel termini, molto utilizzato nel mondo anglosassone, di brand equity2 (Aaker, 1991). È più utile secondo noi considerare la marca come risultato di una relazione, di una continua negoziazione tra proposta di senso e uso sociale, seguendo una tradizione di studi che parte da Kapferer (1997) e arriva ai nostri giorni. Per Pierluigi Basso, la marca è un vero e proprio “software identitario implementabile” (Basso, 2007), nel senso che, più che essere un’identità precostituita in sé, svolge una funzione di mediazione tra lo spazio soggettale e l’ambiente esperienziale, fa in modo che un soggetto, tramite la protesi identitaria offertagli dalla marca, si oggettivizzi e dichiari la propria appartenenza a un mondo possibile, teatralizzando il suo modo di vivere. La marca stessa vive solo se i suoi valori sono attualizzati. Il brand, rendendo disponibili valori a cui il consumatore si associa, diventa forma di vita. 1.3. Verso un’interpretazione letterale della marca
La riconoscibilità è stata il primo obiettivo della “marchiatura” dei prodotti già all’origine delle prime forme di mercato: perché non si confondessero, perché non si perdessero, gli oggetti destinati al commercio marittimo portavano impresso il loro marchio di provenienza, così rendendone immediatamente riconoscibili proprietario, origine e produttore. In questo modo si distingueva e si differenziava l’oggetto dagli altri, si rapportava questo oggetto con un soggetto (che fosse il produttore o il proprietario) e se ne segnalava la provenienza. La marca serviva anche come strumento mnemonico, affinché l’identità del produttore restasse impressa nella mente del cliente. Così il marchio, associato a un prodotto, sarebbe stato strumento utile per risalire all’artefice, che sarebbe stato nuovamente interpellato nel caso in cui il prodotto avesse soddisfatto le attese del cliente. La reiterata acquisizione di beni appartenenti a un certo marchio genera meccanismi di fiducia: saltando il passaggio del rimando al produttore e all’origine, il marchio stesso diventa sintesi visiva della reputazione del prodotto, attribuzione di fiducia al produttore, alla provenienza, al proprietario o al commerciante. 2
La brand equity racchiude la sua natura ambigua del concetto di identità di marca, e cioè la sua appartenenza a una dimensione economica e sociale: un incremento di capitale finanziario significa una possibilità di aumento di valore aggiunto, e nel contempo una migliore percezione da parte del pubblico può anticipare un miglioramento nelle prestazioni economico‐finanziarie. 13
La marchiatura nasceva dunque con l’artigianato ma soprattutto con il commercio, con il distanziamento tra produttore e consumatore, che, diventando invisibili l’uno all’altro, trovavano nel marchio un medium in grado di metterli in relazione. La distanza tra gli attori del commercio diventò siderale con l’avvento della produzione industriale. È nel momento di massima espansione produttiva che il brand acquisisce veramente forza. In un tempo in cui produzione e scambio diventano standardizzati e in cui non c’è più il controllo di unʹunica persona sulla produzione, il marchio diventa fonte unica di garanzia che quel prodotto è realizzato con certi crismi e secondo certi modelli. La nascita del brand è associata all’estensione della proprietà industriale e dei brevetti: è della fine dell’Ottocento la prima legge federale statunitense sui marchi di fabbrica (Chevalier e Mazzalovo, 2008: 98), ma lo sviluppo del brand va accelerando nel corso del Novecento, assumendo spessore teorico e valenza strategica con lo sviluppo della Corporate Image negli anni Cinquanta, e raggiungendo l’apice del suo successo negli anni Sessanta (Vinti, 2007). La corporate image nasce infatti dalla necessità delle grandi aziende americane di dotarsi di un’anima, di umanizzarsi (Marchand, 1998), di dare una fisionomia appunto a quella “personalità” che Kotler inserisce tra le “7 p” del suo marketing mix. Avviene quindi uno scollamento: il marchio diventa un segno di distinzione e di qualità rispetto alla concorrenza, ma si appone sull’artefatto prodotto in serie, non più sull’oggetto riconosciuto come proprio dall’artigiano. Ecco che allora il discorso di marca si distacca dalle caratteristiche intrinseche del prodotto e dalla storia della sua produzione, per situarsi su un terreno arbitrario, scelto in base a strategie di posizionamento sul mercato. Seguendo la tesi postmodernista di Fredric Jameson, Basso dimostra come la mediatizzazione della società abbia reso invisibili i meccanismi e le dinamiche di produzione e impercettibile il legame tra paternità e merci: per questo le marche ricorrono alla costruzione di un immaginario, a un mondo possibile invece di risalire alle dinamiche della produzione. “Non appena il logo è mediatizzato, si perdono le tracce dei processi di produzione e di apposizione del logo stesso. Il logo non ha più, come invece la firma e la griffe, un legame forte e stabile con il processo di produzione” (Basso, 2007: 137). La marca è quindi trattata alla stregua di una star (Seguéla, 1982), seguita nel suo sviluppo e curata nei tre aspetti che la formano: il suo corpo, la sua psicologia e il suo stile. I suoi prodotti sono dimenticati a favore della costruzione di un’identità suppletiva. L’ideazione di certe campagne pubblicitarie, come quelle di un famoso creativo come Jacques Séguéla, sono il risultato di questa ideologia: costruire dei miti che andassero al di là delle qualità intrinseche del prodotto pubblicizzato. Questo ha permesso il passaggio di valori dalla merce alla persona che ne usufruiva. La persona che sceglie una certa marca, diventa marchiata essa stessa da quei valori di cui è investito il prodotto tramite la costruzione di un mito. Il pacchetto di valori associato alla marca finisce per investire anche il suo utente. Questi valori erano quindi diventati piuttosto arbitrari negli anni Ottanta, nomadici, lontani dal prodotto. L’ipotesi è che oggi qualcosa stia cambiando, che la marca stia recuperando la sua “letteralità”, cioè il fatto di essere marchio di garanzia legato a un prodotto specifico. 14
Ciò non significa che sia terminata la fase di costruzione di un mito intorno alla marca: semplicemente è cambiato il tipo di ideologia che invece di essere costruita su concetti piuttosto vaghi e arbitrari (la libertà, la sensualità, la sensibilità per i problemi sociali), si situa su una nuova ideologia della produzione. Chi compra una marca oggi, tendenzialmente esprime adesione a un universo di valori, che ha anche a che fare con il sostegno dell’industria locale e dell’artigianato, e un’avversione alla produzione di massa. 1.4 L’Autore, la firma e la marca
La marca è come una “firma” che si appone sul prodotto e per questo è soggetta a un regime simile a quello dell’opera d’arte. Come l’autore di un’opera d’arte, la marca è un marchio di fiducia, d’origine, di garanzia, di proprietà; come l’opera che viene apprezzata quando se ne riconosce la firma, l’autore che l’ha prodotta, allo stesso modo, la merce vale perché è prodotta da un’azienda che “ha un nome”: il consumatore sceglie di investire il suo denaro in quella merce, perché ne conosce il produttore, così come il visitatore di una mostra (per non parlare del collezionista d’arte) dimostra apprezzamento per un’opera se sa che l’ha prodotta un artista famoso. Per questo la marca svolge una funzione di orientamento di fronte alla difficoltà di costruirsi un gusto personale. D’altra parte, come l’autore è considerato un genio proprio perché produttore di un lavoro riconosciuto socialmente come opera d’arte, così un’azienda diventa marca solo quando produce una merce riconoscibile (questo discorso vale nella moda, nel design, nell’arte come nell’architettura). Lo sviluppo delle marche ha quindi seguito la stessa tendenza che si è affermata nelle arti da Duchamp in poi: ciò che dà valore all’opera è la firma che gli viene apposta. Così, se l’orinatoio diventa opera d’arte non è soltanto perché l’oggetto è stato spostato di contesto – da un bagno pubblico a un museo ‐ ma perché è stato firmato dal’Artista. “La firma – segno istituzionale del gesto d’autore – fa apparire come prodotto irripetibile il banale elemento di una qualsiasi serie di oggetti, trasformando l’opera allografica in prodotto autografico (Marrone, 2008 con riferimento a Goodman, 1968). L’autografia del prodotto seriale è diventata una vera e propria esigenza di fronte all’imperversare della contraffazione dei prodotti griffati: il successo di una marca si legge infatti anche nella quantità di epigoni che ne riprendono lo stile. La marca è dunque l’iscrizione di un Autore in un prodotto e in tutte le variabili del marketing mix. Questo Autore è sempre più spesso una Persona, nel senso di maschera, di ruolo fisso. Difficilmente è rappresentato come il produttore materiale della merce, ma è costruito come un creativo, un intellettuale dallo sguardo profondo e sicuro di sé. L’autore è l’incarnazione del gusto e dello stile legati alla marca, essendone l’inventore. Giorgio Armani veste e si comporta secondo lo stile che inventa, sobrio, minimalista, elegante, monocromatico. Versace ha avuto una vita trasgressiva ed eccentrica, adeguata allo stile “lessi is boring” che lo caratterizzava. L’Autore non è dunque un mero emittente, “mandante” della 15
griffe e dei suoi valori, come potrebbe apparire a un occhio ingenuo; piuttosto ne è lui stesso incarnazione. Anche la costruzione dell’autore rientra nel progetto di marca e ne è manifestazione. In un ruolo che è di testimonial rinforzato (perché è lui stesso che ha inventato prodotti e marchio), il designer costruisce il fruitore a sua immagine e somiglianza. Il testimonial è una mediazione tra enunciatore, di cui condivide i valori, ed enunciatario di cui è simulacro vicario. Se è famoso, proietta i valori con cui è stato costruito il suo personaggio sulla marca stessa che sostiene3. Il cortocircuito tra autore di una griffe e fruitore della stessa è dimostrato in chiave ironica e attraverso una comunicazione obliqua che mette in gioco lo spettatore in almeno due campagne pubblicitarie: una è la famosa campagna di Diesel “Be stupid”; l’altra è la campagna 2009‐2010 di Patrizia Pepe “Who is Patrizia?”. Non ci occuperemo di tutta la campagna Diesel, che avrebbe bisogno di una ricerca a sé, ma di un’edizione unica di annuncio, cioè il paginone centrale di Repubblica del 15 Settembre 2010 dedicato a Renzo Rosso, l’Autore appunto. Dopo aver diffuso tra i manifesti cittadini e le pubblicità della stampa il messaggio “Be stupid” (perchè lo stupido è quello che fa, non quello che critica; quello che ascolta il cuore, non la testa; quello che ha le palle, non il cervello e così via), quel giorno Diesel svela finalmente chi si celi dietro il modello “Stupid” che il destinatario creativo, anticonformista, “cool” dovrebbe seguire. Il messaggio così diceva: “C’è chi vede le cose per come sono. C’è chi le vede come potrebbero essere. A Renzo, primo degli stupidi, dei coraggiosi, dei visionari, tanti auguri per i tuoi 55 anni. Da tutti noi, stupid Diesel people”. Si spiega allora tutto il senso della campagna, esortazione al destinatario a “essere stupid”: la stupidità è il valore che ha fatto in modo che Diesel fosse Diesel, è il suo carattere centrale incarnato dall’inventore della Diesel. Un controvalore diventa valore posizionante del marchio, perché è un controvalore ridefinito come sinonimo di coraggio e visionarietà. In questo originale biglietto d’auguri, destinante e destinatario si invertono: non è più Diesel che suggerisce al lettore di essere stupido, ma sono i “diesel people”, a cui appartiene il lettore se aderisce ai valori enunciati dalla campagna (se è abbastanza stupido), a comunicare un messaggio di ringraziamento al capo dell’azienda. Nel ribaltamento della situazione enunciativa, il lettore, il consumatore Diesel diventa parte del “noi” enunciato nel messaggio e così facendo dimostra di aderire al valore di stupidità che Renzo, primo degli stupidi, incarna. Ancora più evidente la confusione tra Autore e Lettore nella celebre campagna di Patrizia Pepe, “Who is Patrizia?”, classico esempio di comunicazione integrata e invasiva rispetto ai social networks. Nelle riviste e nei giornali troviamo diverse fotografie dove una donna ben vestita e in ambientazioni diverse ma sempre chic copre il viso con oggetti diversi (una macchina fotografica, un ritratto, uno specchio); le pubblicità a stampa costruiscono così il mistero sull’identità misteriosa e rimandano al sito web. Per ottenere risposta all’annosa domanda, inseriamo i nostri dati nella home page. La procedura di 3
Cfr a questo proposito Coluzzi F. « Dal divo al marchio e ritorno. Storie di riabilitazione attraverso il brand”, Tesi specialistica in Comunicazioni Visive e Multimediali, Università Iuav di Venezia, 2011. 16
inserimento dei dati, lunga e noiosa, può essere saltata, facendo l’accesso diretto dalla nostra pagina di Facebook. Finalmente riusciamo ad accedere alla campagna pubblicitaria e clicchiamo su ogni foto per “cercare gli indizi” che ci permetteranno di capire chi si cela dietro le maschere. Scopriamo allora che Patrizia ha i nostri stessi gusti musicali, la nostra età e, infine, il nostro nome. Come se non bastasse, l’ultima schermata esplicita questa strepitosa scoperta con una scritta a tutto schermo: “Patrizia sei tu!”. Ecco un classico esempio dove la ricerca dell’identità dell’autore finisce con l’immedesimazione dell’utente, in una versione contemporanea del “de te fabula narratur”; come se non bastasse, per una profezia che si autodetermina, abbiamo ceduto i nostri dati presenti nelle pagine di facebook all’ufficio comunicazione del marchio Patrizia Pepe, che adesso sa quali sono i gusti musicali e cinematografici, il grado di educazione, il tipo di amicizie del suo consumatore ideale. E può costruire il suo personaggio “Patrizia” seguendo il nostro profilo. Patrizia adesso sarà davvero come noi, perché i suoi valori saranno costruiti e ridefiniti attraverso il profilo del suo utente ideale. 17
2. La gestione dell’innovazione
2.1 Gestire il cambiamento dal progetto alle sue manifestazioni
Gli studi semiotici e sociologici sulla marca hanno prodotto una rivoluzione copernicana nel campo del marketing. Da Séguéla in poi infatti si è smesso di pensare che la marca fosse un fenomeno accessorio e secondario rispetto ai core values del prodotto e le si è data centralità assoluta. Il marketing tradizionale invece, rappresentato dal celebre modello di marketing mix di Kotler (1986), mette il prodotto al centro, circondato da prezzo, comunicazione, distribuzione e posizionamento. Questo modello designa l’insieme coerente delle variabili agendo sulle quali si sviluppa una buona strategia di mercato. È un modello che si situa storicamente agli albori del mercato, quando l’offerta stava cercando di costruire una domanda e di creare una cultura del consumo. In questo contesto, il prodotto aveva una centralità assoluta e la comunicazione era solo un coadiuvante alla commercializzazione, allo stesso modo del packaging, dei canali di distribuzione, delle politiche dei prezzi e del posizionamento (la nicchia di mercato dove il prodotto è al riparo dalla concorrenza). Negli anni Settanta comincia a diffondersi negli ambienti del marketing la distinzione tra due tipi di comunicazione (che però è considerata sempre ancillare rispetto al prodotto): la comunicazione di prodotto e la comunicazione di marca. Mentre la comunicazione di prodotto mette in discorso le caratteristiche sostanziali e qualitative dell’oggetto commercializzato, la comunicazione di marca inizia a costruire un universo di senso che fa riferimento agli stili di vita che il consumatore dovrebbe assumere acquistando quel prodotto. È un’idea del primo grande teorico della marca, Jean‐Noel Kapferer, che ci siano due tipi di relazione possibile tra la marca e il prodotto: una relazione “costruttiva” – per cui la pubblicità crea il prodotto ‐, e una relazione “referenziale” – secondo cui il prodotto crea la sua comunicazione. La distinzione diventa ancora più netta quando si sviluppa un tipo di pubblicità alla Séguela, come già citato, o alla Benetton, che si allontanano dal prodotto per costruire un universo mitico. Non c’è una ragione sostanziale per cui le pubblicità si allontanano gradualmente dal prodotto: non è che il prodotto abbia perso qualità e abbia bisogno di una comunicazione che lo nasconda, e la pubblicità “costruttiva” non è certamente più ingannevole di quella “referenziale”. Semplicemente si basa su un genere diverso: una costruisce mondi possibili, l’altra torna ai valori della produzione. Si tratta di due tipi di filosofia messe al servizio della comunicazione o di generi pubblicitari, come metterà in luce J.M. Floch (1990): un tipo di comunicazione tende a costruire una ideologia “referenziale”, mentre un altro tipo di comunicazione costruisce un universo “mitico”. La pubblicità sostanziale e la pubblicità referenziale non hanno uno statuto ontologico privilegiato rispetto a una pubblicità che nasconda il prodotto sotto i lustri dello spettacolo. Entrambe sono discorsi, ma uno mira a costruire un’immagine di sé che sia fondata sull’onestà e sull’affidabilità; l’altra costruisce sogni. 18
La disamina critica di Floch corrisponde perfettamente allo spirito del marketing degli anni Novanta, che dà finalmente centralità alla marca, mentre il prodotto diventa una delle variabili che ruotano intorno alla marca. Secondo questa nuova conformazione del marketing mix, “la marca non vive in funzione del prodotto ma, anzi, è il prodotto stesso a farsi manifestazione testuale della marca, a incrementarne lo spessore simbolico, a garantirne la riconoscibilità” (Marrone, 2007: 10). L’idea che il prodotto non sia che una delle “manifestazioni testuali” del progetto di marca è ben formalizzata da Andrea Semprini (2006), che elabora un modello che distingue il Progetto dalle Manifestazioni: all’interno del Progetto si colloca la strategia, l’originalità e la forza socioculturale di una marca; ma sono le Manifestazioni – servizi e prodotti – che concretizzano il progetto e lo fanno vivere nella quotidianità dei consumatori. Questo approccio considera marca e prodotto parte di un sistema olistico, dove la marca non è semplicemente un apparato di comunicazione che circonda il prodotto, elemento materiale e fondamentale dello scambio economico, e nello stesso tempo il prodotto non è semplicemente un pretesto su cui viene costruita una campagna mediatica totalmente arbitraria rispetto alla sua presenza. Sia il prodotto che la comunicazione incarnano i valori sottesi alla marca, ne selezionano i tratti pertinenti e invariabili. Il Progetto è alla base della dimensione comunicativa e della dimensione materiale. La marca contemporanea, secondo Semprini, non trascura il prodotto: semplicemente, lo assoggetta a un progetto di senso con il quale deve essere coerente e pertinente. La marca, più che essere un diffusore di informazione, è un motore semiotico, una “logica di selezione, di organizzazione e di concretizzazione di un progetto di senso” (Semprini, 2006:58). Il progetto di marca si realizza dunque grazie ai livelli di manifestazione che sono: il prodotto; la comunicazione; il punto‐vendita e il prezzo. È a partire da questi livelli di manifestazione che si gioca l’innovazione: questa può investire i prodotti (attraverso il restyling, la differenziazione o l’estensione di linea); la comunicazione (nuove campagne pubblicitarie; cambio del logo; strategie di rebranding); la distribuzione (redesign dei punti vendita; scelte di distribuzione su nuovi canali o nuovi media); il prezzo (strategie premium o di trading up). Una volta definito il progetto, ci si può permettere di gestire il cambiamento anche investendo nuovi territori. Il cambiamento, come già visto in 1.2, deve giocarsi sul delicato terreno dell’identità: bisogna essere capaci di innovarsi senza perdere il proprio carattere. La logica del cambiamento si situa su una dimensione contrattuale, che investe i campi della fiducia e della fedeltà: un consumatore sarà fedele a una marca, se questa persegue in modo coerente lo stesso progetto attraverso nuove manifestazioni. La fiducia crollerà, una volta che la marca tradirà se stessa e i valori affermati nel suo passato. Bisogna quindi avere il coraggio di cambiare e di evolversi, ma entro i limiti richiesti dal contratto di fiducia che lega la marca al consumatore: se il consumatore non vede i vantaggi implicati nel cambiamento non lo accetterà. 19
2.2 Innovazione nel prodotto: diversificazione ed estensione di linea
La diversificazione consiste nell’espansione del territorio della marca che, dalla produzione di un prodotto o di una certa tipologia di prodotti, passa alla produzione di una gamma più ampia di prodotti. Può consistere in un’estensione di linea, quando la marca amplia la gamma dei suoi prodotti all’interno di uno stesso territorio (quello dell’abbigliamento, ad esempio, o dell’alimentazione); o in un’estensione di marca, quando coinvolge territori diversi da quello d’origine: è il caso della Virgin, ad esempio, che dalla produzione di dischi è passata alla gestione di compagnie aeree low cost e di bevande analcoliche. Nel settore del lusso, spesso l’estensione di linea ha segnalato il passaggio dall’artigianato e dal controllo diretto sul prodotto a una dimensione più ampia e a un volume di vendite più corposo, ed è stato un passo necessario perché l’azienda si affermasse come brand: ad esempio Gucci ha iniziato la sua carriera con la produzione artigianale di borse di pelle, in un secondo tempo ha provato la produzione sartoriale, e infine ha ampliato la gamma con una serie di accessori come gli orologi, i gioielli e gli occhiali; anche Ferragamo è passato dalla pelletteria (in particolare dalla produzione di scarpe) alla sartoria maschile e femminile; Calvin Klein è passato dai profumi al’abbigliamento, Chanel dall’abbigliamento femminile ai gioielli e agli orologi fino alle creme di bellezza con il marchio Précision; Dior dalla sartoria d’alto livello ai cosmetici. Un’estensione di linea generalizzata riguarda la produzione di profumi, che tutti i marchi, anche quelli di media gamma, tendono ad avere e su cui basano una parte consistente del fatturato. Altri marchi hanno adottato un’altra strategia che consiste nell’invenzione di una nuova marca sotto garanzia della marca principale, con conseguente fenomeno di trading up da parte di consumatori (vedi par. 2.5): così ha fatto Cartier, che ha lanciato Must; Dolce e Gabbana con la linea D&G; Armani con Emporio Armani. Un’altra modalità di estensione di marca consiste nella cessione di licenze a terzi: così è successo per Armani Casa o per Versace Home Collection. L’estensione di marca è un processo molto delicato perché modifica la relazione tra la marca e il prodotto, nonché la relazione tra la marca e la categoria dei prodotti. Essendo il prodotto manifestazione della marca, l’ideazione di un nuovo prodotto deve essere sempre rispondente ai codici etici ed estetici della marca; l’oggetto deve quindi manifestare i valori pertinenti della marca, sia nelle sue forme che nelle sue funzioni. J.N. Kapferer (2002: 157) cita l’esperienza di estensione fallimentare della compagnia Bic, che dalla produzione di penne a sfera è passata a quella degli accendini e dei rasoi, e fin qui tutto bene. Quando ha iniziato a produrre profumi e collant, qualcosa è andato storto. La ragione è semplice: mentre le prime categorie di prodotto rispondevano a valori come l’economicità, l’ergonomia, lo stile “usa e getta”, erano fatte di materiali come la plastica e avevano forme semplici e riconoscibili, le categorie dei collant e dei profumi non si adattavano bene a questi valori. Associati all’universo di senso della funzionalità estrema, raggiunta con semplicità di materiali, finivano per scadere in un universo cheap. 20
L’estensione di linea o di marca è un affare rischioso, e deve essere realizzata solo se ce n’è effettivamente bisogno e se si hanno i mezzi. Infatti, bisogna essere disposti a un forte investimento in comunicazione e pubblicità: non ha senso inserirsi in un mercato dove già esiste una concorrenza affermata e radicata, se non si comunica a nessuno che lo si sta facendo. Una buona motivazione per ricorrere a una politica di estensione della marca è secondo Kapferer (ibidem: 161) la necessità di svecchiamento nel caso di marche tradizionali e fortemente legate a un territorio, che devono adattarsi a un ambiente in continua evoluzione. Queste marche basano il loro progetto sui valori della tradizione, ma non fanno i conti con le concorrenti che entrano nel mercato veicolando valori nuovi e più appetibili per un pubblico giovane. È necessario in questo caso investire in innovazione e tecnologia. Kapferer fa riferimento alle biciclette danesi Kildamoes, che avevano perso forti quote di mercato di fronte all’affermarsi di biciclette leggere, colorate e prodotte in Asia; un buon investimento in materiali high tech e ricerca ha favorito il reinserimento di questa marca vecchia e tradizionale nel circuito della moda. 2.3. Innovazione nella comunicazione: le trappole del rebranding
La pratica del rebranding può passare per diverse gradazioni: può consistere nel cambiamento del nome dell’azienda, oppure nella riprogettazione del suo logo e della comunicazione. Come già detto, per la teoria della cerniera di Floch, un piccolo cambiamento sul lato del significante, produce anche un aggiustamento dell’etica di marca. Forse per questo i fenomeni di rebranding generano sempre reazioni passionali forti da parte dei consumatori affezionati al brand e tra i dipendenti dell’azienda stessa. Un piccolo cambiamento del suo logo può significare un abbandono dei valori per cui si era legati a quel marchio ed essere indizio di “tradimento”. Essendo il brand basato su un contratto fiduciario, se non ci si riconosce più nell’universo della marca, la si potrebbe anche abbandonare per qualcosa di nuovo. Semprini racconta del momento del rebranding di British Airways, il cui logo era caratterizzato fino al 1996 dallo speedbird, un logo lineare, spigoloso e monocromatico (rosso) che era una derivazione di quello di Imperial Airlines; quando l’azienda fu privatizzata, decise di segnalare simbolicamente la sua dimensione internazionale e l’aumento nella proposta delle destinazioni e delle rotte, e mise sulla coda dei velivoli l’emblema del Commonwealth oltre al blu e rosso dell’Union Jack. Il riferimento era sempre alla madrepatria inglese e alle sue ex‐colonie, ma l’attaccamento alla bandiera nazionale da parte della maggioranza dei passeggeri era troppo forte per passare inosservato. La compagnia di bandiera fu così costretta a fare marcia indietro e a proporre una riedizione del vecchio design. Oggi sulla coda degli aerei della British Airways non solo ci sono i colori della bandiera, c’è una rappresentazione tridimensionale dell’oggetto bandiera sventolante. 21
La resistenza all’innovazione si verifica quasi sempre quando un marchio subisce dei cambiamenti. È necessario giustificare bene l’avvenuta variazione per favorirne l’accettazione. Una grande macchina comunicativa si è mossa ad esempio quando la Andersen Consulting ha deciso di cambiare struttura organizzativa e di ampliare il target dei potenziali clienti; questa decisione è stata accompagnata da una srategia di rebranding estrema come il cambiamento del nome, che è diventato Accenture (una “crasi” tra Accent e Future). Grazie a un testimonial d’eccezione come Tiger Woods (prima che fosse accusato dalla moglie di tradimenti seriali e di sex addiction), una buona campagna pubblicitaria e un ottimo design del logo, l’azienda ha superato senza traumi questo cambiamento. Non la stessa cosa si può dire della semplificazione di marchi come quello della Lancia o di Starbucks; il rebranding della Lancia ha eliminato la lancia dallo scudo, cancellando quindi il riferimento oggettuale della parola in cui consiste il marchio; ha unito le lettere maiuscole, rendendo il carattere serif, tradizionale, italiano, una specie di corsivo maiuscolo; infine, come succede sempre più spesso nel design dei marchi contemporaneo, ha reso lo stemma fintamente tridimensionale, con effetti di ombre e riflessi. La cosa non è piaciuta a designer e consumatori, che si sono accaniti nei forum per addetti ai lavori contro questo inutile restyiling. Stessa cosa si può dire a proposito del rebranding di Starbucks che ha sollevato nugoli di proteste. Il logo, caratterizzato dalla presenza del nome e di due stelle in una corona verde, e di una sirena all’interno del cerchio, ha eliminato la corona esterna per mantenere soltanto la figura femminile stilizzata. L’accettazione del pubblico è stata molto negativa, probabilmente perché bisogna stare molto attenti a togliere dal marchio gli elementi che lo rendono tale, che sono il contorno e la presenza di marche molto specifiche come i segni grafici minimi (stelline, virgolette, accenti). 2.4 Innovazione nella distribuzione: showroom e forme di vita
Se consideriamo il negozio nella sua accezione di “punto‐vendita”, ne selezioniamo le proprietà che lo rendono spazio destinato al commercio, luogo che ha la funzione di ospitare il momento dello scambio tra prodotto e denaro. Eppure, sulla base di quanto detto riguardo alla marca come progetto che promuove valori e stili di vita, anche il negozio diventa manifestazione del progetto di marca, interfaccia e luogo di mediazione tra il concept e i consumatori. “Il punto vendita dice e traduce il senso del brand, ma soprattutto lo esteriorizza e lo mette in pratica, coinvolgendo in modi più o meno seducenti il consumatore, i suoi desideri, i suoi affetti, il suo stesso corpo. Entrare in un punto vendita non è entrare in contatto con le merci ma vivere forme d’esperienza che i brand propongono e dispongono. Il negozio non si limita a fornire al consumatore un pacchetto di istruzioni per il consumo, ma suggerisce tipi d’esperienza che rientrano nel discorso di marca, che conseguono dal suo universo di valori” (Marrone, 2007: 317). La centralità data al punto vendita (o showroom o flagship store che dir si voglia) risponde alla 22
necessità di fare del consumo un’esperienza, e di stimolare emozioni legate all’universo della marca: la ricerca americana lo ha chiamato “emotional branding” (Gobé, 2001) o “experiential marketing” (Schmitt, 1999). Il passaggio dalla compravendita del prodotto all’esperienza segnala il cambiamento di mentalità nella gestione della marca, che si orienta più verso le emozioni e le passioni della persona, piuttosto che verso i bisogni del consumatore, come faceva il marketing tradizionale. Non si offre più un servizio, ma una relazione. Come nell’arte contemporanea si è sviluppata la tendenza a non mostrare più opere ma a costruire relazioni (Bourriaud, 2001), così l’industria costruisce esperienza invece di offrire prodotti. È il superamento della logica del consumismo in nome di un’intensa volontà di costruzione sociale del sé, certamente più legata a processi passionali che non a logiche d’azione. L’azienda offre uno stile; il consumatore dimostra buon gusto. Per questo lo spazio della vendita e della fruizione assumono sempre più importanza. Il punto vendita diventa lo spazio dell’esperienza, ribalta entro cui il fruitore mette alla prova la sua capacità di vivere in un certo modo, con un certo stile di vita. “La nuova offerta, quella delle esperienze, si verifica ogni qual volta un’impresa utilizzi intenzionalmente i servizi come palcoscenico e i beni come supporto per coinvolgere un individuo. Se le merci sono fungibili, i beni tangibili, e i servizi intangibili, le esperienze sono memorabili” (Pine e Gillmore, 1999, p. 14 tr. it.). Beni e servizi, secondo Pine e Gillmore, teorici dell’economia delle esperienze, non sono che pretesti per vivere un’esperienza, occasioni per la costruzione del proprio sé in relazione alla forma di vita scelta. La “forma di vita” è un principio che struttura i comportamenti quotidiani, resi coerenti da scelte ideali di fondo. È stata definita da Juri Lotman (1975) sulla base di un esempio, quello dei cosiddetti decabristi nella Russia di inizio secolo: i valori inscritti nei testi di riferimento di questo gruppo di rivoluzionari dandy sono un sistema di istruzioni e una guida per la loro vita quotidiana. Ma perché ci sia forma di vita, è necessario un riconoscimento sociale, uno sguardo esterno che ne approvi la coerenza: la forma di vita presuppone dunque la teatralizzazione, l’esibizione della propria esperienza di consumo. Il fruitore si vede e si mette in mostra in uno spazio che è la ribalta ideale del personaggio che vorrebbe impersonare. Se la marca dunque fornisce un sistema di valori a cui appellarsi e secondo cui vivere, lo show‐room o il punto vendita possono diventare palcoscenico dove questa forma di vita è messa alla prova o realizzata. Il punto vendita si arricchisce in questo modo di funzioni e di missioni: non è semplicemente il luogo dove avviene la distribuzione della merce, ma è uno spazio relazionale, impregnato dei valori di marca, dove il fruitore si aggira appropriandosi dello stile che gli viene offerto. Il punto vendita è luogo di esteriorizzazione e teatralizzazione del discorso di marca, dove a essere coinvolto è in primis il corpo del visitatore che si muove nello spazio. Ci sono negozi che mimano gli spazi della vita quotidiana, si propongono come terreni di prova per stili di vita. Un esempio è il negozio di Ralph Lauren a Manhattan, ospitato in una casa della fine dell’Ottocento di sette piani dal nome Rhinelander Mansion. Capi in vendita e oggetti di 23
arredamento si confondono, e ogni stanza è arredata con oggetti d’antiquariato, tappeti, quadri, specchi e candelieri. I prezzi non sono visibili e sopraggiunge dunque una confusione nel consumatore che si trova all’interno dello spazio tra ciò che è in vendita e ciò che non lo è. Secondo Patrick Hetzel (2003), che al caso Ralph Lauren ha dedicato uno studio, il negozio sta diventando uno spazio esperienziale sempre più simile al bazaar, dove si mischiano profumi e sapori. Non è più il prodotto a essere enfatizzato attraverso protesi come vetrine o piedistalli, è l’atto del consumo il vero oggetto venduto, l’esperienza. Ciò fa dell’esperienza del consumo un atto ludico, un’esplorazione divertita, e viene sollecitato un lavoro interpretativo dell’enunciatario, affinché decifri nei dettagli d’arredo cosa è in vendita e cosa non lo è. 2.5 Cambiare politiche dei prezzi?
Il prezzo potrebbe sembrare a prima vista la componente più concreta e legata alla natura economica dello scambio costituito dalla compravendita di un prodotto. Eppure anche il prezzo ha un significato, è un valore semiotico prima ancora di essere un valore monetario. Una marca che pratichi prezzi di vendita alti si pone automaticamente su un certo livello e seleziona il suo target sulla base delle sue possibilità di spesa; il prezzo alto è una condizione necessaria (ma non sufficiente) per definire il prodotto di lusso, perché ne evidenzia la difficile accessibilità al livello delle condizioni materiali che sono necessarie per ottenerlo. Normalmente, per i prodotti “commodity” all’aumentare del prezzo, le vendite tendono a diminuire; per i prodotti ad alto valore aggiunto di differenziazione infatti, alla diminuzione del prezzo, le vendite non aumentano. È il paradosso di Veblen, secondo cui il prodotto di lusso non può essere venduto sotto una certa soglia di prezzo, a rischio di perdere il suo status. Il prezzo dei prodotti di lusso dipende in primo luogo dal valore della marca che li firma, e veicola un enorme plusvalore, poiché prescinde in gran parte dai costi di produzione e svolge una prevalente funzione simbolica. Il valore simbolico degli oggetti di lusso è la tassa di accesso al mondo degli “happy few”, i pochi intenditori che sono in grado di apprezzare e soprattutto di accedere al bene desiderato. Il prezzo è alto anche a causa della tipologia dei prodotti, che possono essere considerati come beni‐rifugio il cui valore non diminuisce nel tempo, al contrario del denaro che perde di valore. Eloquenti a questo proposito sono le pubblicità a stampa ideate dai pubblicitari della marca di orologi Patek Philippe: la campagna, internazionale e quindi declinata in diverse lingue, era composta di un pacchetto di fotografie, rigorosamente in bianco e nero, che rappresentavano un padre e un figlio in un momento di quotidianità e intimità, al bar o sul divano di casa. Al polso del padre, immancabile, un orologio. In sovraimpressione la scritta: “Un Patek Philippe non si possiede mai completamente. Semplicemente si custodisce. E si tramanda” (nella versione inglese: “You never actually own a Patek Philippe. You merely look after it for the next generation”). Sotto il marchio, il pay‐off recita: “Ogni tradizione ha il suo inizio”. La marca vuole veicolare valori di tradizione e di 24
conservazione, di cura e custodia degli oggetti e dei figli, rinforza i valori della famiglia e dell’eredità materiale e spirituale. Inoltre non valorizza l’idea della proprietà ma quella del trasferimento (per quanto si riferisca a un concetto di proprietà “familiare” che, se esula da quella propriamente individuale ed edonistica, è comunque una forma di possesso altrettanto privata). Da notare che questo compito di tutela e conservazione del bene di famiglia è affidata solo alla parte maschile della famiglia. La campagna pubblicitaria Patek Philippe per signore le invita non a “iniziare una tradizione” ma a impegnarsi in “una lunga relazione d’amore”. L’oggetto amato non è il marito, ma l’orologio, cosa che costruisce il personaggio femminile come disimpegnato e interessato al consumo materiale degli oggetti, mentre il suo uomo costruisce i valori da tramandare alla prossima generazione. A parte le implicazioni sessiste di queste campagne pubblicitarie, resta il nocciolo comune che è il valore della durata e della intemporalità (seppure in oggetti, che il tempo lo cronometrano e lo misurano): il misuratore del tempo è un oggetto in temporale, come i veri beni di lusso, beni‐rifugio. Stesso tema è declinato dal celebre motto della De Beers: “Un diamante è per sempre”. Una marca che pratichi invece prezzi bassi non necessariamente veicola con sé l’idea della cattiva qualità dei suoi materiali e delle sue tecniche di produzione: può veicolare invece un senso di democratizzazione e di accessibilità. È la politica attuata da H&M o da Ikea, da Yves Rocher o da L’Oréal: sono marchi il cui progetto consiste nel rendere democratici e accessibili la moda, il design, la cura di sé. Un innalzamento del prezzo dei loro prodotti farebbe crollare tutto il loro progetto di marca. Esiste il fenomeno deleterio per la marca che è la “corsa al valore”, come riportato da Semprini. Questo fenomeno consiste nella tendenza da parte della marca ad aumentare progressivamente i prezzi, realizzando un prodotto premium o semplicemente spostando gradualmente verso l’alto i prezzi dei prodotti già lanciati sul mercato. Se l’aumento dei prezzi non è giustificato, in particolare in termini di qualità, la corsa al valore può provocare disaffezione da parte del cliente. Il fenomeno opposto è quello del “Trading down”, cioè la creazione da parte di un marchio di lusso di una linea più accessibile in termini di prezzo, in modo tale da fidelizzare il ceto medio, che non può permettersi il prodotto di altra gamma, ma ha tutto l’interesse di possedere un oggetto “firmato”. Il prezzo non è ovviamente un’entità semiotica totalmente slegata dai costi di produzione: l’abbassamento del prezzo oggi, soprattutto dopo le denuncie realizzate in libri inchiesta come No Logo, è associato quasi sempre a una delocalizzazione della produzione o alla cattiva qualità dei materiali usati. Il prezzo ha quindi spesso effetti di senso “etici”: abbassandolo si democratizzerà l’accesso ai beni, ma molto spesso si sfrutterà il lavoro all’estero e non si aiuteranno le economie nazionali in crisi. Aumenti e abbassamenti dei prezzi devono quindi essere sempre giustificati anche in termini etici: un innalzamento deve essere giustificato dal miglioramento della qualità del prodotto in termini di materiali e manodopera; un abbassamento deve essere sottratto al sospetto che l’azienda abbia prodotto o comperato 25
le materie prime dove costano di meno, o abbia utilizzato macchinari meno sofisticati e destinati alla produzione di massa. 26
3.
Il discorso della tradizione e del localismo nel discorso di marca
3.1 La ricerca dell’autentico e l’apologia dell’artigiano
Di fronte alla sofisticazione raggiunta oggi dalle contraffazioni dei marchi e al logoramento del modello della multinazionale globale, si afferma sempre di più da parte del consumatore la ricerca dell’autentico. L’autenticità è diventata il valore chiave del mercato e le imprese che riusciranno a trasmettere e dimostrare di far proprio questo valore, risulteranno vincenti nel mercato. Questo è quanto sostengono programmaticamente Gilmore e Pine (2007) nel loro saggio diretto alle imprese Authenticity: what consumers really want. L’autenticità non è una qualità intrinseca del prodotto, ma un valore costruito socialmente attraverso il discorso dei media e dei consumatori stessi. Come la pubblicità “sostanziale” di cui parla Floch (1990), che vuole fare emergere l’essenzialità del prodotto, le sue qualità sostanziali, l’autenticità è una strategia enunciativa, esito della volontà di far credere al fruitore qualcosa che riguarda quell’oggetto o quella serie di oggetti. Il ritorno all’autentico, al genuino, all’artigianale, è un cliché oggi molto diffuso nel discorso di marca. Si difende la tradizione insieme all’innovazione, la storia insieme alla pianificazione del futuro. L’autenticità riguarda lo “stile” del marchio, più che la sua vera provenienza; il discorso costruito intorno al marchio piuttosto che la sua essenza. Nata nei tempi in cui la produzione in serie rivoluzionava il mercato sia al livello della produzione che a quello dei consumi, la marca era un segno di distinzione e di qualità rispetto alla concorrenza. Una marca che punti sul valore artigianale del suo prodotto, pezzo unico rispetto alla riproduzione in serie dei marchi concorrenti, ha ovviamente una marcia in più per ribadire la distinzione e la qualità enormemente superiore del suo prodotto e si situa in continuità con i valori circolanti attualmente: la ricerca del locale e dell’artigianale in tempi di crisi dell’industria, della produzione in serie e del consumo di massa. Ci troviamo in un terreno molto diverso da quello delle grandi corporation americane degli anni Cinquanta e Sessanta, percepite come distanti e astratte da un pubblico di compratori. Una piccola azienda legata a una figura di grande personalità parte oggi avvantaggiata sul terreno dell’immagine, perché ha un’anima e una storia profondamente radicata in un’identità. Storicizzazione, tradizione e mitizzazione del padre fondatore di un marchio vanno di pari passo. Il riferimento alla produzione materiale e all’origine artigianale della merce è recepito come valore di marca: un artefatto che sia prodotto artigianalmente e non nell’ambito di un sistema industriale spersonalizzante e omologante assume caratteristiche che lo pongono in un settore più alto di mercato: l’unicità del pezzo, il fatto che sia prodotto da un lavoratore alla cui identità si può risalire, sono qualità dell’opera che la rendono più appetibile rispetto alla merce industriale. La dimensione artigianale e il suo forte legame con il territorio di provenienza è considerata, da Chevalier e Mazzalovo, proprio uno dei 27
criteri per distinguere un oggetto di lusso da un prodotto qualunque. Secondo questi due autori, la visita alla fabbrica nel campo del lusso è bandita, mentre è possibile, per un cliente che ne faccia domanda, assistere alla lavorazione dei prototipi e dei pezzi singoli. Un marchio di lusso quindi non necessariamente abbandona la produzione industriale, ma fa circolare la leggenda della produzione artigianale dei suoi capi. Mentre Jameson vedeva l’evoluzione del mercato nella rimozione del legame tra autore, produttore e merce, e mentre Séguéla lanciava le sue campagne pubblicitarie fondate su mitologie estranee e arbitrarie rispetto all’atto della produzione, oggi è tornata in auge la trasparenza, la messa in scena dell’atto della produzione. L’esempio più comune citato dagli studiosi di storia della marca (Semprini 2006: 17) è quello della comunicazione Benetton sotto la direzione di Oliviero Toscani. La marca veniva interpretata allora come un attore protagonista nel dibattito sociale, che può prendere posizione e dominare l’opinione pubblica. Così la marca può parlare, attraverso la fotografia e gli slogan, di problemi sociali, dimenticando il suo legame con la produzione. All’epoca di Toscani, in effetti, la comunicazione Benetton non aveva più alcun legame con i mestieri dell’azienda e con l’artigianato, ed era caratterizzata da una decisa deterritorializzazione e dall’aderenza a valori universalistici (Fiorentino, 2006). Adesso la tendenza sembra andare nel verso opposto: la comunicazione sempre più parla del prodotto invece di costruire mondi possibili, e valorizza la fattura artigianale, l’originalità e l’unicità dei pezzi. Che un bene sia “artigianale” o “industriale” lo decide quindi la comunicazione, oltre al processo di lavorazione effettivamente subito da quel bene. Il discorso di marca costruisce un’immagine più o meno vicina ai valori della produzione manuale, legata ai ritmi e ai climi della natura, impregnata di quel luogo e di quel momento in cui il bene è stato fabbricato. Il racconto può soffermarsi sul momento della produzione, o scegliere di creare scenari di possibile fruizione del bene. Ci sono marchi che adottano entrambe le strategie: da una parte raccontano chi, dove e come ha inventato o realizzato quel prodotto, dall’altra inventano una sceneggiatura finzionale, dove si vede il contesto d’uso del bene, e il tipo di utilizzatore ideale. Distinguere questi due tipi di strategie comunicative “finzionale” o “documentaria” è solo una distinzione di genere: entrambe sono infatti frutto di una costruzione. Le strategie comunicative possono essere associate ai due tipi di discorsi di marca rilevati da Jean‐Noel Kapferer (2008): i marchi basati sulla Storia (quelli con pedigree, prevalentemente europei), e i marchi basati sul Racconto (quelli più contemporanei, prevalentemente americani, bisognosi di creare un universo di valori arbitrario). Di fronte alla crisi e alla perdita di fiducia nei confronti delle grandi multinazionali, la tendenza è quella di ribadire il discorso dell’autenticità sui marchi riconosciuti internazionalmente, e di valorizzare il luogo dove il bene è nato, insieme a quelle risorse umane e materiali presenti solo in quel territorio che ne hanno permesso la nascita e il successo. L’esaltazione del locale e della manifattura fa parte più che mai del discorso di marca attuale. Di fronte alla concorrenza sleale dei fabbricanti di merci contraffatte, la comunicazione di marca tende sempre più a dimostrare l’unicità, l’originalità e l’artigianalità dei suoi 28
prodotti, nonché la garanzia di qualità. Ad esempio, nell’ultima campagna Louis Vuitton per la stampa, una fotografia in bianco e nero ritrae un esperto artigiano impegnato con vite e martello a lavorare su un baule; il testo informativo ci dice che sta fissando a intervalli regolari i rivetti, per realizzare la caratteristica “chiusura a S” delle valigie Vuitton. “I gesti per creare un baule si ripetono immutati, oggi come ieri” afferma il testo informativo, finalizzato ad esaltare la tradizione di un marchio che ha subito, più di tutti gli altri, imitazioni e contraffazioni. Nessun altro, si sottintende, è in grado di far chiudere i bauli come noi, e il legame tra i nostri artigiani e i nostri prodotti è fisico, reale. Il valore del prodotto è nel lavoro; il plusvalore dell’immagine di marca, quello che fa esplodere i mercati, non ci interessa. Il fondamento dell’abilità artigianale è nella tradizione e nella storia, nella capacità degli artigiani di tramandarsi il loro sapere: la foto, in bainco e nero, potrebbe essere di oggi come di ieri, perché non c’è una degradazione del mestiere dovuta al tempo che passa: “i gesti si ripetono immutati”. La griffe che contende il primato in contraffazioni a Vuitton, Gucci, è uscita con un’analoga campagna pubblicitaria: una fotografia in bianco e nero ritrae degli operai intenti a lavorare su tessuti; un sottotitolo comunica che si tratta della casa di moda Gucci nella storica sede di via delle Caldaie a Firenze nel 1953. Il pay‐off recita “Forever now”. Anche in questo caso, si mette in evidenza la continuità e la tradizione del marchio, che si avvale della preparazione e della dedizione di artigiani competenti e preparati. Il testo informativo racconta una breve storia edificante, quella di Guccio Gucci che dal 1921 ha inseguito con passione la “perfezione assoluta” nel lavoro. “La sua dedizione ispira oggi la nostra tradizione. La bellezza di quel che lui ha intrapreso nutre da novant’anni intere generazioni di artigiani. Il suo desiderio di realizzare ciò che dura per sempre continua a stimolare ognuno di noi. Ricordando il passato mentre creiamo il futuro”. Il leitmotiv del binomio tradizione/innovazione trova espressione nella esaltazione dell’intemporalità, della permanenza e della resistenza al tempo dei prodotti (“Forever”, “ciò che dura per sempre”); l’innovazione è solo una dichiarazione d’intenti, che però viene espressa in chiave rétro dalla fotografia: la disposizione del personale – moderna icona del lavoro di squadra ‐ sotto i sempiterni soffitti affrescati di un palazzo fiorentino. Le strategie di Gucci di ricompattamento dell’azienda intorno all’origine del marchio non si esauriscono solo con questa campagna pubblicitaria: a Marzo 2010, Patrizio di Marco, presidente e amministratore delegato, ha organizzato la prima riunione mondiale dei circa cinquecento manager dei negozi Gucci nel mondo. Ha spiegato la sua iniziativa con queste parole: “Pochi numeri e sale riunioni ma tante visite sul campo: perché è fondamentale che chi deve trasmettere il valore del marchio al cliente, e ogni anno nei nostri negozi entrano 60 milioni di persone, veda i laboratori dove si tagliano le pelli. E sappia come lavora l’ufficio stile, dove nascono i prototipi delle nuove borse che poi piccole aziende artigiane produrranno rigorosamente a mano”. La filiera produttiva, dalla lavorazione delle pelli alla creazione dei prototipi fino alla produzione “rigorosamente a mano” dei prodotti finali, deve essere oggetto di conoscenza diretta da parte dei venditori, che solo così riusciranno a comunicare con coscienza 29
“l’italianità del prodotto”, anche fuori d’Italia. Anche qui, il rapporto dell’artigiano con la materia è l’aspetto che più bisogna valorizzare del prodotto, e chi gestisce le operazioni “immateriali” come l’atto di vendita, deve avere un rapporto diretto con il momento della materializzazione dell’oggetto. Non ci sarebbe bisogno di ribadire l’originalità e la filiazione in via diretta di un marchio se non ci fossero dei fratelli illegittimi e impostori che rivendicano l’eredità e il diritto d’esistenza. Così lo stabilizzarsi di marchi come Vuitton e Gucci su strategie comunicative che ne magnificano il passato e l’identità, dimostra la paura dei nostri tempi, attenti a stabilizzare legami e radici più che a lanciare nuovi valori su cui far ruotare l’immagine della marca. L’accento sulla durata e sulla tradizione mette in risalto anche l’aderenza dei marchi citati ai valori tipici del mondo del lusso, fondato sull’intemporalità e sul classico intramontabile. La tendenza a dar valore alla storia e alla “anzianità” della marca è presente in numerose campagne pubblicitarie. Belstaff, ad esempio, ricostruisce la storia del proprio marchio in forma di biografia, segnalando gli anni e gli eventi più importanti della propria storia: dall’invenzione di tessuti e la deposizione dei relativi brevetti, all’utilizzo delle giacche della collezione da parte di testimonial eccellenti, come Lawrence d’Arabia e Che Guevara. La headline recita: “Belstaff, since 1924 the style of heroes. Perché, generazione dopo generazione, non è cambiato nulla: chi porta dentro una grande storia, spesso la porta anche addosso”. Il discorso di marca mette intelligentemente in relazione la storia del marchio, corredata da curriculum vitae, a personaggi che hanno fatto la storia, testimonial eccellenti (e involontari) appartenenti a diverse fasi temporali. Il testimonial eccellente, come già visto, ha la forza di proiettare il pacchetto di valori con cui è costruito il suo personaggio sul marchio stesso: e così l’eroismo, la carica rivoluzionaria, l’avventura passano attraverso i personaggi storici alla marca, che però esplicita nel testo solo il valore della “storia”. Da anni le campagne pubblicitarie della Belstaff adottano come testimonial i corpi militari dello stato, dalla polizia alle guardie di finanza, le cui divise sono proprio di questa marca: ne emerge un immaginario di marca piuttosto conservatore, che va dall’esaltazione della tradizione alla celebrazione della difesa della nazione. Da non sottovalutare è il fatto che questa marca abbia iniziato a costruire il proprio pedigree storico e a comunicarlo quando è passata da un proprietario inglese a un trevigiano. È proprio quando il legame con il territorio di origine è entrato in crisi, che si è costruito un discorso storico della marca, per ribadire i valori tradizionali della marca nonostante il passaggio proprietario. Biografia e curriculum vitae sono comunque criteri di selezione che mirano a convincere un compratore sempre più critico riguardo all’onestà della marca, e disposto a spendere solo per un oggetto su cui valga la pena spendere. Se Gucci e Louis Vuitton sviluppano, in parallelo a un discorso di marca fondato su immagini tradizionali di moda, un discorso che ne mette in risalto la tradizione e l’originalità, altri marchi, come Dolce & Gabbana, continuano a costruire un’immagine di marca finzionale, spostando il problema dell’italianità sul versante della messa in scena senza rappresentare l’atto della produzione. 30
Lanciano così campagne pubblicitarie incentrate su una sceneggiatura tipica il cui genere rimanda ai film di gangster e di mafia, costruite su un’immagine steretotipata del sud‐Italia e della Sicilia in particolare. La riconoscibilità del marchio di quest’ultima casa di moda è basata sulla costruzione coerente di un’identità di marca piuttosto che sulla difesa della stessa. Dolce & Gabbana resiste alla crisi mantenendo la propria iconografia, senza dichiarazioni di intenti né pubblicazione del proprio curriculum vitae: del resto, è un marchio relativamente giovane, e i disegnatori che l’hanno fondato sono sempre sotto i riflettori dei media, nonché amici di star di Hollywood e regine del pop. Non hanno sicuramente ragione di mettere nelle comunicazioni pubblicitarie storie edificanti riguardo alla nascita del brand: bastano le storie tramandate per via orale sul difficile apprendistato dei due nel duro ambiente lavorativo milanese. 3.2 Il Made in Italy come supermarca o metabrand
La denominazione di origine risponde dunque a una retorica dell’autenticità e dell’originalità. In questa sede non ci occuperemo di capire quanto sia aderente alla realtà l’apposizione dell’etichetta del “Made in”, e cioè se quel prodotto sia stato effettivamente realizzato in tutte le sue parti nel territorio dichiarato. Piuttosto ci interessa capire quale sia il discorso veicolato dal “made in country”, quali siano i contenuti resi pertinenti dalla denominazione d’origine, e in che modo una marca assuma dei valori aggiuntivi grazie alla sua dichiarazione di appartenenza territoriale. Il “Made in Italy” può essere infatti considerato come un “metabrand” (Barile, 2006) cioè un’entità complessa che raccoglie tutte le marche di uno specifico settore, e soprattutto di una specifica provenienza, o anche “una sorta di comune denominatore, di media ponderata, di risultante dalla comparazione positiva e negativa tra le diverse aziende che operano a partire da un dato territorio” (Barile, 2006: 150). Quali siano questi valori che fanno da comune denominatore, è tutto da vedere però: spesso il Made in Italy si esaurisce in uno stereotipo di “italianità” che fa riferimento quasi sempre al periodo Rinascimentale, alla creatività e alla versatilità dei principi dell’epoca che passavano con estrema scioltezza dalla politica all’arte, dall’economia alla poesia; insito in quest’idea di Rinascimento è anche quella di tolleranza e di apertura nei confronti degli stimoli esterni, qualità che trovavano sbocco in opere dallo stile composito, con venature esotiche. Contemporaneamente, si sta cercando di costruire una cultura del made in Italy che metta l’accento sulla sperimentazione e sull’innovazione vista in termini quasi avanguardistici, sul plusvalore del know‐how, locale ma metropolitano, della cultura italiana. Questo tipo di concezione del Made in Italy trova radici nei processi innovativi che si realizzarono in particolare negli anni Settanta, anni in cui si passò dall’artigianato all’industria, dalla sartoria altolocata al prêt‐à‐porter. È un passaggio epocale perfettamente rappresentato dallo “slittamento dell’asse del prêt‐à‐porter da Firenze a Milano” (Barile, ibidem: 140): secondo questo approccio, l’idea di Made in Italy si incarna meglio nell’industrial 31
design che nell’artigianato artistico. Coesistenza di artigianato e ricerca tecnologica non sono in contraddizione, dato che il riferimento continuo al genio rinascimentale porta in sé le caratteristiche della creatività e della tecnologia: ingegnere, artista, architetto sono ruoli che possono essere rivestiti dalla stessa persona, come insegna Leonardo, idealtipo dell’italiano alla cui eredità facciamo sempre riferimento nei trasferimenti all’estero. È stato Mario Boselli, presidente della Camera Nazionale della Moda italiana, a coniare gli slogan del Made in Italy che oggi dominano: il ʺbello e ben fattoʺ e “l’effetto Rinascimento”, caratterizzato da “una sapiente tradizione di lavoro, che sa unire la qualità estetica e immateriale legata alla nostra storia e la qualità dell’innovazione tecnica e materiale dei prodotti” (Boselli, 2008: 11). In altre occasioni, ha sintetizzato questo concetto nella formula della “creatività tecnologica”, alchimia tutta italiana tra “creatività e tecnologia”. Per “Effetto Rinascimento”, Boselli intende una presunta naturale propensione degli italiani, visto il loro pedigree storico artistico, ad avere senso estetico e abilità artigianali. Questo deriva dal fatto di “vivere in un Paese che vanta il più ricco patrimonio monumentale del mondo e costituisce una specie di scuola collettiva che sviluppa il senso per l’estetica e le cose belle” (in Magnaghi, 2008). La storia, per il discorso del Made in Italy, non è soltanto il deposito da cui pescare delle figure che possono rappresentare il genio italiano. È essa stessa valore che rientra nel discorso di marca di tutte le aziende raggruppate nel macromarchio “Made in Italy”. Per Alessandra Rinaldi, ad esempio, il prodotto italiano non possiede soltanto delle “peculiarità intrinseche di creatività, trasgressione, ironia, intelligenza”, ma appartiene anche “a un sistema sostenuto da una realtà nascosta ma determinante: la storia. A differenza di qualsiasi altro prodotto, sia che si tratti di una borsetta o un tipo di vino o di formaggio, quello italiano, il cosiddetto made in italy, appare spesso straordinariamente sofisticato e creativo e, soprattutto, risulta essere il frutto del lavoro più o meno esplicito di azioni umane quotidiane lungo alcuni millenni e, quindi, di una storia davvero importante. Ma questo non basta: la stessa storia contribuisce in un secondo tempo a ʺblasonareʺ un prodotto anche al di là che esso sia storico o meno. Mi spiego meglio: la gran parte dei prodotti italiani sono ʺstoriciʺ in quanto sono il frutto di una lunga evoluzione, di una lunga messa a punto che si è svolta durante i millenni. Altri prodotti, apparentemente del tutto contemporanei, appartengono anchʹessi a un comune humus antico, dal quale nascono continuamente cose nuove. Comprando un prodotto italiano, uno straniero compra cosi sostanzialmente un pezzo di storia: il prodotto italiano è carico di storia perchè il nostro Paese è una importante sede della Storia” (Rinaldi, 2010). Il solo fatto che la merce provenga dall’Italia, che essa sia antica o meno, le dona un afflato di storia, dato che, anche se non è ammantata dell’aura dell’antichità e dalla patina del tempo, è comunque prodotto di uno spirito locale, di un modo di far le cose che gli italiani, solo perché italiani, hanno ereditato dai loro padri. 32
Il Made in Italy è quindi un concetto fumoso che veicola contenuti vaghi quali genio, creatività, storia, rivendica l’appartenenza a un humus territoriale e a un presunto genius loci. È un discorso di natura promozionale che non ci preoccupiamo di analizzare nella sua ontologia, ma nella sua coerenza e pertinenza. Associando diversi discorsi sul Made in Italy, emergono però facilmente delle contraddizioni. Come tipo di organizzazione economica, il discorso del Made in Italy fa spesso riferimento ai distretti, un modello di organizzazione industriale che fa in modo che in un certo territorio si sviluppi un tipo di produzione attraverso la creazione di una filiera: aziende appartenenti allo stesso settore merceologico si accordano per differenziare la produzione, e invece di specializzarsi o di entrare in concorrenza l’una con l’altra, uniscono le loro forze per realizzare il prodotto finale. È un tipo di “imprenditorialità diffusa” (Plechero e Rullani, 2007) tipico dell’Italia del Nord‐Est che valorizza la comunità d’imprenditori più che il singolo “uomo di genio”. Ecco che due valori entrano in contraddizione: la centralità dell’uomo d’estro e d’ingegno si contrappone al valore del lavoro di rete e di gruppo (più adatto, ad esempio, ai cliché sul Giappone). L’organizzazione per distretti ha avuto una grande crescita negli anni Ottanta e Novanta ed è stata studiata anche dagli economisti stranieri per le peculiarità che ne hanno decretato il successo, ma ha poi subito un arresto: alcune imprese hanno chiuso, altre hanno delocalizzato, per ridurre i costi aziendali attraverso l’utilizzo di manodopera a basso costo in altri paesi. Le aziende hanno però continuato a marchiare i loro prodotti come “Made in Italy”, mantenendo in loco le attività di design, progettazione del prodotto, controllo di qualità, comunicazione, anche quando la produzione materiale era stata delocalizzata. Una legge è allora intervenuta per definire questo terreno incerto: è la legge Reguzzoni‐
Versace‐Calearo (legge 166 del 2009) che prevede l’etichettatura di Made in Italy ai prodotti finiti per i quali le fasi di lavorazione «hanno avuto luogo prevalentemente nel territorio nazionale e, in particolare, se almeno due delle fasi di lavorazione per ciascun settore sono state eseguite nel territorio medesimo e se per le rimanenti fasi è verificabile la tracciabilità». I requisiti minimi perché un prodotto possa meritarsi l’attribuzione dell’etichetta sono: che sia prevalentemente realizzato in Italia, che i materiali siano di prima scelta, che lo stile e la progettazione siano italiani, che la lavorazione sia tradizionale e tipica. Il Made in Italy è diventato a questo punto un “marchio” non solo in termini metaforici come “metabrand”, minimo comun denominatore di alcuni prodotti realizzati in un certo territorio, ma anche in termini letterali. È nata infatti la certificazione di garanzia 100% Made in Italy con la quale ogni azienda può chiedere di essere etichettata per dimostrare che la propria produzione è avvenuta interamente in Italia. Lo stesso ente che gestisce l’assegnazione del marchio di garanzia, l’Istituto per la Tutela dei Prodotti Italiani, dichiara che l’azienda che si sottopone all’attribuzione del marchio “Made in Italy” sta svolgendo “un indispensabile atto di comunicazione”, dato che il marchio di tutela è “rappresentativo della qualità produttiva, della creatività e dello stile famoso ovunque nel mondo, apprezzato per lʹeleganza, scelto per le linee, desiderato per la bellezza e lʹoriginalità”. L’italiano lascia a desiderare, ma il 33
concetto è chiaro: il marchio comunica valori e qualità dell’oggetto che non sarebbero visibili se non si dicesse che quel prodotto è italiano; la qualità, la creatività, lo stile, l’eleganza, la bellezza e l’originalità. Di certo non è con la legge e con l’economia che si esce dalla retorica e dagli stereotipi: il sito che presenta i vantaggi della marchiatura 100% Made in Italy esordisce con queste parole: “Insieme alle parole ʺPizzaʺ e ʺPasta Asciuttaʺ il termine ʺMade in Italyʺ è il più famoso del mondo”, confondendo i livelli di pertinenza (“pizza” e “pasta” dovrebbero essere tipi della classe “Made in Italy”, per dirla aristotelicamente, e non essere messi allo stesso livello) e trascurando il fatto che Made in Italy non può essere la parola italiana più famosa del mondo, per ovvie ragioni linguistiche. Stesso errore di classificazione ha fatto Pambianco Strategie dʹimpresa, che ha basato sulla metodologia dell’intervista la rilevazione del successo del made in Italy. Chiedendo a consumatori stranieri perché comprassero prodotti Made in Italy, i ricercatori hanno scoperto che il fattore principale del successo del Made in Italy è lʹimmagine del Paese e dellʹazienda (al 24%) mentre seguono altri fattori come il design (22%), la qualità (21%), il servizio (18%) e infine il prezzo (15%). Emerge subito un effetto parola evidente: se chiedo a qualcuno “perché compri un prodotto “made in Italy”, la risposta più facile è la tautologia: “Perché amo l’Italia” e la sua immagine. Qualità, creatività, stile, eleganza, bellezza e originalità sono dunque i nuclei semantici che l’immagine paese Italia dovrebbe veicolare e proiettare sui suoi prodotti stessi. Esiste, ed è studiato in economia, il cosiddetto Country of Origin Effect, meccanismo attraverso cui i consumatori associano il prodotto al paese da cui proviene, applicando le qualità che riconoscono a quest’ultimo al prodotto stesso. Un precursore di questi studi è stato Nagashima (1970) che si concentrò in particolare sulla relazione tra l’immagine del Giappone e quella dei suoi prodotti. L’immagine Paese sarebbe per Nagashima «la rappresentazione, la reputazione, lo stereotipo che gli uomini d’affari e i consumatori associano ai prodotti di uno specifico paese». Attraverso una metodologia d’indagine che consiste nella rilevazione della frequenza con cui si associano le parole tra di loro, Aiello e Donvito (2009) sono arrivati a una configurazione di un cluster semantico intorno al concetto di made in Italy che include le parole qualità, eleganza, innovazione, tradizione, design e stile. In realtà alla parola Italia sono associate in primis delle categorie merceologiche, cioè il cibo e la moda: è su queste categorie che il discorso del paese d’origine fa più effetto, tanto che succede spessissimo che aziende straniere utilizzino nomi italiani o pseudo italiani per i loro marchi, di pasta, di caffè, di lingerie. La ricerca sociale si fonda per lo più sul focus group, e sulle associazioni di parole rilevate, tra l’altro, da studenti (un campione non del tutto rappresentativo della popolazione). Più utile è rilevare la presenza di certe parole nei testi in una forma di analisi semantica. Dal confronto tra il testo che abbiamo riportato presente nella homepage del marchio 100% Made in Italy e il rilevamento delle associazioni da parte di un 34
focus group vediamo che non c’è molta differenza. La cultura di un focus group è necessariamente risultante dell’esposizione ai testi. L’immagine del made in Italy si avvale dunque degli stereotipi su cui gli altri costruiscono le proprie aspettative, e questi altri sono spesso gli stranieri. Su questo substrato di qualità comunicate si situano i suoi prodotti. Un esempio lampante a questo proposito di coniugazione di immagine dell’Italia e immagine di marca è il padiglione italiano esposto alla fiera di Shanghai nel 2010: questo ha trasmesso un’immagine dell’Italia prima di tutto attraverso il suo contenitore architettonico, disegnato da Gianpaolo Imbrighi, che ha mostrato materialmente nuove tecniche produttive e nuovi materiali (in particolare il cemento trasparente fornito da Italcementi, fornitore ufficiale del padiglione). Ma l’immagine dell’Italia è stata costruita anche attraverso i contenuti, risultanti di una commistione tra arte e moda, design e storia. In alcune sale erano esposte opere appartenenti a tutti i periodi storici e a tutte le provincie italiane: da Canaletto al Barocco Siciliano, dai busti romani a De Chirico. Altre mostre erano ibridi storico‐
commerciali, ad esempio una mostra organizzata da Bulgari che, accanto agli ori presi in prestito al museo archeologico di Taranto, poneva i suoi pezzi storici e contemporanei, proponendosi così come ultimo anello di una catena evolutiva (puntando quindi sull’idea di tradizione e storicità). Una sala dedicata al “Making of” ha ospitato via via diverse aziende, che invece di mostrare i loro prodotti come in una vetrina, hanno allestito uno spazio di produzione: Zegna ha messo in scena una sartoria dove un maestro modellista svolgeva il suo lavoro utilizzando apparecchiature moderne; Ferragamo ha messo in piedi un calzaturificio dove un artigiano ritagliava e cuciva delle scarpe. Gli artigiani lavoravano in uno spazio separati dal pubblico tramite un recinto di plexiglas. È proprio la trasparenza dell’atto produttivo a essere esposta, e il fatto che questo sia mostrato in Cina, patria della contraffazione e delle imitazioni a basso costo, dimostra il senso di superiorità intrinseco della qualità italiana: noi sappiamo farlo e siamo stati i primi a farlo, la vostra concorrenza non ci spaventa, perché domani come oggi sapremo trovare il modo di innovarci. Trasparenza dunque, sicurezza delle proprie capacità, ma anche la supremazia dell’artigianato sulla grande industria. Questi sono i concetti che il made in Italy vuole esportare all’estero. Il discorso del Made in Italy quindi non solo fa riferimento alla qualità, alla bellezza e allo stile, ma anche a una certa etica della produzione, basata sulla piccola impresa e sulla riappropriazione del lavoro da parte dell’operaio e, pur introducendo l’innovazione tecnologica e la creatività, tende a valorizzare l’artigianalità, il legame con il territorio e la relazione con la storia. Un’implicazione del “country of origin effect” può dunque essere l’”effetto souvenir”: se comprando un prodotto italiano, si compra un pezzo di storia, il compratore non si sente un mero consumatore, ma un collezionista, un connaisseur, un viaggiatore curioso. Tra marketing del prodotto e marketing territoriale, si insinua un altro fenomeno che interessa al mercato: il turismo. 35
3.3 Il Made in Venice
Se il “made in Country” può essere considerato un metabrand che apparenta dei marchi facendo leva su caratteristiche comuni al territorio generale, il “made in Town” può mirare ad applicare a certi prodotti caratteristiche più specifiche e più tipiche del territorio locale. L’Italia è per tradizione storica un insieme di comuni, e continua a esserlo, nonostante i centocinquanta anni di vita unitaria. La stereotipizzazione agisce quindi anche in ambito cittadino: Firenze è la culla del Rinascimento, Roma la città del romance e delle rovine, Milano la patria del design e della moda. Ogni marchio italiano è fortemente territorializzato in base alla sua provenienza: i gigli di Firenze imperversano nei loghi di molti marchi toscani, la cupola di San Pietro ritorna nei loghi romani, il leone di San Marco e il ferro di prua della gondola ricorrono negli emblemi delle aziende veneziane. Per stereotipo Venezia è la città dei mercanti di stoffe e di gemme, dei palazzi sull’acqua, della nobiltà decaduta, del Carnevale. La forte connotazione del territorio ne influenza la produzione, a volte anche limitando l’innovatività delle idee e la libertà di progettazione. Come il Made in Italy è legato ai settori merceologici del tessile e del design, il Made in Venice si lega a settori merceologici particolari, quelli dei tessuti, del vetro e delle maschere. Non sono bastati i decenni di produzione industriale a Marghera né il nuovo centro scientifico e tecnologico aperto in ex area industriale: è l’artigianato locale ancora a caratterizzare l’immagine del territorio. La grande industria – come l’ENI, la Montedison o l’Alcoa che si sono installate a Marghera ‐ rappresenta il globale che si impossessa del locale e quindi fa perdere identità al territorio rendendolo simile al resto del mondo; al contrario l’artigianato è culla del know‐how locale che si diffonde al resto del mondo attraverso il fenomeno del turismo. Venezia concentra più di ogni altra città queste caratteristiche: da una parte localizza il globale con la concentrazione nel suo piccolo centro storico di tutti i megabrand e delle firme internazionali, da Mac Donald a Disney Store, dalla boutique di Gucci a quella di Louis Vuitton. Dall’altra parte globalizza il locale, essendo diventata essa stessa il modello per città‐copia come la Venezia di Las Vegas o di Macao, e avendo popolato le fantasie di massa con un immaginario fatto di maschere e di gondole al chiaro di luna. Anche i prodotti cosiddetti locali hanno iniziato a essere prodotti in altri paesi: accanto a un mercato artigianale che produce oggetti ad alto costo e ad alto indice di specializzazione, si vende comune paccottiglia che viene spacciata per locale; è il fenomeno diffuso della importazione di vetro e maschere dalla Cina o dall’Albania. Per quanto la qualità del vetro fabbricato in Cina sia inferiore a quella del vetro soffiato veneziano, nel tempo le differenze sono diminuite fino a rendere ingiustificabile una grande differenza di prezzo. Da un’inchiesta attuata per un nostro lavoro precedente (Migropolis, 2009: 664‐665), è emerso che una murrina prodotta in Cina dall’apparenza identica a una murrina veneziana può costare più di cento volte meno di quest’ultima. Inoltre il know‐how dell’artigiano straniero si sta raffinando, anche grazie alla frequentazione delle scuole di fabbricazione del vetro da parte di 36
professionisti cinesi e l’esportazione della conoscenza dei maestri muranesi, pagati per insegnare le loro tecniche. Diventa allora totalmente irrazionale per un turista comprare l’oggetto made in Venice solo per il suo marchio di provenienza quando può acquistarne uno altrettanto bello a un prezzo ridotto. Questo genera però un paradosso: se il souvenir è un oggetto che ricorda il luogo che si è visitato, questo deve avere un legame esistenziale e fisico con il posto in cui è stato comprato. L’oggetto è un frammento simbolico del luogo e del viaggio e la sua autenticità e dichiarazione di origine sono più importanti della sua sostanza stessa. Se un souvenir è prodotto in un altro posto, perde parte del suo potere rappresentativo perché perde il legame esistenziale con il luogo. Se il souvenir tipico è un oggetto piccolo e poco costoso che rimanda al luogo, è vero che ogni tipo di produzione locale, anche destinata al settore del lusso, può diventare souvenir, mirando a un settore più benestante della popolazione dei turisti. Così come ci sono differenze nel tipo di soggiorno scelto a Venezia (dormire in un albergo di lusso in Laguna o in un ostello della terraferma?) così ci sono differenze nel tipo di spesa affrontata. Sempre da un’indagine realizzata per Migropolis (pp. 532‐533), emerge che non solo la spesa per il vitto di un turista è direttamente proporzionale alla spesa per il pernottamento, ma anche la spesa di beni trasportabili di chi pernotta in città è più che doppia rispetto a quella dei cosiddetti “escursionisti”. Bisogna puntare quindi al turista che ama (e che si può permettere di) vivere a Venezia anche la notte, per vendere i prodotti veneziani di lavorazione sofisticata. Bisogna inoltre cercare di resistere allo schiacciamento dell’offerta dovuto alla sopraffazione da parte della domanda. Se i consumatori richiedono in massa prezzi bassi per prodotti scadenti, è necessaria la collaborazione da parte di imprese e istituzioni, per continuare a offrire prodotti di alto livello. È il caso del vetro di Murano, i cui produttori si sono consorziati e hanno registrato il distretto del vetro artistico, per resistere alle imitazioni e per certificare l’originalità del loro prodotto. A questo scopo nel 1985 è nato Promovetro, un consorzio atto a proteggere e valorizzare il vetro originale di Murano contro ogni forma di contraffazione. Il marchio “Vetro Artistico di Murano” certifica l’appartenenza del produttore al circuito degli artigiani muranesi. Come nel caso del Made in Italy, il marchio di garanzia d’origine veicola, oltre all’informazione sul luogo di produzione, il valore della tradizione edella storia. Ci dice che la conoscenza artigianale nel campo della produzione del vetro si è tramandata da maestro ad allievo nel corso dei secoli in un unico luogo, isolato, caratterizzato da questa produzione. Il lampadario di Murano e la maschera di cartapesta sono parte dell’immagine di Venezia, così come i tessuti. 3.4 Il settore tessile a Venezia
Aziende come Bevilacqua e Rubelli fondano la loro immagine sulla storia della famiglia fondatrice e sulla “venezianità”. Non a caso entrambe le ditte hanno nel loro logo il leone di Venezia. Rubelli ha 37
modernizzato da poco la sua immagine coordinata, legandola fortemente a Venezia forse proprio perché ha spostato la sua produzione a Como presso la Tessitura Zanchi di Cucciago. Ha mantenuto invece a Venezia il proprio quartier generale presso Palazzo Corner Spinelli, residenza rinascimentale sul Canal Grande. Intanto si è espansa con la acquisizione della società Dominque Kieffer e di Donghia e la concessione di licenze ad altre aziende come Armani Casa. La sua “venezianità” ha dovuto quindi necessariamente essere sottolineata dal logo e dalle sponsorizzazioni mirate: il “dono” dei tessuti per riarredare la Fenice dopo il distruttivo incendio del 1996 o l’arredamento delle camere del doge a Palazzo Ducale compensano lo spostamento della produzione dal Veneto alla Lombardia e l’acquisizione di marchi non veneti. Bevilacqua rappresenta nel suo stemma due leoni che si fronteggiano in un motivo simmetrico derivante da tessuti antichi. La sua “venezianità” è stata comunicata al grande pubblico grazie a un film dai toni romantico‐decadenti come “Anonimo Veneziano” (Regia di Enrico Maria Salerno, 1971). In una scena del film la protagonista femminile (Valeria, interpretata da Florinda Bolkan) si agghindava con velluti e broccati della manifattura mentre il suo ex marito (Enrico, impersonato da Tony Musante), guardandola compiaciuto, rifletteva sulla capacità degli abiti di fare allontanare dalle donne il pensiero della morte citando Proust: “Nella vita della maggior parte delle donne, tutto, anche il più grande dolore, fa capo alla messa in prova di un abito nuovo”. Valeria si copre di diversi drappi di seta color oro e arancione, verde e rosso. A un rallentamento della colonna sonora, la telecamera si sofferma su un primo piano: il personaggio smette di sorridere e osserva il proprio abito, di colore viola scuro, accarezzandolo. Poi si volta verso Enrico, seria, con il capo coperto da un velo bianco. È facile leggere una simbologia cromatica negli ultimi due capi indossati da Valeria: in un film che usa con maestria stereotipi e simbologie, i colori degli abiti ci parlano della vita e della morte. Nell’elegante gioco di cliché del film, Venezia è luogo di condensazione dei valori esistenziali fondamentali: la vita e la morte, l’amore e la separazione, la giovinezza e la decadenza, la bellezza del passato e il dolore del futuro. Il personaggio maschile ‐ veneziano doc, libertino e musicista, raffinato e scanzonato ‐ è manifestazione dei valori della sua città, e coinvolge poco a poco la ex moglie in questo vortice di gioia e dolore, trasferisce su di lei lo suo strazio delle sue opposizioni. Lei, che vive in terraferma e ha una vita stabile e poco avventurosa, cede a poco a poco alla fascinazione dell’uomo e della città; nei nostri termini, diventa anche lei manifestazione dei valori di marca della città Venezia. Il negozio di Bevilacqua è luogo che incornicia questo cedimento: è la bellezza dei tessuti a provocare il momento di agnizione della protagonista femminile, che si rende conto della fugacità della felicità e della bellezza e si ricongiunge, con uno sguardo, all’ex marito. Il tessuto prezioso è oggetto che media tra i valori della città e quelli dell’uomo, la bellezza, l’amore e la morte. L’analogia tra l’uomo e la città è esplicitata in un altro dialogo del film: “sto morendo” dice lui a lei, sul ponte del redentore alla Giudecca; “tutti stiamo morendo, anche questa città!” urla lei. Venezia proietta sui 38
suoi abitanti (che diventano personaggi di un set come quello di Anonimo veneziano) i suoi valori fondamentali. L’azienda storica veneziana si carica a sua volta di questi valori, ne incarna il lusso e la decadenza, diventa rappresentante di uno stile di vita fondato sull’eccezionalità del quotidiano e su una forma di vita estetizzante e orientata alla bellezza. Il tessuto come motivo ricorrente e caratterizzante una storia d’amore romantica e drammatica, che abbiamo visto incarnato nei tessuti che la protagonista femminile di Anonimo Veneziano indossa di fronte allo sguardo dell’uomo vicino alla morte, si ritrova in Proust, che non a caso il protagonista del film cita. I mantelli che Albertine indossa, più volte citati nei vari libri che formano la Recherche, sono di Fortuny, non di Bevilacqua. Questo passo in particolare dimostra come la scena del film sia una traduzione del libro, che di Venezia è impregnato: “In attesa che le vesti da noi scelte fossero pronte, me ne facevo a volte prestare alcune, e talora soltanto delle stoffe, che facevo indossare ad Albertine o drappeggiavo su di lei, ed ella camminava su e giù per la mia camera con la maestà di una dogaressa e di una indossatrice”. Varrebbe la pena analizzare le varie forme testuali in cui Venezia diventa un nucleo denso di significati che proietta sui personaggi e sui prodotti. Innumerevoli sono le pubblicità ambientate in questa città, così come i film che traggono il loro valore aggiunto dall’ambientazione veneziana. Forte anche di questa pubblicità che la rendeva marchio rappresentativo della Venezia lussuosa, lasciva e decadente, Bevilacqua ha continuato ad avere successo fino a oggi. L’apoteosi della comunicazione della venezianità si è avuta con la partecipazione al Padiglione Venezia dell’expo di Shanghai. L’expo non è stata soltanto una vetrina per il made in Italy che ha dovuto oggettivarsi a uno sguardo cinese, ma anche per alcune città italiane che sono state scelte come rappresentanti della Urban Best Practices Area (Ubpa): Venezia, Bologna e Milano. Bevilacqua in particolare ha allestito lo spazio del padiglione Venezia con i suoi tessuti e presentato una nuova collezione di velluti Art Déco tessuti a mano su antichi telai del Settecento. Adesso l’azienda è stata scelta con altre nove venete come rappresentante delle imprese storiche che hanno più di centocinquant’anni in occasione dell’anniversario dell’unità d’Italia. Torniamo ai loghi, e a Shanghai. Il logo di Shanghai‐Venezia 2010 contiene anch’esso il Leone ed ha analogie formali con il logo di Bevilacqua: si tratta di un leone e di un dragone rappresentati di profilo che si fronteggiano. Il colore è bianco su fondo rosso, e ricorda per questo il logo della Biennale di Venezia. Il rosso è anche il fondo della bandiera cinese ed è quindi un omaggio all’ospite. Il marchio Fortuny non ha elementi tipicamente veneziani, e utilizza il linguaggio verbale per riferirsi a Venezia (il marchio inciso sulla porta dello showroom di New York è “Mariano Fortuny – Venice”). Eppure è un marchio che rappresenta Venezia, essendo fondato, come del resto Rubelli e gli altri tessitori storici, sul felice e fecondo incontro di Venezia con le terre d’Oriente e l’Europa cosmopolita. Un’altra citazione proustiana è d’obbligo, per far capire come circolasse nella cultura dell’Ottocento un’immagine di marca fortemente improntata sulla venezianità: “Dicono che un artista di Venezia, Fortuny, abbia 39
ritrovato il segreto della loro fabbricazione e che, tra qualche anno, le dame potranno passeggiare, e soprattutto stare a casa loro, in broccati splendidi come quelli che Venezia ornava, per le sue patrizie, con i disegni dell’oriente” (Proust, All’ombra delle fanciulle in fiore). Come dice Giandomenico Romanelli, “è nell’identificazione fatta dalla cultura europea tra i prodotti di Fortuny e l’immagine di Venezia, che risiedono le ragioni e le spiegazioni più convincenti per decifrare il fenomeno Fortuny” (Romanelli, 2004, p. 99). I marchi di tessuti veneziani nascono quindi come fortemente legati a un territorio, ma sono parte di un discorso internazionale: era tipico dei marchi di lusso dell’epoca circolare tra le dame dell’alta società superando i confini nazionali. Il “glocalismo” era ben presente nelle aristocrazie già dal Settecento, con la diffusione nelle corti delle lingue straniere (in particolare il francese) e la circolazione delle merci preziose. Un marchio come quello di Fortuny ha non solo il vantaggio ma anche la responsabilità di rappresentare Venezia, e con essa non solo il valore della qualità e della raffinatezza, il rapporto con l’Oriente e la globalizzazione felice, ma anche l’invecchiamento, la caduta negli stereotipi e nel turismo di masse. Un universo di senso recepito come sull’orlo di una sparizione, rischia di cadere in un’aura di passatismo e decadenza. Per questo è così importante puntare all’innovazione e alla ricerca, sia dal punto di vista del prodotto che dell’immagine: bisogna resistere al rischio di una continua riproduzione dell’identico e a una relazione soffocante con il passato. 3.5 Il lusso prima della Moda
Abbiamo già visto come il legame con il territorio di provenienza e l’artigianalità possano essere proprietà fondamentali del bene di lusso, insieme alla sua durata, alla stabilità e alla perennità. Secondo Dubois e Laurent (1995), un prodotto per essere di lusso non solo deve avere la garanzia di un’alta qualità conferita dalle materie prime o dal processo di lavorazione e un prezzo elevato rispetto a prodotti che svolgono la stessa funzione; deve anche essere raro, contrapponendosi così alla distribuzione massificata; deve avere un rapporto privilegiato con la tradizione, con il passato e con la storia, ed essere più inutile che funzionale. Oggi come mai sta tornando in auge la fascinazione dell’oggetto unico e irripetibile, a fronte di un mercato industriale sempre più in crisi d’immagine. L’attenzione ai prodotti bio e a chilometro zero ha come parallelo sul lato “alto” della fruizione l’acquisizione sempre più diffusa di prodotti locali, storici e rigorosamente fatti a mano. È l’altra faccia della medaglia del low‐cost e delle offerte 3x2 da supermercato. Di fronte alla crescente industrializzazione e alla nascita della società dei consumi, il pensiero critico degli anni Cinquanta rilevava una distinzione fondamentale tra il fenomeno del Lusso e quello della Moda. Il lusso è il passato: era la sartoria destinata alle élites, che superava le barriere regionali e nazionali e vestiva le signore “alla francese”, e i signori “all’inglese” (Gramsci, 1975, vol. I); dopo lo sviluppo industriale, non 40
ci fu più lusso ma moda, sempre a dire di Antonio Gramsci. Nel frattempo Coco Chanel bandiva il lusso antiquato, e invitava le signore a vestirsi “come cameriere” e a praticare l’arte dell’anonimato (Colaiacomo, 2006: 22). Secondo queste premesse, quindi, parlare di “industria del lusso” è una contraddizione in termini. Non esiste lusso che sia industriale, il lusso è confinato al di fuori dell’industria, nei mestieri, nell’artigianato e nel controllo della produzione da parte di un’unica personalità. Nell’abbigliamento, il passaggio dal lusso alla moda è segnalato dall’introduzione delle taglie al posto del “fatto su misura”. C’è quindi, secondo questo approccio, una relazione molto stretta da una parte tra lusso e artigianato, dall’altra tra moda e industria. Il lusso avrebbe una relazione con il potere e con il privilegio; la moda con la standardizzazione del pezzo unico, la democratizzazione e il consumo di massa. I grandi marchi del lusso, colossi multinazionali e basati su una produzione industriale, vogliono a tutti i costi continuare a forgiarsi di questo nome, anche se, per ragioni di mercato, hanno abbassato i propri standard qualitativi e hanno mirato anche ai settori più popolari della società con la creazione di linee più accessibili di prodotti. Il mercato del lusso basa i propri introiti su questo tipo di strategia. Esistono quindi diversi tipi di lusso. Danielle Allérès (1990) ha proposto una tipologia che distingue il lusso inaccessibile dal lusso accessibile: il primo sarebbe caratterizzato dalla creazione di modelli esclusivi, fatti a mano in unità singole e irripetibili. È il mondo della Haute Couture, del “su misura”, che si rivolge a un’élite economica, sociale e culturale. Il lusso diventa accessibile quando i modelli vengono riprodotti e diffusi su scala più larga. Il fenomeno del trickle down funziona così: il modello unico diventa pret‐à‐porter e le classi sociali agiscono per mimetismo delle classi più abbienti. È interessante notare che il 98% del business del lusso corrisponde al lusso accessibile. Il lusso emergente, o accessibile, rende l’oggetto del desiderio, considerato prima eccezionale, potenzialmente introducibile nel proprio quotidiano. Si tratta del fenomeno del “Trading up” del consumatore di fascia intermedia. Il fenomeno del trading up motiva, in parallelo, il ritorno al “su misura” per il lusso “vero” che vuole distinguersi da questi fenomeni sociali di appropriazione di settori inizialmente destinati alle classi più abbienti. Jean‐Noel Kapferer (2008) non distingue tra lusso accessibile e lusso inaccessibile: piuttosto individua due modelli fondati su ragioni geografiche‐culturali. Le marche europee come Dior, Chanel e Givenchy sono radicate in una tradizione legata alla figura di un artigiano, e pongono l’enfasi sul prodotto e sulla sua qualità come elementi di distinzione dalle altre marche. Le marche americane come Ralph Lauren, Calvin Klein, DKNY si concentrano invece sulla creazione di un’atmosfera relativa alla loro comunicazione e ai punti di distribuzione. Esistono quindi due modelli: uno basato sulla storia (la history) della marca e sul prodotto; l’altro sul racconto (la story) della marca e sulla sua distribuzione (Kapferer, 2008: 97). Il primo modello, che per semplificare chiameremo d’ora in poi “modello europeo”, può essere visualizzato in una piramide che ha al suo vertice la griffe – la firma del creatore incisa su un’opera unica, il che spiega perché quello che fa più paura a questo tipo di marca sono le copie e le contraffazioni. Al 41
secondo livello, questo modello di marca produce pochi esemplari in un piccolo laboratorio, basato sulla manifattura, che è sinonimo del “fatto bene”. Il terzo livello è quello della produzione di massa di prestigio realizzata attraverso l’estensione di marca o di linea (ad esempio la linea di cosmetici di YSL). Kapferer la chiama “mass prestige” e attribuisce a questo livello il massimo del ricavo di una grande marca. Il secondo modello, il “modello americano” invece costruisce il suo successo su una storia, messa in scena nei luoghi di distribuzione del marchio e mira a produrre un immaginario. C’è un legame con il Country of Origin effect di cui abbiamo parlato precedentemente: essendo gli Stati Uniti un paese giovane, formato interamente da immigrati, esso rappresenta la libertà e il sogno, e riesce a trasmettere questi valori attraverso i suoi brand, non legati a un passato “nobiliare” come quelli europei. Quando la Cina trasmetterà valori positivi di innovazione e di ricerca, probabilmente leggere “Made in PRC” sui nostri capi non sarà più motivo di vergogna. All’interno del “modello europeo” esistono a nostro avviso diversi tipi di marchi: quelli che investono tutti e tre i livelli della piramide e quelli che restano solo al vertice della piramide. Incrociando dunque le due teorie di Kapferer e Allères, c’è un lusso reso accessibile all’interno del modello europeo, e un lusso che invece resta inaccessibile. Come visto precedentemente, i marchi storici che hanno investito nell’immaginario “all’americana” negli anni ottanta, stanno oggi tornando a un tipo di comunicazione che valorizza il prodotto e la manifattura. Il lusso è caratterizzato dal fattore tempo e dal fattore “patrimonio culturale”: c’è un legame molto forte quindi con la storia e con la cultura dell’area in cui un marchio si impone. Il museo d’azienda e la cultura d’impresa quindi mettono in mostra i propri archivi e i propri prodotti storici per parlare di sé, ma soprattutto per costruire intorno a un marchio un pedigree che fonda la sua credibilità sulla storia. Più il tempo passa, più la marca si ammanta di valore. Il tempo lavora nel lusso come una patina, è una sedimentazione che non diventa mai démodé. 3.6 Beni di lusso e consumi culturali
Se la storia e il legame con la tradizione sono caratteristiche fondamentali del bene di lusso, abbiamo anche citato, all’inizio di questo paragrafo il valore della rarità e della difficile reperibilità. Il mercato del lusso si differenzia infatti dal mercato generico per alcuni “paradossi” (Dubois, 2003; Tartaglia e Marinozzi, 2006): prima di tutto i suoi prodotti non sono soggetti alla logica della domanda e dell’offerta: per la maggior parte dei beni tradizionali la variazione del prezzo corrisponde a una variazione nella quantità del bene domandato, nel senso che a un abbassamento del prezzo corrisponde un aumento della domanda; per i prodotti di lusso invece la domanda è rigida: qualunque sia il prezzo, la quantità domandata non cambia. Può anzi verificarsi il fenomeno opposto: se il prezzo diminuisce, può esserci una disaffezione da parte del pubblico, che comincia a percepire il bene di lusso come un bene qualsiasi e quindi perde interesse. Si 42
tratta del cosiddetto “effetto snob” che riguarda i beni di status: la domanda del consumatore per un determinato bene cala per il fatto che quello stesso bene viene acquistato da altri consumatori. Alla diminuzione del prezzo non corrisponde un aumento dei consumatori perché i nuovi consumatori hanno sostituito i vecchi, che di fronte alla democratizzazione dei consumi indietreggiano. A questo si aggiunge l’effetto Veblen, secondo cui il consumatore considera il prezzo alto come una garanzia di esclusività del prodotto: paradossalmente quindi, a un aumento del prezzo, aumentano i consumatori, convinti che quel bene aumenti il loro prestigio, che sia garanzia di qualità e di unicità (su effetto snob ed effetto Veblen cfr Leibenstein 1950). Del resto Veblen è il teorico che ha inventato la regola del “consumo vistoso” secondo cui l’abito è il primo indicatore della propria posizione finanziaria, e quind molto bisogna investire in questo campo per dimostrare la propria rendita. Il consumo d’arte segue le stesse leggi del bene di lusso: non solo l’acquisizione di opere d’arte, ma anche la frequentazione di musei e gallerie, è caratterizzata da una certa rigidità della domanda rispetto al prezzo. Per quanto riguarda sia l’offerta culturale che il bene di lusso, tra l’altro, è l’offerta a creare la domanda e non viceversa. Il prodotto sembra più un’emanazione del maestro e della sua creatività che una risposta alle attese del mercato. Almeno, così dovrebbe essere. Nella maggior parte dei casi infatti anche il mercato dell’arte si basa sulla domanda dei consumatori (ad esempio la pittura ha molti più utenti delle altre forme artistiche, perché si presta a un uso domestico) e inoltre molti artisti hanno continuato a riproporre un proprio stile, se non proprio gli stessi soggetti, perché entrati in un’ottica del brand per cui era la riconoscibilità dei propri stilemi a farli vendere, più che la ricerca e l’innovazione. Lo stesso problema si pone per alcune mostre, come quelle di Linea d’ombra, che rispondono ai gusti del pubblico, interessato al momento più dall’impressionismo e dall’espressionismo nordico che alle sperimentazioni contemporanee. Anche nel caso del consumo culturale esiste quindi una distinzione analoga a quella esistente tra lusso e moda: se le élites culturali frequentano gallerie che espongono artisti di difficile comprensione, o semplicemente ancora poco conosciuti, la gran parte dei consumatori ha appena imparato ad accettare quello che era considerato scandaloso alla fine dell’ottocento. Questo provoca un distacco da parte delle suddette élites, che hanno ormai difficoltà a provare piacere estetico di fronte all’impressionismo o a Munch e scelgono di visitare un altro tipo di mostre. Le élites cercano l’artista sconosciuto e vogliono scovarlo, avere l’impressione della scoperta. Nel mercato del lusso, vige il paradosso della distribuzione: un’eccessiva diffusione nuoce all’immagine dei prodotti e dei servizi di lusso; se un marchio è troppo diffuso e conosciuto, perde valore. Se i suoi beni si possono acquistare in troppi punti vendita, si perde il gusto della conquista e della conoscenza personale. La rarità e la scarsezza sono valori. Allo stesso modo, funziona il paradosso della comunicazione: troppa pubblicità nuoce; la ridondanza e la pervasività del marchio sfiniscono il consumatore raffinato che preferisce scovare al di fuori dei riflettori e delle vie più battute i propri oggetti. “Anche a causa della proliferazione delle 43
marche e dal bombardamento della comunicazione su diversi media, la scelta ricade su un tipo di marketing minimalista”. In futuro “una marca di prestigio dovrà prendere le vie della discrezione, potrà comunicare soltanto su richiesta dei suoi target, dovrà parlare a voce bassa, usare un discorso e strumenti di comunicazione non invasivi, prendere a prestito temi e argomenti pertinenti e moderati. È ampiamente possibile che la capacità di trovare un equilibrio fra spinta naturale alla logorrea comunicazionale e necessario ritegno, tanto tecnico che di contenuti, sia una posta in gioco di primaria importanza per quanto riguarda la legittimità delle marche in un contesto sociale generale caratterizzato da un inquinamento mediale accresciuto. Soltanto le marche in grado di capire e praticare questo understatement comunicativo potranno trarne i dividendi in termini di prestigio e legittimità” (Semprini, 2006: 30). Meno si comunica e più ci si distingue. Difficile però restare fedeli a questa volontà di ritrarsi e di mantenere il silenzio e la discrezione: Hermès aveva resistito fino all’anno scorso alla tentazione di espandere i propri spazi di vendita parigini, e aveva mantenuto la sua piccola boutique in rue Faubourg Saint‐Honoré, limitando la distribuzione parigina a questo discreto negozio. Era una politica dell’immagine scelta anche in contrasto alla frenesia pubblicitaria delle aziende raccolte sotto la Lvmh di Bernard Arnault, di cui Hermès ha sempre rifiutato le mire espansionistiche. Le strategie sono però cambiate e, alla fine del 2010, ha aperto uno scenografico concept store in rue de Sèvres, nei luoghi che prima erano adibiti a piscina dell’Hotel Lutétia. Un marchio che ha scelto la riservatezza, la scarsa visibilità e la rarefazione dell’offerta è sicuramente Comme des Garçons, il cui negozio parigino è un luogo di difficile accesso. Si trova anch’esso in Faubourg Saint‐Honoré, a due passi dall’Eliseo, ma al numero civico che corrisponde al suo indirizzo non c’è un’entrata. Bisogna invece entrare in un cortile, e da questo cortile accedere a un altro ancora. Un lato di questo secondo cortile è caratterizzato da un muro di plexiglass rosso: se ci si avvicina, questa si apre automaticamente con un meccanismo scorrevole. Possiamo a questo punto finalmente entrare nel negozio di Comme des Garçons. Le forme d’accesso sono antitetiche alle tradizionali vetrine, che espongono lo spazio interno all’avventore che si trova all’esterno del negozio, con un invito esplicito a entrare. La presenza di spazi liminali che allontanano dalla porta di accesso e di ostacoli veri e propri, come la porta opaca rossa, manifesta una presa di distanza nei confronti del visitatore, che deve essere davvero motivato per entrare nello spazio espositivo. La gestione dello spazio è simile a quella della famosa galleria parigina Marian Goodman, anch’essa ritirata rispetto all’ingresso su strada, con un’entrata all’interno di una seconda corte; in più la parte più ampia della galleria adibita all’esposizione si trova in un piano sotterraneo; a differenza della boutique giapponese, però, si entra in galleria attraverso una porta a vetri. Ecco dunque un caso in cui la rarità e la difficoltà di accesso al bene viene manifestata attraverso una gestione dello spazio che declina in vari modi le forme del distanziamento. L’architettura del punto vendita parigino risponde ai valori profondi della marca, come la riservatezza e il minimalismo, espresse 44
anche dalla quasi assenza di comunicazione nei media tradizionali. Si predilige il passaparola in una forma al limite della cospirazione. Comme des Garçons non si basa infatti solo su punti vendita introvabili e di difficile accesso, ma anche sui guerrilla stores, negozi temporanei la cui apertura è pubblicizzata attraverso modalità virali in rete. Ultimamente ha ideato, sempre a Parigi, la formula dei Pocket Store, forme di Corner Shop che vendono una linea (Play) più accessibile. Anche un marchio di lusso estremo come Comme des Garçons sta quindi infine adottando forme di democratizzazione del marchio, creando la sua linea di prodotti di fascia più accessibile e diffondendo i suoi punti vendita. Non dimentichiamo che Hermès, prima di aprire il suo concept store in centro a Parigi, ha inventato una linea di prodotti più accessibile, dal nome, neanche a dirlo, di “Maison de Luxe”. Restare completamente isolati in una torre d’avorio inaccessibile non conviene più a nessun marchio di lusso, neanche a quello più snob. 45
Parte II - Caso Studio: Tessuti Artistici Fortuny SPA
Il principio base del posizionamento di una marca sul mercato è che l’identità si costruisce nella differenza. La marca deve assumere una posizione rispetto ai suoi concorrenti, e quindi affermare le sue proprietà negando quelle degli altri: è il principio differenziale della costruzione dell’identità. Il primo problema è quindi capire chi sia il destinatario ideale dei propri prodotti – chi è l’altro che può sceglierci; il secondo problema è capire chi siano i nostri concorrenti – chi è l’altro che può essere scelto in nostra vece. La Tessuti Artistici SPA sta cercando di superare due categorie di problemi principalmente, una ha a che fare con la costruzione dell’offerta; l’altra con l’emergere della concorrenza. L’offerta di Fortuny è tradizionalmente monoprodotto e necessita di diversificazione; lamenta una certa ripetitività nella produzione e una mancanza d’innovazione dovuta a un pedigree tanto nobile e affascinante quanto limitante nella creazione di nuovi items; il suo target è fatto di intermediatori, gli arredatori, che danno un’impronta personale e non controllabile al design finale del prodotto Fortuny. Intanto afferma la sua presenza sul mercato un’altra marca che firma con il nome Fortuny ed è legalmente riconosciuta, la Venetia Studium (il cui marchio registrato è Fortuny SAS). Considerando allora il possibile posizionamento sul mercato di Fortuny, dobbiamo scegliere due ordini di concorrenti: da una parte le aziende che appartengono allo stesso settore merceologico, cioè quelle che si occupano della produzione e del commercio dei tessuti. Dall’altro, le aziende che condividono parte dei valori profondi specifici della marca Fortuny, ma scelgono un diverso sistema di manifestazioni. Il “racconto” di marca di Venetia Studium è fondato sulla stessa mitologia, quella che fa capo a Mariano Fortuny, alla sua eclettica cultura e produzione alla sua figura di artista inventore, condensabile nell’idea del genio rinascimentale. Le manifestazioni della marca sono espressione di questa narrazione ma anche di un altro tipo di valorizzazione che tende alla diffusione e all’accessibilità dei prodotti: Venetia Studium si differenzia fortemente da Fortuny per la tipologia di prodotti proposta, il modo di esporli nei punti vendita, la distribuzione sul territorio dei punti vendita, la comunicazione, il target, le politiche di prezzo attuate. Dalle visure storiche delle due aziende depositate presso la Camera di Commercio di Venezia, risulta che entrambe svolgono produzione artigianale di prodotti d’arredo e d’illuminazione, ed entrambe detengono il marchio “Fortuny”. Fino al 2007 il nome dell’azienda che si cela dietro l’insegna dei negozi “Venetia Studium” era Delphos SAS, e la sua ragione sociale prevedeva la “produzione artigianale di manufatti in seta o altri tessuti plissettati e non, della confezione di articoli d’arredo e di illuminazione in materiali vari. La società, inoltre potrà eseguire lavorazioni sartoriali per la produzione di articoli artigianali di abbigliamento e relativi accessori”. In seguito la denominazione assunta è stata quella di Fortuny. il marchio però è stato abbandonato per una causa intentata dal museo Fortuny, detentore unico del marchio 46
storico, quello con la U appuntita come nella tradizione epigrafica. L’oggetto sociale di Fortuny SPA è invece “la produzione in genere di tessuti stampati nonché la stampa meccanica e fotografica di carta da parati; la produzione di prodotti e apparecchi per l’illuminazione”. Entrambe le aziende possono svolgere commercio sia al minuto che all’ingrosso. Le due aziende sembrano occupare quindi due settori diversi delle molteplici attività svolte da Mariano Fortuny: la prima produce i tessuti plissettati, quelli che hanno dato origine al famoso abito Delphos e agli scialli Knossos, e utilizza le pieghe anche per nuove produzioni, cioè accessori come sciarpe e borsette; la seconda ha invece l’esclusiva per la stampa dei tessuti e della carta da parati. Resta la sovrapposizione sui prodotti per l’illuminazione, su cui la legislazione non è chiara. La loro uguale denominazione e la chiamata in causa della stessa narrazione mitica (la vita e le opere di Mariano Fortuny) genera un problema di confusione identitaria, per cui le azioni e i comportamenti di una azienda finiscono per condizionare e modificare la percezione dell’altra. Questo può avere effetti positivi in termini quantitativi: se basassimo la nostra ricerca sulla rilevazione nei focus group di una brand awareness (vedi par. 1.2), riscontreremmo sicuramente un numero di reazioni al nome Fortuny piuttosto alto. Il problema è capire a cosa si associa il nome Fortuny, a quale tipologia di prodotto e a quale istituzione; la conoscenza diffusa del marchio Fortuny ha le forme di un’idea vaga e imprecisa, che ha poco a che fare con i prodotti dell’azienda della Giudecca. Per la maggior parte dei veneziani la fabbrica è chiusa, e l’unica attività legata al nome Fortuny è il museo. Tra i due marchi legati al nome Fortuny, Venetia Studium gode sicuramente di una popolarità maggiore, dovuta alla centralità dei suoi negozi e alle buone strategie di comunicazione effettuate dall’azienda. L’esistenza del Museo Fortuny è sicuramente responsabile della diffusa conoscenza del marchio. Come interagiscono allora questi tre soggetti che detengono lo stesso nome? Il comportamento di ogni soggetto influenza la costruzione dell’immagine complessiva, che assume connotazioni diverse a seconda delle modalità estetiche scelte e delle strategie seguite dalle tre istituzioni. Bisogna allora scegliere se collaborare e creare sinergie oppure differenziarsi in modo evidente e significativo. Le scelte di marketing già fatte dalle due aziende mostrano che la sinergia è molto difficile: si tratterebbe di realizzare una filiera per cui Fortuny fornisce il materiale semilavorato, e Venetia Studium si occupa di realizzare il prodotto finito. Le due marche si pongono però su settori di mercato troppo diversi, per quanto il punto di partenza sia la stessa narrazione. La sinergia con il museo potrebbe essere ambita invece da entrambe le aziende, perché fornisce una legittimazione culturale e artistica al marchio. Il rapporto tra Venetia Studium e Fortuny non è dunque di semplice concorrenza, dato che c’è concorrenza se c’è omogeneità di prodotto, mentre nel nostro caso le due aziende coprono settori merceologici diversi; la concorrenza è più che altro sull’immagine venduta, sul marchio stesso. Non si tratta in questo caso di “concorrenza sleale” visto che per questa si intende una situazione in cui “si usano marchi e contrassegni 47
che possono generare confusione tra il proprio prodotto e un prodotto già affermato e largamente diffuso” (definizione dizionario Garzanti). La scarsa diffusione del prodotto Fortuny all’epoca della registrazione del marchio da parte di Lino Lando (1989) e l’inesistenza di soggetti che prima di lui avessero intrapreso la produzione delle lampade disegnate da Mariano Fortuny, pone Venetia Studium all’interno dei confini della legalità e la rende estranea a qualunque vizio di slealtà. La situazione comincia a complicarsi oggi che Fortuny sta cambiando le proprie politiche di vendita, ampliando la gamma di prodotti venduti e aprendo uno showroom dentro la fabbrica. Leggeremo adesso i termini della contesa tra le due aziende. Inizieremo con il raccontare brevemente quale sia il loro universo condiviso, ma poi rileveremo le loro differenze attraverso l’analisi del loro marketing mix. 4
Fortuny: storia e mito dietro la costruzione dei marchi
4.1 L’artista artigiano
La narrazione condivisa dai due marchi si basa sulla storia e sul genio di Mariano Fortuny y Madrazo, inventore e artista che visse a cavallo tra il XIX e il XX secolo. Nato a Granada nel 1861, cresciuto tra Roma e Parigi, si installò a Venezia e fissò il suo laboratorio e la sua dimora a Palazzo Pesaro degli Orfei in campo San Beneto. Viaggiava però continuamente tra le grandi capitali europee e accoglieva a casa sua personaggi di diversa provenienza appartenenti alla intellighenzia dell’epoca. Mariano era figlio e nipote di artisti: suo padre Mariano Fortuny y Marsal (1838‐1874) era un pittore che riscuoteva molto successo in ambito internazionale, e passava la vita viaggiando tra Spagna, Francia e Italia; da parte di madre, invece, vantava una discendenza da pittori di corte e architetti: suo nonno Federico de Madrazo (1815‐ 1894) era stato pittore di corte presso la regina Isabella II e direttore del museo del Prado, e il suo bisnonno José de Madrazo (1781–1859) aveva introdotto il neoclassicismo in Spagna. Il padre di Mariano era anche un attento e appassionato collezionista, in particolare di armi e armature antiche, di tessuti orientali e rinascimentali, di tappeti persiani. Morì però a soli trentasei anni, lasciando al figlio orfano il doveroso desiderio di continuarne le attività. Così Mariano iniziò ben presto ad arricchire la collezione di tessuti e tappeti, e intraprese anche lui la carriera di pittore. Il suo approccio alla pittura fu decisamente tradizionale: per imparare le tecniche, Fortuny copiava i quadri dei grandi maestri del passato come Tiepolo, Tiziano, Tintoretto, Rubens e Velasquez. La sua permanenza a Venezia lo mise in contatto soprattutto con le tele e gli affreschi custoditi nelle chiese e nei musei della città; in più frequentò lezioni serali all’Accademia di Belle Arti per perfezionare la tecnica già insegnatagli dai suoi parenti. Il suo stile non era certo avanguardistico, ma piuttosto 48
improntato a una concezione mimetica della pittura. I suoi quadri sono figurativi e rimandano, per i temi trattati e per il trattamento del rapporto tra luce e tenebre, al simbolismo e in particolare a Odillon Redon, Arnold Böcklin ed Edward Burne‐Jones. Fortuny vinse molti premi e partecipò a numerose biennali, ma guardando i suoi quadri oggi, essi appaiono interessanti soprattutto come premessa all’arte in cui si mostrò maestro, quella della tintura e della stampa dei tessuti. Non solo infatti la sua abilità nel mischiare i colori preannunciava la commistione e la sovrapposizione dei pigmenti nei suoi tessuti; ma anche il modo in cui dipingeva dimostrava un approccio tecnologico e inventivo che avrebbe caratterizzato anche tutte le altre discipline in cui si sarebbe cimentato. Infatti, Fortuny fabbricava lui stesso i colori e le tele, e rifuggiva da una concezione idealistica dell’arte per cui l’artista era semplicemente colui che aveva un’idea e la realizzava acquistando i mezzi già pronti all’uso: l’artista era anche artigiano e tecnico. Questo era un approccio che riprendeva un certo tipo di visione tecnologica e artigianale dell’arte che si respirava nell’Europa dell’epoca. A Londra in quegli anni si stava affermando l’Arts and Crafts Movement fondato da artisti come William Morris, Walter Crane, Charles Mackintosh. Questo movimento, molto influente all’epoca e legato politicamente al Socialismo, proponeva il rifiuto delle gerarchie nelle arti, per cui l’artigianato, il design e l’arte godevano della stessa dignità, così come i loro produttori. Inoltre ad essere valorizzata non era solo l’opera finale, ma tutto il processo che ne aveva accompagnato la realizzazione, dal progetto all’esecuzione. Il movimento era (inzialmente) fortemente anti‐industriale e sosteneva che l’uomo doveva riappropriarsi delle tecniche di fabbricazione manuale dell’oggetto, senza utilizzare le macchine, e controllare personalmente il proprio lavoro; la produzione era individuale o svolta da piccoli gruppi, tra cui non doveva esserci divisione del lavoro, ma coordinamento compartecipato nella realizzazione del prodotto, come succedeva nel medioevo nelle corporazioni di arti e mestieri (arts and crafts, per l’appunto). Furono recuperate vecchie tecniche e aperti laboratori in zone rurali dell’Inghilterra; i motivi stampati su carte e stoffe attingevano alle tradizioni della campagna inglese. Per William Morris, valutare la qualità di un oggetto significava avere coscienza dei suoi materiali grezzi e delle sue modalità di produzione, la forma doveva seguire le indicazioni della materia che si intendeva manipolare. Questo atteggiamento di opposizione alla produzione industriale e la tendenza a rifugiarsi in un passato rurale e corporativo ha chiari contraccolpi antimodernisti, e questo non era l’effetto voluto dal Movimento che si riteneva progressista nelle idee sociali e politiche. Per questo, Morris in un secondo momento della sua vita fu più accomodante nei confronti dell’utilizzo delle macchine, comprendendo che, se la macchina è sotto il vigile controllo umano, e riesce a ottenere risultati analoghi alla produzione manuale, allora può essere utilizzata come qualsiasi altro attrezzo, e anzi è opportuno usarla, perché riduce i tempi del lavoro, e permette all’artigiano di avere più tempo libero. La macchina non deve schiavizzare ma rendere liberi: 49
il suo utilizzo è criticabile solo se è finalizzato all’accelerazione e all’aumento della produzione, con conseguente alienazione dell’operaio, che perde il legame con il proprio lavoro e il proprio prodotto. William Morris era una figura a tutto tondo e fabbricava manualmente i suoi strumenti di lavoro: preparava i pigmenti per i suoi dipinti, realizzava la tela e i tessuti, cuciva i suoi libri e addirittura fabbricava l’inchiostro con cui venivano stampati, le lastre per l’incisione e persino lo stampo tipografico. Al contrario di William Morris, Mariano Fortuny non aveva interesse per il socialismo e non si preoccupava del ruolo che le macchine avevano nella produzione di massa. Condivideva però la valorizzazione della tecnica al pari dell’arte, e la necessità del pieno controllo di tutti gli stadi della produzione. Se l’Arts and Crafts Movement riprendeva i motivi decorativi dalla tradizione rurale inglese, medievale, romantica a o popolare, lui li prelevava dal Rinascimento italiano e nell’Oriente con cui le città‐stato italiane avevano avuto, nel loro passato glorioso, rapporti commerciali e culturali. L’eclettismo di Fortuny ha radici anche nella profonda ammirazione che Fortuny aveva per Richard Wagner, sui cui testi lavorò per tutta la vita. Le leggende da cui Wagner traeva spunto per le sue opere erano le stesse che Fortuny rappresentava nei suoi dipinti. Inoltre Fortuny conosceva bene e ammirava le teorie di Wagner sull’arte e sul teatro, che furono alla base del suo approccio idealistico e interdisciplinare alle arti. Le sue idee sulla ricerca di un’opera d’arte totale e la visione dell’opera come luogo dell’integrazione di tutte le discipline davano uguale importanza a poesia, pittura, musica, danza, architettura e teatro. A differenza dell’opera lirica italiana del tempo, l’opera wagneriana non dava centralità al “bel canto”, ma metteva sullo stesso livello la poesia e la musica, la scenografia, il disegno dei costumi e l’illuminotecnica, necessaria a creare la giusta relazione tra luce e tenebre centrale per la narrazione wagneriana. 4.2 L’artista, le luci e il teatro
Quando Fortuny assistette per la prima volta alla messa in scena delle opere di Wagner a Bayreuth nel 1892, rimase deluso dal trattamento degli scenari e dell’illuminazione: trovava infatti che la messa in scena, caratterizzata da fondali dipinti illuminati con la luce a gas, fosse in aperta contraddizione con lo spirito del Gesamtkunstwerk propagato da Wagner. In questo, Fortuny si trovava in accordo con Adolphe Appia, che aveva già notato come le teorie di Wagner fossero disattese dai risultati sulla scena. Secondo Appia, “la luce ha, in termini di rappresentazione, la stessa funzione che la musica ha come colonna sonora: è l’elemento espressivo che si oppone al visibile; e proprio come la musica, non può esprimere niente che non sia parte integrante degli elementi essenziali della visione” (Appia, 1962: 55). Per Appia, l’unico modo per rendere il sistema d’illuminazione elemento espressivo di pari 50
importanza alla musica, era l’utilizzo della luce elettrica, sistema più flessibile e manovrabile. Quando ne propose l’applicazione alle opere di Wagner, fu considerato un sacrilego da Cosima Wagner, che gestiva l’eredità materiale e ideale del marito, che chiuse le porte di Bayreuth ad Appia. Sia Appia che Fortuny erano invece convinti che Wagner se fosse stato vivo avrebbe salutato con entusiasmo l’innovazione tecnologica. Nell’opuscolo che Fortuny aveva scritto nel 1904 per presentare l’invenzione del suo nuovo sistema d’illuminazione (Eclairage Scénique: Système Fortuny), sosteneva con convinzione questa rivoluzione tecnologica e ne spiegava le ragioni: la luce elettrica è uno strumento molto più flessibile della luce a gas prima di tutto perché è bianca, e quindi ha un colore di base neutro che permette di sovrapporgli tutta la gamma di colori, mentre la luce a gas è gialla; in secondo luogo è mobile e può quindi essere spostata rispetto alla scena; e infine la sua intensità è variabile e quindi può scemare o intensificarsi a seconda delle volontà registiche. Sul presupposto di queste convinzioni, cominciò quindi, nel chiuso del suo studio, a sperimentare nuove tecniche d’illuminazione. La sua scoperta più clamorosa fu quella della luce riflessa: se prima la luce era puntuale e diretta, adesso la luce poteva essere rivolta verso uno sfondo riflettente che la diffondeva rendendola omogenea e più simile alla luce naturale. Inoltre, cambiando il colore dello sfondo, si poteva cambiare anche il colore dell’atmosfera. L’utilizzo della luce riflessa nel teatro permetteva quindi un’imitazione più naturalistica dei fenomeni atmosferici e una gamma di scelta molto più ampia riguardo a colori e intensità della scena. Questi esperimenti sulla luce riflessa portarono Fortuny alla sua più grande invenzione tecnologica: la Cupola Fortuny, detta anche Ciclorama. È un quarto di globo che doveva posizionarsi sullo sfondo della scena e farne scena e schermo nello stesso tempo. La cupola sfruttava tutte le possibilità della luce elettrica, proiettata su piccoli specchi dipinti che rappresentavano diversi tipo di cielo (nuvoloso, limpido, al tramonto) in modo che la scena poteva cambiare a piacimento senza bisogno di spostare i fondali. Fortuny inventa dunque uno strumento di doppia riflessione e lo riassume in questo modo: “Per fare una sintesi, il mio sistema si compone di tre parti: un sistema d’illuminazione per mezzo della riflessione; un sistema di decorazione della scena per mezzo della riflessione, permesso dall’uso di una superficie concava per creare cieli e vedute a distanza; infine, cosa più importante, una riforma completa dell’elemento visivo nel teatro, tale che si può dire che per la prima volta la scena teatrale riuscirà a trasformarsi in accordo con la musica, secondo il dominio di quest’ultima, cioè a dire nel tempo, mentre fino a ora era riuscita a svilupparsi soltanto nello spazio. Quest’ultima possibilità è di suprema importanza per la messa in scena dei lavori di Richard Wagner” (Fortuny, 1904: 13; trad. nostra). 51
Fare della luce arte del tempo piuttosto che dello spazio suona come un’interessante anticipazione delle tecniche cinematografiche e soprattutto delle proiezioni di immagini in movimento nelle scene di teatro. L’utilizzo della videoarte nel teatro è dunque l’ultima tappa di questa evoluzione partita dai fondali riflessi, ed è del tutto coerente con gli sviluppi proposti da Fortuny. Nonostante le sue ferme convinzioni riguardo alla superiorità della luce elettrica rispetto a quella a gas, Fortuny non riuscì subito a mettere in atto i suoi progetti, perché il mercato non era ancora pronto. Quando gli venne richiesto di preparare le scene per il Tristano e Isotta di Wagner alla Scala di Milano nel 1901, fu entusiasta di poter finalmente mettere il pratica le proprie idee, proprio su una delle opere che conosceva meglio e amava di più. Ma le sue aspettative furono deluse dalle forti restrizioni imposte dal teatro milanese, ancora non pronto per accogliere un sistema di illuminazione nuovo e rivoluzionario. Fortuny dovette accontentarsi di dipingere le scene e usare al meglio l’apparato illuminotecnico parecchio antiquato del teatro, ovviamente a gas. Sempre nello stesso anno, Gabriele D’Annunzio lo coinvolse nella preparazione di scene e costumi per la Francesca da Rimini: fu la prima situazione in cui Fortuny dovette cimentarsi con il design dei vestiti, che implicava in questo caso una profonda ricerca e conoscenza delle abitudini vestimentiarie e dei tessuti medievali. Con la collezione di tessuti ereditata dal padre e da lui stesso ampliata, e con la competenza in materia che aveva, il compito non fu difficile. Lo fu però la relazione con D’Annunzio che da una parte pretendeva troppo lavoro da parte sua, dall’altra (probabilmente) non ne riconosceva abbastanza il valore. Tanto che Fortuny si ritirò dal lavoro proposto prima che fosse messo in scena. Non i suoi costumi furono però ritirati: essi andarono in scena lo stesso, segnando l’inizio delle attività di stilista e costumista di Fortuny, come vedremo nel prossimo paragrafo. Se i teatri pubblici avevano avuto difficoltà ad accettare il nuovo sistema di illuminazione di Fortuny e gli avevano imposto numerose restrizioni, fu dal settore privato che arrivò la prima richiesta di installazione della cupola: dopo aver ospitato nel suo teatro tre opere dirette da Adolphe Appia in collaborazione con Fortuny, la Contessa Martine de Béarn chiese a quest’ultimo di occuparsi dei lavori di restauro del teatro facente parte del suo hotel particulier a Parigi: Fortuny realizzò il sipario con un velluto stampato e vi installò la cupola. Nel 1906 il rinnovato teatro della contessa venne inaugurato con un balletto di Widor. È l’inizio del successo per la Cupola di Fortuny, che, dopo anni di ostilità da parte delle istituzioni, comincia ad avere successo e ad essere richiesta da numerosi teatri, privati e pubblici. Per gestire al meglio il perfezionamento della tecnica e la sua commercializzazione, Fortuny si mette d’accordo con la ditta tedesca AEG. L’invenzione si diffonde soprattutto nei teatri tedeschi e francesi e Fortuny mette a punto anche una versione flessibile e ripiegabile (con struttura a fisarmonica) della sua cupola, permettendone così il trasporto. Con il perfezionamento della tecnica, non solo teatri 52
ma anche musei e chiese chiedono a Fortuny di curarne l’illuminazione, dato che la luce riflessa è ideale per garantire omogeneità di visione anche in presenza di vetri o superfici lucide. Nascono in questo modo lampade più piccole, utilizzabili anche in ambienti privati, eleganti e moderne. Ne è un esempio la lampada Fortuny, ancora utilizzata e venduta da Pallucco che ne ha rilevato la licenza di vendita. Questa lampade rientra nei cento oggetti di design più importanti del XX secolo secondo il catalogo Phaidon. In questi anni dunque Fortuny raggiunse risultati ineguagliabili nel campo dell’illuminotecnica; ma non potendo più fare progressi, e dovendo semplicemente seguire le dinamiche della produzione industriale e della commercializzazione, cominciò a dimostrare perdita di interesse. Voltò pagina e inizio a occuparsi di tessuti. 4.3 Il Delphos: l’immortalità nell’innovazione vestimentiaria
L’attività di costumista, disegnatore e tintore di stoffe inizia per Fortuny con le ricerche fatte per la realizzazione di vestiti medievali per la Francesca da Rimini di D’Annunzio (1901). Anche se alla fine Fortuny non seguì tutti i lavori per la messa in scena di quest’opera, colui che lo sostituì (Odoardo Antonio Rovescalli) volle mantenere in scena i costumi da lui disegnati. La prima occasione per mostrare al pubblico le sue creazioni di moda si presentò con l’inaugurazione del teatro della Contessa de Béarn a Parigi (1906): in occasione del già citato balletto su musiche di Charles Widor, non solo Mariano Fortuny dimostrò pubblicamente le potenzialità del suo nuovo sistema di illuminazione, ma anche mise in scena il suo primo prodotto di vestiario originale, destinato a una grande diffusione, lo scialle knossos, velo con motivi geometrici ispirati all’arte cicladica, con cui coprì le danzatrici. Questi rettangoli di seta potevano essere usati in molti modi, per coprire la testa, le spalle, o essere avvolti intorno al corpo. L’abito che però diede fama e successo a Fortuny fu il cosiddetto Delphos. Il Delphos era una tunica pieghettata in tinta unita con un’apertura sulle spalle che permetteva di regolarla alle forme del corpo: uno stesso abito poteva essere adattato a corpi molto diversi, con un sistema di tiranti che restringeva e accorciava il vestito. Il riferimento diretto è alla tunica greca, in particolare al chitone indossato dall’auriga di Delfi, che cadeva verticalmente rispetto al corpo e ne lasciava trapelare le forme. Il Delphos era un’autentica rivoluzione in un periodo in cui le donne usavano busti e corsetti. Infatti furono brevettate come invenzioni sia il vestito sia il sistema di plissettatura: peccato che da un’analisi della descrizione del metodo di pieghettatura consegnata all’Ufficio della Proprietà Industriale, emerga che il sistema spiegato e depositato è quello della ondulazione degli abiti, non il sistema per fare le pieghette. Questo è rimasto segreto ed è morto con Fortuny. Molti hanno tentato di riprodurre queste pieghe, riuscendo 53
anche bene nel compito: Mary Mc Fadden ha creato degli abiti plissettati indistruttibili, sebbene l’ampiezza delle pieghe sia superiore a quella di Fortuny e il tessuto non sia seta bensì poliestere. Anche Issey Miyake, con la sua linea Pleats Please ha ripreso esplicitamente la tunica di Fortuny, ma, come nel caso di Mary Mc Fadden, i vestiti sono in fibra di poliestere, non in leggerissima seta. Il Delphos era tutto fabbricato in casa, cioè a Palazzo Pesaro degli Orfei: la seta arrivava grezza dal Giappone, veniva lavorata, tinta, pieghettata e tagliata; anche i fili e le corde erano fabbricate nel laboratorio: solo le perline di vetro che chiudevano il vestito provenivano da Murano, dove Fortuny si recava personalmente a sceglierle. Il Delphos è un vestito senza tempo, con cui sono ritratte muse e dive di inizio secolo: dalla Marchesa Casati a Isadora Duncan, da Natasa Rambova, coreografa, costumista e moglie di Rodolfo Valentino, a Lilian Gish, musa lanciata dal cinema di Griffith in America; da Clarisse Coudert, moglie di Condé Nast a Peggy Guggenheim. Ebbe fortuna soprattutto negli Stati Uniti, per due motivi: prima di tutto la responsabile della distribuzione di New York, Elsie Mc Neill Lee, che diventerà una figura centrale per la produzione Fortuny, come vedremo nel prossimo paragrafo, era un’ottima comunicatrice e stratega; d’altra parte, le donne americane erano più aperte ed emancipate delle coetanee europee: se in Europa il Delphos era considerato idoneo a un utilizzo domestico ed era usato come tea‐gown da indossare debitamente coperto da una vestaglia o da un mantello in caso di visite di ospiti, in America le donne non si facevano remore a usarlo come vestito da sera, per quanto l’abito lasciasse intravedere le forme del corpo e non fosse esattamente pudico. Il Delphos era in continuità con le idee più avanzate di “riforma vestimentaria” già portate avanti alla fine dell’Ottocento, che miravano all’eliminazione del corsetto e alla promozione di vestiti leggeri e in grado di permettere il movmento del corpo. Dalle file del già citato Movimento Arts and Crafts in Inghilterra, Walter Crane aveva tuonato contro il corsetto, stretto, pesante, poco igienico e salutare; lo stesso Crane era vicepresidente di un sindacato che promuoveva l’abbigliamento salutare, lo Healthy and Artistic Dress Union e aveva prodotto e illustrato numerosi opuscoli tra i quali uno dal titolo programmatico: “How to Dress Without a Corset”: i progetti di vestito non furono però realizzati, e Crane restò ideologo, illustratore e pittore, ma non designer di vestiti. Medici e artisti erano d’accordo sul fatto che la cosiddetta vita da vespa, costretta da busti e corsetti, bloccava il movimento, danneggiava gli organi interni e non era neanche bella a vedersi, e auspicavano a un ritorno di un vestito leggero e comodo come la tunica in età greco‐romana. Il dibattito sul rinnovamento del vestito aveva implicazioni di tipo sessuale e sociale, e si esprimeva in giornali il cui argomento centrale verteva sull’abito come strumento di emancipazione. Fu così che nell’ultimo decennio del XIX secolo vennero pubblicate riviste come Aglaia e The Rational Dress Gazette. Aglaia (dal nome di una delle tre grazie nella mitologia greca) aveva come scopo di “inculcare chiari principi per progettare e realizzare vestiti belli e 54
sani, familiarizzare i nostri lettori con la figura umana, in modo che possano imparare la differenza tra ornamento e distorsione” (cit. in Cunningham 2003: 124). Lo stile suggerito da Aglaia era lo stile Impero, con i suoi riferimenti all’età classica. Dello stesso avviso era Arthur Lasenby Liberty, fondatore della famosa ditta omonima Liberty, grande fornitore di vestiti e produttore di stoffe artistiche, che privilegiava il vestito leggero, che scendesse dalle spalle, senza forzare busto e vita. L’importanza del vestito, di taglio semplice, stava tutta nei materiali usati. Non a caso Liberty era vicino all’Arts and Crafts Movement, fedele com’era al motto del movimento “Truth to material”. La tunica greca era stata anche sdoganata da Isadora Duncan, la prima danzatrice che si era liberata del tutu, e che rivendicava la libertà del corpo attraverso la leggerezza del vestito. È un momento di grande fermento in tutti i campi dell’arte, le avanguardie stanno prendendo piede, e le riforme nelle arti e nella società civile passano anche per la riforma del vestito. Tra il 1910 e il 1920, i Ballets Russes di Bakst e Diaghilev girano l’Europa. Sono a loro volta influenzati da Isadora Duncan, e lo stile dei costumi fa riferimento a Oriente e Grecia. Si sviluppa la moda dell’Orientalismo e tutto ciò rende estremamente attuale la creazione di Fortuny. Sicuramente questo clima culturale preesistente giocò un certo ruolo nel successo del Delphos. Una forma di pubblicità indiretta molto efficace era svolta anche dai grandi romanzieri del periodo: Albertine e Madame de Guermantes indossano vestaglie Fortuny in più passi della Recherche di Proust, e D’Annunzio veste Isabella Inghirani, protagonista di Forse che sì forse che no, con una tunica a motivi di tipo miceneo firmata Fortuny (Davanzo Poli 1992: 51, Gnoli 2005: 29). Il trionfo del classicismo in quell’epoca ci mette di fronte a un paradosso: la riforma e l’innovazione passano per un recupero del passato. Per guardare avanti, si guarda indietro. È in questa contraddizione che si situa il fascino del Delphos, nella coesistenza tra classicità e un’idea progressista del corpo e del vestito. Oggi ovviamente, la spinta innovativa del vestito si è persa, di fronte alle grandi trasformazioni vestimentarie della seconda metà del XX secolo, ma il capo resta eterno e intramontabile. Non è un caso che sia stato scelto da Susan Sontag per la sua sepoltura, come racconta Guillermo da Osma (2010). Il Delphos, per la sua sola forma, appare in grado di garantire a una donna l’immortalità. Per Jorge Lozano (2010), il Delphos è archetipo insieme del classico e del barocco ad un tempo. È chiaro infatti il rimando alla statuaria classica, alla kore greca o ai torsi egizi, al neoclassicismo e all’ellenismo che imperversavano alla fine del XVIII secolo. Secondo Jean‐Marie Floch, molta della produzione visiva contemporanea può essere letta attraverso l’interdefinizione delle categorie facenti capo a due grandi concezioni: quella classica e quella barocca. Il suo riferimento è Wolfflin che nel 1915 nei suoi Concetti Fondamentali di storia dell’arte ha interdefinito queste due grandi forme significanti. È un contributo della storia dell’arte all’analisi semiotica. Le grandi categorie che contrappongono il classico al barocco sono: lineare e pittorico, piano e profondo, forma chiusa e forma aperta, molteplicità e unità, chiarezza e oscurità. 55
Nello stile lineare, che corrisponde alla visione classica, le cose sono viste in termini di linee, delimitazioni, mentre nello stile pittorico, che corrisponde al barocco, sono recepite e apprezzate in forma di masse. Esaminando il Delphos alla luce di queste categorie, il vestito è estremamente lineare, ma, attraverso la congiunzione con un corpo, esalta la massa e i valori pittorici. È una forma chiusa dove niente è fuori posto, la gravità è creata attraverso la presenza delle perle che portano il peso del vestito verso il basso e ne chiudono le cuciture laterali: le perle sono una forma di cornice all’interno della quale si situa il vestito sul corpo. Nello stesso tempo però, il vestito tende a uscire dalla cornice del corpo coprendo i piedi e creando una continuità con il terreno. Per mantenersi, quando è libero dalla struttura del corpo, non deve essere appeso su protesi sostitutive del corpo come grucce e manichini, ma deve essere tenuto appallottolato. Una lettura plastica permette invece di leggere il Delphos nei suoi costitutivi espressivi. Rispetto a una semiotica della pittura che esamina i formanti cromatici, topologici ed eidetici, il vestito deve essere letto più come una scultura, aggiungendo la matericità e il rapporto con la luce. Ma deve essere letto anche come membrana, in grado di far comunicare il corpo e l’ambiente. Per quanto riguarda i formanti cromatici, il Delphos è solitamente in tinta unita, realizzato attraverso tintura per immersione. Ha un colore delicato e intenso nello stesso tempo. Il Delphos è una forma chiusa, profilata, piombata; la sua chiusura è però contraddetta da una mancanza di soluzione di continuità tra figura e terreno: la donna sembra emergere da terra e innalzarsi; raramente si vedono le scarpe. La sua configurazione interna è caratterizzata dalla presenza di pieghe, scanalature del corpo, che creano un ritmo iterativo interno, e moltiplicano le linee parallele verticali. La discontinuità generata dalle pieghe è però modulata dalla presenza di un’ondulatura, che crea continuità e modulazione. La materia degli abiti è seta plissettata, leggera ma elastica: aderente al corpo ma comprendente anche parti svolazzanti, fuggenti. La piega è una forza elastica, e per rafforzare questa elasticità, il tessuto è stato ondulato. C’è una ritmica potente nel vestito di Fortuny. le perle, dure e fattori di gravità all’abito, contrastano con la leggerezza della seta. La luce è frammentata dalla piega, cangiante, riflessa. Sul piano espressivo e materiale il Delphos appare allora come composizione di forze opposte: chiusura vs apertura; aderenza vs fluttuazione; increspatura vs distensione; radicamento vs innalzamento. Questo rende il vestito luogo di un equilibrio tensivo, espressione di stabilità. Proiettata sul piano figurativo, questa idea di equilibrio e stabilità è rinforzata dalla somiglianza a figure del mondo come quella della colonna e dell’albero, tutte strutture di sostegno, verticali, elevate e ben piantate a terra. Jacques Derrida (1978) ha rilevato i caratteri fondamentali della monumentalità nella verticalità e nella 56
fissità. Possiamo concluderne che il Delphos fa della donna un monumento, eretto ma solidamente fissato a terra. È forse per queste sue caratteristiche formali che il Delphos è stato scelto da molte donne come vestito con cui essere sotterrate, con cui andare incontro all’aldilà. Sembra allora che il Delphos sia l’apoteosi del Classico, vista anche la sua somiglianza con lo stile con cui erano vestite le donne del Canova e il richiamo allo Stile Impero. Fortuny fa della donna una statua vivente, e soprattutto colorata. Non è infatti da mettere in secondo piano la sua distanza dal neo‐
classicismo dovuta all’uso del colore, così centrale per la sua produzione. Il suo uso delle pieghe avvicinerebbe invece il suo abito all’archetipo del barocco, secondo la visione di Gilles Deleuze secondo cui “il Barocco produce di continuo pieghe. Non è una novità assoluta: si pensi a tutte le pieghe provenienti dallʹOriente, o alle pieghe greche, romane, romaniche, gotiche, classiche. Ma il Barocco curva e ricurva le pieghe, le porta allʹinfinito, piega su piega, piega nella piega. Il suo tratto distintivo è dato dalla piega che si prolunga allʹinfinitoʺ (Deleuze, 1988). La piega di Deleuze è però la piega nella piega, la piega inclusiva, il “ripiegarsi”, ha più a che fare con una spirale centripeta piuttosto che con la moltiplicazione delle pieghe del plissé. Il fatto però che il primo marchio registrato da Fortuny nel 1908 sia un labirinto, ”luogo dalle molte pieghe” rende questa lettura di Fortuny barocco plausibile. 4.4 Vestire gli interni
Ogni esemplare del Delphos era realizzato in tinta unita, ma il suo colore era sempre diverso e unico. Veniva immerso nella tintura diverse volte per impregnarsi più profondamente ma anche per assumere infinite sfumature che risaltavano per rifrazione della luce sulle pieghe dell’abito. La tintura dei tessuti diventò così l’attività predominante e identificante di Fortuny, che presto, di fronte al successo commerciale del Delphos, dovette, nonostante la sua avversione per la grande produzione, ampliare il suo apparato produttivo. Il laboratorio di Palazzo Pesaro degli Orfei accoglieva allora un centinaio di lavoratori, per far fronte alla accresciuta domanda. Si amplia anche la distribuzione con l’apertura a Parigi nel 1912 di una boutique in Rue Marignan e a Londra in Old Bond Street. La grande guerra provocò una caduta commerciale del marchio Fortuny, che però si riprese subito dopo con la fondazione, nel 1919, della Società Anonima Fortuny. Dopo tre anni di lavori, nel 1922 fu aperta la fabbrica in Giudecca, presso un antico convento che era stato chiuso da Napoleone all’inizio dell’Ottocento. L’edificio era parte della proprietà di Giancarlo Stucky, che possedeva il grande mulino prospiciente la fabbrica. L’istituzione della fabbrica della Giudecca segnala l’inizio della produzione industriale per Mariano Fortuny che aveva al suo servizio un centinaio di lavoratori esperti. Se 57
l’aumento della domanda aveva favorito questo ampliamento, i nuovi ritmi di produzione e l’innalzamento dei costi di gestione imposero un incremento della distribuzione. Così nel 1920 riaprì il negozio a Parigi, questa volta in rue Pierre Charron, proprio accanto al negozio di Poiret. Il negozio era arredato nello stile del palazzo veneziano, per offrire al cliente un’esperienza e un’atmosfera decisamente esotica: era come trovarsi a Venezia, pur essendo a Parigi. Fortuny aveva un negozio anche a Milano, e diversi distributori a Roma, Napoli, Torino, Madrid, Zurigo, Londra e New York. La produzione di abiti e vestaglie in seta e velluto restò a Palazzo Pesaro, sotto la stretta sorveglianza di Mariano e della moglie Henriette. Nella fabbrica della Giudecca invece si sperimentò la stampa su tessuti meno costosi, come i cotoni, adatti al design d’interni e particolarmente idonei all’assorbimento dei colori. Così la produzione si divise in due rami: da una parte, il fashion design; dall’altra il design d’interni. Questa decisione non fu solo conseguenza dell’ampliamento di Fortuny e dell’accrescimento della sua fama nel mondo intero. Fu dovuto anzi a una scelta di razionalità economica: materie prime come seta e velluto, durante e dopo la Prima Guerra Mondiale, avevano raggiunto un prezzo molto alto, il che imponeva all’artigiano Fortuny di alzare il prezzo del prodotto finito per recuperare la spesa. Nello stesso tempo, i possibili acquirenti si erano impoveriti e avevano abbassato il proprio livello di vita e la propria capacità di spesa. Ecco che allora si era trovata una via d’uscita in quella che oggi chiameremmo Brand Extension, la produzione di tessuti destinati all’arredamento. L’idea era buona e non era incoerente con la produzione precedente. Tra l’altro Fortuny, collezionista di tessuti ed erede della collezione del padre, aveva un’immensa cultura in materia e uno speciale repertorio di idee da cui trarre ispirazione. Ebbe quindi sin da subito delle commesse, sia da privati che da committenti pubblici: Fortuny arredò case patrizie come quella dell’attrice Dina Galli a Roma, di Consuelo Vanderbilt a New York, della principessa di Noailles a Parigi (Franzini et al., 2008: 30); ma allestì anche luoghi pubblici, come l’Hotel Excelsior di Venezia al Lido (1920), il Museo Nazionale di Napoli, la chiesa del Redentore nell’isola della Giudecca. Dal 1922 in poi, fu commissario per il Padiglione spagnolo della Biennale: lì non solo espose delle sue opere ma anche curò l’arredamento e allestì gli spazi per accogliere le opere. Negli stessi anni, gli fu chiesto di arredare il Museo Carnavalet di Parigi: per l’occasione, Mariano ideò un nuovo motivo floreale che ebbe gran successo, e chiamò proprio Carnavalet. Venezia era la città più adatta per la produzione e il commercio dei tessuti. Infatti, come testimoniavano anche le fonti visive da cui Fortuny traeva ispirazione (i quadri di Tintoretto, Bellini o Carpaccio) da sempre il territorio veneziano era stato specializzato nella produzione tessile e nella distribuzione internazionale. Già in età medievale Venezia era centro di commerci di stoffe, tessuti e tinture, ma fu nel Rinascimento che raggiunse l’apice nella produzione di sete, velluti, cotoni e broccati, legando inscindibilmente la sua identità a un’idea di raffinatezza, eleganza e ricerca tecnologica applicata alle stoffe. Per tutti i secoli successivi, Venezia convisse con questa tradizione, cercando di 58
adattarla al presente. Nell’Ottocento ad esempio, erano attivi a Venezia tessitori come Sartori, Trapolin, Rubelli e Bevilacqua, che fabbricavano tessuti d’arte imitanti l’antico, realizzati ancora con tecniche artigianali. Bevilacqua accolse le innovazioni tecnologiche in atto nel resto d’Europa (e soprattutto in territorio francese) adattando la nuova tecnica Jacquard a telai antichi (Davanzo Poli e Moronato, 1994). Per quanto mantenessero un certo gusto eclettico e revivalistico, allergico al modernismo che andava imponendosi in Europa, i tessitori veneziani – in particolare Bevilacqua e Rubelli – seguirono le mode europee del periodo: i primi del Novecento furono caratterizzati dall’imperversare di disegni tipicamente Art Nouveau, che poi, nel decennio successivo, si orientarono verso il gusto Art Déco. Fortuny si inserisce in questo gusto eclettico e decorativo, portando però notevoli innovazioni sul piano tecnico: mantiene infatti i motivi della tradizione sul tessuto operato, ma, anziché decorarlo a mano, inventa nuove tecniche di stampa. Sperimenta e brevetta continuamente sistemi di stampa: prendendo spunto dalle tecniche dei katagami giapponesi, brevetta nel 1910 un sistema di stampa a banda continua basato su un processo di tipo serigrafico. Come nel caso della pittura, Fortuny non si preoccupava solo di realizzare il prodotto finale, ma produceva le tinte, le macchine e i blocchi tipografici. Con le sue invenzioni fu in grado di aumentare esponenzialmente la produzione, ma il tocco umano della manifattura resta importante anche oggi, con i ritocchi finali e con l’attento controllo del processo di lavorazione. Un ruolo importante riveste anche il caso: ogni pezza stampata asciugata all’aria risente delle condizioni climatiche del momento in cui è stata esposta all’aria. Temperatura e umidità saranno le variabili che influenzeranno la saturazione e la brillantezza della tinta. Per tutti questi motivi, anche quando la produzione dei tessuti diventa “industriale”, il prodotto finale sarà un pezzo unico e inimitabile, legato all’artigianato, al lavoro umano e alle condizioni ambientali. Per la produzione tessile, Fortuny disegnò migliaia di motivi diversi nella sua vita, ognuno dei quali era poi stampato in diverse combinazioni di colore. Di chiara ispirazione rinascimentale era il disegno della melagrana aperta, che poi era a sua volta simile al fiore del loto orientale. Altri disegni facevano riferimento all’arte araba, turca, giapponese, e persino oceanica e precolombiana. 4.5 Gestire Fortuny dopo Fortuny
Fu la visita al Museo Carnavalet di Parigi a far entrare in contatto l’arredatrice americana Elsie Mac Neill con Fortuny. La giovane imprenditrice restò colpita dall’eleganza dei velluti stampati e così decise di andare a visitare l’artista a Venezia. Conosciutolo e avendo visto la gamma della sua produzione, gli chiese di poter avere l’esclusiva sulla distribuzione dei tessuti Fortuny negli Stati Uniti: così iniziò il sodalizio tra i due. Come già visto, da allora in poi, la Mac Neill ebbe un ruolo fondamentale nella diffusione del Delphos tra le signore americane. 59
La Mc Neill e il marito Arthur Humphrey Lee, ebbero un ruolo decisivo durante la crisi del 1929, quando tutte le proprietà di Giancarlo Stucky, compresa la fabbrica Fortuny, andarono in bancarotta: furono loro a rilevare la fabbrica in amministrazione fiduciaria. Con la seconda guerra mondiale, la fabbrica chiuse, e lo stesso Palazzo iniziò a subire un inevitabile processo di decadenza, dovuto anche al declino delle energie e della vitalità del suo vecchio proprietario. Nel 1949, Mariano Fortuny morì. La moglie Henriette rimase unica erede di tutti i possedimenti della famiglia Fortuny, palazzi e collezioni comprese. Da quel momento in poi la memoria di Fortuny, il suo palazzo, la sua fabbrica in Giudecca, caddero nell’abbandono e, di conseguenza, nell’oblio. Henriette si dimostrò infatti sin da subito incapace e soprattutto non interessata di tener testa alle aziende ereditate. Chiese allora a Elsie Lee Mc Neill di comprare lei la fabbrica e di occuparsi della produzione: la signora americana era infatti l’unica persona secondo Henriette che avesse le forze per sostituire il marito deceduto, avendo competenze sia di tipo commerciale che di profilo tecnico. Elsie si rimboccò le maniche, investì molto denaro nel rinnovo dei locali, delle macchine e delle materie prima e riattivò la produzione. Nel frattempo, morto il suo primo marito, sposò in seconde nozze un nobile veneziano, il conte Gozzi: assunse così il titolo di Contessa Mac Neill Lee Gozzi. Nel frattempo, il palazzo venne donato al Comune di Venezia, con la condizione che lo studio di Fortuny sarebbe rimasto intatto, e Henriette potesse abitarci fino alla morte (che sopravvenne nel 1965). Iniziò in questo modo lo scollamento tra il palazzo, che entra nel circuito dei musei civici, e la fabbrica, che diventa di proprietà americana. È in America infatti che cresce la fama di Fortuny, mentre in Italia se ne perde la memoria. I vestiti vintage vengono mostrati in diverse esposizioni e collezioni e cominciano ad assumere valore raggiungendo cifre da capogiro in aste come Christie’s. A New York, lo showroom funziona molto bene, mentre la fabbrica di Venezia agisce nell’ombra, dimenticata da molti veneziani. All’inizio degli anni Ottanta, la contessa Lee Gozzi, non avendo una discendenza a cui lasciare la fabbrica, chiede al suo avvocato Maged Riad di acquisire la fabbrica e di occuparsene dopo la sua morte. Questi era riluttante, ma alla fine, dopo tante insistenze da parte della Contessa, comprò la fabbrica nel 1988. La sua proprietà durò solo dieci anni, dato che quando i suoi figli raggiunsero un’età adatta alla gestione di una tale azienda, la affidò a loro. Ancora oggi Mickey e Maury Riad sono i principali artefici del processo di rinnovamento che sta avvenendo in fabbrica. È durante gli anni di reggenza di Maged Riad che un imprenditore veneziano, Lino Lando, riesce ad acquistare il marchio e compra i diritti per fabbricare lampade e accessori, manufatti in seta e tessuti plissettati. L’azienda viene chiamata Delphos SAS, apre una fabbrica a Cannaregio e diversi negozi nel centro storico a Venezia e persino in aeroporto. Si tratta di Venetia Studium. Questa azienda si inserisce in un vuoto di offerta con la missione di ricominciare a produrre e diffondere i prodotti di Mariano Fortuny e con questi, la sua fama e il suo nome. Il marchio nasce dalla passione di un imprenditore 60
collezionista che, negli anni, aveva accumulato, grazie alla frequentazione di archivi e mercati dell’antiquariato, una grande conoscenza e un vasto repertorio di oggetti appartenuti o prodotti da Fortuny. Ne aveva studiato quindi alacremente lo stile e la fattura. Fortuny Giudecca si accorge troppo tardi di aver perso la possibilità di fabbricare e vendere gran parte dei prodotti a firma Fortuny. Per la separazione del laboratorio di moda e della fabbrica di tessuti che era già avvenuta nel 1922, l’area di pertinenza aziendale riguardava solo la stampa di cotoni e non la produzione di oggetti di vestiario. Gestendo però macchinari e possedendo gli stampi e le tinte originali, avrebbe potuto allargare la produzione, restando di fatto l’unica azienda in grado di produrre i tessuti stampati originali. Nel 2003 crolla anche sopra la fabbrica Fortuny una parte della torre del Mulino Stucky, incendiato dolosamente. Nel bene o nel male, a seconda dei punti di vista, l’emergere sul mercato del fenomeno Venetia Studium rimette in circolazione il nome e lo stile Fortuny. Comincia a circolare nella cultura commerciale questo nome, abbinato ai suoi prodotti, in particolare alle lampade. Le lampade commercializzate da Venetia Studium sono praticamente identiche a quelle disegnate da Fortuny, ma sono vendute in diverse dimensioni. Per renderle più resistenti all’usura, però, i nuovi fabbricanti hanno deciso di usare il vetro anziché la seta: le lampade sono dunque vendute in due varianti, ma il vetro ha un costo inferiore. Nello stesso tempo, Palazzo Pesaro degli Orfei è aperto al pubblico, e permette quindi a chi si avventuri nelle sue stanze, di scoprire le opere d’ingegno di questo grande inventore. C’è un effetto eco che va dal palazzo al negozio di Venetia Studium. Le lampade sono sicuramente tra gli elementi più vistosi della collezione del museo: quelle in seta appese al soffitto dominano lo spazio, maestose e arabeggianti: i loro nomi – Scudo Saraceno, Sherazade – coerentemente con la loro forma richiamano un universo orientaleggiante ed esotico; completamente diverse, orientate a un gusto funzionale e minimalista e ai valori della solidità e della durata, sono le lampade da terra, come la lampada a riflessione che oggi ha in produzione l’azienda Pallucco. L’uso pratico di questa lampada è segnalato anche dalla presenza di un porta oggetti di legno a circa metà del fusto. 4.6 Palazzo Fortuny: dalla collezione permanente a un nuovo stile espositivo
La collezione Fortuny comprende un ricco assortimento di opere e materiali, ordinati per settore disciplinare di riferimento: pittura, illuminazione, teatro, tessuti e vestiti, e fotografia. Dagli anni Ottanta in poi, il museo, anziché mostrare semplicemente se stesso e i suoi arredi, inizia una fitta programmazione di mostre legate alle arti applicate e alla comunicazione visiva, dalla moda ai gioielli, dalla fotografia al graphic design. Palazzo Fortuny mostra dunque una natura doppia: da una parte gli arredi e la disposizione degli oggetti del palazzo restano identiche a come l’aveva lasciata Mariano, così 61
come vengono preservati la ricca collezione permanente e gli archivi, che vengono ordinati con cura; dall’altra il museo apre le porte a mostre di nicchia piuttosto innovative, orientate alla comprensione dei fenomeni della contemporaneità. Le due cose non sono in contraddizione. Gran parte delle mostre fotografiche prende spunto da oggetti presenti nella collezione e ne espone degli esemplari: la fotografia era infatti una delle arti praticate da Mariano, e sicuramente di importanza non secondaria rispetto alle altre. Non solo Fortuny era stato uno sperimentatore appassionato del nuovo medium, ma anche in questa disciplina aveva inventato delle tecniche: dalle ottiche elaborate per realizzare riprese di dimensione panoramica a sistemi di stampa nuovi come una carta fotografica ai pigmenti di carbone, il cui brevetto fu consegnato nel 1931. Non è quindi in contrasto con la sua figura che vengono inaugurate negli anni Ottanta una serie di mostre organizzate e curate da Paolo Costantini dal 1987 fino alla morte prematura del critico nel ‘97: “Dialectical Landscape” (1987), ”Paparazzi, foto di Velio Cioni” (1988), “L’insistenza dello sguardo. Fotografia italiana dal 1839 al 1989” (1989), “La fotografia al Bauhaus” (1993). Oltre alle mostre fotografiche, si organizzano altre esposizioni con uno speciale interesse per le arti cosiddette minori, applicate, dal fumetto ai bozzetti, dalla grafica alla mostra di moda: tutto ciò è coerente con lo sperimentalismo di Mariano e il suo rispetto per tutte le forme d’arte e di tecnica. Queste mostre si svolgono prevalentemente al piano nobile, presso il portego di Palazzo Pesaro degli Orfei, che viene utilizzato per il suo impatto scenografico. L’allestimento si distingue sin da subito per il suo carattere anti‐minimale: non potendo cambiare lo sfondo, perché così richiede il lascito testamentario della vedova Fortuny, le mostre fanno dell’horror vacui una virtù, e progressivamente una cifra stilistica dell’esposizione “alla veneziana”. Le mostre di grafica o fotografia sono però prevalentemente di oggetti bidimensionali e non vistosi. Sono piuttosto le installazioni video‐sonore che aprono Palazzo Fortuny alla multisensorialità e al potenziamento del barocchismo degli spazi: nel 1985 un salone del palazzo si anima delle immagini provenienti da dodici schermi televisivi, collocati a semicerchio. I dodici televisori sono collegati ad altrettante telecamere disseminate in diversi punti di Venezia. Le immagini provenienti dal circuito chiuso sono in bianco e nero, ma sono montate e sovrapposte con altre immagini a colori dove attori dialogano con telecamere e pubblico. Il Palazzo diventa così luogo di mediazione tra interno ed esterno, documentazione e finzione. Vedute è la prima installazione video ospitata nel museo,firmata dal gruppo di artisti italiani più all’avanguardia del momento sul piano dell’invenzione e della tecnologia, Studio Azzurro. Questa installazione che rinchiude cartoline viventi di Venezia all’interno di dodici monitor è la prima a giocare su due qualità dello spazio di Palazzo Fortuny: la fantasmaticità ‐ presenza nell’assenza di forme umane; e il rapporto metonimico del Palazzo con la città di Venezia, riportata dentro il palazzo attraverso le telecamere a circuito chiuso. Usare il video come forma d’arte è in continuità con quello che diceva Fortuny a 62
proposito della luce nel teatro, che non era un elemento neutro della messa in scena, ma “arte del tempo” che modificava le condizioni della scena. L’installazione video del 1993 di Peter Greenaway, Watching Waters, curata da Luca Massimo Barbero, si pone in continuità con Vedute di Studio Azzurro, per il suo uso della tecnologia video e per l’inclusione della città all’interno del palazzo. Questa installazione è però più scenografica e sovrabbondante di quella degli artisti italiani. Con Greenaway s’impone a Palazzo Fortuny un tipo di mostra orientata all’eccesso visivo, all’accumulazione, all’utilizzo dei cinque sensi, alla proiezione di ectoplasmi sulle pareti interne di stanze disabitate ma così popolato di spiriti da richiedere con forza un loro risveglio. È un esperimento estremo e fuori moda rispetto al canone dominante dell’arte contemporanea: siamo negli anni del minimalismo elegante, dell’esposizione dentro spazi spogli come white cube. Un allestimento neo‐barocco spinto all’estremo ha senso soltanto a Venezia. Nasce così una mostra sontuosa e traboccante di elementi che stimola tutti i sensi: proiezioni multiple rappresentano l’acqua in tutte le sue forme; suoni udibili anche a distanza riproducono flussi d’acqua e brusio umano, drappi rossi, tessuti dorati e argentati di produzione Fortuny ricoprono il palazzo dandogli visibilità e sfarzo. È sicuramente a queste esperienze che si rifaranno, quindici anni dopo, le mostre Artempo (2007) e – in misura diversa ‐ In‐finitum (2009), che mettono in mostra parti della collezione ricca ed eclettica del mercante d’arte Axel Vervoordt in un contesto che già trabocca di oggetti, opere e mobilio. Il richiamo alla mostra di Greenaway in Artempo è rappresentato sin dall’entrata dall’installazione di El Anatsui, un grande arazzo dorato che ricopre la facciata del Palazzo: non si tratta però di tessuto prezioso, ma di un mosaico di fondi di lattine. In‐finitum è una mostra sul vuoto e sulla fantasmaticità, e su questi temi giocano installazioni video come Bodies of light (2006) di Bill Viola, i dipinti di Michael Borremans o di Jeff Verheyen, per fare solo qualche esempio. Del palazzo è enfatizzato il lato fantasmatico, il silenzio, il vuoto nonostante l’abbondanza degli arredi e dei colori. Sono le personalità che con Fortuny condividono molto, come Peter Greenaway o Axel Vervoordt, che riescono a rievocare lo spirito del palazzo magnificandone le qualità: il rischio è la ridondanza, o l’eccesso; la posta in gioco è l’invenzione di un modello espositivo. Lo stile Fortuny, eclettico, orientato alla giustapposizione di oggetti provenienti da mondi ed ere diverse, multimediale, interdisciplinare, appartiene anche a questi artisti/collezionisti/inventori che fanno del montaggio sia temporale che spaziale la loro abilità fondamentale. Vervoordt, collezionista eclettico, ha come sola asse di pertinenza della sua collezione il buon gusto e la raffinatezza, il disprezzo per la moda e per il trendy, e l’amore per l’intemporale e l’eterno. I criteri di scelta degli oggetti nella sua collezione e nella sua offerta di mercante sono esplicitate nel manifesto programmatico pubblicato sul suo sito: “l’arte contemporanea, l’arte orientale e l’arte povera (che denotano una vita di meditazione, di spazi vuoti, di amore e rispetto per la natura e per l’esistenza umana); l’architettura, che rappresenta la proporzione, l’equilibrio e l’armonia; il barocco dorato e cortigiano”. Si capisce già da questa manifestazione delle 63
proprie preferenze che l’abilità dell’uomo non è quella di creare assi di pertinenza coerenti nelle proprie scelte collezionistiche, ma di inventare giustapposizioni di oggetti provenienti da diverse aree geografiche e da diverse epoche. Sono l’eclettismo e la multimedialità le caratteristiche che rimbalzano dalle mostre temporanee alla collezione permanente. L’ultima esperienza che si rifà a questa tradizione è il teatro della compagnia Anagoor. La produzione degli Anagoor, ancora molto limitata vista la giovane età dei componenti del gruppo, si pone in continuità con artisti come Peter Greenaway o Bill Viola. Come in molte opere di questi artisti, gli Anagoor traducono testi visivi del passato nel linguaggio dei media contemporanei: Tempesta, performance teatrale del 2009, metteva in scena in forma di tableaux vivants frammenti di dipinti del Giorgione; accostava agli attori sulla scena delle videoinstallazioni che riproducevano in forma audiovisiva l’immagine vista sulla scena in diverse variazioni; la traduzione da un linguaggio all’altro (pittura, teatro, video) e la moltiplicazione delle cornici (dispositivi scenici come cubi in plexiglass e schermi video) ha una chiara ascendenza dagli artisti visti precedentemente esporre nelle stanze di Palazzo Fortuny, la cui produzione comprende l’animazione attraverso i nuovi media di immagini provenienti dall’iconografia dell’arte occidentale. Il progetto appositamente pensato da Anagoor per Palazzo Fortuny sarà completato nell’estate del 2011 e presentato alla centrale Fies di Dro per il festival Drodesera. Il progetto comprende quattro episodi: l’ultimo di questi episodi, chiamato Ballo Venezia, è stato inscenato proprio a Palazzo Fortuny a Febbraio 2011, in collaborazione con il teatro Fondamenta Nuove. In occasione di questa performance, gli episodi precedenti erano richiamati attraverso installazioni‐video esposte in diverse nicchie del palazzo. La performance, secondo lo stile degli artisti che si sta ormai confermando, era caratterizzata dalla presenza degli schermi in mezzo agli attori reali. A differenza degli altri spettacoli che puntano su una o due figure soltanto sulla scena, Ballo Venezia è una messa in scena corale, che impegna una trentina di performers. Gli schermi raccontano l’antefatto della performance: è una rivisitazione del mito greco del Minotauro e del labirinto, focalizzato più che sull’uccisione del mostro e sulla liberazione di Arianna da parte di Teseo, sulla vicenda del ritorno di Teseo e dei suoi compagni a casa. I giovani eroi avevano promesso ai loro concittadini che, se fossero riusciti nell’impresa, avrebbero issato sulla loro barca delle vele bianche al posto di quelle nere con le quali erano partiti. Nella foga della partenza, dimenticano questa promessa e tornano con le vele nere. Questa dimenticanza provoca una serie di catastrofi e semina la morte (nella leggenda originale, l’unica reazione alla vista della nave era “soltanto” il suicidio del padre di Teseo, Egeo, che gettandosi in mare gli dà il suo nome). Mentre dei giovani uomini oscillano incappucciati, si avvicendano sugli schermi immagini di statue dell’antica Grecia, Korai e Kouroi in particolare, e immagini documentarie di volti sfigurati dalla guerra. Dopo questa serie di volti, sugli schermi appaiono immagini di Venezia colpita durante la prima guerra mondiale, provenienti dall’archivio Fortuny e scattate dall’artista stesso. In una composizione iconografica che fa del montaggio la sua tecnica di messa in 64
relazione, emergono le analogie, tra l’arte antica sfigurata, i giovani soldati deturpati e Venezia colpita e sfregiata anch’essa. Intanto il telo azzurro/argento che fa da sfondo all’oscillazione degli uomini – la nave era il punctum della narrazione – si alza e una statua animata e dorata inizia a oscillare anch’essa, poi si ferma, a indicare il cielo, ed entrano in scena delle fanciulle vestite di nero che la circondano con una danza ritmata. I riferimenti a Fortuny non sono biografici ma iconografici: il labirinto, la Grecia, l’oro; per assonanza con il nome dell’ospite del palazzo, siamo anche portati a vedere nella divinità dorata la Fortuna. La danza delle vestali intorno alla dea è animazione di una ruota –la ruota della fortuna?‐ mentre formalmente traduce in termini spaziali la tipica decorazione di un vaso greco: la posizione delle mani e dei piedi delle danzatrici, il loro offrire viso e corpo solo di profilo, rimanda a quell’iconografia. Il movimento di rotazione si riproduce sulla colonna sonora, che si avvolge e riavvolge in un loop ipnotico. Iconofilia ed iconoclastia sono temi dominanti nell’arte degli Anagoor, artisti che hanno scelto la figuratività come modo di organizzazione del visibile e che portano in scena, come molti registi teatrali coetanei, un teatro di figura vicino alla performance artistica. È proprio la “figura”, a mio avviso, il loro oggetto d’indagine artistica, dall’immagine tratta dalla storia dell’arte che ha perso l’aura per eccesso di visibilità alle figure retoriche sclerotizzate; il loro tentativo è di rendere queste immagini impoverite di nuovo vive e significanti. Sul tema dell’iconoclastia, letta nei visi deturpati del montaggio di Ballo Venezia, sviluppano una narrazione vera e propria nell’episodio precedente a questo, Wish me luck: in questo video, dei giovani si preparano a un’operazione vandalica; tra le pareti ormai spoglie e sconsacrate della Chiesa della Misericordia, si vestono con jeans e felpe con il cappuccio mimando il look dell’adolescenza anonima che si aggira nelle nostre città. Terminato il rito della vestizione, si armano di bastoni ed escono, passando per sottoporteghi e canali. L’obiettivo del loro vagare è un gruppo di gondole ormeggiate sulla riva del Canal Grande. L’ultimo piano‐sequenza ritrae uno degli incappucciati che, sollevato il bastone con violenza, è pronto ad abbatterlo sul ferro di prua di una gondola. Non vediamo però l’atto della distruzione. Il riferimento è storico, ed è ripreso da un saggio di André Chastel che racconta che nel 1507: “Tutte le gondole in Canal Grande furono fracassate. Il mattino seguente, Venezia risvegliandosi, ammutolì di fronte allo scempio, cattivo presagio”. Con la proiezione di questo video, prologo alla performance Ballo Venezia, vediamo ancora una volta l’immagine della città lagunare e dell’acqua apparire all’interno di questo palazzo; come era stato per le opere di Studio Azzurro e di Greenaway, video e suoni popolano l’ambiente “svuotato” del palazzo. La performance si svolge in due tempi: il primo tempo, consistente nella scena della danza, lascia lo spettatore frastornato e quasi ipnotizzato dai ritmi ripetitivi della musica e dei passi; in questo stato d’animo, sente delle voci femminili venire da lontano. S’incammina per i labirinti del palazzo, dove le voci si incanalano e riecheggiano, fino a trovare due cantanti vestite di nero all’interno di una piccola stanza del primo piano. Anche l’elemento fantasmatico, che abbiamo ritrovato più volte nelle installazioni create per Palazzo 65
Fortuny, è centrale per il lavoro degli Anagoor. La strategia seguita dall’istituzione museale è dunque di mettere in interazione la collezione permanente con la ricerca sulla comunicazione visiva attuale. Non a caso alla messa in scena dell’opera, è seguito un workshop, realizzato insieme al Teatro Fondamenta Nuove all’interno del Palazzo. L’accostamento con le collezioni di Van Vervoordt fa emergere l’eclettismo e la cultura di Fortuny, così come le opere di Greenaway e degli Anagoor permettono di selezionare e di far emergere dei tratti di contenuto dell’opera di Fortuny che non riemergerebbero ugualmente se le opere messe in mostra avessero unicamente un legame di contemporaneità storica con l’opera e il palazzo di Fortuny. Gli anacronismi sono una forma di montaggio che genera nuovi significati attraverso l’accostamento apparentemente incongruo di oggetti. La traduzione dell’antico nel nuovo permette di dare nuovo senso all’opera d’origine, a rileggere anche le attività di Fortuny con un nuovo occhio. 66
5.
L’azienda Fortuny: a tappe verso l’innovazione
Il museo è finora riuscito a creare in parallelo all’attività di conservazione un’operazione di rilancio attraverso una buona programmazione di mostre temporanee e workshop. L’azienda dovrebbe provare a fare la stessa cosa, nei suoi termini e con i suoi limiti, che sono forse ancora più vincolanti di quello del museo. L’unico modo di far rivivere i prodotti di Fortuny è quello di creare un progetto nuovo; richiamare l’elemento storico attraverso l’innovazione. Come per il museo sarebbe mortifero mantenere per anni identica la collezione permanente, senza associarla a mostre temporanee, così per l’azienda sarebbe letale ripetere per secoli la stessa produzione occupandosi semplicemente della sostituzione dei tessuti là dove si sono usurati. Come abbiamo già visto, i modi per tirar su un marchio storico che sta perdendo attrattività, è di investire in ricerca e tecnologia. Come si sta comportando l’azienda? Prima di tutto, è avvenuto un cambiamento sostanziale a livello gestionale. Da quando Elsie Mac Neill aveva rilevato la gestione della fabbrica nel 1950, l’assetto proprietario è stato americano al 100% e gli uffici decisionali ed esecutivi si trovavano a New York, in un’area tanto prestigiosa quanto estranea al contesto italiano come il Decoration and Design Building sulla 3rd avenue. Venezia è invece rimasta per tutti questi anni sede della produzione, decentrata rispetto agli uffici di amministrazione, e lontana anche dal passaggio dei potenziali clienti. Adesso i proprietari hanno deciso di investire su Venezia, creando un ufficio di management in loco (nella persona di Giuseppe Iannò) che, sebbene non abbia piena autonomia gestionale, cura le pubbliche relazioni e i rapporti istituzionali, ed è referente affidabile e attendibile sul territorio. I proprietari americani hanno dunque deciso, in modo abbastanza anticonformista rispetto ai tempi, di rilocalizzare l’azienda e soprattutto la distribuzione a Venezia. Venezia è diventata anche un centro per la produzione e l’ideazione delle nuove linee: un’altri figura importante che ha base a Venezia è il designer del gruppo Fortuny (Pietro Lunetta) incaricato proprio di pensare nuove linee di prodotto che siano coerenti con la marca, che abbiano un legame con la tradizione ma che siano innovative. Ci sono stati anche notevoli investimenti sul piano dell’immagine, non solo perché i responsabili Fortuny a Venezia sono personificazioni dell’azienda e quindi ne comunicano i valori, ma anche dal punto di vista della comunicazione, c’è un nuovo logo e una nuova etichetta. Ciò che la comunicazione veicola è però principalmente il valore dell’autenticità, della legittimità e dell’originalità. L’investimento sulla tecnologia e sulla ricerca sta prendendo piede nelle proposte progettuali per il design dei nuovi oggetti, ma non è ancora visibile. L’unica forma di innovazione tecnologica rilevabile è al momento l’applicazione per i‐pad e i‐phone che permette di visualizzare sugli schermi di questi dispositivi tecnologici tutte le possibili gamme di tessuto disponibili, dai motivi ai colori. Nuove proposte di prodotto si stanno faticosamente facendo strada, nonostante problemi di copyright per cui 67
questi prodotti non possono essere chiamati con il nome Fortuny; ma soprattutto si sta lavorando molto sulla distribuzione, sullo show‐room e cominciano a fare capolino idee di mecenatismo artistico. 5.1 Nuovi prodotti, nuove linee, nuove collaborazioni
La Tessuti Artistici Fortuny produce in primo luogo cotoni stampati, con gli stessi metodi e gli stessi motivi che aveva ideato e realizzato Mariano Fortuny un secolo fa. È l’unica azienda che possa farlo e che detenga i diritti dei motivi disegnati dall’artista. Fortuny SPA si rivolge a un mercato d’alta gamma che difficilmente accusa gli effetti della crisi. ll suo prodotto, essendo semilavorato, è destinato al mercato dei decoratori che scelgono i tessuti adatti all’arredamento dello spazio che hanno in gestione, ed effettuano ordini di grande entità in termini di metratura. Il destinatario non è dunque l’utente finale ma l’intermediario. Si tratta solitamente di grandi investimenti e di progetti la cui esecuzione si estende sul lungo periodo: per questo motivo, gli effetti della crisi sono ancora difficili a vedersi, risalendo gli ordini attuali a progetti di qualche anno fa. In compenso il mercato intermedio – quello relativo agli scampoli e alle piccole metrature di tessuto – ha subito un deciso calo. In generale però l’azienda non è in perdita, non ci sono stati né ridimensionamenti né licenziamenti, nonostante la maggior parte degli ordini vengano dal paese più colpito dalla crisi, cioè gli Stati Uniti. Ci sono stati però decisivi cambiamenti negli ultimi due anni, non a causa della crisi globale, ma piuttosto a causa dell’emergenza di una concorrenza che relegava la fabbrica di tessuti in un ruolo di secondo piano. Venetia Studium che, oltre alle lampade, vende prodotti finiti come borse e sciarpe a destinatari finali, può sembrare l’ultimo polo della filiera che utilizza il tessuto semilavorato Fortuny per realizzare oggetti Fortuny. Non è così: le stoffe utilizzate da questa marca non sono e non possono essere degli originali Fortuny. Per evitare questa confusione, la soluzione sarebbe in apparenza semplice: concedere a Venetia Studium la licenza d’uso delle stoffe Fortuny. Ma questa soluzione facile non appare possibile alla luce del diverso posizionamento che le due aziende hanno assunto nel tempo: una non potrebbe assumersi i costi di un tessuto originale Fortuny, e l’altra si sentirebbe svilita dall’asservimento del proprio progetto di marca agli orientamenti del mercato e alla dittatura della domanda. Fortuny ha dunque seguito due strategie: da una parte la difesa della propria eredità, con campagne di comunicazione volte a sottolineare il lignaggio del proprio marchio; dall’altra, timidamente, l’innovazione. L’innovazione ha finora seguito tre vie: 1. La riesumazione di pattern disegnati da Fortuny ma mai stampati su tessuto e la loro realizzazione in diverse colorazioni. Due nuovi pattern, Onde e Papiro, sono motivi semplici ed eleganti, che si 68
adeguano perfettamente al gusto moderno e nello stesso tempo sono “firmati” da Mariano Fortuny. Sono stati inseriti nell’ultima collezione, quella del 2010. 2. La ricombinazione su richiesta: spesso clienti particolarmente esigenti richiedono la realizzazione di tessuti combinando colori e motivi che non erano mai stati considerati insieme da Fortuny. Pigmenti e pattern rientravano nel paradigma di scelta, la loro combinazione non era mai stata realizzata. Un’innovazione anche questa, certo, ma a partire da una grammatica precisa con un suo lessico predeterminato. 3. L’ideazione di nuove linee di accessori per la casa e di mobili. Questa operazione è sicuramente la più delicata, perché prevede una progettazione che vada oltre la tintura e la stampa dei tessuti. È a tutti gli effetti un’estensione di linea e uno straripamento nel territorio del prodotto finito. Una tale “rivoluzione” va realizzata gradualmente: il prodotto finale deve necessariamente utilizzare le stoffe stampate in fabbrica o almeno riprendere i motivi disegnati da Fortuny. Poi deve ovviamente veicolarne i “valori di marca”, essere destinata allo stesso pubblico che si serve del lavoro dei decoratori, se non ai decoratori stessi. La realizzazione del prodotto finito è anche un modo per saltare lo step del decoratore. Non avendo controllo sul prodotto finale realizzato da tale figura professionale, chi produce materiale semilavorato può trovarsi di fronte agli usi e abusi più disparati da parte del designer: oggetti come cornici per la televisione, cucce del cane in tessuto Fortuny, che pure sono stati realizzati, non rientrano sicuramente nel gusto e nella sobrietà che i gestori del marchio imporrebbero ai prodotti finiti, se li fabbricassero direttamente. E’ sembrato utile dunque, giustamente, far crescere dentro la fabbrica figure professionali che potessero progettare anche oggetti con destinazione finale d’uso. È ancora una fase sperimentale che si sta servendo della collaborazione con altre fabbriche e altre maestranze, in primis le vetrerie muranesi. I primi oggetti che sono stati realizzati sono delle lampade da tavolo dal nome Madrazo: la base delle lampade consiste in un vaso; la corolla è realizzata con stoffa Fortuny. La luce può essere accesa o alla base, o sulla corolla, o su tutte e due le parti della lampada. È rispettata una proporzione aurea tra la base e la corolla ed entrambe sono intercambiabili: si può scegliere una combinazione diversa. Le lampade hanno delle variazioni di colore multiple essendo basate sulla combinazione di vasi di diversa colorazione e di tante corolle quanti sono i motivi disegnati da Fortuny. Si possono realizzare su ordinazione dell’utente, se predilige una combinazione non ancora realizzata. La domanda da porsi è se questo tipo di oggetto sia in linea con i valori di marca tradizionali di Fortuny. Non ci sono rischi: la corolla è fatta dei suoi tessuti e l’oggetto è piuttosto tradizionale; ci sono però degli elementi di innovazione: intanto la modularità e la separabilità delle parti; poi la multifunzionalità del vaso, che può essere usato sia come vaso che come lampada, e, ovviamente, la 69
combinazione tra i due (che è il primo modo di invenzione del nuovo). C’è anche un sistema funzionale innovativo che consiste nella realizzazione di un pezzo unico in plastica che unisce la corolla all’anello dove si situa la lampadina. Il secondo oggetto deriva dalla collaborazione dell’azienda con Vistosi: si tratta del lampadario Rui, dal nome tradizionale che hanno i dischi di vetro piombato soffiato a Murano. I dischi di vetro lasciano intravedere al loro interno dischi di tessuto Fortuny: il risultato è un lampadario per sospensione che ricorda i mobiles di Calder, variegato nella colorazione, che trasmette una luce sfaccettata e in movimento. L’estetica è vicina agli anni Settanta. Anche in questo caso, il prodotto può essere customizzato a seconda dei gusti dell’acquirente. Sulla stessa combinazione tra vetro e tessuto si basa Garbo, un lampadario a bracci tipicamente muranese, con del tessuto invisibilmente insinuato dentro il vetro soffiato e scanalato. È nuova anche la tradizionale lampada Pallucco con tessuto Fortuny. Normalmente la lampada è a fondo bianco nella parte concava, nero nella parte convessa. Fortuny ha sostituito questo fondo con i tessuti colorati. Il risultato è elegante, ma difficile dire se sia nello spirito di Fortuny, che distingueva una lampada ornamentale, come quelle orientaleggianti, da una lampada utile, come quella a semisfera riflettente. Della nuova collezione fanno parte anche dei cuscini, disegnati e realizzati da famosi designer come Barry Dixon: come le lampade, combinano insieme vetro e stoffa, poiché sono realizzati con tessuti Fortuny e trapuntati di perle di Murano. Meno tradizionale è il cuscino progettato da Monique Gibson che ha degli inserti in rafia, materiale ruvido e grezzo, apparentemente in contrasto con la morbidezza dei cotoni. Come abbiamo visto in 2.2, il prodotto è la manifestazione più sostanziale della marca, che può ridefinirne l’etica. L’estensione di linea di Fortuny si è finora spinta soltanto a settori limitrofi utilizzando sempre il prodotto principale che è il tessuto. Il vero spostamento consiste, come già detto, nel target: il prodotto finito è destinato a un utente finale e non a un intermediario. Iniziando a conquistare la fiducia dell’utente finale, ci si può gradualmente spostare verso campi di produzione più avventurosi. 5.2 Il marchio è la firma
Il logo di Fortuny Inc. è, per il momento, una firma, la firma di Mariano Fortuny riprodotta. La base line legata al logo‐firma recita: “The signature of beautiful fabrics”, selezionando tra le proprietà visive, ma anche del contenuto, del marchio, il fatto che questa è una firma. I valori della marca sono da ritrovarsi proprio in quella firma. Le stoffe sono firmate e sono dunque originali e opere di genio. La 70
bellezza delle stoffe è garantita da una firma che appartiene al creatore originario. Eccoci precipitare nel pieno dei paradossi della griffe: come fa un prodotto allografico, creato in serie a essere firmato come se fosse un’esecuzione unica? Come fa un logo, che è un oggetto multiplo che ricorre in tutti i prodotti della stessa casa madre, ad essere una firma, cioè un oggetto la cui esecuzione è unica? Come fa un morto a firmare le proprie creazioni? Porsi queste domande significa restare nel campo dell’ontologico e del referenziale, perché è chiaro che la riduzione di un logo a firma altro non è che una strategia di comunicazione che ha come scopo quello di creare una finzione di istanziazione effettiva: mentre la firma è traccia di un gesto, residuo di un’azione autoriale, e ha variabili istanziative uniche e autografiche, il logo ha un regime allografico e le sue modalità di esecuzione vanno dalla matrice alle repliche. L’autorialità di marca è un regime autografico a oggetto multiplo, ma il logo permette di allontanarsi dal processo di produzione. La vera via di mezzo tra firma, traccia enunciazionale, e logo, disincarnato e nomade rispetto al momento della produzione, è, secondo Pierluigi Basso, la griffe: “La griffe regola la coesistenza tra regime allografico dei prodotti tipico delle arti applicate e industriali e il regime autografico della firma” (Basso, 2007: 135). Qui però non siamo neanche nel campo della griffe, ma in un universo puramente finzionale, dove nella firma c’è solo il simulacro di un gesto. L’autorialità e l’originalità entrano così a far parte delle proprietà testuali del prodotto, legate alle forme dell’espressione del logo che rimandano all’improvvisazione, all’hic et nunc dell’esecuzione della firma. La firma resa logo è la messa in discorso della dichiarazione di autenticità, contro tutte le forme di imitazione. Il fatto insomma che manchi un logo, un emblema riconoscibile nel caso di Fortuny, non è una mancanza, ma una scelta, necessaria a mantenere il legame diretto tra autore e prodotto senza scadere nella replicabilità della produzione di massa. Abbiamo visto in 3.1.7 come la marca ha fatto in modo che lo stesso Autore diventasse manifestazione dell’etica e dell’estetica legate al marchio: nel caso di un designer vivente, è facile trasformarlo in rappresentante di sé stesso e del proprio gusto; nel caso di un designer che non vive più, bisogna selezionare i tratti del suo carattere e del suo stile che possono valorizzare la marca, e soprattutto crearne degli epigoni, che facciano da “testimonial rinforzati”, come ha fatto Karl Lagerfeld per Chanel. Fortuny usa la firma come marchio, e questa è a nostro avviso una forma di reazione all’uso che altre marche fanno del nome Fortuny. Esaminiamo Venetia Studium, che utilizza il nome Fortuny sulle copertine delle sue brochure e dei suoi cataloghi. È in stampatello maiuscolo, in stile classico, la U è diventata una V, come nelle lapidi romane. Il logo è simile a quello di Bulgari, dove i caratteri serif e la caratteristica V vocalica rendono omaggio al classicismo italiano. Sotiris Voulgaris, infatti, fondatore dell’azienda, era nato in Epiro, e portava nei suoi gioielli il classicismo greco. La traslitterazione italiana del suo cognome divenne in seguito BVLGARI: nel passaggio dal greco all’italiano, si perde il dittongo e si consonantizza una vocale, alla romana. A prescindere da questi giochi linguistici, il lettering del marchio 71
rimanda all’ispirazione all’arte greca e romana presente nei pezzi di Bulgari. È la stessa fascinazione per l’Italia antica che si vuole trasmettere nel logo FORTVNY. La storia del maestro fondatore è parallela a quella di Bulgari: un nobile spagnolo affascinato dal’Italia e soprattutto dal Rinascimento italiano, si insedia in questa nazione e qui fonda la sua impresa. Il riferimento al mondo classico e soprattutto al passato romano dell’Italia è anche nel nome Venetia Studium: segno di tradizione e di appartenenza del marchio alla tradizione italica. Lo studium non è semplicemente lo “studio”, l’applicazione all’apprendimento, né è il luogo dove si esercita la ricerca. Seguendo la distinzione che ne fa Roland Barthes dal “punctum” nel celebre passo de “La Camera Chiara”, lo studium è la curiosità disinteressata risvegliata dalla contemplazione della maggior parte delle fotografie: un interesse soddisfatto da una serie d’informazioni che solo la precisione dell’immagine analogica può fornire, “l’applicazione a una cosa, il gusto per qualcuno, una sorta d’interessamento, sollecito, certo, senza nessuna intensità”. Il punctum invece è una folgorazione, che arriva inaspettata quando si guarda una fotografia. È chiaro che gli ideatori del logo Venetia Studium non si riferivano a Barthes quando hanno coniato il nome dell’azienda, dato che il termine studium è il “polo negativo” della distinzione barthesiana, e si riferisce a una lettura figurativa piuttosto superficiale dell’immagine, non a quello che rende la fotografia opera d’arte. Resta però il riferimento all’applicazione, alla laboriosità e alla curiosità dell’invenzione, caratteristiche della personalità eclettica di Mariano Fortuny. Il riferimento allo “studium” mette tra l’altro l’accento sulla ricerca piuttosto che sul mero lavoro manuale. Il logo di Venetia Studium rimanda a uno schizzo tratto da un quaderno di disegni tessili di Giovanni Bellini, ed è simile a un altro disegno utilizzato da Fortuny negli anni Venti come copertina di un suo catalogo di stoffe. Il riferimento ad autori del XV secolo come Bellini mostra la forte volontà del marchio di continuità con il periodo rinascimentale e in generale con il glorioso passato veneziano. Venetia Studium si è impossessata del marchio e l’ha registrato, ma non può apporre la firma, perché l’unico originale legittimo erede della tradizione di Fortuny è l’impresa concorrente che, nella frustrazione di non poter produrre accessori per la moda, continua a firmare le belle stoffe. 5.3 Etichette: fiumi di parole
Loghi e firme si trovano su brochure, cartoline ed etichette, paratesti utili a decifrare il discorso di marca di Fortuny. Dall’analisi testuale della presentazione dei prodotti, emerge una decisa centralità del valore dell’autenticità. L’azienda è effettivamente uno dei pochi casi in cui la marca è davvero radicata in un territorio per contratto: nel gentlemen agreement firmato da Maged Riad e la Contessa Mac Neil‐Gozzi è firmata una promessa a non spostare mai la produzione da Venezia. L’autenticità, l’originalità e l’unicità dei prodotti è inoltre garantita dal segreto più assoluto che vige sulle materie e i metodi di produzione. 72
Sulle etichette dei prodotti, anche quelli più piccoli e meno cari, come i quaderni o gli scampoli di tessuto, un lungo testo dice: “Questa stoffa è il leggendario e incomparabile tessuto Fortuny, fabbricato ancora oggi artigianalmente nell’isola della Giudecca a Venezia usando le stesse macchine e le stesse tecniche segrete elaborate e studiate da Mariano Fortuny quasi un secolo fa. Questo processo esclusivo, mai replicato in nessun’altra parte al mondo nonostante numerosi tentativi, riesce a fissare per ogni singola produzione il momento preciso in cui è stata eseguita, conferendole la caratteristica di pezzo unico e irripetibile. È per questo motivo che queste stoffe sono considerate un “momento di storia veneziana”. La fabbrica Fortuny e il museo Fortuny sono gli unici luoghi ove è possibile scoprire l’ingegno di Mariano Fortuny attraverso i suoi autentici tessuti, le sue opere e i suoi prodotti originali” (grassetto nostro). Il discorso del marchio Fortuny verte per il momento quasi esclusivamente sul valore di autenticità del prodotto e di unicità del suo processo di produzione. Il discorso sull’autenticità è mirato a difendere l’oggetto dalle imitazioni e dalle contraffazioni: da questo dipende l’utilizzo di termini come “incomparabile”, “esclusivo”, “mai replicato”, “autentico”, “originale”), o piuttosto per costruire l’immagine dell’Altro come “impostore”, qualcuno che realizza un prodotto senza averne la competenza. Il discorso è chiaro ed esplicito, ma siamo sicuri che sia efficace? L’etichetta avrebbe infatti il ruolo di “parlare della marca e del suo universo con eleganza e concisione” (Chevalier, Mazzalovo, 2008: 109). Con questo tipo di etichetta invece, Fortuny si pone sulla difensiva, esplicitando la proprietà intellettuale sui propri tessuti, non costruisce un discorso originale, positivo, sintetico ed esauriente. Le etichette logorroiche, tradotte in termini semiotici, dichiarano che gli artigiani Fortuny sono gli eredi di una tradizione alchemica e segreta che conferisce loro la competenza adatta a produrre il tessuto. In una società dove la contraffazione è diventata lo spauracchio dei grandi marchi, l’autenticità, l’identità del Destinante, diventa il primo valore da proteggere. Il contratto fiduciario che si innesta tra venditore e compratore implica quest’aderenza ai valori di eredità, tradizione, non assoggettamento alle regole del marketing. Il discorso sull’autenticità veicola dunque un messaggio negativo (la difesa) ma anche un messaggio positivo e che è comune nella comunicazione attuale dei prodotti di lusso: l’unicità, la relazione diretta e materiale con il lavoro, la dimensione artigianale e il legame con il territorio di provenienza. Bisognerebbe veicolare questo valore in modo più implicito ed elegante, senza ripetizioni e ridondanze. 73
5.4 Rassegna Stampa: della discrezione
Fortuny non fa pubblicità. Ovvero, non la fa nel senso tradizionale del termine, ma sicuramente si avvale di un buon sistema di comunicazione. Questo disprezzo nei confronti della pubblicità aveva avuto inizio già ai tempi in cui Mariano Fortuny decideva le sorti della sua azienda: la sua breve collaborazione con l’AEG lo aveva reso insofferente nei confronti dei meccanismi industriali e più propenso verso forme di marketing personali e di breve raggio. Aveva dunque privilegiato un tipo di comunicazione basata sul passaparola, il che creava un circolo di estimatori che si passavano la voce sui suoi capi e i suoi tessuti, piuttosto che un sistema di comunicazione impersonale. Eppure, con la crescita dell’azienda a livelli industriali e l’apertura di negozi a Londra e Parigi, si fa sentire la necessità di aumentare il raggio dei destinatari della comunicazione. Escono quindi, sui giornali francesi, delle inserzioni pubblicitarie. In tutti i numeri della rivista Les Modes del 1914 appare la stessa inserzione, la fotografia di una veduta del Palazzo Pesaro degli Orfei con l’indicazione degli indirizzi dei tre negozi: l’officina a Venezia, il negozio di Parigi e il negozio di Londra. Nel Les Modes di Marzo 1914, viene adottata una strategia di marketing tipica dei nostri giorni: tutto il giornale è tematizzato su Venezia. L’editoriale del direttore Albert Flament, intitolato “Les peintres de Venise”, è molto critico sul turismo mordi e fuggi che infesta la città: a suo avviso ci dovrebbero essere più viaggiatori interessati alla pittura delle chiese veneziane, e meno turisti che scelgono Venezia solo come meta di turismo balneare. Tra le pagine del giornale, sono riprodotti in bianco e nero con i pochi mezzi dell’epoca, in cui stava emergendo il medium fotografico, delle vedute di Francesco Guardi. In questo numero, dedicato alla pittura veneziana, appare non a caso l’inserzione pubblicitaria di Fortuny. Anche oggi l’azienda rifiuta di ideare campagne pubblicitarie, anche perché il suo destinatario non è il singolo acquirente, quanto piuttosto l’arredatore, che suggerisce al compratore lo stile con cui arredare la propria casa. I tessuti Fortuny appaiono dunque all’interno dei servizi sui giornali specializzati, non in forma di inserzione pubblicitaria, ma nel contesto di reportage fotografici costruiti appositamente sulle case “in stile”. Le riviste nelle cui pagine abbiamo trovato riferimenti ai tessuti Fortuny sono americane e tutte di matrice piuttosto conservatrice: “Traditional Home”, “House and Gardens”, “Classical American House”, “Art & Antiques”, “House Beautiful”. Più raro trovare dei servizi che inseriscano tessuti Fortuny sui giornali italiani: come abbiamo già detto, l’azienda, forte negli Stati Uniti, non si è ancora imposta sul mercato italiano. La stampa italiana copre piuttosto le mostre che si svolgono a Palazzo Fortuny e racconta la storia dell’eclettico Mariano ma non abbiamo visto, nella stampa specializzata, dei servizi dedicati ai tessuti. La cosa è stata dovuta più che altro a una mancanza di rapporti con il territorio: ora che si è creato questo nucleo di management centrato a Venezia, è più facile entrare in contatto con le reti locali. In particolare, Fortuny è entrata naturalmente in contatto con il mondo degli albergatori e dei tour operator 74
locali. Un effetto di questi contatti è l’inclusione della fabbrica tra le mete degli itinerari organizzati: esiste un “itinerario Fortuny” che va dal Palazzo alla Giudecca; un altro effetto è stato l’inserzione di una pubblicità di Fortuny in un opuscolo distribuito negli alberghi veneziani di lusso (sopra le tre stelle), L’ospite di Venezia. Si tratta di una fotografia a tutta pagina che rappresenta l’edificio della fabbrica di notte visto dal canale della Giudecca. Il pay‐off recita “Fortuny: the original name, the original factory, the original fabrics”. Come nel caso delle etichette, viene enfatizzato il carattere di originalità e autenticità della fabbrica, senza sottolinearne il valore aggiunto. Lo scopo della strategia pubblicitaria non è rilevabile solo nel messaggio: la scelta di inserire questa pubblicità in un opuscolo distribuito solo in alberghi di lusso dimostra la scelta di puntare al turista che pernotta a Venezia e che ha una possibilità di spesa abbastanza elevata. Il target è uno straniero che ama molto la città e che si spinge nei suoi angoli più reconditi, e che, pernottando in città, ha anche la possibilità di accesso alla città la notte. Questo turista ha sicuramente interesse e fascinazione per un “Made in Venice” di alta qualità. Venetia Studium, come Fortuny, è piuttosto restia a svolgere campagne pubblicitarie, preferendo invece articoli e redazionali: ne ha ideate un paio negli anni Novanta dedicate unicamente alle proprie lampade. In una di queste immagini pubblicitarie, distribuite in qualche giornale di nicchia come AD, sullo sfondo di un tessuto damascato rosso e oro, pendono sei lampade “cesendello”, di cui una illuminata. L’ambientazione è dannunziana, e il rimando ai tempi d’oro dell’estetismo è segnalato anche dalla headline: “Venezia ‘900: luce di seta”. Gli ingredienti ci sono tutti: il tessuto e la lampada si sintetizzano in un sincretismo multisensoriale, la luce diventa morbida, il tessuto luminoso, in un luogo e in un tempo in cui la voluttà di vivere era tema dominante della letteratura e dell’arte (ma non delle avanguardie). Usando le tipologie di pubblicità ideate da Jean‐Marie Floch (1995) è chiaro che ci troviamo di fronte a una valorizzazione utopica, una pubblicità enfatica che prova ad ammantare l’oggetto di un alone di mistero e di esotismo, collocandolo in situazioni tutt’altro che abituali e quotidiane. La versione internazionale di questa campagna pubblicitaria “Silk Light” raffigura una stanza in cui i muri sono ricoperti di tendaggi ma piena di oggetti: a illuminarla un altro cesendello. Fanno da cornice frammenti di lampada ingrandita. Ci troviamo quindi in una situazione di mezzo, tra il genere mitico e il sostanziale: le lampade che fanno da cornice fungono infatti da catalogo in cui vengono mostrate da vicino le caratteristiche del prodotto. La pubblicità di Venetia Studium fa perno sulle qualità evocatrici di Venezia, utilizzate tante volte nel discorso pubblicitario. L’ambientazione veneziana contribuisce a dotare di fascino e di esotismo qualunque narrazione. Solo che, nel caso di Venetia Studium, l’ambientazione è motivata dall’effettivo radicamento sul territorio; in altri casi (Mulino Bianco, Citroen) è del tutto arbitraria. La diffusione dell’immagine di Venetia Studium in repotage e redazionali di riviste specializzate è molto vasta. Le lampade Venetia Studium appaiono in servizi di Architectural Digest (versione italiana e versione internazionale), Bravacasa, Marieclaire, Elle Decor, The New York Times Review. La politica 75
riguardo alla comunicazione è molto più ampia di quella di Fortuny: segno di un diverso tipo di ragionamento di mercato che mira alla produzione di grandi numeri e all’espansione. Fortuny invece mira a mantenere le stesse dimensioni, lo stesso fatturato e, soprattutto, e questo è il fondamento del suo discorso, la stessa qualità. La comunicazione Fortuny è mirata ai singoli arredatori, che sono conosciuti uno per uno e ai quali è sempre destinata un’accoglienza calda e amichevole alle feste e alle inaugurazioni dell’azienda. Ai tempi della direzione della contessa Elsie Mac Neill Lee Gozzi, la signora spediva ogni anno per Natale ai suoi principali clienti cartoncini di auguri. I cartoncini erano “brandizzati” con il marchio di Fortuny, ma vi era presente soprattutto l’elemento veneziano, vista la presenza del leone e delle fotografie rappresentanti l’architettura della casa della contessa (la Palazzina Gozzi). La contessa faceva stampare anche un numero limitato di piccoli depliant che mostravano i disegni delle stoffe e ne raccontavano brevemente l’origine e le influenze. La comunicazione oggi non è molto cambiata: singoli estimatori e arredatori sono coccolati dall’azienda che spesso organizza occasioni d’incontro. Se ne trovano tracce su vari blog di arredatori su internet, sempre entusiasti dell’esperienza veneziana e affascinati dai tessuti di Fortuny. Per citarne un paio: http://brookegiannetti.typepad.com/velvet_and_linen/ http://grantkgibson.blogspot.com/2009/06/fun‐at‐fortuny.html http://frenchessence.blogspot.com/2009/02/on‐my‐way‐to‐fortuny‐factory.html http://www.huffingtonpost.com/kathryn‐ireland/design‐leadership‐summit_b_557403.html 5.5 Posizionamento di rete
Mettendo il nome Fortuny in un motore di ricerca, la prima voce dell’elenco risultante è www.fortunyshop.com, è categorizzata come annuncio pubblicitario; la seconda è www.fortuny.com . Il primo link pubblicitario appartiene a Venetia Studium che vende on line lampade e accessori e detiene il dominio www.fortuny.it che facilmente può essere confuso con l’altro sito, www.fortuny.com , appartenente all’azienda Tessuti Artistici Fortuny. Fino a poco più di un anno fa, tutte le voci principali che risultavano dalla ricerca erano relative a Venetia Studium, e già nei link elencati attraverso google, il nome Fortuny era accompagnato dalla ® commerciale, a indicare la detenzione del marchio, mentre non appare per l’altra azienda. La confusione tra le due aziende è totale: su Ideat, giornale francese dedicato all’arredamento, un redazionale parla di Fortuny e del suo museo e poi indica in un box laterale dove comprare i veri tessuti e oggetti Fortuny: si riferisce alle sciarpe, alle lampade e agli arazzi di Venetia 76
Studium ma dà l’indirizzo web di Fortuny Giudecca. Sovrapposizioni e confusioni di questo genere sono all’ordine del giorno. Il sito www.fortuny.com si apre con un’animazione flash che riproduce l’apposizione di una firma. Il corsivo della firma è segnale di una temporalità continua e progressiva (Burgio, 2007), un “farsi” del marchio nella linearità del tempo storico, un’indicazione del tempo presente. La firma è tracciata in rosso su sfondo fotografico in bianco e nero: la foto raffigura rotoli di tessuti sovrapposti l’uno sull’altro. Passata l’introduzione, la pagina si apre su uno slide‐show a colori: la prima immagine è quella di un’applicazione sull’i‐phone che permette di sfogliare tutta il campionario dei tessuti Fortuny scegliendone colore, stile o modello del disegno. Le altre diapositive raffigurano rotoli di stoffa della nuova collezione del 2010. Il testo a sinistra richiama l’attenzione sull’invenzione dell’applicazione per i‐phone, sull’apertura dei nuovi show‐room a Venezia in primavera e a New York in autunno, e sul lancio della nuova collezione. Le notizie della prima pagina web sono quindi tutte improntate sull’innovazione relativa a prodotti, tecnologie e spazi di vendita ed esposizione. Il primo link è dedicato non a caso al “lascito” di Fortuny: si racconta la vita di Mariano, la storia della fabbrica, del museo, dell’impronta lasciata nella moda dai vestiti e dai tessuti prodotti e la storia della fabbrica Fortuny dalla morte del maestro ai nostri giorni. Il secondo link permette l’accesso al catalogo della nuova collezione. Come nella pubblicizzata applicazione per i‐phone, si possono selezionare i tessuti adottando criteri di colore, disegno e stile. Possono essere visionati applicazioni sull’arredo e designer che hanno preso in carica la finitura dei nuovi disegni (Barry Dixon e Jeffrey Bilhuber). Un breve testo riguardante i due designer segnala l’avvenuta “sanzione fantasmatica” di cui abbiamo parlato precedentemente: “Fortuny would like to acknowledge those who have enhanced the beauty and timelessness of our fabrics through inspirational design”. Considerando che per la nuova collezione sono stati utilizzati disegni mai realizzati di Mariano Fortuny, viene da chiedersi se ci sia un motivo per cui lui li abbia scartati. In ogni caso, i nuovi pattern sono estremamente moderni ed eleganti. Sono mostrati i nuovi prodotti, tra cui le lampade, ma una frase avverte: “These are not Fortuny brand lamps”. Il marchio Fortuny per le lampade appartiene a Venetia Studium. Una linea che ha invece fatto aumentare le vendite è quella della cartoleria e dell’oggettistica: piccoli quaderni rilegati con stoffa Fortuny e cuscini di elegante fattura. Un settore del sito è dedicato alle notizie e alla rassegna stampa. Abbiamo già indicato precedentemente quali siano le riviste che coprono l’immaginario Fortuny. Quello che risulta dal sito è un forte desiderio di innovazione da parte dell’azienda. Prima di tutto il sito non esisteva fino a poco tempo fa e già la decisione di andare on_line dimostra una nuova attenzione al circuito mediatico contemporaneo. La semplicità e l’esaustività del sito mostrano un’attenzione all’usability design e l’importanza centrale è data ai tessuti e ai prodotti: già attraverso internet, si possono 77
studiare uno per uno i modelli di disegni che appaiono sulle stoffe. Certo la visione dal vivo è tutta un’altra cosa, ma il sito web permette sicuramente un primo orientamento. Dal sito un link permette di accedere al blog di Fortuny, gestito da Mickey and Maury Riad ed altri: è una gestione più informale delle notizie e delle informazioni. Se dobbiamo rimproverare qualcosa al sito di Fortuny, e probabilmente alla sua comunicazione, è di non mettere in mostra le applicazioni dei suoi tessuti negli hotel e nelle case private dei suoi acquirenti. Solo sul blog, troviamo l’informazione che Philip Johnson aveva utilizzato il tessuto piumette in rosa e oro per coprire le pareti di casa sua. Solo attraverso una navigazione casuale abbiamo ammirato la casa di Rush Limbaugh, giornalista conservatore, che aveva fatto tappezzare le sue stanze di tessuti Fortuny (non tutto però, a nostro parere, è di buon gusto in questo appartamento newyorkese con magnifica vista sullo skyline). E solo attraverso un’approfondita conoscenza della vita di Fortuny, sappiamo che con i suoi tessuti fu decorato il museo Carnavalet e di Parigi e il museo di Capodimonte a Napoli. Inoltre molte case veneziane e soprattutto molti alberghi, continuano a utilizzare per l’arredo i tessuti Fortuny. Da un articolo pubblicato sul Gazzettino, veniamo informati sul fatto che Matt Damon, Denzel Washington e Elton John (che,del resto, possiede una casa in Giudecca) hanno arredato i loro interni con tessuti Fortuny. Un’altra pecca è la rassegna stampa: manca l’analisi capillare delle riviste del settore, o la digitalizzazione degli articoli dei quotidiani, anche quelli riguardanti il museo, che sicuramente gioverebbero alla fabbrica stessa. I concorrenti non fanno questo errore, se di errore si può parlare: Venetia Studium sul suo sito espone una sezione “progetti” dove vengono mostrate le sue lampade nel contesto di hotel e ristoranti, dal Cipriani a Venezia allo Sheraton di Dubai. Espandendo il confronto anche ad altri classici creatori di stoffe veneziane come Rubelli, il suo sito ha tutta una sezione dedicata ai contratti con i grossi clienti, come gli hotel, le navi e i progetti speciali: scopriamo così che Rubelli (oggi sotto il marchio Donghia) ha prodotto tessuti per il Mulino Stucky hotel Hilton di Venezia, il museo Albertina a Vienna, lounge e suite delle navi Costa. Sarebbe insomma interessante che più attenzione fosse data ai testimonial, perché circolasse l’informazione sugli stili di vita di coloro che hanno scelto il marchio Fortuny. è chiaro che chi frequenta le case dei VIP viene a conoscenza del marchio, ma è davvero un abbassamento di livello insopportabile raccontare le storie di chi ha deciso di vivere in stile Fortuny a un pubblico di estimatori interessati? 5.6 Sinergie tra azienda e museo
Il target group degli arredatori, seguiti uno per uno personalmente da Fortuny, si incontra periodicamente in eventi di settori come il Design Leadership Summit. L’ultima edizione è stata ospitata da Venezia. Fortuny ha colto l’occasione per inaugurare lo showroom veneziano e per presentare la nuova collezione di disegni per tessuto. Nel grande giardino prospiciente il canale che separa la fabbrica dal Mulino Stucky, 78
intorno alla splendida piscina degli anni Quaranta, si sono tenuti cocktail e cene. Gli arredatori hanno anche partecipato a incontri organizzati presso Palazzo Fortuny tra cui una conferenza di quell’Axel Vervoordt, collezionista e mercante d’arte, le cui analogie con Mariano Fortuny abbiamo già esaminato. È in questa occasione, il Design Leadership Summit del 2010, che si è manifestata per la prima volta la sinergia tra museo e azienda; le due istituzioni hanno infatti offerto congiuntamente l’uso dei loro spazi per un’iniziativa internazionale di promozione culturale e commerciale. La sinergia tra museo e azienda è stata sancita nello stesso periodo dalla collaborazione riguardante la progettazione dei nuovi motivi da stampare sui tessuti: la Fortuny SPA aveva infatti discusso con il museo della possibilità di utilizzare materiali d’archivio per realizzare disegni progettati ma mai stampati da Mariano Fortuny. E’ così che sono stati realizzati nuovi motivi come Onda e Papiro in diversi colori. Parte dei guadagni derivante dalla stampa di questi nuovi pattern è stata devoluta al Museo. La collaborazione tra le due istituzioni è stata dunque sancita da uno scambio economico‐produttivo. Il legame tra le due istituzioni è garantito ‐ banalmente – da un effetto ripetizione che il nome suscita: la fama di una accresce quella dell’altra. I rapporti tra un museo e un’azienda che abbiano lo stesso nome sono di solito di due tipi: o il museo è un’appendice comunicativa dell’azienda e le fornisce materiale storico‐culturale per legittimarla ed esporne la biografia (è il caso dei musei d’azienda); oppure l’azienda investe i propri capitali in un museo e s’impegna in una forma di mecenatismo (è il caso della Fondazione). Museo e azienda Fortuny hanno un legame storico ben preciso, essendo la fabbrica (oggi azienda) nata come prolungamento produttivo del laboratorio (oggi museo) durante la vita di Fortuny. Oggi sono del tutto autonome l’uno dall’altra, ma la loro collaborazione può produrre benefici per entrambe. Per l’azienda, il museo è una fonte inesauribile di capitale culturale e artistico; per il museo, l’azienda è utile non solo perché è sempre in grado di rifornire di arredi e materiale, ma anche perché dà continuità alle attività svolte da Fortuny ed evidenzia il lato produttivo di contenuti altrimenti musealizzati e a rischio obsolescenza. Azienda e museo potrebbero essere in partnership per la promozione delle arti. Una prima collaborazione istituzionale si avrà nell’estate del 2011, quando gli spazi esterni della fabbrica ospiteranno un evento collaterale della Biennale sostenuto da Palazzo Fortuny. Una forma di collaborazione si è già avuta per la messa in scena dell’opera della compagnia Anagoor: Palazzo Fortuny ha offerto lo spazio; l’azienda i tessuti per la realizzazione degli scenari. Una mostra come quella tenutasi da Aprile a Luglio 2010 (“La seta e il velluto”) ha messo in evidenza il rapporto tra azienda e produzione: la mostra esibiva abiti provenienti dalla collezione dei proprietari di Fortuny Inc. di New York (la famiglia Riad) e ripercorreva la storia della produzione di questa fabbrica, dallo spostamento dell’officina da palazzo Pesaro degli Orfei alla Giudecca fino alla fine della produzione di abiti come il Delphos negli anni Cinquanta. Accanto a pezzi vintage appartenuti a dame dell’alta 79
borghesia americana, altri capi sono direttamente forniti dall’azienda con indicazione del luogo di fabbricazione per chi volesse saperne di più. Inoltre, esiste nel museo uno spazio dedicato alla vendita: il bookshop, gestito da Skira. Vi sono esposti oggetti di marche appartenenti al design contemporaneo; molti pezzi sono di fabbricazione veneziana, dai vasi di Venini ai gioielli di Davide Penso; altri appartengono al design internazionale, dall’oggettistica di Gaetano Pesce ai contenitori in latta di Nussha Japanware. Tra tutti questi oggetti, dentro un piccolo armadio sono sistemati agende e notebook foderate di tessuto Fortuny. Attraverso l’introduzione di questi articoli nel negozio del museo, l’azienda trova non solo un punto di distribuzione della sua merce, ma un punto di comunicazione e diffusione dei valori del marchio. Le etichette ingrandite quasi in forma di manifesto esplicitano l’originalità degli articoli e ribadiscono il legame unico che la marca ha con il museo. È una forma discreta ed elegante di merchandising, che mostra un’azione di apertura al mercato da parte della fabbrica con una selezione attenta dei compratori: soltanto coloro che entrano nel museo, e quindi sono incuriositi o conoscono già la vita e le opere di Fortuny, sono degni dell’acquisizione di un oggetto da lui firmato. Gli articoli Fortuny presentati al museo utilizzano lo spazio non come spazio di vendita ma come spazio espositivo, si appropriano di una legittimazione che la sola presenza dentro il museo attribuisce loro. 5.7. Distribuzione e showroom
Il bookshop del museo è oggi l’unico punto di distribuzione dei prodotti Fortuny nel centro di Venezia. L’unico luogo dove è possibile vedere e comprare prodotti a marchio Fortuny è la fabbrica. Eppure, anche adesso che è aperta al pubblico e ha una nuova gestione in loco, un informale sondaggio tra la popolazione veneziana mostra che per la maggior parte dei residenti la fabbrica è o chiusa, o inaccessibile, e, agli occhi dei più, l’unica attività legata a Mariano Fortuny sono il Museo e i prodotti di Venetia Studium, che invece vanta una rete di negozi in centro storico. Il negozio degli eredi Trois, in campo San Maurizio, che aveva l’esclusiva di vendita al dettaglio delle stoffe Fortuny, e che quindi permetteva la circolazione del marchio e dei prodotti nella città storica, ha smesso dal 2002 di trattare Fortuny, per decisione della casa madre stessa. Da qui la necessità di manifestare in qualche modo la presenza veneziana della fabbrica Fortuny e di curarne l’immagine. Da una parte continua a vigere il divieto di visita alla fabbrica Fortuny, in cui le modalità di produzione e le tecnologie utilizzate sono coperte da un segreto che sfocia ormai nel mistero e nella leggenda. Dall’altra però questa inaccessibilità, protetta dagli stessi artigiani che vantano di possedere competenze uniche e non comunicabili, è stata attenuata dalla apertura di un accogliente showroom, dove i clienti sono ricevuti in un ambiente arredato con tessuti Fortuny e oggetti facenti parte della collezione dell’azienda. Il nuovo showroom, aperto 80
dall’inverno di quest’anno, rientra dunque nella nuova politica d’impresa, che ha puntato su Venezia come nuova sede gestionale e non più soltanto produttiva. La nostra ipotesi progettuale che la crisi si affronti con un nuovo investimento sull’immagine, è stata dunque già stata cavalcata da Fortuny SPA, che sta cercando di restituire al suo marchio la caratteristica fondamentale dei suoi prodotti, la “venezianità”, puntando appunto sulla ri‐centralizzazione anche a livello geografico dell’impresa. Se è vero infatti che il marchio ha sempre avuto una proprietà internazionale – banalmente, lo stesso Fortuny era spagnolo, e sua moglie francese – è anche vero che quel tipo di internazionalità raffinata, amante dell’Oriente e del Rinascimento, collezionista, è da radicarsi proprio a Venezia, la cui caratteristica principale è quella di essere luogo di scambio e crogiolo di culture. Il “locale”, a Venezia, coincide con una connotazione positiva del termine “globale”. L’apertura al pubblico dello showroom, inoltre, è supportata e agevolata anche dalla riqualificazione nell’ultimo decennio di tutta l’area in cui si trova, cioè la zona Ovest della Giudecca. Per quanto la Giudecca sia un quartiere isolato e non collegato tramite ponti al nucleo centrale di Venezia, l’area ha acquisito una nuova centralità e maggiore afflusso turistico a causa dell’apertura dell’Hilton nel vecchio Mulino Stucky, cui è seguita l’apertura di una filiale del Cipriani, l’Harry’s Dolci, nella stessa area; mostre d’arte e padiglioni della Biennale sono stati ospitati nella ex birreria Dreher e nell’ex monastero di San Cosma e Damiano e il nuovo quartiere dello Junghans, progettato dall’architetto milanese Cino Zucchi, ha favorito la residenzialità di nuovi nuclei familiari e attira continuamente architetti e amanti di architettura contemporanea in visita. I proprietari e gestori di Fortuny Inc. hanno deciso di aprirsi al pubblico soltanto quando hanno temuto che la concorrenza potesse offuscarne del tutto il marchio. Lo showroom ha aperto quattro anni fa, di fronte all’avanzata e al successo sempre maggiore di Venetia Studium, che, detenendo il marchio Fortuny per le lampade e il Delphos per i vestiti, rischiava di restare l’unica depositaria apparente del marchio. D’altra parte la cessazione dei rapporti con l’unico fornitore di Fortuny in città, ha reso indispensabile un nuovo punto di distribuzione. Quest’anno lo showroom è stato rinnovato, diventando un luogo piacevole e rilassante dove si vive in perfetto stile Fortuny. Il design dell’interno è stato curato da Barry Dixon. Abbiamo abbozzato un’analisi semiotica dello spazio dello showroom, distinguendo piano dell’espressione e piano del contenuto. Sul piano dell’espressione abbiamo distinto le componenti eidetiche, cromatiche e topologiche dello spazio,e il rapporto tra interno ed esterno: legato a questa opposizione il modo in cui lo spazio richiama e coinvolge lo spettatore esterno, il suo appello enunciativo, e il modo in cui l’autore si iscrive dentro il testo. Allo spazio interno si accede attraverso una porta che affaccia su un ingresso ai lati del quali si sviluppano due grandi stanze. In ingresso su un tavolino rotondo (coperto da tessuto Fortuny, ovviamente) è poggiato un mappamondo settecentesco. Il pavimento alla veneziana, di colore rossiccio in tutto il resto del negozio, presenta un’inserzione circolare proprio intorno al tavolino sui toni dell’azzurro e del verde acqua. Sopra il 81
tavolo pende il lampadario composto con rui veneziani creato in collaborazione con Vistosi (vedi par. 3.1). Gli elementi circolari ritornano nel resto dello spazio, facendone una componente eidetica fondamentale: a sinistra tre poltrone sono sistemate intorno a un pouf di pelle circolare che funge da piano d’appoggio; sotto il pouf un tappeto di forma circolare copre il pavimento. Tutti questi elementi sono borchiati con degli elementi rotondi. Nello spazio a destra una grande sfera di pietra poggia sul pavimento. La circolarità riecheggia nella grande lampada a riflessione da terra Fortuny (oggi Pallucco) e nell’altra lampada da scrivania. Al livello dei cromatismi e delle luminosità, la suddivisione dello spazio in due ali è netta: a sinistra rispetto all’entrata lo spazio è chiaro e luminoso, i tendaggi e la stoffa che copre le pareti hanno i toni del verde‐azzurro luminoso e le poltrone sono rivestite dei colori dell’oro e dell’acqua. Le due grandi finestre fanno entrare la luce del sole e della laguna e il suono è quello delle barche di passaggio. Le lampade in esposizione, una serie di Madrazo dalla base in vetro di Murano colorato e il cappello conico in tessuto Fortuny, illuminano ulteriormente lo spazio e lo accendono di vivaci cromatismi. Nell’ala destra rispetto all’entrata, i toni sono quelli del rosso mattone e la luce è bassa e artificiale, soffusa e omogenea perché proveniente dalle alogene di Fortuny. Una grande tenda aperta divide i due spazi: ha due facciate di colore diverso, corrispondenti ai colori delle due aree: una parte è verde‐azzurra, l’altra rossa e oro. Le poltrone dell’area destra sono rivestite di tessuto di colore rosa. Le pareti della stanza sono ricoperte di rotoli di stoffa di diverso colore e pattern e di espositori di pezzi di stoffa distesi. Al centro c’è un grande tavolo da lavoro in legno con un metro per tagliare le stoffe. Lo spazio ha quindi al suo interno elementi di continuità e di discontinuità: a creare continuità sono le rime plastiche dovute al ritorno continuo della forma circolare e la predominanza dei tessuti; a creare discontinuità sono invece luce e colori. Una rilettura di questa discontinuità sul piano del contenuto fa emergere una differenza di funzioni tra un’area e l’altra. L’area a sinistra dell’entrata è la zona‐giorno, zona destinata alla convivialità (poltrone in cerchio), alla lettura (riviste e cataloghi sono in esposizione) e al godimento estetico (vista dalle finestre ed esposizione di lampade e cuscini); l’area a destra invece è una zona di lavoro: il tavolo, il metro e la presenza di un’addetta alla vendita, alle spedizioni e alle pubbliche relazioni, che passa dal computer al telefono, ci segnalano la situazione “da ufficio”. Molto spesso su quel tavolo troviamo degli artigiani al lavoro, che tagliano pezzi di stoffa o compongono cataloghi. La presenza di forme circolari e avvolgenti mira a coinvolgere il visitatore, che si trova circondato da elementi morbidi e senza spigoli. La preminenza dei colori azzurro/verde/argento richiama il colore della laguna all’esterno e proietta la luce dell’acqua nell’ambiente interno, come succede a Palazzo Fortuny quando video‐artisti proiettano immagini acquatiche. Lo spazio dello showroom è in forte discontinuità rispetto all’esterno: non ci sono vetrine, ma due finestre alte, da cui è facile vedere l’esterno dall’interno, ma non viceversa; inoltre per entrare è necessario passare per due porte, che sono entrambe chiuse. La prima, quella che dà sulla fondamenta, è un grande cancello 82
nero in ferro, sempre chiuso, accanto al quale un’insegna informa della presenza della fabbrica Fortuny. per entrare bisogna dunque suonare. Una volta dentro, ci si trova in un corridoio esterno alla fine del quale una catena impedisce di andare oltre. A sinistra una porta a vetro, rigorosamente chiusa, fa da accesso allo showroom. Lo spazio non è dunque invitante e amichevole per un avventore che capiti lì per caso. Diventa però confortevole se si è preso appuntamento e se si viene accompagnati da qualcuno dello staff. Non dimentichiamo inoltre che ci troviamo su un’isola, la Giudecca, all’interno di una città che è essa stessa isola. Un sistema di impedimenti concentrici rende quindi estremamente difficile l’accesso allo spazio interno. Come visto inoltre nello showroom non ci sono commesse e addetti alla vendita che ci accolgono cercando in tutti i modi di rispondere alle nostre domande da compratori, ma solo persone che lavorano. Lo showroom appare allora insieme come spazio privato e luogo di lavoro, o piuttosto come luogo di messa in scena di queste due cose (perché il vero spazio privato è casa propria, e il vero luogo di lavoro si trova al primo piano della fabbrica, non la piano terra): sicuramente è luogo di rappresentazione delle condizioni di vita del “tipo” Fortuny: esteta e lavoratore; artista e tecnico. La presenza di giornali e cataloghi nella zona‐giorno la fa diventare uno spazio di lettura e conoscenza. In questo luogo multifunzionale che permette la conversazione, il lavoro e lo studio, esposizione e vendita sono solo due funzioni in più, tra l’altro non del tutto separabili. Infatti non è immediatamente chiaro cosa sia in vendita e cosa no: alcuni oggetti – lampade, cuscini e quaderni soprattutto ‐ portano indicato il prezzo; ma la maggior parte della merce è solo in esposizione. Il punto vendita offre un’intera esperienza sensoriale che va oltre all’idea stessa del servizio al cliente, e il consumo viene mescolato con l’esperienza. La merce diventa souvenir di un’esperienza. Come nel museo, si circola, si guarda e si ammira, ma il museo, paradossalmente, è il luogo centrale, aperto, pubblico, mentre lo showroom è defilato, chiuso e segreto. L’accesso ai veri luoghi di produzione al primo piano è, ricordiamolo, vietato. A differenza di Fortuny, Venetia Studium ha puntato sin dall’inizio alla grande distribuzione, creando una rete di punti vendita che si situa sui percorsi più battuti del turismo di Venezia: il suo negozio più grande si trova infatti in Calle XXII Marzo, via centrale dello shopping veneziano, costellata dei punti vendita delle griffe italiane più ambite dai turisti, da Gucci a Tod’s, da Fendi ad Anna Molinari; l’altro punto vendita si trova vicino Rialto, in una strettoia in cui il passaggio è d’obbligo per un turista che vada dall’Accademia a Rialto. Da segnalare l’apertura qualche anno fa di un punto vendita in aeroporto (chiuso dopo cinque anni di attività), e l’apertura recentissima di un negozio dentro l’Hotel Cipriani alla Giudecca. Venetia Studium ha anche una vetrina dietro il teatro alla Fenice. La produzione e commercializzazione di lampade, accessori di abbigliamento e di arredamento, si rivolge a un cliente che compra il singolo oggetto, dal costo che si mantiene sulla fascia medio‐alta ma accessibile. I punti vendita di Venetia Studium sono oltre che dei punti di distribuzione di souvenir chic e non dozzinali, dei luoghi di diffusione 83
del marchio. Molto spesso il cliente compra prima una lampada e poi, avendo apprezzato lo stile del singolo pezzo, decide di arredare anche il resto dello spazio nello stesso stile. I piccoli pezzi servono come apripista dei grandi ordini. La clientela dei negozi resta quindi prevalentemente straniera, appartenente a un turismo non di massa. Essendoci stato negli ultimi due anni un calo del turismo d’origine anglo‐
americana, che era la nazionalità della maggior parte dei compratori, c’è stato conseguentemente anche un calo nelle vendite. C’è stato anche un calo delle esportazioni: il boom avuto negli ultimi anni dovuto all’apertura del mercato degli Emirati Arabi ha avuto anch’esso un arresto. Gli ordini provenienti da questi paesi sono infatti di grande scala e caratterizzati dall’arredamento di alberghi di lusso e yacht. Il turismo resta comunque una forma d’esportazione al dettaglio: tramite lo spostamento degli acquirenti, il bene circola e fa conoscere nel mondo il marchio stesso. Non sono le merci a muoversi ma le persone, esercitando così una forma di promozione indiretta. I negozi di Venetia Studium sono, come abbiamo già visto, diffusi capillarmente nel territorio veneziano. Le vetrine occupano tutta la parete del negozio e le composizioni di prodotti esposte sono caratterizzate da un’estetica dell’accumulazione e dell’abbondanza. Vi si vede una giustapposizione di oggetti incongruenti al modo del gabinetto del collezionista: candelabri, statue di mori, vasi, anfore da cui escono sciarpe di seta come fiumi colorati, e su cui pendono lampade e cesendelli, tutte accese e messe in serie. Se ci focalizziamo sul negozio centrale di Venetia Studium, che è quello di Calle XXII Marzo, vediamo che lo spazio è diviso in due parti: il piano terra è lo spazio della vendita, ed è caratterizzato da una scaffalatura a tutta parete dove appaiono tutte le sciarpe piegate e ordinate per colore; un’altra zona è dedicata all’esposizione delle borse e degli oggetti di vestiario; le lampade pendono dal soffitto ad altezze variabili. Il secondo piano è invece la simulazione di uno spazio privato, con arazzi, cuscini e mobili antichi. Sui manichini sono appesi degli abiti Delphos. Ci sono dei libri e degli spazi dove sedersi. Come nel caso dello showroom di Fortuny, c’è uno spazio di simulazione di una forma di vita, soltanto che questo spazio sembra più un’imitazione di Palazzo Fortuny che non una sua rivisitazione in chiave moderna. Inoltre non dimentichiamo che i tessuti sono prodotti da Venetia Studium stessa e non sono originali Fortuny. Mettendo a confronto i due spazi, entrambi mettono in scena una forma di vita, fondata sullo stile Fortuny, soltanto che in un caso questa scena è un’imitazione degli scenari affascinanti del museo fatti di tappeti arazzi, luci e mobili antichi; nell’altro caso è una riedizione in forme moderne dello stile Fortuny, attraverso la sua materia prima originale – i tessuti. I due spazi sono entrambi divisi in due parti: una parte ha la funzione in entrambi i casi di mettere in scena una forma di vita; l’altra parte invece è uno spazio di vendita nel caso di venetia Studium, e uno spazio di lavoro nel caso di Fortuny. La differenza sostanziale è però nel rapporto con il pubblico che si genera: Venetia Studium invita il pubblico a entrare e a comprare i suoi oggetti attraverso il dispositivo della vetrina, che è un agente di esposizione e richiamo in forma architettonica. La vetrina, per la sua trasparenza, fa vedere e annulla la 84
divisione spaziale creata dalla parete. Tra l’altro insegue il suo cliente, punteggiando i percorsi più battuti della città con la sua presenza. La gestione dello spazio di Fortuny invece dimostra una ritrazione in una posizione più che isolata, che allontana il possibile acquirente con una parete di mattoni; non lo invita certo a entrare con la sua grande porta in ferro chiusa. Con la sua gestione dello spazio, Fortuny sembra dire “Se mi vuoi, cercami” contro ogni forma di volgarizzazione della marca. Siamo nel campo del lusso, e da certe altezze non si scende, né si deve scendere. 5.
Il segreto e il labirinto
Abbiamo visto come sia d’uso, nelle industrie del lusso, nascondere il processo di produzione industriale e mettere in mostra invece la prima fase del lavoro di produzione, quello artigianale, legato alla manifattura dei prototipi o dei pezzi unici. Tutto questo fa passare nel consumatore il messaggio di un “fare artistico” derivante dal contatto diretto tra l’uomo e la materia. Nel caso di Fortuny,anche la produzione artigianale è negata allo sguardo degli avventori. La produzione è legata a un segreto e le tecniche e le macchine adatte a realizzare i tessuti di Fortuny sono tenute rigorosamente riservate. Ci sono solo quattro artigiani che conoscono i segreti – dagli ingredienti tutti naturali usati per stampare le stoffe (colle e pigmenti) al metodo di fabbricazione – e ognuno di questi quattro artigiani controlla il lavoro degli altri, che eseguono il compito senza conoscere il segreto che è alla base; pare anche che il segreto si tramandi esclusivamente da artigiano ad artigiano senza passare per la dirigenza. Viste queste premesse, risulta chiaro che gli unici a poter fare e a saper fare autentici tessuti Fortuny sono i dipendenti della fabbrica della Giudecca e nessun altro. Nella fabbrica, tutto è come era novant’anni fa. Qualche raro avventore che è riuscito a vederla, o a farsela raccontare bene, sostiene che esistono ancora lo stesso macinino per polverizzare lo zinco e gli stessi enormi stendini in legno per asciugare pezze lunghe 120 metri (Stefanato, 2009). Mentre ogni fabbrica moderna è dotata di essiccatore, Fortuny adotta un processo naturale di asciugatura che può durare fino a quattro giorni, e il cui risultato cambia a seconda dell’umidità e della temperatura dell’aria. Per questo i pezzi sono unici: basta che cambino le condizioni climatiche e il colore del tessuto sarà più o meno brillante, più o meno saturo. La segretezza mostra già come siamo lontani dalle regole standard del marketing del lusso, secondo cui bisogna rendere pubblico il momento della produzione per mostrare l’abilità dei propri artigiani, ma nascondere il processo industriale. L’oggetto Fortuny non ha bisogno neanche di questa dimostrazione di abilità e anzi fa della segretezza una strategia. C’è un alone di magia e di leggenda nell’atto stesso della produzione, che funziona molto bene per trasmettere l’immagine del marchio. La curiosità e la fascinazione per il prodotto aumentano, e la sua inimitabilità intrinseca ne accresce il valore. Il segreto è un classico modo per difendere un marchio dalle imitazioni: basti pensare alla Coca Cola che sulla sua ricetta 85
segreta ha costruito un mito. Il segreto era una strategia basilare dello stesso Mariano Fortuny che si è portato nella tomba la tecnica per fare delle pieghe perfette nel suo celebre abito plissettato (Delphos). Oggi Venetia Studium ripara i vecchi abiti Delphos: che, attraverso la riparazione dei vecchi abiti, cerchino di carpirne il segreto, è altamente probabile. L’etimologia di segreto rimanda a secretum, participio passato di secérnere, mettere da parte, separare. La segretezza della lavorazione ben si sposa con la segregazione della fabbrica dai circuiti del commercio veneziano. Elementi narrativi legati alla vita di Mariano Fortuny, posizione della fabbrica, atteggiamento dei lavoratori nei confronti del pubblico, fanno emergere la segretezza come tratto dominante del contenuto della marca Fortuny. perché non esprimerlo anche nelle altre manifestazioni della marca? Trasposto nella dimensione della comunicazione, la segretezza implica un paradosso. Come si fa a comunicare un segreto? Il modo in cui ha agito Fortuny finora, l’uso del passaparola tra gli arredatori e i clienti finali, non è certamente una strategia vincente. È chiaro che l’assenza di comunicazione fa in modo che il target resti altamente selezionato, ma, di fronte a una concorrenza che sfrutta lo stesso nome, si rischiano fraintendimenti e sovrapposizioni nella percezione pubblica. Bisogna quindi “comunicare il segreto” senza renderlo di dominio pubblico. Abbiamo visto che la comunicazione di Fortuny è al momento orientata a veicolare il contenuto dell’autenticità: il logo è una firma e quindi segnala direttamente il legame con il creatore; la pubblicità stampa ripete tre volte la parola “original”; le etichette costruiscono un discorso sull’autenticità. Senza perdere questo importante tratto del contenuto, la comunicazione Fortuny potrebbe caricare il suo messaggio di un altro elemento del contenuto, la segretezza e il mistero, per l’appunto, che sono fonti di fascino e che sono anche caratteristiche rilevabili in Palazzo Fortuny, con le sue tante stanze e ramificazioni. Potrebbe esprimere questo progetto di marca attraverso il marchio. Abbiamo trovato un antico marchio di Fortuny che, ridisegnato, sarebbe perfetto per veicolare questi valori di marca. Si tratta del labirinto, figura del marchio che accompagnava gli scialli Knossos a inizio secolo. Il labirinto ha tante valenze: prima di tutto comunica l’inaccessibilità, prima caratteristica di un bene di lusso in termini sia sociali che spaziali: questo tratto del contenuto si proietta sicuramente sulla manifestazione del prezzo, che resta molto alto, e sulla distribuzione, sempre molto controllata e di difficile accesso. Il labirinto è anche rappresentazione dell’andirivieni delle trame del tessuto, e rimanda quindi al prodotto‐base di Fortuny. E’ figura presente nella mitologia greca, tratta dal repertorio di influenze provenienti dall’antica Grecia di Mariano Fortuny; è inoltre il modo in cui è stato sempre chiamato il tessuto urbano di Venezia. Il labirinto quindi, oltre a rappresentare degli elementi tematici presenti nel discorso di marca di Fortuny, è collante con la storia della rappresentazione e con il contesto urbano e ambientale in cui Fortuny è iscritta. Quale emblema racchiude in modo più sintetico tutti questi elementi presenti nella storia di Fortuny? 86
Certo creare un marchio, un logotipo, può apparire una scesa a compromessi con la società industriale e dei consumi, mentre la firma può simulare ancora un rapporto con l’autore. Ma può essere anche un modo per sganciare la produzione dalle costrizioni di un marchio storico e per guardare avanti senza necessariamente dover ripetere un’attività che non funziona più, o funziona meno nel presente. Quello che è sicuro è che la marca, pur innovandosi e puntando molto sulla produzione di oggetti nuovi, non deve abbassare il suo target; deve restare nel settore del lusso, mantenere i prezzi alti – a garanzia della qualità e del lavoro impiegato nella produzione – e lasciare che la produzione sia limitata. Un modo per diffondere in modo discreto ed elegante la sua immagine, sarebbe anche quello di entrare nelle case di coloro che hanno arredato i propri interni con tessuti Fortuny, di esibirne il privato con servizi fotografici realizzati ad hoc. L’exemplum del testimonial è il modo migliore per diffondere uno stile di vita esemplare. Poiché Fortuny non è semplicemente un prodotto, ma una forma di vita, la messa in scena del testimonial garantirebbe una forma d’immedesimazione da parte del potenziale acquirente. In parte svolge questo compito l’allestimento di Palazzo Fortuny, ma è un arredamento troppo storicizzato per destare un sentimento d’immedesimazione tra utenti modernisti, mentre una commistione di buon gusto tra elementi del design contemporaneo e stile Fortuny potrebbe attirare l’attenzione di arredatori o di estimatori a caccia di idee. In questo modo, Fortuny può mantenere la propria posizione anche in confronto a Venetia Studium, il cui posizionamento risponde a una domanda del mercato diversa – prezzi medi per un target turistico di buon gusto; grande produzione, ma senza innovazione, di oggetti facenti parte dell’immaginario legato alla figura di Fortuny. La Tessuti Artistici Fortuny, così come Venezia, ha troppa storia e troppa bellezza per essere luogo di cliché sempre identici a sé stessi; deve puntare all’innovazione e alla ricerca. In questo seguirebbe le orme del museo, che non smette di essere teatro sperimentale di eventi, senza perdere la propria identità. Non tutte le mostre e le iniziative sono innovative, ma sicuramente a intervalli regolari siamo spettatori di eventi artistici che aprono connessioni temporali e che ci portano a ripensare e a far rivivere la storia. 87
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