capitolo i - WritingsHome

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WORMWOOD
Чернобыль
di Ciro Iodice Napodano
La parola anglosassone “wormwood”
proviene dall’inglese antico “wermod”.
Un termine composto da
wer “uomo” + mod “coraggio”.
Ciro Iodice Napodano
Wormwood
L’asfalto malridotto della Expressway M10 scorreva veloce sotto le ruote della BMW R1200GS. Sebbene, sin
dall’ingresso in Bielorussia dalla frontiera con la Polonia, la superstrada fosse piena di buche e spesso scoprisse il
selciato sottostante, l’euforia del guidatore era alle stelle e l’entusiasmo sembrava fargli scoppiare il cuore fuori dal
petto. La potente e accessoriatissima moto, aveva dominato gli oltre millecinquecento chilometri di strada, percorsa
nell’attraversamento di mezza Europa. Il guidatore aveva affrontato ogni condizione meteorologica possibile, ogni tipo
di carreggiata, dal pavé allo sterrato, dalla superstrada al sentiero di montagna e le aveva superate tutte. In fondo, la
sigla “GS” significava “Gelände Straße” che in tedesco vuol dire “strada sterrata”. Ogni altro tipo di strada per quel
bolide era una passeggiata. Il piano era di fare un viaggio in moto insieme agli amici più cari, nell’Europa centrale,
toccando le città più interessanti per paesaggio, arte e monumenti. Erano a meno di metà percorso, ma la tappa di quel
giorno metteva tutti di buon umore. Avrebbero trascorso il fine settimana a Kiev, l’accogliente e mondana capitale
dell’Ucraina.
I sei compagni di carovana, tutti in moto, erano disposti in fila indiana dietro la sua BMW. Anche loro alla guida di
“enduro stradali” e qualcuno dei piloti era molto esperto, ma il capo spedizione era lui. Aveva organizzato quel viaggio
con un anno d’anticipo. Aveva acquistato la GS, usata, alla fine dell’estate precedente. L’aveva fatta revisionare e poi
l’aveva parcheggiata in garage, in attesa della primavera. Nel frattempo avevo, reclutato colleghi e amici appassionati
di motociclismo, di viaggi e di avventura. Aveva inviato un’email non troppo circostanziata e carica di mistero, sulla
destinazione e sulla spedizione per festeggiare i suoi quarant’anni:
Gentile Amico motociclista,
l’anno prossimo, il sottoscritto varcherà la soglia dei cosiddetti “-anta”.
Per festeggiare solennemente questa importante ricorrenza il sottoscritto vorrebbe averti al
proprio fianco, insieme ad altri cari amici, in sella alla tua moto, per un viaggio lungo e
avventuroso. Non ti sarà svelato altro, dovrai accettare o rifiutare senza sapere nulla di più su
questa bellissima escursione, ma ti prego di farlo senza riserve.
Manlio
Su venti destinatari, dieci risposero all’appello ma, al momento di inforcare la moto e partire per quella traversata
paneuropea, quattro si erano tirati indietro. Due biker, medici come lui, all’ultimo momento avevano preferito
trascorrere le ferie al mare con la famigliola invece di imbarcarsi in un viaggio così lungo e difficoltoso. E anche
pericoloso, forse.
Il dottor Ferrara, Manlio per gli amici, aveva quattro anni di lavoro ininterrotto sulle spalle. Il nuovo incarico da
vice primario di chirurgia lo aveva assorbito completamente. L’entusiasmo, la passione e il senso di responsabilità lo
avevano “ammanettato”, come lui stesso diceva, a quel lavoro. Un lavoro che, in un anno, aveva logorato anche il suo
giovane matrimonio. Adesso, dopo tre anni di dolorosa separazione e quattro senza un solo giorno di vacanza, era
arrivato il suo momento.
Quattro colleghi medici, due amici del golf e un tipo conosciuto al bar, avevano formato con lui quella carovana
rombante di motociclisti. Si erano frequentati durante tutto l’inverno, discutendo e pianificando, sognando e sperando
in quel viaggio; per ognuno di loro, rappresentava un’occasione di vita che, forse, non si sarebbe mai più ripresentata.
Erano partiti da Treviso, dandosi appuntamento la mattina presto.
Quel giorno erano in viaggio già da cinque ore, ma in ritardo sulla tabella di marcia. La tappa prevedeva la partenza
dalla capitale polacca e l’arrivo a Mazyr, nella Bielorussia meridionale, dopo sei ore e 615 chilometri. Invece, allo
scoccare della quinta, dovettero prendere atto che le condizioni della strada non permettevano un’andatura più spedita:
avevano percorso solo 350 chilometri. Inoltre, uno dei componenti aveva dimenticato di fare il pieno e questo provocò
un ulteriore ritardo. Per completare il percorso bielorusso avrebbero impiegato almeno altre cinque ore. Bisognava
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riprogrammare quella tratta per mangiare un boccone e rifare il pieno alle moto, ma poco male. La compagnia era ben
affiatata e la sosta di una notte in una delle cittadine lungo la Expressway M10 avrebbe dato quel tocco di imprevisto.
Manlio diresse la sua BMW GS verso una piazzola di sosta e gli altri biker si accodarono disciplinati. Scesero
dalle motociclette e si riunirono intorno al capo spedizione. «Cosa succede, Manlio?» chiese il suo collega
Roberto, medico radiologo e pilota di una BMW R1150GS.
«È che a quest’ora dovevamo già essere a Mazyr» rispose un po’ sconsolato «Non sapevo che le strade
bielorusse fossero così disastrate».
«Eh si, in Polonia era meglio, cavolo!» fu il commento di Renato, titolare del bar dove si riunivano la sera. che
guidava un’Honda Varadero. «Speriamo almeno che si mangi e si beva bene.»
«Dobbiamo fare rifornimento, e almeno un paio d’ore di sosta. Ci fermiamo al primo centro abitato? Magari
scegliamo un paesino non troppo piccolo».
«Okay, andiamo che io ho già fame e il culo appiattito» era Salvatore, il più giovane del gruppo “medico”,
tirocinante dermatologo e venereologo.
Dopo essersi consultati, controllarono il percorso su una vecchia cartina del Touring del 1985. Era una carta per
motociclisti off-road, che mostrava anche strade bianche e sentieri sterrati. Effettivamente Mazyr distava oltre 300
chilometri e una certa stanchezza cominciava a farsi sentire. La prima città che, sulla mappa, sembrava adatta per la
sosta era Luninets nel distretto di Brest. Dovevano pur esserci un ristorante, o una taverna dove rifocillarsi e un
distributore di carburanti. Arrivarono dopo le sei di sera.
Luninets sembrava una città fantasma. Per strada non c’era anima viva e non c’erano negozi aperti sebbene ci fosse
ancora luce. Quando anche il motore dell’ultima moto fu spento, un silenzio innaturale avvolse edifici, vegetazione e
oggetti. Attraversarono il paese in lungo e largo. Solo dopo venti minuti, incrociarono un uomo che camminava; era
primavera ed era vestito con un giubbotto di pelle con il bavero di pelliccia. Gli si rivolsero in inglese e appresero che,
se erano in cerca di un po’ di vita, avrebbero dovuto andare verso il centro commerciale,. Due posti in particolare,
secondo l’uomo,meritavano una visita: il “Belarusian bistro” e il ristorante “Pripyat”, entrambi su Gagarin Strasse.
Ottennero le indicazioni per arrivarci e, dopo cinque minuti, stanchi, impolverati e con la schiena spezzata dalle buche
della Expressway M10, erano seduti davanti a otto grossi boccali di birra nello spoglio ma accogliente Belarusian
bistro.
L’oste, insieme alla birra, aveva servito loro una scodella di Drainiki, i tradizionali pancake bielorussi di patata
speziata, con diverse ciotoline di condimenti aromatici. Gli affamati assetati motociclisti ordinarono diversi bis, ; per
quel giorno, ne avevano avuto abbastanza di moto, strada e asfalto.
L’indomani mattina, dopo una lunga dormita che raddrizzò loro la schiena, risalirono in sella alle moto e ripresero il
viaggio verso Mazyr. Il tempo era splendido, l’umore ottimo e il paesaggio circostante mitigava la noia di dover
procedere a velocità ridotta. Entrarono a Mazyr, lasciando la Expressway M10, appena dopo le due del pomeriggio con
i serbatoi asciutti.
Si fermarono in un’area di servizio che si affacciava sul fiume che attraversava la città. L’addetto al distributore
spiegò in uno stentato inglese che il fiume si chiamava Pripyat:lo stesso nome del ristorante che non avevano avuto
modo di visitare 300 chilometri prima. Il ragazzo chiese anche dove erano diretti e Manlio rispose che contavano di
essere a Kiev, in Ucraina per la sera successiva. In fondo si trattava solo di altri 255 chilometri verso sud. Il ragazzo
aggrottò le ciglia, poi annuì e fece un sorriso enigmatico. Rifornì di carburante le moto main silenzio. Manlio pensò
che il ragazzo non avesse compreso tutta la conversazione.
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Dopo aver cenato in un pub del centro, trascorsero la notte all’Euro Mini Hotel.. L’albergatore fece capire loro che i
biker erano sempre i benvenuti, offrì una bottiglia di un’acquavite fortissima, che chiamava vodka ma sembrava
acquaragia e, poco dopo mezzanotte, li lasciò in salotto per andarsene a dormire. La mattina successiva, riposati e
stimolati dalla prossima destinazione rimontarono in sella e, costeggiando il fiume Pripyat, ripresero il viaggio verso la
capitale ucraina.
Mazyr sembrava essersi rianimata. Le strade erano piene di biciclette e di enormi macchine, tutte uguali, guidate nel
traffico caotico, da uomini con il viso imbronciato. La carovana di motociclisti uscì dalla città in fila indiana, ad
andatura lenta, per evitare di entrare in collisione con uno di quei mezzi blindati, mantenendo il corso del fiume sulla
sinistra. Appena fuori dal centro urbano, aumentarono la velocità. Percorsi poco più di quaranta chilometri il paesaggio
intorno si fece spettrale. La ridente campagna diventò brulla, assunse un aspetto cupo e desolato. Era in stato di totale
abbandono. Le poche costruzioni coloniche che si scorgevano tra gli sterpi erano diroccate, disabitate chissà da quanto.
La strada, se possibile, era in condizioni ancora peggiori e non c’erano altri veicoli in vista, solo qualche anziano in
bicicletta. A un tratto, mentre percorrevano un bosco di conifere, scorsero in lontananza una specie di posto di blocco
militare. Quattro uomini in elmetti e mimetica, armati di tutto punto, controllavano le poche vetture che transitavano in
direzione sud. Avevano bloccato la strada mettendo di traverso il loro mezzo: un vecchio Volkswagen T2 riverniciato
di verde, il furgone degli hippie. A Manlio tornarono in mente i checkpoint militari incontrati nel Sinai, durante il
viaggio di nozze. Quella volta, a bordo di una corriera diretta nella capitale egiziana, ogni checkpoint al quale furono
costretti a sostare, li aveva tenuti fermi per oltre mezz’ora. Essere bloccati da un drappello militare in Bielorussia non
gli andava proprio a genio.
Fermò la carovana e si consultò con gli altri sull’opportunità di prendere una stradina laterale, un sentiero sterrato;
le GS e le enduro stradali avrebbero avuto terreno facile ma il VW T2 si sarebbe fermato al primo dislivello.
«Propongo di entrare per uno o due chilometri verso est nella campagna e di proseguire in direzione sud per
una decina di chilometri costeggiando il fiume. Tra dieci chilometri la strada passa proprio accanto al fiume,
per cui la riprendiamo facilmente». illustrò il piano con poche, efficaci parole, mostrando al gruppo la strada
sulla cartina del Touring. «Che ne dite?»
Furono tutti d’accordo. Il posto in cui si trovavano non sembrava molto accogliente e non vedevano l’ora di
lasciarsi la Bielorussia alle spalle. Quella sera a Kiev avrebbero potuto divertirsi parecchio. La vita notturna di quella
città era famosa, così come la cucina e l’accoglienza. Nessuno di loro si rese conto che, in quel modo, avrebbero
superato illegalmente il confine tra Bielorussia e Ucraina.
Per quel percorso off-road, Manlio preferì cedere il posto di capo-cordata a Vittorio, un medico oncologo, più
anziano e più esperto di lui. Vittorio aveva partecipato a diverse edizioni della Parigi-Dakar e portava orgogliosamente
sul giubbotto quattro spillette, ricordi di altrettante partecipazioni all’Elefantreffen, il raduno invernale, che si tiene
ogni anno, alla fine di gennaio tra Germania e Austria.
L’oncologo dispensò qualche laconico consiglio: guida “rotonda” senza scarti o improvvise accelerazioni, tenere la
fila in maniera rigorosa, chi precede è responsabile di chi segue, vietato tassativamente il sorpasso. Per qualsiasi
bisogno lampeggiare con i fari.. Imboccarono, uno alla volta,la stradina laterale mentre Manlio, preoccupato dal
drappello militare lo teneva d’occhio e gli amici scomparivano nell’alta vegetazione delle conifere.
Manlio controllò che non si allontanassero troppo dalla strada, ma al secondo chilometro, il sentiero si biforcava
proprio come pianificato per quella deviazione. Vittorio li guidò sul sentiero che prendeva verso destra e poi, una volta
messa la carovana in direzione sud-est, diede gas, raggiungendo la velocità di crociera. Con quell’andatura, il fondo
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sconnesso risultava meno fastidioso, le reminiscenze della Dakar servivano sempre. In lontananza, alla loro sinistra, il
fiume scorreva lento e silenzioso. La vegetazione si infittiva sempre più, diventava più rigogliosa, più selvaggia in
contrasto con il paesaggio sempre più cupo e spettrale. Le costruzioni lungo il percorso erano in stato di totale degrado,
abbandonate chissà da quanto tempo.
Dopo circa un’ora di viaggio, si trovarono in un pianoro, dove il fiume Pripyat faceva un ansa, piegando proprio
verso la strada sterrata che stavano percorrendo. Vittorio e Manlio capirono di aver raggiunto il punto giusto per
riprendere la strada principale. Dopo una breve sosta che permise loro di consultarsi, risalirono in sella alle moto e
ripresero a costeggiare il fiume, alla ricerca di un sentiero che li avrebbe portati in direzione ovest, verso la strada.
Dopo alcuni chilometri si imbatterono in un cartello sgangherato e sbiadito con la scritta “Довляды”. Dietro al cartello
campeggiava un enorme casermone di mattoni, con il tetto completamente ricoperto di vegetazione. Si fermarono.
Ad attirare la loro attenzione non fu solo l’insolito buono stato dell’edificio o che fosse mimetizzato nella
vegetazione, ma anche l’aspetto curato del prato e dei viali che lo attraversavano. E la sorpresa fu ancora maggiore,
quando si resero conto che rappresentava solo l’avamposto di una serie di capannoni , nascosti dalla vegetazione e con
il tetto coperto di erba e sterpi. Sembrava un agglomerato industriale ma con porte rotte e finestre sfondate.
«Questi casermoni non sembrano abbandonati» disse Vittorio con tono preoccupato «Mi sembrano
mimetizzati. Qualcuno, di recente, li ha dipinti di verde irregolare e li ha ricoperti di piante. Così, anche
dall’alto è quasi impossibile individuarli. È una sorta di gigantesco camouflage. Dove ci siamo infilati?»
«Si è vero» disse Salvatore. «Per ottanta chilometri abbiamo attraversato una specie di foresta deserta e adesso
troviamo queste costruzioni nel nulla? Questo posto non mi piace».
«E poi c’è un’altra cosa» intervenne Manlio.
«E cioè?» chiese Vittorio.
«C’è odore di cibo, di cucina e di avanzi. Ma anche di disinfettante. Sembra la mensa dell’ospedale». tutti
risero. «Qualcuno è stato qui fino a pochi minuti fa. Non piace nemmeno a me. Sostiamo per riposare e bere un
po’ d’acqua, ma poi andiamocene di corsa».
Si sedettero nell’erba ed attrezzarono un piccolo bivacco. Aprirono una bottiglia d’acqua minerale, un paio di
bottiglie di birra e una scatola di cracker. Poco lontano un cespuglio di rovi era stracarico di grosse more. Ne raccolsero
a piene mani e le mangiarono insieme ai cracker, annaffiando quel pasto agreste con la birra.
Proprio quando l’allegria stava prendendo il posto della preoccupazione, uno scatto metallico proveniente dal
casermone più vicino, li fece trasalire. Tutti si girarono in direzione dell’edificio e videro che la porta d’ingresso, solo
apparentemente divelta e cadente ma in realtà blindata, si stava aprendo. Ne uscì un uomo anziano di colore,
magrissimo e molto alto, sembrava un Masai o un Boscimano. Indossava una specie di camice bianco dall’aspetto
rigido. Gli sguardi di Manlio e Vittorio corsero veloci alle finestre, solo apparentemente rotte e sgangherate. In realtà
gli infissi erano dei trompe-l'œil, per completare la simulazione dello stato di abbandono. Da uno di essi si scorgeva in
trasparenza una figurache li osservava e che si ritrasse appena scoperta. Un brivido percorse le loro schiene, ma
restarono in silenzio, in attesa che l’anziano si avvicinasse.
Il nero in camice rigido si avvicinava a testa bassa, con passi lenti e studiati e li osservava, a uno a uno, con calma.
Mentre si muoveva, il tessuto del camice emetteva uno strano rumore, come di un impermeabile sintetico o di una
cerata da pescatore. Quando fu vicino sollevò la testa, mostrando un volto segnato dall’acne e labbra screpolate e
ricoperte di eczemi. I biker medici si accorsero che non era né vecchio né di razza negroide. Era un bianco caucasico
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che non superava i cinquant’anni. La sua carnagione era molto scura come se fosse stata esposta a lungo ai raggi solari.
Il camice era in realtà una specie di tunica di materiale gommoso. Si rivolse loro in un inglese dal forte accento russo:
«Buongiorno signori. Cosa possiamo fare per voi?» la sua voce era simile a un sussurro ma dal tono baritonale.
«In realtà niente, grazie».
fu Manlio a svolgere i convenevoli «stiamo facendo un’escursione in moto
fuoristrada e ci stiamo spostando verso Kiev». l’uomo in tunica di gomma inarcò un sopracciglio. «Abbiamo
visto sulla cartina un bel sentiero sterrato da percorrere lungo il fiume e ci siamo avventurati».
«Capisco» l’uomo aveva assunto un tono solenne. «Io sono il dottor Valentin Berija e quella che vedete è una
sezione distaccata della facoltà di Medicina e Biologia dell’Università di Kiev, presso la quale ho insegnato per
vent’anni. Qui svolgiamo ricerche naturalistiche sulla flora e la fauna in condizioni di assenza umana. Ecco il
perché dell’insolito aspetto dei nostri padiglioni».
«Molto piacere, dottor Berija. Io mi chiamo Manlio Ferrara e anch’io sono…»
«…felice di conoscerla!» Vittorio lo interruppe bruscamente facendosi avanti e tendendo la mano. «Questo è il
signor Manlio Ferrara, io sono Vittorio, lui è Salvatore, lui Roberto, lui Renato. Poi ci sono Aldo, Franco e
Simone».
«Il piacere è tutto mio, signori, ma vi prego, chiamatemi Valentin. Da dove venite? E che strada avete fatto per
arrivare qui?» il dottore mentre parlava si fregava lentamente le mani. Manlio rivolse uno sguardo interrogativo
all’amico: perché non lo aveva lasciato parlare?
«Siamo partiti questa mattina da Mazyr percorrendo la strada statale.
A circa venti chilometri da qui,
consultando la mappa, abbiamo notato questo sentiero e abbiamo deciso di prenderlo.
«A venti chilometri da qui? Capisco» il dottore assumeva un tono sempre più enigmatico. «Possiamo invitarvi
a unirvi a noi per la cena? Se accettate, potremmo fare una bella grigliata».
«È un po’ presto per la cena» disse Salvatore.
«Noi qui consumiamo il pasto serale verso le sei. Anche prima, quando abbiamo persone gradite a cena». La
frase, nell’inglese del dottore suonò come “when we have pleasant people to dinner with” «Se ciò non
confligge con i vostri impegni, a noi farebbe piacere che rimaneste». Manlio e Vittorio si scambiarono
un’occhiata, poi un gesto di assenso. Parlarono contemporaneamente:
«D’accordo allora. Grazie per l’invito. Restiamo con piacere».
«Bene. Do disposizioni per aggiungere un paio di posti a tavola».
«Un paio?» chiese Manlio «Siamo in otto…»
«Certo. Volevo dire “otto”». e si volse verso il casermone sparendo al suo interno.
«Vuoi spiegarmi cosa ti ha preso? Perché mi hai interrotto?» chiese Manlio a Vittorio
«Quello non è ciò che dice di essere».
«È vero. Anche a me non piace. Ha una faccia strana». disse Salvatore.
«Cosa intendi?» disse Manlio.
«All’università di Kiev non ci sono corsi di medicina».
«Ne sei sicuro?»
«Certamente. Ho avuto per due anni una ragazza ucraina, che studiava in Italia con il progetto Erasmus. Era di
Kiev ma andava all’università di Mosca perché a Kiev non c’è medicina».
«E allora?»
«Stiamo attenti».
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Mente confabulavano, il dottor Valentin Berija tornò fuori.
«Immagino vi stiate interrogando sul colorito della mia pelle. La scorsa settimana la mia assistente ed io siamo
entrati in contatto con un diserbante chimico respirandone i vapori. Per contrastare l’intossicazione stiamo
assumendo un farmaco potente che ci provoca effetti collaterali: ipermelanosi, eczemi delle mucose e fragilità
della pelle che si infetta per un nonnulla. Ecco perché usiamo queste tuniche gommate». sembrava la recita di
una filastrocca, ma sembrò plausibile.
Manlio e Vittorio si guardarono rassicurati: Berija aveva fugato i loro dubbi su alcune apparenti stranezze. Ma
avevano anche dimenticato l’inesistenza di una facoltà di medicina a Kiev.
«Dottor Berija, ehm… Valentin, vorrei sapesse che anche sei di noi sono medici» disse Vittorio come per
liberarsi di un peso. «Manlio, il nostro capo spedizione, è il vice primario del reparto di chirurgia del nostro
ospedale. Roberto è un radiologo, Salvatore è un tirocinante dermatologo, Franco è un anestesista, Simone un
oculista ed io sono un oncologo. Renato e Aldo sono due negozianti. Il primo ha un bel bar in centro e Aldo un
negozio di ferramenta.
Valentin Berija assunse un’espressione sorpresa e compiaciuta al contempo. Sollevò le sopracciglia e spalancò la
bocca, ad accompagnare la gradita notizia.
«Dottor Vittorio! Non so descriverle quale piacere sia per me, accogliervi nella piccola comunità scientifica
che umilmente conduco. Sarò felice di mostrarvi quello che facciamo qui e rendervi partecipi dei progressi
compiuti nelle nostre ricerche».
Si volse verso il casermone e, con un cenno verso una delle finestre, pronunciò qualcosa simile a un comando in
lingua russa. Pochi secondi dopo, dalla porta principale, sbucò una donna di piccola statura che recava un vassoio con
tanti bicchierini e una bottiglia trasparente senza etichetta, piena di un liquido blu. La donna indossava il camice di
gomma ed aveva lo stesso scurissimo colorito e gli stessi eczemi del dottore.
«Signori, questa è Elena, una mia assistente».
«Dòbrij dèn'» disse educatamente la donna. Inspiegabilmente anch’essa aveva voce flautata e baritonale.
«Ho pensato che un brindisi potesse essere di vostro gradimento e inaugurare questa nuova amicizia» continuò
il dottore con un sorriso stampato, mentre Elena versava il liquido blu nei bicchierini.
«Beh, un brindisi non si rifiuta mai!» disse Renato prendendo uno dei bicchierini, imitato dagli altri.
Innalzarono i bicchieri, ognuno pronunciando il proprio brindisi. E così, dopo un coro di “cin-cin”, “prosit”,
“salute”, “evviva”, “za zdorov'je” e “za nas”, gli otto biker e gli strani abitanti del casermone trangugiarono la bevanda
blu. A tutti i motociclisti, benché bevitori abituali, quel liquore sembrò terribilmente potente. Il vago sapore metallico,
poi, lo rese ancor più sgradevole.
«La prima bevuta con la nostra vodka blu risulta sempre piuttosto impegnativa. I bicchieri successivi sono
migliori». e invitò la combriccola a un secondo assaggio.
«Mmm, adesso mi pare che abbia un vago profumo di mare». disse Simone. «sembra di stare a Jesolo!» e rise
forte.
«Sì è più buona davvero al secondo giro» disse Vittorio, il più esperto in fatto di bevute.
«Signori, devo chiedervi un piccolo aiuto in cambio della nostra ospitalità: abbiamo bisogno di prendere dalla
dispensa l’occorrente per cucinare. Stasera a tavola saremo in più di trenta ed Elena, naturalmente, non riesce
da sola. Un paio di voi potrebbero accompagnarla ai frigoriferi? Il signor Renato e il signor Aldo, per esempio,
che sono così robusti. Troverete anche delle simpatiche ragazze addette alle cucine».
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Aldo e Renato furono subito disponibili. Si liberarono delle tute che erano diventate roventi sotto il sole e
seguirono Elena verso uno dei casermoni più defilati.
«Roberto, Franco e Simone» Valentin Berija pronunciava quel nome come “Saimoni” «potrebbero andare
nell’altro padiglione a prendere la legna per accendere il fuoco. Se non vi disturba troppo, naturalmente. Così
potrete visitare anche il piccolo reparto di medicina interna e chirurgia che abbiamo allestito qui. Il governo
non ci passa molti fondi, ma cerchiamo di farli bastare per essere all’avanguardia. Sarete accolti dalla
dottoressa Svetlana Simonovna, sono certo che vi piacerà».
Roberto, Franco e Simone, come suggerito dal dottore, si liberarono anch’essi delle tute bollenti e si avviarono sul
vialetto di terra battuta che portava al terzo casermone. Erano più attratti da una sexy Svetlana che dalla raccolta di
legna da ardere. Berija allora, si volse a Elena e scambiò con lei alcune frasi in russo. Dal tono sembravano ordini.
Vittorio colse l’occasione per rivolgersi a Manlio e Salvatore:
«Avete visto come ci ha separati? Sembra quasi fatto apposta. Ha addirittura mandato tre medici a prendere la
legna e due negozianti a prendere il cibo, e per invogliarli li ha lusingati con la presenza di ragazze».
«Dici che non sia un caso?» rispose dubbioso Manlio.
«Non lo so. Occhi e orecchie aperti, okay, Salvatore?»
«Okay, Vittorio».
Valentin Berija si rivolse di nuovo a loro. Il suo atteggiamento, prima dimesso e rispettoso, adesso sembrava quasi
di sfida.
«Sarà una bella cena tra amici, vedrete. Cenare con gli amici è la cosa migliore che possa capitare da queste
parti». Anche stavolta, l’inglese dal forte accento russo di Valentin sembrò mostrare un leggero cedimento. Per
dire “cenare con gli amici” usò la formula “having some friends to dinner with”. .
«Sarà un piacere anche per noi». disse Manlio «Tanto più che stasera varcheremo il confine Ucraino e
lasceremo la Bielorussia. Una volta arrivati a Kiev, poi…»
«Che ignoranti siete» Valentin Berija lo interruppe con tono disgustato «Voi avete varcato il confine Ucraino
già da diversi chilometri. Non siete più in Bielorussia ma nell’Oblast di Kiev. Il cartello che avete visto qui
accanto è l’indicazione di Dovlyady, il paese bielorusso dal quale proveniamo tutti noi e che siamo stati
costretti ad abbandonare venti anni fa. Lo abbiamo spostato perché questa è la nuova Dovlyady. Qui siamo a
Vilcha, vicino Pripyat, in Ucraina. Vi dice niente il nome “Pripyat”?
«È il nome del fiume che scorre qui accanto e quello di un ristorante di Mazyr. Ma… cosa significa?» chiese
interdetto Vittorio.
«Pripyat è l’inferno nucleare di Chernobyl, caro dottore. Pripyat è la prima cittadina investita dalle ceneri di
grafite e da cesio, americio e plutonio dell’incendio della centrale n. 4. Vilcha è una delle tante città fantasma
create da Chernobyl sparite perfino dalle carte geografiche. La linea di confine è ampia. Questa terra non vale
una guerra. Se lasciassimo la strada principale e viaggiassimo lungo il confine, attraverseremmo villaggi
fantasma senza mai sapere a quale paese appartengono. Lei lo ricorda il disastro del 1986?»
«Certo che me lo ricordo. Ma credevo fosse tutto a posto adesso».
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«Infatti è tutto a posto» Valentin continuava con il suo tono disgustato «Lo è per i governi occidentali che ci
hanno ignorato. Lo è per il nostro ex-regime, che per sanare la ferita dal proprio fianco non ha trovato nulla di
meglio che cancellarci dalle mappe topografiche. Ma non per le genti di questi luoghi che non hanno voluto
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abbandonare le proprie case e la propria terra, facendo vere e proprie scorpacciate di radiazioni. Qui non è la
terra a cambiare. È l’uomo che cambia, si erge a dio di se stesso e diventa ciò che è. È qui che avviene la
sublimazione tra il pensiero di Friedrich Nietzsche “Diventa ciò che sei” e gli insegnamenti di Aleister
Crowley “Fa ciò che vuoi”. Ma per innescare questo processo è servita la stella di Chernobyl, l’inferno
nucleare.
«Ma… sta dicendo che il territorio qui intorno è radioattivo?» Manlio riuscì solo a balbettare.
«Solo quello ricoperto di vegetazione naturale, di assenzio. Quello nel quale voi stupidamente vi siete immersi
facendovi così una bella doccia di isotopi radioattivi. Se aveste seguito la strada, incontrando magari qualche
posto di blocco, avreste evitato questa sciagura. Se con un contatore Geiger misurassimo la radioattività della
strada asfaltata e poi quella dell’erba intorno, noteremmo che è quasi dieci volte più alta, poiché le radiazioni si
concentrano negli organismi viventi. La fonte di queste radiazioni è l'americio, prodotto dal plutonio della
centrale. Tutta l’erba qui intorno è assenzio, la pianta amara citata nella Bibbia, tanto osannata nell’ottocento
per gli infusi e i distillati di moda tra intellettuali e artisti di tutta la decadente Europa occidentale». Per dire
“assenzio”, Valentin usò il termine inglese “wormwood”. «Chernobyl, in russo e in ucraino, significa proprio
assenzio, perché qui ve n’è in abbondanza. È solo un po’ radioattivo, adesso».
«Ma noi abbiamo anche mangiato delle more raccolte in questi cespugli!»
«Lo so, vi ho visti. Per questo vi ho subito somministrato Iodio 127. Il liquore blu che avete bevuto poco fa è
una mia invenzione. Il suo contenuto di iodio stabile dovrebbe saturare la vostra tiroide, impedendole di
assorbire altri isotopi radioattivi con la respirazione. Ho cercato di salvarvi la vita».
Mentre Valentin parlava con Manlio, Vittorio e Salvatore, dai casermoni avevano cominciato a venire fuori altre
decine di occupanti. Avevano tutti la pelle nerissima ed erano come spettri, vestiti con la tunica di gomma bianca. I tre
biker, adesso, erano quasi circondati da quegli esseri silenziosi, che un tempo – forse – erano stati uomini. L’atmosfera
era agghiacciante. Valentin, continuò con il suo sussurro baritonale:
«Vi siete sottoposti a un’eccezionale overdose di radiazioni lasciando la strada asfaltata. Avete assorbito
almeno 4 Sievert, circa 500 milliRoentgen/ora. Non starete mai più bene. Anche voi siete “mutati” adesso».
«Ma allora voi come fate a sopravvivere?»
«Noi ci proteggiamo, siamo costretti a farlo. Assumiamo massicce dosi di iodio e altri principi chimici studiati
da me, e indossiamo queste tuniche protettive. La contropartita è un’abnorme reazione autoimmune che
aumenta la produzione di melanina e rende la pelle fragilissima. Come definireste voi occidentali un essere così
modificato? “Mutante”? Noi preferiamo “Mutato”. Il nostro cambiamento è già avvenuto». Valentin distinse
nel suo inglese le due condizioni: “Mutante” era l’inflazionato “mutant” mentre il “mutato” diventava
“changed”.
«Ma come vi procurate i farmaci e chi paga questa università?»
«Questa, dottore, non è una università. È un ospedale per lungo degenti. Il governo russo paga per tenerci qui,
come in uno zoo. Le persone che vede sono tutte “samosely”, autoinsedianti coinvolti nella ricerca di un
rimedio contro la sciagura nucleare. Chi come medico e chi come paziente-cavia. Io interpreto entrambe le
parti. Se volessimo andar via non avremmo più il farmaco che ci permette di sopravvivere. Un silente accordo
con il governo russo fa sì che riceviamo sostegno economico, tecnologico e farmaceutico in cambio di ricerca
e, soprattutto, di silenzio. Mi capisce, dottore?»
Salvatore piangeva senza sapere per chi o per cosa. Se per la sua vita, ormai rovinata dall’overdose di radiazioni
nucleari nella nuova condizione di “changed” o per l’esistenza di quegli uomini e quelle donne condannati a
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Ciro Iodice Napodano
Wormwood
sopravvivere in quella specie di vivaio per fenomeni da baraccone. Nel frattempo, dal capannone indicato come
dispensa, nel quale erano andati Aldo e Renato, uscì un gruppetto di mutati. Portavano un pesante cassettone che
deposero sul vialetto asfaltato del casermone. Quando lo aprirono ne estrassero un lungo tavolo pieghevole e una serie
di forchette e coltelli. Sul tavolo vennero sistemati piatti, bicchieri e posate per una trentina di persone o più. Ma
nessuno dei tre biker aveva voglia di mangiare. Si chiedevano dove fossero finiti i cinque compagni di viaggio e come
mai tardassero così tanto.
«Dove sono i nostri compagni, Valentin?» chiese imperioso Vittorio.
«Dove gli ho chiesto di andare, no? In dispensa a prendere le carni per la grigliata e la legna per accendere un
bel fuoco. Ma, come pensavo, devono aver fatto ottimi incontri».
Vittorio, Manlio e Salvatore stentavano a credere che i compagni avessero trovato attraente una sola di quelle
donne. L’innaturale annerimento della pelle, le piaghe e gli eczemi della bocca avrebbero allontanato anche il più
assatanato dei maschi.
Trascorsero dieci minuti durante i quali i tre biker rimasti all’aperto diventarono sempre più impazienti, mentre il
gruppo dei mutati era diventato più numeroso. Avevano messo in tavola numerose bottiglie di un liquido che sembrava
vino, ma di un colore più vicino al viola che al rosso.
«Miei cari amici, non volete brindare con un bicchiere di vino allo iodio? Sono certo che vi piacerà, oltre a
farvi benissimo contro le radiazioni». e senza attendere risposta, versò quattro bicchieri di quella mistura
violacea, poi alzò il bicchiere e, insieme ad altri mutati brindò.
Dal casermone indicato come “clinica”, uscì un altro gruppo di persone dalla pelle annerita e con l’immancabile
tunica bianca. Recavano una specie di portavivande, sul quale fumavano numerosi pezzi di carne che sembravano
appena arrostiti. Chili di carne profumatissima e succulenta.
«Finalmente! Ecco la carne che preferisco, preparata nel modo che preferisco.» “the meat I love more” disse
Valentin. «Dottori, accomodatevi e cenate con noi. Qui sarete sempre i benvenuti in saecula saeculorum».
I mutati provenienti dalla cucina posero gli arrosti al centro della lunga tavola. Tutti i convenuti si servivano
prendendone con le mani grossi pezzi. Qualcuno si mise a sedere, mentre altri preferirono consumare il cibo restando
in piedi e passeggiando intorno a quell’insolito pic-nic.
«Prego, sedete accanto a me. Assaggiate la nostra cucina!» e porse a ognuno di loro un pezzo di arrosto.
«Ma i nostri amici?» disse Vittorio prendendo la carne.
«Già, non resterà nulla per loro. Non mi sembra bello» – annuì Manlio prima di azzannare un pezzo con l’osso.
»Probabilmente in cucina hanno già trovato da mangiare e per gli altri procureremo di lasciar loro una parte di
questo ottimo arrosto. Non preoccupatevi e bevete un bicchiere di vino iodato».
«Ma questa carne non è radioattiva?» chiese Salvatore addentandone un pezzo.
Berija fece una pausa, durante la quale si pulì bene le mani, poi bevve un sorso di vino viola. Infine rialzò la testa
fissando Salvatore negli occhi e iniziò a parlare.
«Caro Salvatore, le spiegherò qualcosa circa le radiazioni e i loro effetti sul corpo umano. Quelle in grado di
attraversarci, le radiazioni gamma, sono di tipo cumulativo, si addizionano cioè al nostro corpo, via via che vi
restiamo esposti. Ed è possibile calcolarne gli effettivi danni sulla nostra salute. I raggi gamma sono la versione
naturale dei raggi X, sono presenti in natura, mentre i raggi X vengono prodotti artificialmente dall’uomo. I
raggi gamma si chiamano anche “radiazione cosmica” perché a bordo di un aereo che voli sufficientemente
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Wormwood
alto si è sottoposti a questo genere di radiazioni, assorbendone circa la quarantesima parte della scorpacciata
che avete fatto voi oggi, percorrendo per due ore, strade sterrate nel silenzioso inferno nucleare di Chernobyl».
«Ma allora a noi cosa resta da fare?» chiese inorridito Salvatore.
«Siete mutati, ormai. Non potete far altro che restare con noi. Vestire la tunica antiradiazioni e assumere iodio
127 per il resto della vostra vita. Qui un primario, un oncologo e un dermatologo servono come l’acqua e l’aria.
Insieme a me, all’equipe medica, agli assistenti e ai ricercatori di Pripyat, Vilcha e Chernobyl, potete
contribuire alla rinascita della nuova Dovlyady. Una Dovlyady popolata di gente giusta ma determinata, colta e
severa ma con l’armonia e l’amore per la vita nel cuore. Unitevi a noi e sarete nostri fratelli. Provate ad andare
via e, senza il mio farmaco, troverete rapida morte.
«Valentin, lei ha parlato solo di un primario, un oncologo ed un dermatologo. E gli altri nostri amici?» chiese
Vittorio.
«Erano molto buoni, non trovate?» e azzannò un altro pezzo di carne.
Postfazione
Poi il terzo angelo sonò la tromba e dal cielo cadde una grande stella, ardente come una torcia, che piombò su
un terzo dei fiumi e sulle sorgenti delle acque. Il nome della stella è Assenzio; e un terzo delle acque diventò
assenzio. Molti uomini morirono a causa di quelle acque, perché erano diventate amare.
Apocalisse 8:10
In Greco, lingua nella quale è scritto il Nuovo Testamento, nel versetto precedente, la parola “cadde” significa
“rimanere sospeso al di sopra” o “stabilirsi su”, mentre la parola “stella” si traduce con “sparsa nell'arco del cielo”.
Quest'ultimo termine, a sua volta, deriva da un'altra parola greca che significa “srotolarsi come un tappeto”, una
descrizione opportuna di come le radiazioni si siano propagate in quelle zone. Ancora più interessante è che il
termine “torcia” deriva dal verbo greco “irradiare”. Il sostantivo direttamente correlato è “radiazione”.
Nel versetto 11, il nome della stella è in maiuscolo, proprio come se fosse il nome proprio di un luogo. Quanto
alla “terza parte” per descrivere la grandezza dell'area colpita, il Greco dei primi secoli era solito indicare con “un
terzo” un'ampia porzione di territorio. Chernobyl in questa chiave potrebbe anche rappresentare un “gruppo di
Chernobyl” che ancora devono avere luogo e sulle quali cadrà la “grande stella”; il futuro ipotetico di quelle zone
sarebbe esattamente lo stesso: radiazioni e assenzio – l'erba dell'oblio.
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