Marcenaro pp. 79-88 - Accademia Ligure di Scienze e Lettere

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Marcenaro pp. 79-88 - Accademia Ligure di Scienze e Lettere
GIUSEPPE MARCENARO
Quando Stendhal mangiò l’uva della Villetta
Il 16 ottobre 1814, sul margine di una pagina di libro, poi ripresa
nel Journal (1), con la sua arruffata grafia, Beyle ferma un ritorno di
memoria:
«Mi ha detto che sono un ambizioso, che sono la persona più cara, ma che non posso essere innamorato, che non faccio nulla per essere amato, che dovrei capire al volo, che annoio. Perciò sono andato a
divertirmi a Genova…».
L’appunto altro non è che il ricordo autoironico e forse stizzito
di una delle innumerevoli disavventure amorose di Beyle. Questa
con Angela Pietragrua (2), la milanese con la quale quattordici anni
prima il diciassettenne Beyle aveva perduto la virtù. Allora, il sottotenente di cavalleria Henri Beyle, pieno di fervore, nel maggio 1800,
con la grande armeé, guidata dal primo console Napoleone Bonaparte, era arrivato a Milano: la vagheggiata Italia, il paesaggio, l’entusiasmo di partecipare a una eroica impresa, la scoperta della musica, la
Scala, e tutto quel che si può immaginare vorticasse nell’animo di chi
aveva vissuto fin a quel punto in una città della provincia francese
come Grenoble.
(1) Il Journal fu iniziato da Stendhal quand’egli aveva diciotto anni, ma al proposito iniziale non corrispose da parte dell’autore una progressione sistematica. Quello che viene indicato come diario di Stendhal è in realtà un’opera “ricostruita” sugli
appunti che Beyle disseminò sui margini dei libri e su una quantità di fogli occasionali. Fu pubblicato per la prima volta sotto il titolo Œuvre porthume, Journal de Stendhal
(Henri Beyle), 1801-1814, Paris, Charpentier, 1888, a cura dei due “compilatori” Casimir Stryienski et François de Nion.
(2) Nell’appunto è “velata” una “certa” Mme Simonetta, uno dei tanti pseudonimi attribuiti da Stendhal ad Angela Pietragrua.
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A Milano un commilitone s’era prestato a fargli da paraninfo. I
sensi alti del sottotenente Beyle trovarono apogeo nel letto di Angela
Pietragrua. Tornato a Milano ai primi d’agosto del 1814, dopo quattordici anni, Beyle era andato a cercare «la gran sgualdrina» – come
da quel momento cominciò a chiamarla – continuando tuttavia negli
anni a mendicare senza successo altre opportunità. Viveva nell’illusione di rivivere con lei «i bei momenti di dolcezza e di piacer» provati
nel lontano 1800, e che gli si erano fissati nella sua mente.
Angela Pietragrua, alle profferte di Beyle, perché sbollisse l’ardore, doveva averlo invitato a farsi un giro. E lui scelse Genova.
Fino ad allora per Beyle Genova era probabilmente soltanto un
nome di città ch’egli assimilava a quello di un amico incontrato e conosciuto a Parigi: Fabio Pallavicini. E devo supporre che proprio attraverso Fabio Pallavicini Beyle fosse invitato alla villetta del marchese
Di Negro. Ma è una supposizione senza possibilità di conferma.
Con Stendhal, tanto nelle lettere, nei libri di viaggio, quanto negli
appunti a margine dei libri tutto è molto approssimato. Il suo piacere
di mescolare date e avvenimenti e soprattutto riferimenti a possibili
amanti fanno della sua vita e dei suoi viaggi un groviglio di contraddizioni inestricabili.
Sublime bugiardo, se si deve accettare quel che di sé lascia come
traccia, tra passaggi, soggiorni e “scappate”, a Genova Beyle deve
avervi soggiornato almeno una dozzina di volte: soggiorno di un giorno, di due o tre, di «una quindicina di giorni prima di partire per Firenze». Quest’ultima occasione nel 1814 quando appunto Angela Pietragrua gli diede i larghi. Sarebbe perciò impossibile stabilire un “calendario” per uno Stendhal genovese (3). Per fortuna vi sono alcune
lettere, soprattutto alla sorella Pauline, che consentono di mettere un
poco più a fuoco qualche soggiorno genovese.
Si può tentare di mettere un po’ d’ordine, per quanto possibile,
nei viaggi di Stendhal. Per me un handicap. Un continuo handicap, fin
da quando, scoprendomi una particolare attrazione per questo gran
bel tipo di amante della vita, ho cercato di orientarmi nei suoi spostamenti. Vi ho dedicato tre mostre, ho tentato di censire un po’ di mar(3) Rinvio al mio Genova con gli occhi di Stendhal, catalogo della mostra, Genova 1984, in cui cerco di ricostruire i “passaggi” di Beyle a Genova.
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ginalia (4). Tutto è comunque aleatorio. Nelle carte da lui lasciate, Beyle è di una inafferrabile mobilità.
Bisogna tentare di agguantarlo quando lascia cadere dalla penna
le più frammentate annotazioni. Ed è però improbabile che le annotazioni funzionino in qualche modo tra di loro. Stendhal, nella scrittura,
ha la sublime figurazione dell’erraticità del pensiero.
Lasciamo momentaneamente da parte l’appunto del 16 ottobre
1814, vediamo di stabilire qualche punto fermo, per quanto possibile.
In una lettera del 4 marzo 1817 dice d’essere arrivato a Milano proveniente da Genova. E la cosa si ferma lì. Dal 25 maggio al 1° giugno
1819 dovrebbe essere stato nuovamente da questa parti. E così dal 1°
al 4 novembre 1823. Più certo, poiché vi sono resoconti in due lettere,
il soggiorno tra fine luglio e 4 agosto 1827. È quando dice d’aver incontrato il marchese Di Negro. Il quale spunterà di nuovo, ma molto
più tardi, rivisitato nel ricordo in Promenades dans Rome e in Memoires d’un turiste. Per adesso accontentiamoci delle due lettere.
A Sutton Scarpe (5)
Livorno, 14 agosto 1827
Sono stato festeggiato (6) nella migliore società di Genova, a casa
dell’amabile marchese di Negro, il Joseph Bank (7) di Genova, ma più al(4) Genova con gli occhi di Stendhal, cit.; Stendhal, un milanese a Genova, catalogo della mostra, Milano 1985; Italie, il sogno di Stendhal, catalogo della mostra, Genova-Milano, Banco di Chiavari-Silvana, 2000; Stendhal, Autobiografia del signor me
stesso, Genova, Il melangolo, 2007.
(5) Sutton Scarpe, brillante avvocato londinese, entrò in relazione con Stendhal
nel 1822 e con lui ebbe numerosi scambi di lettere su ogni soggetto: politica e musica
in particolare. Fu la guida di Stendhal al tempo del suo viaggio in Inghilterra nel 1826
e lo introdusse nella società londinese.
(6) “festeggiato”? Come scrittore? In effetti, pur in mezzo alla nuvola di pseudonimi, Beyle era gia M. de Stendhal. E aveva pubblicato, nel 1817, Vies de Haydn de
Mozart et de Metastase (con tutta la furiosa polemica nata dall’accusa di plagio dalla
biografia di Haydn di Giuseppe Carpani); nello stesso 1817 Histoire de la Peinture en
Italie, par M.B.A.A. che sta per Monsieur Beyle, ancien auditeur; e sempre nel 1817
Rome, Naples et Florence, par M. de Stendhal, Officier di Cavallerie; nel 1822 il celebre De l’amour; nel 1823 la biografia di Rossini e Racine et Shakespeare. E nel 1827,
quando approdò alla villetta aveva appena pubblicato Armance, il primo dei suoi
grandi romanzi. Fu ricevuto da Di Negro passabilmente come un personaggio.
(7) Sir Joseph Banks, naturalista inglese, botanico. Aveva partecipato al primo
viaggio di James Cook. A Banks è attribuita l’introduzione in Europa dell’eucalipto e
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legro. Per il gran caldo, il 4 agosto, ho cenato sotto una deliziosa grotta, in
un giardino, con la vista del mare, tra gente intelligente e gradevoli donne.
A Adolphe de Mareste
Firenze, 19 novembre 1827
Ringraziate: Delécluze del piacere donatomi dai suoi due articoli
su Manzoni. Ho conosciuto il suddetto gran poeta a Genova…
Figuratevi un marchese molto ricco, Gian Carlo è così che lo chiamano, che ha la più deliziosa villetta di Genova sul bastione a nord. Là,
ogni sera il marchese di Negro riceve tutto ciò che vi è di più distinto…
Il 3 agosto, a causa di una calore insopportabile, ci ha fatto cenare in
una grotta del suo giardino, dalla quale si vede il mare, la costa di Savona… Il Signor abate Galiaffi [sic. Gagliuffi] vi fu piacevolissimo poeta
latino. Improvvisò a tavola un epigramma contro gli Inglesi.
Nella stessa lettera inserisce un messaggio per il cugino Romain
Colomb: «Invia a nome mio via posta a Mme Bianca Mojon (8) a Genova un esemplare di Rome, Naples etc.».
Beyle costringe a continue digressioni. Fortuna vuole che il grafomane scatenato ci abbia lasciato, sempre che le date corrispondano al
vero, due splendidi riferimenti a Genova. Passabilmente i più sicuri,
più attendibili delle lettere, del Journal, e di Memoires d’un turiste dove ampiamente evoca soggiorni, passeggiate e amplifica le volte che dice d’essere stato ricevuto alla villetta Di Negro. Che secondo me si riduce a una unica volta: un pomeriggio con invito a trattenersi a cena.
Il primo dei due riferimenti “certi” è del 22 dicembre 1833 (si
dovrebbe supporre che Beyle, almeno quel giorno, a Genova vi fosse
veramente, sempre che anche questo appunto non sia un imbroglio o
comunque frutto di qualche trasposizione temporale o di luogo).
dell’acacia. Circa 80 specie di piante portano i nome di Banks. Qui è evocato in rapporto alla passione botanica di Di Negro.
(8) Bianca Milesi, cugina di Matilde Dembowski, che Beyle aveva conosciuto a
Milano. Bianca, a cui Beyle fece per tutta la vita una corte serrata, aveva sposato il
dottor Benedetto Mojon. Beyle l’aveva rivista il 3 agosto 1827 a Genova dal marchese
Di Negro. Causa delle attenzioni per a Bianca Milesi potrebb’essere anche il fatto che
fosse cugina di Matilde Dembowski, della quale Stendhal era perdutamente innamorato e sperasse perciò in una intercessione di Bianca presso Matilde. Ma in tutti i casi
finì proprio con niente di fatto nell’uno e nell’altro caso.
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L’appunto si trova sulla copertina cartacea di Contes di Harriet
Martineau: «Dimanche, 22 décembre 1833: Soleil superbe. Promenade via Balbi à Gênes».
L’altro sulla copertina di un Orlando Furioso, edizione economica di Giuseppe Pomba del 1830: «Le 17 juillet 1839, à 5 heures du
soir, arrivé à Gênes vraiment fatigué de la nuit passe. La chaleur
m’empêche de voir le tableaux le 19 juillet. 23 heures e 30 franc, Turin
à Gênes».
L’ultimo passaggio, questo veramente certo, a Genova è il visto
sul passaporto di Beyle: 23 ottobre 1841. Stava rientrando in Francia. Partito da Livorno in nave approdò a Genova e da qui sarebbe
proseguito in vettura per Parigi. Non lo sapeva, ma stava lasciando
per sempre l’Italia. Infatti Beyle morirà l’anno dopo senza più rivedere l’amato paese.
Per seguire un poco gli spostamenti di Beyle e l’approdo alla
Villetta Di Negro bisogna leggere, forse, il rovescio della trama della sue indicazioni. Inutile limitarci all’incontro diretto con il testo.
In Stendhal pur sembrando tutto esibito in realtà ogni cosa è allusa.
Scopriamo dove può essere andato, almeno per quanto interessa
noi, cioè a Genova, da un appunto di raccomandazioni che predispone per il cugino Romain Colomb che, nel 1828, intende fare un
viaggio in Italia:
A Genova bisogna andare alla pensione Svizzera, vicino ai Banchi
(la Borsa ha questo nome), bisogna chiedere la camera 26 al quarto piano, dalla quale si vedono il porto e la montagna. Bisogna dire: “Mi dia
la camera che un russo ha occupato per 22 mesi”. Costa un franco, un
franco e venticinque il giorno. Di fronte c’è un ristorante dove si può
mangiare scegliendo dalla lista.
Portare la lettera alla signora Mojon, in contrada Balbi; è questo
uno dei tre nomi dell’unica grande via, che è anche la più bella d’Italia.
Si prende un ragazzino, gli si danno 4 soldi e vi guida al porto e alla
chiesa Carignano; è anche una delle più belle vedute d’Italia: il mare e la
costa fino a Savona. Tornando indietro si vedono la cattedrale e il famoso quadro di Giulio Romano. Vedere l’ospedale o Albergo dei poveri:
bassorilievo attribuito a Michelangelo; vedere il palazzo del Re; quattro
collezioni di quadri in palazzi della via principale; vedere la sala di ricevimento Serra che costò un milione ottanta anni fa; vedere la passeggiata d’Acqua Sola.
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Di domenica, come in tutte le città d’Italia, c’è la messa elegante e
poi passeggiata da 1 a 3 ore nella strada principale. La sera verso l’ora
del tramonto passeggiata all’Acqua Sola (9).
Ma torniamo al 1814. Quando Beyle, dopo aver ricevuto il “via
vattene” da Angela Pietragrua, decise di Genova. Scelse Genova perché aveva un possibile approdo. La casa dell’amico Fabio, il cui indirizzo aveva appuntato in uno zibaldone, poi ricompattato, con altri
appunti, nel Journal: «Indirizzo di Fabio: sulla piazza di San Domenico, la casa di M. Giovanni Andrea Pallavicini».
Fabio Pallavicini era nato a Genova nel 1794. Inutile adesso dilungarci su quegli anni, uno dei periodi più critici per Genova: le cospirazioni antioligarchiche, l’avvento della Repubblica Democratica, il
celebre assedio del 1800, ecc. ecc.
Durante questo tempestoso periodo la casa della marchesa Teresa Pallavicini – la più affascinante donna di Genova, che tutti chiamavano la bella – madre di Fabio, era frequentata dai personaggi più in
vista del tempo, letterati, politici, uomini di cultura: Gaspare Mollo,
Luigi Corvetto, Niccolò Ardizzoni, Gio. Carlo Serra, Agostino Pareto,
Gian Carlo Di Negro, Francesco Gianni e altri nobili genovesi. Si organizzavano rappresentazioni di commedie francesi e le tragedie di
Vittorio Alfieri. Il Senato, venuto a conoscenza di questi spettacoli di
opere non approvate dalla censura, decise di vietarne le rappresentazioni, sia pur nell’ambito di abitazioni private. Teresa Pallavicino si
appellò ai Supremi Sindicatori contro l’abuso del Senato, che si era arrogato il diritto di privare i cittadini «della libertà che ciascuno deve
avere nell’ambito della propria casa».
Questo potrebbe anche far supporre la ragione perché Giancarlo
Di Negro scegliesse di trasformare la sua villetta in una enclave, un
luogo arcadico di accoglienza, privato, discosto.
(9) Beyle amava “dar consigli” a chi si recava in viaggio in Italia. Oltre le indicazioni un po’ più “tecnico-turistiche” al cugino, è interessante rievocare quelle inviate
con la lettera del il 10 ottobre 1824 alla sorella che intendeva intraprendere un viaggio
nel Bel Paese: «Avviso alle teste leggere che vanno in Italia: Quali sono i piaceri d’un
viaggio in Italia? 1° Respirare un’aria dolce e pura 2° Vedere paesaggi superbi 3° To
have a bit of a lover 4°Vedere bei quadri 5° Sentir buona musica 6°Vedere belle chiese 7° Vedere belle statue».
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Il giovane Fabio Pallavicini aveva certamente percepito il clima
di libertà nel salotto della madre. Intanto, nel 1805 con all’impero francese, la Repubblica di Genova era stata cancellata. Il 30 giugno 1805
Napoleone e l’imperatrice Giuseppìna arrivarono a Genova. Furono alloggiati al palazzo Doria. Lungo sei giorni assistettero a tutte le feste:
regate nel porto, spettacoli con archi di trionfo, ricevimenti e visite.
Il marchese Pallavicini, che già aveva conosciuto Gìuseppina nel
novembre 1796 alla festa data in suo onore al palazzo Spinola di piazza Fontane Marose, sede della legazione francese, rese omaggio all’imperatrice conducendo con sé il figlio Fabio. Questi fu accolto come
paggio dell’imperatore e inviato alla scuola dei paggi a Parigi, per essere preparato all’incarico. Nel 1810 Teresa Pallavicini arrivò a Parigi
per incontrare il proprio figliolo. Fu vista anche da Henri Beyle che
nel suo Journal, al 27 novembre, annota: «Mon coeur, emù per la contemplation de la belle gorge de Mme Pallavicini…». Il 1810 era un anno brillante nella vita di Beyle: uditore al Consiglio di Stato e ispettore
del mobilio della corona, conduceva una vita di lusso e d’eleganza.
Consumava i pasti al caffè Hardy, possedeva quattro cavalli e un cabriolet; frequentava il “gran mondo”.
Tra i suoi amici c’era Fabio Pallavicini. Il 21 marzo 1811 annotava nel suo Journal: «Hier diner agréable avec F[abio] P[allavicini]».
Due anni più tardi, nel 1813, Fabio Pallavicini è citato più volte nelle
note di Beyle. Il 21 marzo: «L’aimable Fabio Pallavicini me préte se
matin le discours de Chateaubriand, que je lis au café...».
Grazie all’appoggio del Consigliere di Stato Luigi Corvetto, Fabio Pallavicini fu nominato Uditore al Consiglio di Stato dell’Impero
francese. Più tardi sarebbe stato testimone del solenne addio di Fontainebleau e, in quella circostanza, gli occhi di Napoleone caddero casualmente sul giovane Uditore al Consiglio di Stato, ch’egli conosceva.
L’imperatore al tramonto chiese a Fabio che cosa immaginassero di fare i genovesi dopo la sua sconfitta. E senza attendere risposta com’era
uso fare, aggiunse: «Se volete riconquistare la vostra indipendenza
“compratevi” Talleyrand».
Al tempo in cui Fabio Pallavicini riceveva questo consiglio da
Napoleone, Henri Beyle si trovava a Parigi, preoccupato e in ansia di
dover abbandonare, con il minimo di rischio, la nave che stava affondando. Era stato un fervente filonapoleonico. Il suo mondo stava tramontando. Dopo quattro mesi d’amara mestizia e incertezza, il 10
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agosto 1814, arriva a Milano. Il mancato successo con la Pietragrua lo
induce a partire per Genova. Informa la sorella Pauline: «Scrivimi a
Genova. Fortunatamente ho un amico del gran mondo che, dice, mi
farà vedere le più brillanti stelle di quel paese».
Fabio Pallavicini aveva lasciato Parigi ed era rientrato a Genova.
Il 31 agosto Henri Beyle scrive ancora alla sorella: «... La madre del
mio amico di Genova mi ha alloggiato da lei, in campagna. Questa casetta è a 200 tese al di sopra del mare e da qui si distinguono i sorci
che trottano sui vascelli. Madame P[allavicini] ha l’estrema bontà
d’invitare piacevoli donne di sua conoscenza per accompagnarmi nella
scoperta dei dintorni...».
Quel periodo genovese di Beyle è ampiamente documentato da
lui stesso con il resoconto di una gita a Recco, nel corso della quale,
mentre contempla la propria incertezza, è preso dal rimpianto per la
caduta dell’imperatore. Ma non fa il minimo cenno a Giancarlo Di
Negro che, in qualche maniera, nel salotto della madre di Fabio, probabilmente Beyle incontrò.
Le gentilezze della marchesa Pallavicini e di Fabio non riuscivano
a distoglierlo dalla solitudine morale in cui era caduto. Passeggiava
per la città. Si dedicò agli acquisti: «… Ho fatto fare tre gilets, quattro
pantaloni e due o tre paia di scarpe a Genova, in più ho acquistato un
cappello e ho speso 45 fr. di libri». Sotto la loggia di Banchi, dove allora stavano le librerie, acquistò i dieci volumi delle opere di Fenelon
– «così necessario per i miei studi di stile» – e Lettres historiques et
critique sur l’Italie, di Charles De Brosses.
Si devono forse far risalire a quei giorni le impressioni genovesi
poi rievocate in Memoires d’un turiste e in Promenades dans Rome,
mediate, salvo qualche episodio specifico, anche dalle guide o dalle
memorie di altri viaggiatori. A Genova Beyle è un flaneur, si lascia andare alle sensazioni, vede con meraviglia il Ponte di Carignano, nella
chiesa di Carignano ammira il San Sebastiano di Pouget, visita i palazzi, si esalta ai dipinti di Van Dyck…:
Ho chiesto dove era il miglior caffè di Genova e un artigiano ha
lasciato il suo lavoro offrendomi di accompagnarmi; ho accettato disperato di cavarmela da solo in quel labirinto di vicoli. L’artigiano mi ha
fatto fermare davanti alla porta di un caffè buio, composto di due stanze sudice e di un cortile pavimentato di marmo. Era realmente il caffè
alla moda... Ho lasciato al più presto il triste caffè dove però sono tor-
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nato diverse volte lungo la giornata a bere delle eccellenti bibite soprattutto l’acqua rossa...
Dopo diciannove giorni passati a Genova, Beyle si imbarcò per
Livorno, dove arrivò contento di non aver sofferto il mal di mare.
Nel suo Journal appunta: «Io gioisco con molto piacere della mia
solitudine. La partenza da Genova mi ha tolto un enorme peso, che
mi opprimeva. Questa città sarà sempre, per me, di sbadigliante memoria...».
Sarà stato un pasticcione, un bugiardo, un mistificatore, un uomo
contraddittorio, ma non dimenticò mai i tratti del signore. Lo si vede
nei rapporti con le persone. La gratitudine manifestata per gentilezze
ricevute. Scrive infatti da Firenze, il 24 settembre 1814, alla sorella
Pauline «… invia cinquanta piante di pesche della migliore qualità alla
signora marchesa Pallavicini a Genova…». Il ringraziamento per la generosa ospitalità. E siccome questo era il tratto di Stendhal, possibile
non sia mai saltato fuori un biglietto di ringraziamento a Giancarlo Di
Negro per l’accoglienza avuta alla villetta? D’altra parte nel cospicuo
carteggio rimasto sono completamente assenti anche lettere di George
Sand, Paul De Musset, Honoré de Balzac, Sibilla Mertens Shaffausen
che al pari di Beyle furono accolti da Di Negro nella sua casa. Possibile nessuno abbia ringraziato? Oppure, come è nella sorte degli archivi,
nei vari spostamenti di quello lasciato da Giancarlo Di Negro le lettere degli autori più significative si sono “smarrite”.
Beyle però affidò la propria gratitudine a Di Negro a un mezzo
meno volatile di una lettera. Meno effimero di un foglio di carta.
Espresse la sua riconoscenza in due libri, Promenades dans Rome e
in Memoires d’un turiste, facendo di Di Negro il personaggio centrale
delle parti dedicate a Genova.
E a me piace immaginare che la riconoscenza di Beyle andasse a
Di Negro anche perché il generoso ospite aver dedicato, con i suoi
zoppicanti versi, una Canzone In morte del grande di Sant’Elena. Un
omaggio a Napoleone, che per anni fu il mito di Beyle.
La casa italiana in cui si ricevono gli stranieri con la più straordinaria grazia è quella del marchese Di Negro, a Genova. La posizione della
villetta, giardino dì quest’amabile uomo, è unica per la bellezza e per il
suo pittoresco aspetto. Vi ho conosciuto un medico celebre [Benedetto
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Mojon] che si addolora quando gli inglesi vogliono pagarlo ad ogni visita.
Malgrado questo clamoroso contrasto, Genova non è per nulla la città
dell’avarizia e si direbbe quasi una città della Francia meridionale…
Sono salito alla Villetta, delizioso giardino del marchese Di Negro,
il quale è un uomo intelligente che, nonostante la sua nobiltà, accoglie
con grazia gli uomini di talento… A centocinquanta piedi sotto dì noi,
ai piedi delle mura sulle quali la Villetta e costruita, si dominava il recinto di tela dove gli attori recitavano, in pieno giorno e per niente male.
Udivamo benissimo le loro voci e seguivamo il gioco scenico...
… Il marchese Gian Carlo, come lo chiamano, parla con spirito e
nonostante i suoi settanta anni, scrive ancora versi; non conosco nessuno in Francia che possa essergli paragonato.
Mi ha ricevuto con estrema gentilezza e mi ha fatto assaggiare
l’uva della Villetta.
TOMASO CASTELLO, veduta di Genova dalla Villetta di Negro, c. 1815
(particolare del teatro all’aperto, cfr. Stendhal)