iv. i colori

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iv. i colori
Aurora Cagnana
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IV. I COLORI
1. Natura fisica e valutazione oggettiva del colore
Il colore è una sensazione prodotta sul cervello, tramite l’occhio, da
un corpo opaco colpito dalla luce; tale apparenza cromatica è dovuta
essenzialmente a particolari proprietà di riflessione dei raggi luminosi da parte di certi materiali. Se la luce incontra un corpo opaco, una
parte vi penetra, cioè viene assorbita, e una parte viene riflessa. La
riflessione è di tipo speculare, come nelle pietre lucidate, se la superficie è levigata, altrimenti è di tipo diffuso.
Se un corpo assorbe tutta la luce incidente, apparirà nero; se, al
contrario, la luce incidente, policromatica, non viene assorbita, ma è
completamente riflessa, l’oggetto apparirà bianco; appaiono colorati
solo i corpi che riflettono un particolare e limitato intervallo di lunghezze d’onda. Se ad esempio un oggetto colpito da luce bianca, solare, riflette solo onde elettromagnetiche con valori λ caratteristici della
componente verde dello spettro solare, apparirà verde. Ciò significa
che il colore di un oggetto è il risultato dell’insieme delle radiazioni
non assorbite dalla superficie dell’oggetto stesso.
Il particolare colore assunto da un oggetto opaco colpito da un
fascio di luce dipende dalla composizione della luce incidente e dalla
struttura fisica, a livello molecolare, dell’oggetto stesso.
Nei corpi trasparenti, invece, la riflessione della luce è bassissima,
mentre avviene il fenomeno della rifrazione: i raggi luminosi attraversano il corpo, anche se vengono deviati dal loro cammino secondo leggi
ben precise. Esiste anche il fenomeno della rifrazione doppia, o biri -
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frangenza, tipico della maggior parte dei corpi solidi cristallini, i quali,
se penetrati da un raggio di luce lo sdoppiano, secondo due diverse direzioni; vale a dire che ad ogni angolo incidente corrispondono due angoli
rifratti. Il minerale con più alta birifrangenza è la calcite e tale proprietà è la causa del fenomeno per cui se un oggetto viene osservato
attraverso un cristallo di calcite, se ne vedono due immagini.
Si calcola che l’occhio umano sia in grado di distinguere circa quattromila colori; per poterli valutare e descrivere in maniera oggettiva
sono state elaborate, negli ultimi decenni, delle “carte del colore” che
consentono di definire ogni tonalità con un preciso codice. Si tratta di
‘libri’ costituiti da tavole, da utilizzare come termine di confronto,
sulle quali sono stati applicati dei colori ben precisi prodotti in laboratorio.
Le tavole sono state elaborate in base al principio che ogni colore è
definito da tre attributi:
-la tinta, che indica i colori base (giallo, rosso, verde, ecc.), ovvero
le lunghezze d’onda della luce riflessa; l’occhio umano ne distingue
quaranta;
-la chiarezza, che indica la quantità di bianco e di nero presente nel
colore: fra il bianco e il nero assoluti è possibile riconoscere una scala
di otto grigi;
-la saturazione, che indica la quantità di tinta presente in un dato
colore, in rapporto al bianco, al nero, o al grigio stabilito dal valore di
chiarezza: a seconda del valore di chiarezza e della tinta base, si possono riconoscere da cinque a undici livelli di saturazione.
Tutte le variazioni che l’occhio umano è in grado di registrare si
possono classificare in base a queste tre variabili.
Nelle carte di colore sono riportate, per ogni tinta, tutte le possibili variazioni, incrociate e progressive, di chiarezza e saturazione, e ciascuna di esse è contraddistinta da un codice alfanumerico. Il più usato
è il Munsell Book of Color nel quale le dieci tinte più importanti sono
state divise in cinque principali (rosso; giallo; verde; blu; porpora) e
cinque intermedie (giallo/rosso; verde/giallo; blu/verde; porpora/blu;
rosso/porpora); a loro volta queste dieci tinte sono divise in quattro
intervalli uguali, raffigurabili su un cerchio.
Il codice che identifica un determinato colore è composto da tre parti:
numero+sigla alfabetica /numero /numero
La prima indica la tinta, la seconda la chiarezza, la terza la satu-
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razione. Ad esempio il colore 5YR/6/8 permette di individuare una
tonalità collocabile al centro dell’intervallo della tinta giallo-rosso
(yellow-red); con chiarezza 6 e con grado di saturazione 8.
2. Colori minerali, terre, ocre: ricerca ed approvvigionamento
Le sostanze coloranti più usate in passato erano i pigmenti, ovvero composti non solubili in acqua, già colorati in natura e in grado di
colorare altri materiali per applicazione. Potevano essere di origine
organica o inorganica (cioè minerale), naturali o artificiali. I primi
provenivano, ad esempio, da estratti animali, come la cocciniglia, o il
gasteropode detto porpora emastoma, oppure potevano essere estratti
da vegetali, come l’indaco, o da sostanze organiche fossili, come il bitume. I neri erano molto spesso ottenuti da pigmenti di origine organica, quali carboni, sia fossili che artificiali, prodotti con vegetali o con
resti di animali (ossi, corna). Tutti i pigmenti organici, particolarmente adatti per tingere le fibre vegetali o animali, erano invece meno
usati nelle coloriture dei muri, per le quali erano preferibilmente
impiegati pigmenti minerali costituiti da composti dei metalli (ferro,
manganese, rame, piombo, zinco, cromo, ecc.).
Il fatto che i metalli siano ottimi coloranti si spiega con la loro particolare struttura atomica. Gli elementi della tavola periodica considerati “metalli” sono infatti caratterizzati da una notevole mobilità
elettronica; gli elettroni dell’orbitale esterno hanno una spiccata tendenza a combinarsi con altri atomi, (specialmente con l’ossigeno) e, di
conseguenza, vengono ceduti o possono circolare tra atomi diversi
dello stesso metallo. Gli elettroni dell’orbitale sottostante possono
occupare più livelli energetici rispetto al nucleo. Gli spostamenti verso
l’esterno avvengono con assorbimento di onde elettromagnetiche,
caratterizzate da lunghezze d’onda ben precise, corrispondenti alle
quantità di energia necessaria per compiere un determinato “salto”.
Pertanto la mobilità degli elettroni è collegata alla possibilità di assorbire particolari onde elettromagnetiche di luce e di rifletterne altre,
corrispondenti a precisi colori.
I metalli, anche se portati alla massima sottigliezza, non sono mai
trasparenti, ma assorbono e riflettono sempre un po’ di luce; fa eccezione l’oro, il più malleabile, il quale, se viene ridotto allo spessore di
millesimi di millimetro, si lascia attraversare dalla luce, ovvero assume un comportamento simile ai corpi traslucidi.
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L’instabilità dell’assetto elettronico spiega anche la varietà strutturale dei metalli: il ferro, ad esempio, può essere bivalente o trivalente; nel primo caso riflette lunghezze d’onda corrispondenti al colore verde, nel secondo al colore rosso. A seconda dei composti che forma
con l’ossigeno, inoltre, può assumere colori ancora differenti: nero è
l’ossido ferroso-ferrico (magnetite); rosso l’ossido ferrico (ematite);
verde l’ossido ferroso; varie tonalità di giallo-arancio-bruno sono date
invece dall’ossido ferrico più o meno idrato (limonite).
Il bianco, oltre che con la calce stessa (carbonato di calcio) poteva
essere ottenuto col carbonato di piombo (biacca). Altri minerali piuttosto usati erano la manganite e la pirolusite (ossidi di manganese),
che danno un rosso scuro violaceo, e il cinabro (solfuro di mercurio),
che da un rosso vermiglio, differente da quello del ferro.
Più rari erano i materiali dai quali ottenere il blu, che si poteva
ricavare dall’azzurrite (carbonato basico di rame), dagli ossidi di
cobalto, o dal rarissimo lapislazzuli (silicato di sodio, calcio e alluminio), minerale assai pregiato che si trovava principalmente in
Afganistan e che, per la sua lontana provenienza, veniva definito ‘blu
oltremare’.
Fra tutti questi pigmenti minerali quelli più facili da ottenere
erano i composti del ferro, metallo piuttosto abbondante (rappresenta
circa il 5% della crosta terrestre), che si trova, oltre che nei giacimenti minerari, anche in altri composti, ad esempio in molti silicati che
costituiscono le rocce magmatiche basiche (cfr. I.1.). In seguito alla
loro alterazione, dovuta al fenomeno di caolinizzazione dei feldspati
che dà origine ai minerali argillosi, il ferro finisce nelle terre alluvionali, trasportato dall’acqua insieme alle argille. È proprio il ferro,
combinato con l’ossigeno e accompagnato talora da altri metalli (come
il manganese), la causa della colorazione dei depositi argillosi che
altrimenti sarebbero bianchi (cfr. II.2.). Pertanto, per ottenere sostanze coloranti, era più facile sfruttare queste concentrazioni di ferro contenute nei depositi alluvionali, che non estrarre il minerale. Ciò spiega perché, tradizionalmente, molti colori venissero indicati col termine “terra”. La presenza del 10-12% di ferro in un’argilla è già sufficiente per ottenere ottimi coloranti.
A seconda dei composti del ferro che contengono, le terre possono
fornire i colori rosso (dato dall’ematite), giallo arancio marroncino
(dato dalla limonite) e, assai più raramente, verde (dato dalla glauconite e dalla celadonite).
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Le terre particolarmente ricche di ossidi metallici (in quantità
superiori al 10-12%) vengono dette ocre (dal greco ochrós = giallo)
oppure boli (dal greco bôlos = zolla). Non sono invece utilizzabili i
depositi che contengono sostanze coloranti in quantità inferiori al
10%.
In alcune regioni si trovavano terre particolarmente famose: il bolo
armeno, ad esempio, con elevati tenori di ferro e manganese; oppure
le ocre del Roussillon (Francia) dai vivaci colori gialli, rossi, viola, particolarmente ricche di ferro, manganese e titanio.
Ma buone terre a base di ossidi di ferro per ottenere pigmenti rossi
o gialli si potevano trovare quasi dovunque: nel corso di una ricerca
sperimentale condotta nel genovesato, ad esempio, è stato possibile
raccogliere, con relativa facilità, trenta tipi di pigmenti differenti,
compresi nella fascia cromatica dei rossi e dei gialli. I materiali raccolti sono stati utilizzati per prove di decorazione ad affresco; si è così
riscontrato, ad esempio, che con trenta cc. di polvere è possibile tinteggiare un metroquadrato di superficie muraria; ciò ha permesso di
calcolare che con un metrocubo di terra grezza si può ottenere una
quantità di pigmento sufficiente a colorare circa 10.000 metriquadrati di superficie. Il confronto tra le tonalità dei pigmenti raccolti e quelle dei coloranti utilizzati tradizionalmente nella decorazione degli
intonaci del genovesato (definite tramite il sistema Munsell) ha permesso di constatare una sostanziale corrispondenza delle varie quantità, e ciò ha confermato un ampio utilizzo di terre locali nella tinteggiatura dell’edilizia storica.
Se l’approvvigionamento dei rossi e dei gialli tramite la raccolta di
terre a base di ferro era piuttosto semplice, data la loro relativa diffu sione, più complesso e costoso era invece rifornirsi di quei colori che
non si trovano nelle terre, ma che necessitano di una vera e propria
estrazione in miniera.
Tutti i composti del piombo, rame, mercurio, cobalto, antimonio,
eccetera, sono piuttosto rari in natura, sia sotto forma di minerali, sia
in superficie; si trovano generalmente concentrati in particolari filoni
metalliferi che si sono formati nelle spaccature interne delle rocce e
sono perciò assai complessi da trovare e da estrarre (cfr. VI.1.).
Particolarmente difficile era procurarsi gli azzurri, che non esistono in alcuna terra. Data la rarità di minerali con questo colore, si
imparò assai presto a ottenerli artificialmente; fra i pigmenti inorganici prodotti a bottega il più noto è il cosiddetto ‘blu egizio’, che si ricavava fondendo quarzo, calcite e rame ad alte temperature e lasciando
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poi raffreddare lentamente il composto; in tal modo si poteva provocare la cristallizzazione di silicati di calcio e rame, ottenendo così un
minerale artificiale dal colore blu vivo.
Completamente diversi dai pigmenti, descritti fino ad ora, sono
invece le tinture, le quali provengono sempre da sostanze organiche
naturali e sono in grado, dopo essere state sciolte in acqua, di rendere colorate le fibre naturali con cui vengono a contatto: cellulosa,
legnina, cheratina, eccetera. Si usavano pertanto per colorare i tessuti, le pelli, o per dipingere su carta, ma non nelle costruzioni, perché,
se applicate a materiali inorganici, non coloravano ed erano instabili
alle radiazioni solari.
3. I pigmenti più usati nell’architettura
Lo studio dei pigmenti impiegati nelle pitture murali antiche ha
preso avvio da almeno due secoli, in seguito alla scoperta di Ercolano
e Pompei, e inizialmente era rivolto soprattutto alla identificazione
dei vari materiali usati in passato. È con la ricerca archeologica più
recente che tali analisi sono state finalizzate anche a considerazioni di
carattere cronologico ed economico, tese a chiarire, ad esempio, la provenienza, la diffusione sociale oppure i periodi di comparsa, utilizzo e
abbandono delle varie sostanze coloranti.
I ritrovamenti sui quali si possono basare indagini di questo tipo
sono costituiti sia dalle pitture murali, manufatti relativamente frequenti, sia dai pigmenti stessi, che, in casi piuttosto eccezionali, si
sono rinvenuti in sepolture, oppure negli scavi di botteghe o di cantieri antichi.
I primi pigmenti usati per la pittura parietale furono le ocre e il
carbone, il cui impiego è attestato fin dal Paleolitico Superiore, come
dimostrano le indagini condotte nelle grotte di Altamira e di Lescaux,
risalenti a 15.000 anni fa.
Più tardi, con la formazione delle prime civiltà urbane in Mediooriente e in Egitto, aumentò la varietà dei pigmenti organici e minerali e venne introdotto l’uso di quelli artificiali: la produzione del blu
egizio, ad esempio, comparve nel terzo millennio a.C. La recente scoperta, a Karnak, del laboratorio di un pittore vissuto nel XV secolo
a.C., ha permesso di riconoscere l’utilizzo di diversi pigmenti: oltre
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all’ocra gialla e rossa e al blu egizio, si sono individuati un verde ottenuto con la cottura di silicati e di ossidi di rame e un bianco prodotto
con la macinazione di conchiglie.
Recenti analisi effettuate su campioni di pitture murali provenienti
da Cnosso e Micene hanno attestato anche qui l’impiego del blu egizio,
di terre a base di ossidi di ferro, di minerali locali, e di carbone. Nella
pittura greca la tavolozza dei pigmenti sembra essersi arricchita ulteriormente: per la decorazione delle tombe macedoni del IV secolo a.C.,
ad esempio, sono stati utilizzati un bianco formato da calcite e caolino,
il blu egizio e dei rossi ottenuti sia da ematite sia dal più pregiato cinabro, del quale parla anche Teofrasto, e che sembra essere stato impiegato a partire dal VI secolo a.C. Esso compare anche nella decorazione
pittorica di alcune tombe etrusche di età ellenistica, accanto all’uso dei
più comuni ossidi di ferro, provenienti da ocre o terre. È però in epoca
romana che il cinabro venne impiegato su larga scala; Plinio (Nat. Hist.
XXXIII, 118) ricorda che veniva estratto da miniere spagnole e importato a Roma, dove esistevano apposite officine per il lavaggio e la preparazione e afferma che la sua vendita era regolamentata e il prezzo
stabilito da un’apposita legge. Plinio e Vitruvio ricordano anche la produzione del blu artificiale, denominato “caeruleum aegyptium” del
quale esisteva una celebre manifattura a Pozzuoli. I verdi, invece, potevano essere realizzati con materiali omogenei (malachite o terre verdi),
oppure tramite la sovrapposizione di blu e giallo.
Dei colori utilizzati in età romana alcune fonti antiche forniscono
anche i prezzi di mercato e in base a tali indicazioni sono state compilate utili tabelle, che permettono di quantificare i diversi costi di
produzione per i vari coloranti. Alcuni archeologi hanno dimostrato
che l’uso più o meno abbondante di pigmenti ricercati e costosi può
costituire un importante indicatore sociale nello studio dell’edilizia
privata. In questo senso è interessante richiamare i risultati di una
ricerca effettuata su una domus del I. sec. d.C., posta in luce Aix en
Provence, nella quale si è cercato di quantificare i tipi di pigmenti
usati per la decorazione ad affresco di due stanze e di compararne il
costo. È emerso che, a parità di quantità di materiale, la spesa per i
pigmenti di una sala, affrescata con ampie campiture in rosso cinabro
separate da bande blu, deve essere stata da dodici a sedici volte più
alta rispetto a un’altra, decorata a pannelli rosso ocra, separati da
bande nere. La differenza di investimento si spiegava evidentemente
con la diversa funzione dei due vani: aperto su un’entrata a portico il
primo e su un giardino interno il secondo.
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L’incidenza del costo delle diverse sostanze coloranti emerge inoltre nello studio delle pitture murali dell’Altomedioevo, periodo in cui
la varietà dei pigmenti sembra essersi decisamente ridotta; tale fenomeno può essere osservato, ad esempio, per le tonalità azzurre, che in
relazione alle nuove tematiche religiose avevano acquistato un’importanza maggiore rispetto al passato. Se l’impiego del blu egizio è stato
accertato per gli affreschi di S.Maria Antiqua a Roma, o per i dipinti
carolingi dell’abbazia di San Giovanni di Müstair, esistono casi, come
quello del Tempietto sul Clitumno, presso Spoleto, in cui la tavolozza
è decisamente scarna e il pigmento azzurro è addirittura assente. In
altri casi si è riscontrato invece l’impiego di un miscuglio di bianco
(calcite), di nero (carbone) e pochissimo rosso (ocra) che dà l’impressione di un colore blu grigiastro, utilizzato al posto dei pigmenti
azzurri e che viene denominato ‘falso blu’. Un simile espediente, per
far fronte alla mancanza di coloranti rari, è stato recentemente riscontrato nei dipinti murali della cripta carolingia di Saint Germain
d’Auxerre; in questo caso si è osservato che la presenza di pochissimo
cinabro, (che non compare invece nelle parti rosse, eseguite con ocre)
è evidentemente dovuta alla precisa esigenza di mescolarlo con il
bianco e il nero per ottenere il ‘falso blu’.
La decorazione della chiesa campana di S. Angelo in Formis, edificata alla fine dell’XI secolo, costituisce uno dei più antichi esempi di
uso del pregiatissimo “oltremare”. Questo minerale, già noto ai romani e ai bizantini, si diffuse più tardi anche nell’Europa occidentale e
finì per soppiantare l’antico blu egizio.
A partire dal XIII e dal XIV secolo la gamma cromatica delle
sostanze coloranti torna ad essere molto ricca; oltre al lapislazzuli il
blu era anche ottenuto dall’azzurrite, proveniente dalle miniere di
rame della Slesia e della Boemia e definita “azzurro di Alamagna”.
Anche per i verdi erano particolarmente impiegati i minerali di rame,
peraltro già noti ai romani. Per i rossi, oltre alle onnipresenti ocre,
riprese ad essere usato stabilmente il cinabro. Nel Libro dell’Arte di
Cennino Cennini, della fine del XIV secolo, si trovano elencati e
descritti i numerosi pigmenti allora in uso, per i quali si precisa anche
il miglior modo di applicazione.
In diversi casi i colori, essendo molto costosi, erano forniti al pittore dai committenti e venivano indicati con precisione nei contratti
scritti, come in quello piuttosto famoso con cui si ingaggiò Gentile da
Fabriano per la decorazione della cappella del Broletto di Brescia,
all’inizio del XV secolo.
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Poche sono le variazioni registrate nell’uso dei pigmenti nel corso
dei secoli successivi; per la produzione dei bianchi sembra sia aumen tato l’impiego di gusci d’uovo cotti e macinati, mentre per i blu l’uso
dell’azzurrite diminuì progressivamente dopo la metà del XVII secolo,
a causa dell’invasione dell’Ungheria da parte dei Turchi.
Dal XVIII secolo in poi venne particolarmente usato un altro pigmento artificiale, detto ‘giallo di Napoli’, che si otteneva riscaldando
ad alte temperature ossido di piombo e ossido di antimonio, i quali
producevano un antimoniato di piombo.
Con il progresso della chimica, fra la fine del XVIII e l’inizio del
XIX secolo, le preparazioni artificiali finirono per sostituire progressivamente l’uso dei minerali naturali. All’inizio dell’800 si riuscì persino ad elaborare un metodo per produrre artificialmente il rarissimo
blu oltremare.
Più recentemente l’uso dei colori minerali è stato definitivamente
soppiantato dalla produzione di quelli sintetici.
4. La tecnica dell’affresco
Una volta raccolte, le terre venivano sottoposte a successive operazioni (lavaggio, filtratura, essiccazione) e quindi macinate, come
pure i minerali, in modo da ottenere polveri costituite da granelli della
grandezza di pochi micron. Tali dimensioni permettevano alle particelle di pigmento di essere così leggere da restare in sospensione nell’acqua.
La tecnica di tinteggiatura definita ‘affresco’consisteva nel far aderire alle pareti i colori ad acqua applicandoli sull’intonaco ancora
bagnato, cioè sull’idrossido di calcio. In questo modo il colore si mescolava all’idrossido e successivamente il contatto con l’aria determinava
l’evaporazione dell’acqua e la carbonatazione dell’idrossido di calcio,
che passava a carbonato di calcio, il quale cristallizzava in calcite
secondo la reazione già descritta per le malte (cfr. III.4.). I granuli di
pigmento restavano perciò ‘imprigionati’ fra quelli di calcite, che,
essendo un minerale trasparente, permetteva di vedere i colori senza
alterarli, creando superfici brillanti. Inoltre, la sua altissima birifrangenza rendeva i colori cangianti, a seconda del punto di osservazione.
È solo questo processo fisico-chimico che viene definito affresco e
che veniva utilizzato sia nelle coloriture, sia nelle decorazioni e nelle
pitture vere e proprie, tanto per gli interni, quanto per gli esterni; è il
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sistema di decorazione parietale più bello da vedere, ma anche più
duraturo, poiché, a differenza delle tinture, i pigmenti non sono solubili nell’acqua e sono generalmente molto stabili.
Prima dell’applicazione sul muro la tonalità presente in una terra
o in un’ocra poteva comunque essere schiarita per diluizione in latte
di calce, ovvero in un grassello molto liquido. I minerali puri, macinati, erano invece utilizzati nei casi in cui si volevano ottenere tinte più
vivaci, cioè più sature.
Gli esempi più antichi di affresco risalgono alla seconda metà del
terzo millennio a.C. e sono attestati in Mesopotamia e nell’Egeo
(Cnosso, Thera). Le pitture, infatti, come dimostrato da opportune
analisi, sono state applicate su un intonaco di calce; le impronte di
impressioni eseguite a cordicella, o di linee incise con un oggetto a
punta per segnare le partizioni della decorazione, sono parsi chiari
indizi del fatto che il colore è stato steso sull’intonaco ancora plastico,
ovvero ‘fresco’, sfruttando il fenomeno della carbonatazione.
La tecnica dell’affresco dovette essere impiegata ampiamente nell’antica Grecia e in particolare in età ellenistica, quando vennero sperimentati diversi procedimenti (uso di più strati di intonaco, linee di
contorno dipinte) che si diffusero poi anche nel Sud Italia e in Etruria.
Le conoscenze maggiori sono però relative all’epoca romana e ci sono
note, soprattutto, attraverso lo studio delle città vesuviane.
È assai probabile che per eseguire una decorazione affrescata i pittori romani seguissero le indicazioni di un disegno preparatorio, concordato con il committente, nel quale dovevano essere indicate, in
scala ridotta, le partizioni della parete, la presenza di cornici, l’ampiezza delle zone destinate alle figure, eccetera. Un chiaro indizio di
ciò è rappresentato dal celebre bassorilievo, rinvenuto a Sens
(Francia), che riporta una scena di decorazione parietale eseguita da
un gruppo di artigiani, fra i quali si scorge un personaggio intento a
osservare un rotolo svolto, posato sulle ginocchia.
La decorazione procedeva dall’alto verso il basso, per successive
fasce orizzontali, corrispondenti alle pontate, sulle quali venivano
stesi, a fresco, i diversi strati di intonaco; sull’ultimo, costituito dall’intonachino ancora umido, veniva quindi inciso il disegno; con il filo
a piombo, posto in tensione e intriso di colore, si determinavano le partizioni verticali dello spazio, mentre con righe e compassi si costruivano le suddivisioni orizzontali. Il disegno veniva praticato utilizzando una punta, oppure una cordicella impregnata di terra rossa; i segni
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lasciati da questi strumenti sono stati riscontrati in diversi casi a
Pompei e a Ercolano.
Dopo aver inciso le linee guida veniva applicato il colore. La ‘giornata’ successiva ricominciava, dalla fascia sottostante, con la stesura
dei vari intonaci, fino alla decorazione affrescata.
In alcuni esempi di pitture murali di Ercolano e Pompei, dove il
degrado della pellicola pittorica aveva messo a nudo la superficie
dell’intonaco, è stato possibile ricostruire con esattezza il procedimento seguito per tracciare il disegno preparatorio; per ottenere il
noto motivo dei “cubi in prospettiva”, ad esempio, si praticava l’incisione di una quadrettatura ortogonale (eseguita con righe e squadre)
che serviva da guida per la successiva applicazione dei colori.
Analogamente venivano tracciate le sequenze di ‘scaglie’, o le cornici a greche.
Per i motivi ‘a candelabre’, oppure per le girali vegetali, si praticavano, a distanze regolari, incisioni con il compasso, in base alle quali
57- Alcuni sistemi di preparazione della parete ricostruiti in base alle
tracce di graffito ritrovate sotto la decorazione ad affresco: quadrettaturaguida per l’opus scutulatum (Pompei) e per il motivo a scaglie (Ercolano);
cerchi realizzati col compasso per ottenere il motivo ‘a candelabra’ (da
BARBET ALLAG 1972)
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58- Procedimento ‘a pontate orizzontali’, seguito in epoca romana e continuato in età medievale per la realizzazione di un affersco parietale (da
ADAM 1989)
venivano poi dipinte le volute, che potevano riprendere l’intera circonferenza, oppure ricalcarla solo in parte. I paesaggi, le nature morte
entro ‘quadretti’, o le grandi composizioni a tema nilotico non sembrano invece essere state precedute da disegni preliminari, ma paiono
piuttosto essere state eseguite a mano libera. I grandi pannelli figurati erano invece dipinti su porzioni murarie appositamente lasciate
in bianco durante la decorazione della parete; in questi casi è attestato l’uso di disegni preparatori costituiti da linee di contorno dipinte
con fini pennelli intinti di ocra. Questo sistema, che secondo alcuni
studiosi sarebbe derivato dalla tradizione greca, sembra essere riservato soltanto alla realizzazione di tali quadri. Esso può essere messo
in relazione con le sinopie, delle quali parla anche Plinio (Nat. Hist.
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59- Procedimento di suddivisione della parete in ‘giornate’ di diversa
forma ed estensione, seguito in età rinascimentale (da RUFFA 1990)
XXXV, 6), il quale ricorda come il nome prenda origine dalla città pontica di Sìnop, celebre per le sue terre coloranti.
Ciascuna delle diverse figure artigianali menzionate nei testi antichi doveva essere specializzata in una sola operazione: il dealbator,
era forse l’addetto alla stesura dell’intonaco; il pictor parietarius, realizzava probabilmente le cornici formate da motivi ripetitivi, mentre
l’imaginarius, doveva curare l’esecuzione delle scene figurate.
Nel corso dell’Altomedioevo la tecnica dell’affresco non venne
abbandonata, ma semplificata: gli strati preparatori, ad esempio, si
ridussero di numero, già a partire dalla tarda antichità. Dallo studio
delle decorazioni ad affresco conservate, soprattutto nei luoghi di culto,
sembra potersi desumere una sostanziale persistenza delle tecniche
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tradizionali romane. Si continuò, ad esempio, a suddividere le giornate di lavoro secondo fasce orizzontali, ricalcate sulle pontate, ovvero
sulle porzioni murarie raggiungibili dal piano dell’impalcatura.
Un’importante innovazione nella tecnica dell’affresco si registra
invece dal XIII secolo, quando le ‘pontate’ orizzontali, di uguale altezza, iniziano ad essere sostituite da ‘giornate’ di diversa estensione; a
seconda della complessità esse potevano comprendere un’ampia porzione del fondo, oppure una sola figura, o anche un solo particolare, ad
esempio una testa. Generalmente la suddivisione partiva in alto a
sinistra e terminava in basso a destra. Nei grandi cicli della basilica
di Assisi sono attestati, accanto a partizioni più tradizionali basate
ancora sulle pontate, i primi esempi di ‘giornate’ suddivise col nuovo
sistema, destinato ad avere un notevole seguito nella grande decorazione parietale del Rinascimento.
Dall’inizio del XIV secolo il disegno di base divenne più particolareggiato: al semplice contorno schematico si sostituì un disegno a carbone, più curato, ripassato poi con un pennello intinto nella ‘terra di
Sinope’. A differenza dell’affresco romano, tali “sinopie” venivano realizzate nello strato di intonaco sottostante l’intonachino definitivo, sul
quale erano poi riprodotte a pennello, oppure a incisione, prima della
stesura del colore. Non sono rari i casi in cui il distacco dell’affresco ha
posto in luce, nella sinopia, la presenza di modifiche o ‘pentimenti’.
Questo sistema richiedeva un impegno costante del maestro, il quale
doveva curare personalmente, in ogni ‘giornata’ di lavoro, la preparazione del soggetto da affrescare.
Nel corso del XV secolo il disegno diretto sul muro venne progressivamente sostituito con quello eseguito su ‘cartoni’e poi riportato sull’intonaco mediante lo ‘spolvero’. Esso consisteva nel praticare una
fitta serie di fori lungo i contorni del motivo da dipingere; una volta
appoggiato all’intonaco, il cartone veniva ripassato con una stoffa
impregnata di ocra o carbone; cadendo attraverso i fori, il pigmento
lasciava sul muro fresco la traccia del disegno. Questo sistema, che
finirà per sostituire definitivamente l’uso delle sinopie, si prestava a
una maggiore suddivisione del lavoro fra maestro (addetto alla preparazione dei cartoni) e aiutanti, ai quali era affidato il più ripetitivo e
faticoso compito di riportare il disegno sul muro. Quest’ultimo poteva
anche essere eseguito con incisione indiretta, seguendo i contorni del
cartone; inoltre poteva essere ripreso, o completato, tramite ulteriori
incisioni con punta metallica, corda battuta, tracciamento con pigmento, eccetera.
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60- Cartone forato (o spolvero) con il disegno-guida di un motivo vegetale
da riprodurre sulla parete da affrescare
Un interessante esempio di questo procedimento è stato rilevato di
recente nel ciclo di affreschi eseguiti dal Ghirlandaio nella chiesa di
Santa Maria Novella, a Firenze. L’osservazione ravvicinata, a luce
radente, compiuta in occasione dei restauri, ha permesso di ricostruire la suddivisione in giornate e di riconoscere l’impiego di vari sistemi
per eseguire il disegno preparatorio: spolvero, uso della corda battuta,
incisione, nonché utilizzo di chiodi quali centri di rotazione nel tracciamento di archi tramite corde.
Le tecniche messe a punto nella grande stagione rinascimentale
continuarono anche successivamente, senza sostanziali modifiche,
fino all’Ottocento, periodo nel quale le decorazioni affrescate vengono
riscoperte su larga scala. Dopo l’Unità d’Italia, in particolare, si registra la nascita di una diffusa committenza privata, di estrazione borghese, che affida la decorazione della propria dimora all’operato di
artigiani, formatisi per lo più nelle accademie d’arte. Queste maestranze avevano ereditato, e tramandavano a loro volta, un patrimonio di conoscenze che affondavano le loro radici nella tradizione rina-
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ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE
cimentale o manieristica del ‘buon fresco’. Molte notizie su questa particolare organizzazione artigianale sono state raccolte nel corso di una
ricerca basata sulla testimonianza orale di un anziano decoratore di
facciate genovesi, Giuseppe Noli, il quale aveva appreso le regole del
mestiere, a partire dall’età di dieci anni, dal padre e dal nonno. Nel
suo laboratorio aveva conservato circa quattromila cartoni, in parte
suoi e in parte posseduti dalle due precedenti generazioni. Si è potuto
apprendere che lo schema d’insieme della parete veniva progettato a
terra, in scala ridotta, dato che sui ponteggi era impossibile avere una
visione globale.
I disegni preparatori dei singoli motivi erano invece realizzati in
scala reale; i contorni venivano forati fittamente con un ago, di solito
nelle ore serali. Alcuni soggetti erano copiati, non senza adattamenti,
dal Trattato di Sebastiano Serlio, del quale il nonno, formatosi presso
l’Accademia Ligustica di Belle Arti di Genova, possedeva una ‘preziosa’ copia.
Ogni cartone conteneva solo la metà di un motivo: per realizzare il
disegno intero era infatti sufficiente ribaltare il cartone sulla parete.
61- L’anziano affrescatore Noli insegna ad applicare i colori su un campione di intonaco fresco, con successive stesure, secondo il metodo tradizionale
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Lo spolvero veniva eseguito con un sacchetto di tela contenente del
pigmento, in genere “terra di Siena bruciata”. Il contorno veniva poi
rinforzato con un segno graffito nell’intonaco, secondo una tecnica
ampiamente attestate nella decorazione delle facciate genovesi fin dal
XVI secolo. Anche la stesura del colore avveniva in base a precise regole: per prime erano applicate le tinte di fondo, poi i contorni dei motivi, quindi i vari gradi delle ombre e infine le lumeggiature. Una precisa tonalità poteva essere ottenuta, in poche decine di secondi, mescolando i pigmenti con acqua. Poiché i disegni dovevano essere visibili a
distanza, i dettagli non venivano curati. Nel genovesato si conservano
circa una trentina di case decorate dai Noli, secondo due diversi stili:
uno eclettico costituito da modanature dipinte in giallo su fondo rosso,
e uno liberty, basato più sulla policroma.
La profonda conoscenza delle ‘regole dell’arte’ aveva persino consentito a Giuseppe Noli, l’ultimo di questa famiglia di artigiani, di
adattare alla decorazione ad affresco i colori acrilici, che nel corso
degli anni ‘70, avevano finito per soppiantare definitivamente l’uso
delle tradizionali terre.
5. Il fresco secco e la pittura a calce
Con il termine ‘fresco secco’ si intende un tipo di pittura parietale
nella quale i pigmenti vengono stesi sull’intonaco asciutto, o quasi. Ciò
poteva accadere nei casi in cui la decorazione non era ancora stata terminata ma l’intonaco aveva già iniziato la carbonatazione, ovvero era
già ‘secco’, oppure quando si doveva ritornare sulle parti ormai asciutte, per completare alcuni dettagli. Anche se la carbonatazione non era
ancora avvenuta del tutto, ma era in uno stadio avanzato, i pigmenti
avevano comunque pochissime possibilità di mescolarsi con l’idrossido
di calcio e di aderire alla calcite. Perciò in questi casi si stendeva sul
muro una scialbatura, cioè un sottile strato di latte di calce, sul quale
si applicava il colore in fretta, prima che l’acqua evaporasse.
Un sistema analogo consisteva nel miscelare i colori minerali con
latte di calce, talora addizionato con latte vaccino, che ne migliorava
l’aderenza e la coesione; quando l’idrossido asciugava, avveniva, come
nell’affresco, la carbonatazione, e quindi la formazione dei cristalli di
calcite.
Questo sistema, definito ‘pittura a calce’ può essere considerato
una variante della tecnica ad affresco; veniva utilizzato soprattutto
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ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE
quando si dovevano ottenere composizioni complesse, con ombreggiature e velature sovrapposte, che difficilmente potevano essere completate in un’unica, veloce stesura.
Una delle più antiche descrizioni di questa tecnica si trova nell’opera del monaco Teofilo, Diversarum Artium Schedula, composta fra
XI e XII secolo. Le documentazioni materiali, invece, sono assai più
antiche; risalgono almeno all’epoca greca e accompagnano tutti i secoli successivi, parallelamente alle testimonianze di decorazioni affrescate.
6. La pittura a tempera
Per applicare il colore su un intonaco asciutto e senza utilizzare il
latte di calce, cioè senza sfruttare la carbonatazione, occorreva ricorrere all’uso di collanti, i quali venivano aggiunti ai pigmenti e ne
garantivano l’adesione al muro. Il colore applicato direttamente sulla
parete, con l’uso di un medium organico, viene definito tempera.
In passato si usavano collanti di vario tipo: l’olio, pur adatto per la
pittura su tela o su legno, lo era molto meno per i muri. Più usati
erano i collanti ottenuti da proteine animali (chiara d’uovo, caseina
del latte) che potevano essere aggiunti al colore anche quando l’intonaco era in stato avanzato di carbonatazione. Essi erano però poco
resistenti al calore: già a 25°C, ad esempio, la caseina inizia a trasformarsi in ossalato di calcio. Altri collanti organici di origine animale venivano ottenuti dai collageni: le fibre delle ossa, delle pelli,
delle cartilagini, delle unghie, potevano essere estratte facendo marcire le altre parti. Molto usata era ad esempio una colla ottenuta dalla
pelle di coniglio.
Esistevano anche collanti di natura vegetale, come le resine,
estratte dalle conifere o da altre piante, oppure la gomma arabica e la
colla dragante.
In ogni caso i colori applicati a tempera hanno una durata decisamente inferiore a quella dell’affresco; ciò è dovuto al fatto che il fissaggio della tinteggiatura, invece di essere garantito dalla cristallizzazione della calcite, è dovuto essenzialmente ai leganti i quali, essendo di natura organica, sono soggetti ad alterazioni nel tempo. Anche
la resa cromatica è inferiore, poiché la necessità di mescolare il pigmento al collante ne determina una bassa trasparenza e una tonalità
meno pura.
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La tempera è una tecnica assai più antica dell’affresco; rappresenta infatti il primo sistema di applicazione dei pigmenti alle pareti,
attestato già nel Paleolitico, a Lescaux e ad Altamira.
Certamente fu usata anche nella pittura greca e romana, anche se
è difficile ritrovarne tracce certe; anch’essa viene descritta nel trattato di Teofilo, il quale sembra considerarla come un completamento
della pittura a calce, da utilizzarsi nella definizione dei dettagli. Nel
più tardo Libro dell’Arte del Cennini si riporta, accanto a un breve
elenco dei colori adatti all’affresco, una nutrita serie di quelli che
dovevano essere usati a tempera, fra i quali erano l’azzurrite, l’oltremare, la biacca, il cinabro.
Nel Medioevo si fece un ampio uso della tempera murale, che fu
particolarmente apprezzata dalla scuola senese e, soprattutto, da
Simone Martini; questa tecnica si prestava bene, infatti, alla raffinatezza delle velature, all’uso di colori rari e di materiali ricercati, che
conferivano alla pittura un tono aulico e fastoso.
Anche nella grande stagione dell’affresco, fra XV e XVI secolo, si
attribuiva una grande importanza alla tempera, soprattutto per le
finiture. Essa fu usata da diversi artisti e in particolar modo da
Leonardo, il quale amava poco la tecnica dell’affresco, poiché la velocità di esecuzione che richiedeva si conciliava male con la sua pittura
molto basata sullo studio grafico. Per tale motivo era solito sperimentare l’impiego di collanti, come fece nel celebre caso dell’Ultima Cena
di Milano, dove usò una tempera a base di uova.
7. Principali cause di degrado
In seguito a naturali processi di alterazione chimica, solo alcuni
pigmenti minerali, sottoposti alla luce e all’aria, tendono a cambiare
abito cristallino e quindi a mutare la tinta: è il caso, ad esempio, dell’azzurrite, che col tempo tende a trasformarsi in malachite e a mutare colore da azzurro a verde, oppure del cinabro, che tende ad ossidarsi
e di conseguenza ad annerirsi.
Altri tipi di degrado possono essere subiti dalle decorazioni affrescate, non per alterazione chimica, ma per i danni meccanici procurati dall’acqua. Se esposti a lungo alla pioggia battente i colori degradano per asportazione dei pigmenti; nel caso in cui la calcite venga resa
solubile dall’anidride carbonica disciolta nell’acqua, anche i granelli
dei pigmenti possono venire asportati. Via via che diminuisce la quan-
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tità di pigmento anche il colore tenderà perciò a schiarirsi. Attraverso
i sistemi di valutazione oggettiva più sopra descritti (cfr. IV.1.) è possibile quantificare in che misura il colore originario si sia spostato
verso il bianco e calcolare la percentuale di pigmento mancante.
Questo tipo di degrado può essere contrastato bloccando il processo di
asportazione.
Spesso, in un affresco degradato dalla perdita di colore, ciò che si
conserva meglio sono i contorni del disegno, perché lì i pigmenti vengono trattenuti più a lungo dalla presenza del graffito.
Non sono infrequenti i casi di degrado differenziato degli affreschi,
vale a dire di zone in cui manca una quantità maggiore di pigmento.
Ciò avviene con più frequenza nelle parti che erano state realizzate
per ultime e dove perciò i colori erano applicati sull’intonaco già asciugato.
Dove l’azione dell’acqua battente non ha asportato la superficie,
l’affresco resta invece brillante, perché i colori minerali nella maggior
parte dei casi non sono alterabili.
Come gli altri materiali a base carbonatica anche gli affreschi sono
soggetti alla solfatazione, con conseguente formazione della crosta
nera, per azione delle piogge acide.
Altre cause di degrado possono essere dovute a interventi moderni, quali l’applicazione di silicati su pareti bagnate, o l’esfoliazione per
mancanza di traspirabilità dei colori polimerici.
8. Nota bibliografica
Per uno studio completo dei pigmenti usati nella pittura si veda il
volume AA. VV. 1986/a, che contiene un’analisi approfondita delle
sostanze coloranti utilizzate dall’Antichità al secolo scorso; di ciascuna di esse vengono descritti i caratteri naturali e viene ricostruita la
storia dell’utilizzo nel corso dei secoli.
Per lo studio sperimentale condotto nel genovesato sulle modalità
di approvvigionamento delle terre coloranti a base di ossidi di ferro
cfr. FANTONI, G ATTI 1994. L’analisi dei pigmenti rinvenuti nel laboratorio del pittore egizio di Karnak si trova in ROUCHON ET ALII 1990. Un
quadro completo (anche se aggiornato solo ai primi anni ‘80) dello
stato delle conoscenze sui pigmenti utilizzati nella decorazione parietale dell’architettura greca, etrusca, romana, si trova in FRIZOT 1982.
Per un aggiornamento su alcune ricerche posteriori si consiglia la let-
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tura di A A.V V. 1990, che contiene gli Atti di un Convegno
Internazionale svoltosi in Francia sul tema dei pigmenti e coloranti
impiegati dall’Antichità al Medioevo; fra gli altri contributi si segnala
quello di BARBET 1990, dove viene descritto l’esempio della domus di
Aix en Provence più sopra citato. Per le analisi del ‘falso blu’ di
S.Germain di Auxerre cfr. COUPRY, SAPIN 1994.
Sulla tecnica dell’affresco si vedano inoltre CAMERON, JONES,
PHILIPPAKIS 1977 per le analisi di alcuni esempi di pittura parietale
minoica; VLAD B ORRELLI 1984 per la pittura etrusca; BARBET, ALLAG
1972 e BARBET 1985 per gli affreschi di epoca romana. Una utile e
chiara sintesi di tutti i sistemi di pittura parietale dell’antichità si
trova in CAGIANO DE AZEVEDO 1961. Per le tecniche di esecuzione delle
pitture parietali in età medievale e rinascimentale cfr. NEGRI ARNOLDI
1980; MORA L. P., P HILIPPOT 1977; B ENSI 1990. L’esempio del ciclo di
affreschi di Santa Maria Novella (Firenze) di Domenico Ghirlandaio è
trattato nel saggio di RUFFA 1990. Le ricerche di storia orale sulla
famiglia dei decoratori Noli si trovano in CAPURRO, GUGLIELMI
1991/92. Interessanti considerazioni sulla pittura a calce e sulla esegesi del testo di Teofilo si trovano in C OSTANZI COBAU 1985.