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A.J. Cross
Ossa fredde
Traduzione di
Annalisa Di Liddo
Titolo originale:
Gone In Seconds
Copyright © A.J. Cross, 2012
All rights reserved
The moral right of A.J. Cross to be identified as the author of this work has been
asserted in accordance with the Copyright, Designs and Patents Act, 1988
Progetto grafico di collana e copertina: Yoshihito Furuya
Fotografia in copertina: © boazyiftach / Fotolia
© Roman Sigaev / Fotolia
www.giunti.it
© 2012, 2014 Giunti Editore S.p.A.
Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia
Piazza Virgilio 4 – 20123 Milano – Italia
Prima edizione: giugno 2012
Ristampa
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Anno
2019 2018 2017 2016 2015
Due bambine camminano senza pensieri lungo una strada che
conoscono bene. È una calda giornata d’estate di tanti anni fa.
Un uomo le supera in bicicletta, le saluta con la mano, scompare
oltre il cancello del parco poco distante. Le bambine non sanno chi
è, pensano al gelato. Pochi minuti dopo, seguono la stessa strada
percorsa dall’uomo ed entrano nel parco, ciascuna con un cono in
mano. Ridono. Leccano il gelato.
L’ uomo è lì, appoggiato alla bici, accanto a una fitta macchia
di alberi. Le osserva, aspetta. Lui intuisce come sono le bambine.
Individua subito quella più prepotente e la scarta d’istinto; preferisce l’altra, la più piccola. La studia mentre sgambetta felice insieme
all’amica, contempla i capelli scarmigliati, la maglietta a maniche
corte che mostra braccia abbronzate e ben tornite, la gonnellina
a righe che, sollevata dal vento leggero, rivela le mutandine rosa.
Basta un solo richiamo a bassa voce per farla avvicinare, mentre
la mano dell’uomo si muove ritmicamente, sempre più in fretta.
La guarda negli occhi, guarda il viso come ipnotizzato dal movimento. Poi la prende per i capelli e la bambina cade all’indietro,
aprendo la bocca a pronunciare una o silenziosa. L’ uomo emette
un verso gutturale, mentre i riccioli scivolano dalla presa della sua
mano viscida.
I tempi cambiano. Le persone no. C’è sempre un predatore a
caccia di una vittima. Una ragazza con i capelli biondi legati da un
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foulard rosso esce di casa: ha una borsetta a forma di cuore e alcune
lettere del padre strette in mano. Scompare.
Quattro anni dopo un’altra ragazza passeggia in un centro commerciale, ride con le amiche. A un tratto anche lei scompare, e il
mondo continua a girare.
Passano gli anni, il predatore si nasconde, ma la ragazza con il
foulard ha lasciato una piccola traccia, un segno intrappolato nel
cemento, in una minuscola crepa. Attende solo che qualcuno la
noti, qualcuno a cui importi qualcosa.
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La dottoressa Kate Hanson oltrepassò silenziosamente la porta –
nascosta da una tenda – che dava accesso a un lato della grande
aula. L’ unica persona che si aspettava di trovare lì era già arrivata:
Julian Devenish, il bravissimo allievo che le faceva da assistente.
Leggeva un libro di testo, tutto accigliato, il corpo asciutto seduto
scomposto su una sedia rivestita di tela. Si alzò quando la vide
entrare.
«Buongiorno, Kate, dottoressa Hanson. È tutto pronto» disse
indicando con un dito. «Ho testato l’audio, ho sistemato le luci
come richiesto, il PowerPoint è già avviato e ora è in standby.
Ho lasciato sul tavolo alcune copie degli appunti, così gli studenti potranno prenderle dopo la lezione. Se qualcosa va storto
– ma non accadrà – me ne occupo io. Tutto quello che va fatto
è toccare...»
Kate sollevò lo sguardo e sorrise al viso serio dello studente
alto e dai capelli lunghi. Annuì e, con voce bassa e rassicurante, disse: «Grazie, Julian. Apprezzo moltissimo il tuo aiuto. Continua pure a studiare. Sono sicura che andrà tutto alla
perfezione».
Appoggiandosi al bordo di un tavolo lì accanto, controllò l’orologio da polso: erano le due meno cinque di un mercoledì pomeriggio. Sentiva il trambusto nell’aula che si riempiva, accompagnato
da un brusio diffuso. Ancora cinque minuti e avrebbe cominciato
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la prima lezione dell’anno accademico. Chiuse gli occhi, fece una
serie di respiri profondi e li riaprì.
Julian le stava tendendo un bigliettino. Chinandosi in avanti,
Kate glielo sfilò di mano e lo scorse velocemente, frugando in borsa
per recuperare il cellulare. Controllò il display e aggrottò la fronte:
non c’era traccia della telefonata che aspettava. Allora si concentrò
sul foglietto. «Chiamare D.S. Watts, Rose Road. Urgente.» Fece
scorrere la rubrica fino a trovare il numero e rimase in attesa. Nessuno rispose. Chiuse la chiamata e spense il telefono. Pareva che
quel giorno nessuno avesse voglia di parlare con lei. Guardò di
nuovo l’orologio. Un minuto.
Alzandosi in piedi, si lisciò la gonna aderente sulle anche e si sistemò la giacca del completo Armani. Dopo un’occhiata e un cenno
di assenso da parte di Julian, inspirò a fondo, scosse energicamente
la testa facendo ricadere sulle spalle i folti capelli color rosso scuro,
riaggiustò la giacca un’ultima volta e salì sul palco, mentre nell’aula
calava un silenzio carico di aspettative e centocinquanta paia di
occhi seguivano i suoi movimenti.
Toccò un tasto sul portatile in standby e si rivolse alla schiera
di giovani visi dei suoi studenti. Alcuni li riconobbe: li aveva già
visti durante i colloqui di ammissione all’università. Ce n’erano due
tre che conosceva bene, compreso uno spettatore inatteso seduto
in fondo all’aula. Aveva i capelli biondi e una camicia candida che
rifletteva la luce. Kate gli rivolse un sorriso, ma lui non se ne accorse. Era troppo lontano.
«Benvenuti alla lezione introduttiva del corso di Criminologia.
Primo anno, primo modulo. Il titolo del corso è Psicologia, crimine
e giustizia penale. Se c’è qualcuno che ha sbagliato aula o che non è
interessato, può andarsene.» Aspettò. Diversi allievi si guardarono
intorno. Nessuno si mosse. «Bene» disse. «Ho una classe appassionata. Cominciamo.»
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Toccò di nuovo un tasto e l’enorme schermo si riempì di fotografie a mezzobusto. Tutte donne, circa due terzi delle quali
bianche, alcune con pettinature fuori moda, giovani, sorridenti,
dall’aria ingenua. Altre con facce più vissute. Dal pubblico salì
qualche mormorio sommesso.
Kate guardò lo schermo e poi si rivolse all’aula, con voce tranquilla ma autorevole. «Una bella galleria, vero?» Indicò alcuni scatti
con il puntatore laser. «Queste otto donne sono collegate. Queste
sette fanno parte di un altro raggruppamento... così come queste
quattordici.»
Gli studenti avevano gli occhi fissi sulle foto. Kate li stava controllando con la coda dell’occhio. «Immagino che quasi nessuno
di voi sia in grado di riconoscere questi visi, ma spero che costituiscano almeno in parte la ragione per cui avete scelto Criminologia
come materia di studio e oggetto della vostra futura professione.
Secondo me è fondamentale.»
Kate camminò lentamente verso la parte anteriore del palco,
mettendosi di fronte alla platea silenziosa. Abbassò la voce per
esporre il primo concetto essenziale della lezione. «Ventinove
donne. Quasi tutte giovani. Inglesi, italiane, tedesche, statunitensi, canadesi, australiane. Non ci sono confini geografici.
Avrei potuto mostrarvene molte, molte altre.» Una pausa di
qualche secondo. «Tutte, comprese le ventinove che vedete sullo schermo, stanno aspettando. Aspettano qualcosa da parte dei
criminologi.»
Sapendo che il pubblico stava ascoltando, rapito, Kate tornò
al portatile. «Ciò che è accaduto a queste giovani donne, e che
le ha rese delle vittime, è il fatto che abbiano incrociato sul loro
cammino degli individui...» un colpo deciso sulla tastiera «come
questi.»
Lo schermo, ora, offriva una galleria di volti maschili. Dal9
la platea arrivarono espressioni di sorpresa e mormorii di
riconoscimento.
«Può darsi che non li identifichiate tutti, ma sono disposta a
scommettere che chiunque di voi possa nominarne almeno cinque.» Rimase in attesa.
Silenzio.
«Ho vinto» disse piano. «Non è strano? Conosciamo gli autori
di crimini spietati meglio di coloro che li hanno subiti.» Annuì,
osservando i deboli sorrisi imbarazzati di alcuni studenti.
Kate indicò le foto con il laser. «Questi uomini sono, o erano,
predatori. Chi di loro è ancora in vita, se ne avesse la possibilità,
sarebbe pronto a commettere altri crimini violenti, simili a quelli
per cui è stato incarcerato.»
Sollevò lo sguardo verso lo schermo e poi tornò a osservare il
pubblico.
«Non c’è ragione di sentirci in colpa se sono i visi dei predatori e
non quelli delle vittime a far scattare il riconoscimento, a stimolare
il nostro interesse. Gran parte della responsabilità è dei mass media.
In tutte le loro forme.»
Kate fece una pausa di qualche secondo. «Prima di cominciare
il corso, vi do un consiglio. Dimenticate i crimini romanzati dei
libri, della televisione o dei film hollywoodiani. Dimenticate certe
teorie sull’omicidio seriale, secondo cui gli assassini si fissano
sulla stessa tipologia di vittima, senza mai deviare da un unico
modello.»
Un’altra pausa.
«I predatori sessuali hanno i loro gusti, ma non si comportano
necessariamente in modo stereotipato, identico per tutte le vittime. Purtroppo, negli ultimi vent’anni ha preso piede un cliché che
invece presuppone proprio questo, perché è perfetto per produrre
libri, film o programmi televisivi affascinanti. Ma la cosa finisce
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qui. Noi dobbiamo diffidare delle ipotesi di comodo, basate su
scienze inesatte.»
Kate scrutò gli ascoltatori. «Può darsi che i predatori non siano
rigidi come ci fanno credere.» Fece alcuni passi avanti. «Perché
no?» Abbassò la voce. «Perché le fantasie di questi uomini cambiano. Come me e come voi, queste persone si adattano. Imparano»
aggiunse in tono ancora più basso. «E spero che questo avverrà
anche qui, nelle prossime settimane.»
Il rintocco della campana della Chamberlain Tower si fece sentire
dall’altra parte del campus, nell’insolito caldo di quel tardo settembre, e si insinuò fino nell’aula. Nessuno degli studenti di Kate
si mosse.
«Ho detto che le giovani donne che prima vi ho mostrato stanno
aspettando qualcosa. Da voi e da me. Cos’è che vogliono?»
Sentì diverse persone rispondere con una sola parola e annuì,
soddisfatta. «Sì. Se e quando diventerete criminologi professionisti,
ci saranno altre vittime. Per dare loro la giustizia che attendono
dovrete essere lucidi e fondarvi su teorie affidabili.»
Kate scrutò nuovamente il pubblico e poi procedette a sottolineare un altro concetto chiave. «Questi uomini non si fermano mai»
disse piano. «Perché il loro comportamento nasce da un profondo
bisogno di natura psicologica. Non è raro che si prendano una
pausa ogni tanto, magari di un anno o anche più.» Si interruppe.
«Ma non dubitate. Alla fine ritornano sempre.»
Nel silenzio denso dell’aula si sollevò una mano incerta.
«Sì?» domandò Kate.
«Perché? Perché ogni tanto si prendono una... pausa?»
Kate sorrise allo studente dall’aria perplessa. «Per un criminologo, “perché” è una delle parole più potenti che esistano.»
Tornò nella parte anteriore del palco. «Perché si prendono una
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pausa? I trattati suggeriscono che possa capitare quando un assassino recidivo sperimenta un cambiamento positivo nella sua
vita. Qualcosa di nuovo, che gli dia soddisfazione, che calmi la
sua compulsione. Magari un nuovo lavoro, o una nuova relazione,
che lo appaghi quanto basta da distoglierlo dal suo modello di
comportamento e di pensiero deviato.»
Gli allievi osservarono Kate camminare e poi voltarsi per sottolineare le sue parole con un gesto deciso della mano. «Tuttavia,
è inevitabile che si arrivi a un punto in cui la nuova soddisfazione
non è più sufficiente a sopprimere l’urgenza della fantasia e il brivido della ripetizione. Una volta esaurito il periodo “sabbatico”,
l’omicida tornerà.»
Con un sorriso appena accennato, Kate puntò il laser sulle fotografie ancora proiettate sullo schermo, gli occhi rivolti alla platea di
giovani che la fissava. «Un’ultima richiesta, soprattutto alle donne
qui presenti. Guardate bene. Che cosa vedete? Uomini come tanti?
Qualcuno anche abbastanza attraente?»
Molti visi mostrarono un ghigno.
Dopo alcuni secondi, Kate si fece seria. «Per le giovani donne
che vi ho mostrato, una di queste facce potrebbe essere stata l’ultima che hanno visto prima di morire. Uno di questi uomini potrebbe essere stato l’incarnazione di un incubo. Non sottovalutate
mai un uomo simile. Non è un attore.» Fece una pausa. «Nel teatro
dell’omicidio seriale, lui è il regista.»
Le sue parole rimasero sospese nell’aria immobile dell’aula.
Kate si aspettava che forse qualcuno, tra il pubblico, riconoscesse la descrizione concreta del predatore che stava per fornire.
«Quindi, la prossima volta che un bel tipo con una cinghia in mano
fa cadere i libri ai vostri piedi e vi chiede di aiutarlo a metterli nel
bagagliaio del suo Maggiolone, vi prego di rispondergli: “Mi dispiace, mi piacerebbe aiutarti, ma non ti conosco proprio”.»
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Le luci dell’aula si accesero e la lezione si concluse. La tensione
si dissolse, mentre il pubblico prorompeva in un applauso spontaneo. Kate sorrise e fece un breve cenno di saluto, poi si incamminò
svelta verso il retro del palco e scomparve.
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Nel trambusto dei sedili a ribalta che si sollevavano e delle voci
chiassose degli studenti, Kate raccolse la valigetta e sue carte, conscia del battito accelerato del suo polso. Dopo la lunga pausa delle
vacanze estive le capitava sempre, o quasi.
Con la sua ampia falcata e i jeans sfrangiati a mezza gamba,
Julian le passò accanto per recuperare l’attrezzatura dal palco. Sulla
maglietta nera c’era una scritta rossa: grateful davanti e dead
dietro. Quando tornò, con il portatile e il puntatore laser sottobraccio, Kate gli rivolse un sorriso caloroso.
«Grazie di essere venuto, Julian. Potermi concentrare sulla lezione senza farmi distrarre dalla tecnologia e dal timore di buttare
tutto all’aria, per me è una liberazione.»
«Non c’è problema, Kate.»
Kate non era un tipo pomposo e non le interessavano gli ossequi
da parte degli allievi, quindi, al di fuori delle lezioni accademiche,
lasciava che i rapporti fossero informali. Per di più, Julian era anche un collega, benché più giovane, nel lavoro di consulenza che
svolgeva di tanto in tanto per la polizia delle West Midlands.
Vedendo che era pronta ad andare, Julian agitò una mano. «Ci
vediamo al prossimo incontro.»
«Puoi starne certo.»
Kate lasciò l’aula e uscì nel pomeriggio rovente. Con passo sicuro,
si incamminò sul sentiero asfaltato e bordato di erba ispida e mar14
roncina, oltrepassando gli alberi immobili e ancora carichi di foglie
estive, anche se alcune stavano cominciando ad arrossare e a cadere.
Guardando davanti a sé, scorse una sagoma atletica in jeans e
camicia bianca, con un borsone su una spalla. Lo spettatore inatteso. Si affrettò per raggiungerlo.
«Harry! Ehi, Harry! Aspetta!»
Nessuna risposta. Ci riprovò, questa volta gridando più forte.
Lui si fermò, si tolse gli auricolari e si voltò, con un’espressione dura
e arcigna, mentre la fiumana di studenti gli passava accanto. Kate
si ricordò della passione di Harry per Mahler e Wagner. Quei due
avrebbero incupito chiunque.
Quando vide Kate, il viso di Harry si rischiarò e poi, mentre
lei copriva svelta la distanza che li separava, si aprì in un grande
sorriso. Raggiuntolo, col sudore che le imperlava la fronte e il petto,
Kate si aggiustò gli occhiali scuri sul naso e spostò la valigetta da
una mano all’altra.
«Non mi aspettavo di trovarti a lezione, oggi.»
Harry Creed era a capo della Scientifica delle West Midlands,
che gli addetti ai lavori chiamavano semplicemente “Rose Road”.
Kate faceva da consulente presso l’Unità delitti insoluti e quindi
qualche volta, nei diciotto mesi passati, si era trovata a lavorare
con Harry e i suoi colleghi. Si sentiva in debito con lui, visto che
nel precedente anno accademico Harry aveva permesso a Julian
di seguire la squadra, dandogli così la possibilità di aggiungere
un modulo al suo piano di studi. A parte questo, Kate trovava che
Harry, con i suoi quarant’anni circa, fosse una persona piacevole.
«Ciao, Kate. Ho pensato di fare un salto a vedere come se la
passano i pochi fortunati che lavorano nel mondo accademico.»
Kate sorrise. Sapeva che a Harry, laureato in Scienze forensi,
sarebbe piaciuto da morire insegnare part-time al Dipartimento
di Psicologia dell’università.
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«Allora, che ne pensi? Ti è piaciuto quel che hai visto?»
Lui annuì, entusiasta. «Indubbiamente. Mi ci vedrei benissimo.
Gli studenti sono attenti e quando fai lezione sei padrone assoluto
del tuo universo... nel tuo caso, padrona assoluta.»
Kate rise. Stavano camminando l’uno accanto all’altra. «Sì, be’...
certe volte.»
Fecero qualche altro passo in silenzio, poi Kate gli lanciò un’occhiata. «Cosa ti ha detto il professor Bennett quando sei andato
a parlargli?» Aiden Bennett era docente di Psicologia criminale
all’Università di Birmingham e Kate aveva accettato di segnalargli
l’interesse di Harry nei confronti del lavoro accademico. Lo aveva
fatto volentieri, dato che aveva notato la sua capacità di comunicare
con gli studenti quando lo aveva visto interagire con Julian. Aveva
preso accordi perché ottenesse un appuntamento con il professor
Bennett per discutere della possibilità di tenere, tanto per cominciare, qualche seminario gratuito sul suo lavoro alla Scientifica.
«Non l’ho ancora visto.»
«Credevo avessi fissato un colloquio» rispose Kate, sorpresa.
Harry scosse la testa. «No, ma lo fisserò. Di sicuro. Voglio prepararmi adeguatamente all’incontro. Voglio che capisca quanta
passione metterei nella formazione delle giovani menti e...»
«Ma perché intanto non scambi due parole con lui in via informale? Così, solo per tastare il terreno?» domandò Kate.
«Vorrei presentargli con chiarezza i miei punti di forza e il mio
impegno...» Kate lo osservò. Si capiva che era interessato, ma la sua
voce tradiva la presenza di un problema. «Il fatto è che in questo
momento ho delle perplessità. Il futuro di Donald è incerto. Ha un
contratto a termine e con i tagli che stanno facendo potrebbe dover
prendere in considerazione un trasferimento.» Calò il silenzio. Kate
sapeva che Harry aveva un compagno. «Inoltre, i miei non stanno
benissimo. Sto a casa loro per qualche giorno.»
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Lei annuì in segno di comprensione. Poco dopo che Kate aveva
iniziato a lavorare a Rose Road come consulente, Harry era passato
alla Udi. Si erano trovati a proprio agio e avevano chiacchierato.
Kate gli aveva raccontato un po’ di sé e Harry le aveva parlato della
sua vita, in particolare dei suoi genitori e di come lo avevano sostenuto nella relazione con Donald. Kate si era sentita incoraggiata
dalla sua affabilità.
Stava per fare un commento affettuoso, ma il viso di Harry si
era già illuminato di nuovo. «Si risolverà tutto e allora chiamerò il
professor Bennett. Ti farò sapere. Ti sono davvero grato per aver
messo una buona parola per me, Kate.»
Lei sorrise. «Io ho solo fatto il tuo nome, ma Aiden sembrava
sinceramente interessato.»
Erano arrivati al viottolo che portava al parcheggio multi-piano.
«Sei qui in macchina o ti do un passaggio?» chiese Kate, osservando il livello più basso, che non era la scelta che preferiva.
Il suo sguardo passò in rassegna l’area semibuia e gremita di
macchine. Quella cautela era il risultato delle sue competenze teoriche di docente di Psicologia criminale, oltre che del lavoro di
valutazione dei delinquenti che svolgeva per conto dei tribunali penali. In quelle occasioni le venivano rivolte molte domande diverse,
ma il succo era sempre lo stesso: che rischio c’era che l’accusato,
in futuro, commettesse ulteriori atti di violenza generica o, nello
specifico, di violenza sessuale? Quel tipo di incarico la costringeva
a stare a contatto con una serie di individui problematici. C’erano
gli opportunisti, i sadici, i perversi. E qualche volta le capitava di
trovarsi a difendere le sue posizioni durante i processi.
«Oggi sono a piedi. Vuoi che ti accompagni alla macchina?»
chiese Harry notando la sua espressione. Era consapevole dei timori di Kate. La sua cavalleresca offerta non la sorprese, ma lei declinò.
«Grazie, Harry, ma va bene così.» Se fosse stata mezzanotte,
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magari, avrebbe accettato. Ma erano le tre e mezza di un pomeriggio assolato.
Fece un cenno di saluto e Harry si avviò verso l’uscita principale. Kate si affrettò a entrare nel parcheggio e andò dritta verso
la sua Audi tt nera, in sosta nella penombra. Mentre raggiungeva
la piccola automobile, esaminò le macchine presenti su tutto il
piano. In quel periodo del trimestre il campus era affollatissimo.
Quando era arrivata, poco prima della lezione, non aveva avuto
molto tempo per cercare un posto e quello era l’unico disponibile.
Controllando l’area circostante, Kate disattivò l’allarme e aprì
la portiera. Va bene, sono paranoica. Ma sono anche viva. Buttò
la sua roba sul sedile del passeggero, ci mise sopra la giacca, poi
si sistemò alla guida. Un vantaggio di quel parcheggio era che la
macchina non diventava un forno.
Riattivò la chiusura centralizzata e controllò che ore fossero.
Scorse la rubrica del cellulare e selezionò un numero. Lasciò squillare. Riprovò, assumendo un’espressione imbronciata. Questa volta
lasciò un breve messaggio. Poi, ricordandosi del bigliettino che le
aveva dato Julian, chiamò anche l’altro numero. Ma nemmeno in
questo caso ebbe fortuna. Con un sospiro, lasciò cadere il telefono
nella vaschetta per le monete e avviò prima il motore e poi l’aria
condizionata.
Guidò l’Audi fuori dal parcheggio e, mentre si dirigeva verso
l’uscita principale del campus universitario, scrutò la costruzione
di mattoni rossi che si trovava di fronte: la King Edward VI High
School for Girls, un collegio femminile. Era quella la destinazione
del messaggio che aveva lasciato in segreteria. Tamburellando sul
volante con le dita, attraversò il traffico intenso di quell’ora del
pomeriggio e seguì la curva della strada fino ai cancelli spalancati
della scuola, passando in rassegna i gruppetti di studentesse e le
ritardatarie che si allontanavano girovagando.
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Fermò la macchina e sbirciò oltre il portone sormontato da una
targa con l’antico motto della scuola, trouthe schall delyvere.
Scorse l’atrio, con i suoi freddi pavimenti di marmo e le pareti
rivestite di pannelli di legno. Deserto. Se ne erano andati tutti.
Controllò di nuovo l’orologio, tornò indietro lungo il vialetto e si
rituffò nel traffico.
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3
Madre e figlia erano impegnate in un faccia a faccia nella spaziosa
cucina quadrata, che proprio in quel momento cominciava a rinfrescarsi grazie alle porte a soffietto spalancate sull’ampio giardino. In
pantaloni militari verde scuro e maglietta nerofumo firmata agnès
b., Kate stava sistemando la spesa, percorrendo avanti e indietro
il pavimento di ceramica chiara per collocare cartoni e confezioni
dentro le ante di ciliegio delle varie dispense.
«Eravamo d’accordo che mi avresti chiamata in mattinata o
alla fine della pausa pranzo per dirmi a che ora dovevo venire a
prenderti. Non hai chiamato» concluse in tono stizzito, chiudendo
con forza un’anta per sottolineare quanto aveva appena detto.
A partire dal suo decimo compleanno, Maisie aveva insistito
per avere un cellulare. Kate aveva resistito alle pressioni per diciotto mesi circa. Da un momento all’altro si aspettava anche che le
chiedesse il permesso di aprire un profilo su Facebook. Tuttavia,
sorprendentemente, la richiesta non era arrivata. Se fosse successo,
Kate aveva deciso che la sua risposta sarebbe stata: niente Facebook, a meno che Maisie non avesse dimostrato di essere affidabile
nell’uso del cellulare.
Sentì salire un dolore sordo alle tempie. Non lanciarti in battaglia prima ancora che sia cominciata. Aprì gli sportelli gemelli del
freezer all’interno del frigo in alluminio; ripose alcune confezioni
e ne tolse altre, poi li richiuse usando un piede e un gomito.
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Seduta al grande tavolo di legno anticato, sorreggendo la testa
con una mano, Maisie stava lanciando sguardi di fuoco alla madre,
con i grandi occhi azzurri. Il viso a forma di cuore aveva assunto
un’espressione sprezzante, la pelle abbronzata era arrossata sotto
una massa di riccioli folti.
«Perché sapevo che stamattina facevi lezione alle matricole,
quindi non aveva senso! E comunque cosa c’è che non va nel prendere l’autobus?» Maisie si alzò e fece per sgraffignare qualcosa dalla
biscottiera poggiata su un ripiano in granito nero.
Kate non aveva una risposta a quella domanda, quindi la ignorò,
riluttante a spiegare in modo esplicito le sue paure riguardo alla
sicurezza personale. «Sai benissimo che se io non avessi risposto
avresti potuto lasciare un messaggio in segreteria. Io e te dobbiamo
concordare delle regole, Maisie, per i momenti in cui sei fuori da
questa casa, e poi dobbiamo rispet...»
All’improvviso qualcuno bussò alla porta di quercia massiccia.
I colpi risuonarono dall’ampio ingresso fino alla cucina. «Chi è,
adesso?»
«E come faccio a saperlo!» brontolò Maisie, lasciandosi cadere
di nuovo sulla sedia e sgranocchiando un biscotto.
Kate sentì l’aspirapolvere spegnersi al piano di sopra e poi il
rumore di passi pesanti che scendevano le scale. Ancora scocciata
con Maisie, abbandonò l’atmosfera ostile della cucina e si spostò
nell’ingresso. Vide che Phyllis, la domestica, stava già raggiungendo
la porta a grandi passi. Kate rallentò e rimase a guardare i movimenti della donna. Sembrava un galeone col vento in poppa: i seni
prosperosi, i capelli in cui il grigio si mescolava al biondo delle
mèches. Phyllis aveva cominciato a lavorare per Kate molto tempo
prima, quando Kate aveva ancora un marito assente e una Maisie
paffutella tra le braccia. Le due donne erano andate subito d’accordo. Ora Phyllis aveva raggiunto la porta massiccia e la stava aprendo.
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In piedi sotto l’ampio portico, in maniche di camicia bianche,
le braccia incrociate sul torace largo e imponente, c’era un uomo
che andava per i sessanta. I capelli ormai grigi erano incollati al
cranio per il caldo, il viso congestionato, gli occhi acuti sotto le
sopracciglia folte. Stava sorridendo, mettendo in mostra la piccola
fessura tra i due incisivi anteriori che accresceva l’impressione che
fosse un tipo un po’ losco.
«Buon pomeriggio, cara. Tua mamma è in casa?»
Mentre Phyllis storceva la bocca, schifata, si sentì un risolino
malizioso dalla cucina.
Kate riconobbe il visitatore. «Oh, sei tu. Entra.» Si voltò e si
diresse di nuovo in cucina. «Tutto a posto, Phyllis.»
«Buon pomeriggio anche a te» rispose il sergente Bernard
Watts, della centrale di polizia delle West Midlands, mentre seguiva Kate in casa.
Kate e Bernie Watts si erano incontrati circa diciotto mesi prima, quando era stata avanzata la proposta di fondare l’Unità delitti
insoluti, con lo scopo di riaprire e reinvestigare i casi di omicidio
a sfondo sessuale rimasti irrisolti. Nonostante Kate, inizialmente,
fosse molto circospetta nei confronti della franchezza e del sarcasmo di Watts, del suo pesante accento di Birmingham e delle
sue continue allusioni storiche e geografiche che a volte faticava a
seguire, la collaborazione con lui e con gli altri colleghi dell’Unità
si era presto trasformata in un rapporto di piacevole cameratismo.
L’ umorismo macabro e le prese in giro li ricordava fin dai primissimi tempi nelle forze dell’ordine. Ormai aveva capito che entrambi
erano meccanismi psicologici necessari a quel tipo di lavoro.
Kate entrò in cucina e trovò Maisie appollaiata sul tavolo, con
un’espressione calcolatrice dipinta in viso. Lanciandole un’occhiata
di avvertimento, Kate la oltrepassò e si avvicinò al piano di lavoro
per preparare un panino, parlandole da sopra la spalla.
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«La nostra discussione non finisce qui, Maisie, ma adesso ci prendiamo una pausa.» La figlia rispose con un sospiro
melodrammatico.
Watts si sedette al tavolo, sorridendo alla ragazzina. «Che hai
combinato, piccina?»
La ragazzina si imbronciò. «Niente! È questo il problema! Non
ho il permesso di fare nulla e ogni azione che faccio viene messa
in discussione. Chi? Quando? Cosa? Perché? Dove?» Sospirò di
nuovo. «Non ho una vita privata» concluse, guardando la madre
da sotto le lunghe ciglia.
Kate si voltò con fare stanco, il coltello ancora imburrato in mano, sapendo che avrebbe dovuto lasciar perdere quel tira e molla.
«Maisie, sei troppo piccola per avere una “vita privata”. Hai dodici
anni, e finché...»
«A dire il vero tredici, tra diciotto settimane e mezzo, mamma.»
«... sei giovane e di te mi occupo io, dobbiamo concordare alcune regole. Devo sapere dove sei quando non ti trovi in questa casa.»
Imbronciata, Maisie saltò giù dal tavolo della cucina e si diresse
borbottando verso la porta.
«Che cosa ha detto?» chiese Kate, osservando la schiena della
figlia che scompariva su per le scale. «E quei pantaloncini sono
troppo... corti!»
Dopo qualche secondo di silenzio, si sentì sbattere una porta
al piano superiore. Kate sospirò, posando sul tavolo il piatto che
aveva in mano.
«Ha detto qualcosa tipo “Non c’è da stupirsi se papà se n’è
andato”» rispose Bernie, servizievole. Allungò la mano verso il
panino che Maisie non aveva mangiato, mentre Kate prendeva dal
frigorifero la bottiglia di latte scremato. «Ti do un consiglio, Doc.
Lascia stare. La vita è già abbastanza incasinata.»
«Ti va un caffè insieme a quello?» domandò Kate. «Il guaio è che
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ha capito come farmi uscire dai gangheri. So che ha un’età in cui
pensa di poter prendere decisioni da sola. Ma è ovvio che non può.
Quindi per adesso facciamo così: io stabilisco regole e linee guida,
lei le ignora o si ribella, io mi arrabbio per le sue provocazioni... È
una giostra infinita. In confronto a questa esasperazione domestica,
la mia vita lavorativa è... sì, lo so. Me ne sono scordata. Vedi?» Mise
in mostra i denti bianchi e regolari in un sorriso forzato e appoggiò
la bottiglia sul tavolo.
«Non ce n’è, di latte decente, in questa casa?»
Kate si massaggiò le tempie. «Non cominciare anche tu. E comunque come mai sei qui? Ho ricevuto il tuo messaggio. Ti ho
chiamato. Due volte. Nessuna risposta.»
Bernie si asciugò le grosse dita sullo scottex e infilò una mano
in tasca, mentre Kate si affaccendava con la caffettiera.
«È probabile che la Udi abbia una nuova pista fredda da seguire.
I resti sono stati trovati vicino allo svincolo di Halesowen, sulla tangenziale. Abbiamo già un possibile nome, pensa. Da’ un’occhiata.»
Tirò fuori dalla tasca una busta piatta di cartoncino e la buttò
sul tavolo. Kate venne a prenderla, guardò all’interno e ne estrasse
una fotografia venticinque per venti. «Chi è?»
Bernie si chinò in avanti e tamburellò sull’immagine con un
dito. Kate lesse il nome sulla catenina d’oro intorno al collo della
ragazza. «Molly.»
«Se è lei, il nome completo è Molly Elizabeth James. Diciotto
anni. Scomparsa dal centro commerciale di Touchwood, a Solihull,
nel 2002.» Tacque brevemente mentre masticava. «Sai che Joe è
tornato?»
Kate prese il mezzo panino avanzato e vi dedicò tutta la sua
attenzione. «L’ ho sentito dire» rispose piano.
«Viene qui tra una decina di minuti» continuò Watts.
Il cuore di Kate fece un piccolo salto mortale all’indietro.
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Bernie proseguì: «Andiamo a dare un’occhiata alla scena del
crimine. Connie è lì da stamattina presto».
Kate si accorse del gesto involontario con cui Bernie, nel nominare l’affascinante patologa di Rose Road, si era passato una mano
fra i capelli. Gli appoggiò davanti una tazza di caffè, ne versò una
per sé e si mise a sedere di fronte a lui.
«Che ne dici, Doc? Ci farebbe comodo se venissi anche tu. Ti
do un passaggio io?» Le sopracciglia di Bernie si sollevarono e si
riabbassarono in fretta.
Kate guardò l’orologio, poi annuì. «Sicuro. Anche se la mamma
mi ha detto di diffidare di questo genere di inviti.»
Bernie finì il panino ed esaminò il tavolo. Mentre Kate si alzava,
sentirono un gran baccano fuori dalla porta della cucina. Apparve
Phyllis, tirandosi dietro l’aspirapolvere. Lei e Bernie si scambiarono
un’occhiata sospettosa. Avevano una specie di passato comune: erano cresciuti nello stesso quartiere operaio di Birmingham, che doveva essere una comunità molto unita e a cui Bernie faceva sempre
riferimento chiamandolo «Old End». Kate non era del tutto sicura
di dove si trovasse e nemmeno se esistesse ancora, considerando
lo sviluppo della città negli ultimi quarant’anni.
Molti mesi prima, quando Phyllis aveva saputo della collaborazione di Kate con la polizia di Rose Road e, nello specifico, con il
sergente Bernard Watts, la domestica le aveva impartito un corso
accelerato sulla vita della Birmingham operaia degli anni cinquanta
e sul ruolo di Bernie in quell’ambiente.
«Sergente? Ah! Sua madre aveva sette figli, sai. Uno dietro
l’altro.» Per illustrare meglio la serrata produzione di figli nella
famiglia Watts, Phyllis aveva sollevato una mano, mimando una
specie di scala. «Era una donna irascibile e a dirla tutta anche un
po’ violenta. Se ne stava sempre all’angolo della via a sbraitare i
nomi dei ragazzi – “Chrissie! Josie! Malky!” – e quelli arrivavano
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di corsa, tutti da direzioni diverse. Lui era il più piccolo. Nel quartiere li conoscevamo tutti. Mia madre diceva che erano rozzi.» Con
quella dichiarazione, Phyllis aveva chiuso la bocca, riaprendola solo
per aggiungere: «Noi avevamo il televisore. E pure la macchina».
Kate si voltò per rivolgersi alla domestica. «Phyllis, ti avevo
detto di chiamarmi. Lo avrei portato giù io, l’aspirapolvere. Prendi
un caffè?»
La donna continuò ad affaccendarsi. «Sì, grazie. Che cosa vuole
lui?» borbottò.
Bernie si stampò in faccia un’espressione neutra. «La nostra
Doc sta aiutando la polizia nelle indagini.» Guardò Kate. «Culinfaccia tirerà fuori il caso alla riunione di domani mattina, alla
centrale.»
Kate annuì, per indicare che aveva capito il riferimento all’ispettore Roger Furman e anche che sarebbe stata presente alla riunione
del giorno successivo. Le attività di quel trimestre, all’università,
non si stavano ancora svolgendo a pieno regime. Sentì Phyllis esprimere sdegno, probabilmente per via della parola «culo», mentre
ficcava l’aspirapolvere nell’armadio.
«Lei ne ha già abbastanza per sé, non serve che le diate altro
da fare. Ha quella ragazzina da tirare su da sola, se ne sta tutto il
tempo a lavorare all’università e poi deve andare in tribunale...»
Bernie abbassò le sopracciglia, rivolto a Kate. «Ti hanno beccata
di nuovo a rubacchiare nei negozi?»
«Phyllis, lascia stare. È tutto a posto.»
Ma lei si era avvicinata al tavolo: ormai aveva deciso di darci
dentro.
«Quel che non le serve affatto è che tu o quell’altro veniate qui
con i vostri omicidi e con tutte quelle storie di...» A quel punto
ammutolì e si limitò a muovere le labbra per dire «sesso». «E non
so che altro, poi. Lei avrebbe bisogno di una vacanza.»
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Phyllis tornò a focalizzare l’attenzione su Kate. «Te l’ho detto?
Avis è appena tornata da Santo Domingo. Ha detto che è stato
fantastico!»
Kate offrì a Bernie un altro panino e uno sguardo che gli consigliava vivamente di tacere, mentre Phyllis usciva dalla cucina.
Lui scosse la testa, sogghignando. «Quella vale ogni sterlina che
le dai, anche solo per la comicità.»
«Sssh» sibilò Kate. «Se Phyllis decidesse mai di licenziarsi, per
me sarebbe un vero casino.»
Qualcuno bussò all’improvviso. Si sentirono i passi pesanti
della domestica, un altro borbottio e il rumore della porta che si
apriva. Kate udì una voce profonda e sonora. Il cuore prese a battere
più forte nel suo petto. Dopo pochi secondi, Phyllis ricomparve
in cucina.
«È quell’altro. Lo yankee. Gli ho detto di aspettare. Che faccio,
lo lascio entrare?»
«Certo, Phyllis!»
Kate si piegò su un lato per vedere meglio l’uomo alto, dalle
spalle larghe, che stava attraversando l’ingresso per entrare in cucina. Indossava una camicia azzurra – lo stesso colore dei suoi occhi
–, un paio di jeans e stivali da cowboy marroni. I capelli erano più
lunghi dall’ultima volta in cui Kate lo aveva visto. Erano tirati indietro dal viso abbronzato e avevano striature più chiare per via del
sole. Arrivavano fino al colletto della camicia. L’ uomo aveva anche
un filo di barba castana spruzzata di grigio. Osservandolo, Kate si
sentì turbata dai cambiamenti avvenuti in circa otto settimane. Gli
lanciò un’altra occhiata, intuendo che fosse ignaro dell’effetto suscitato dalla sua prestanza fisica, proprio come lo era stato quando
era entrato a Rose Road, più di un anno prima, causando una certa
agitazione tra le impiegate della polizia, sia quelle in uniforme che
quelle in abiti civili.
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Kate si allontanò dal tavolo con la caffettiera, in cerca di un’altra
tazza.
Sapeva che la polizia di Birmingham aveva colto al volo l’occasione di offrire un posto a Joe Corrigan – in trasferta da Boston –,
un agente perfettamente addestrato nell’uso delle armi. In quel
momento tutte le forze dell’ordine del Regno Unito dovevano affrontare la minaccia del terrorismo interno e dunque c’era bisogno
di preparare al meglio le squadre destinate alla reazione armata.
Quando lo sentì dire «Ciao» in tono sommesso, Kate si sentì
felice. Gli sorrise, porgendogli una tazza di caffè e lui la ringraziò
con un sorriso stanco.
Nel giro di un paio di minuti, Bernie si alzò e si diede una sistemata ai pantaloni larghi. «Va bene. È ora di andare.»
Kate seguì i due uomini nell’ingresso, gridando, rivolta verso
il piano di sopra: «Phyllis? Puoi rimanere finché non torno? Poi ti
porto a casa io. Vado con Bernie e Joe».
Dopo aver ascoltato quella che parve una risposta positiva, Kate
si girò per uscire con i colleghi. Però Maisie apparve sul pianerottolo, ciondolando contro la balaustra, con gli occhi fissi su di loro.
Bernie sollevò lo sguardo verso la ragazzina e ammiccò. «Smettila di far impazzire tua madre.»
Joe la salutò con un sorriso. «Ciao, genietto. Come va con la
matematica?» domandò, facendo riferimento al prodigioso talento
di Maisie per i numeri, una cosa riguardo a cui Kate non si sentiva
per niente tranquilla: le faceva piacere per Maisie, ma era preoccupata che potesse finire per isolarsi dai suoi compagni. Tuttavia,
fino a quel momento non era accaduto. La ragazzina non lasciava
che il suo dono diventasse un peso.
Maisie sorrise a sua volta. «Tutto tranquillo» rispose. Poi, ricordandosi che stava facendo la parte di quella che creava fastidi, fece
una smorfia e agitò i riccioli, lanciando una rapida occhiata alla
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madre. «Vado a casa di Chelsey. Bernie, mi daresti un passaggio
fino a Hamilton Avenue?»
Bernie sbirciò in direzione di Kate, che fece un impercettibile
cenno di assenso.
«Va bene. Sei pronta?» domandò lui.
Maisie risalì le scale saltellando e ricomparve dopo pochi secondi con uno zainetto. Kate la seguì e uscirono di casa insieme.
«Sette e mezza, Maisie. Vedi di non dimenticarlo. Inoltre, ti ho
già detto che non dovevi farti ricamare il nome su quello» disse,
indicando lo zainetto rosa. «Diffondere i tuoi dati personali in questo modo ti fa correre rischi inutili.»
«Smettila di fare la bisbetica su tutto. È solo un nome» brontolò
Maisie, mentre un gattino bianco e nero sgusciava in mezzo alle
loro caviglie per entrare in casa dalla porta aperta.
«Phyllis?» chiamò Kate, rivolgendosi verso l’ingresso. «Mugger
è tornato!»
Attraversarono il vialetto nell’afa opprimente del pomeriggio
e salirono nella quattro per quattro di Bernie. Una volta in strada,
Kate, seduta sul sedile posteriore accanto a Maisie, chiese a Joe del
suo rientro in Inghilterra.
«È andato bene il volo?»
Lui annuì. «Bene. Ma ho un jet lag da paura. Hai presente?»
Maisie ridacchiò e, lanciando un’occhiata a sua madre, si sporse
in avanti e si rivolse direttamente a Joe.
«Ti va di tornare a cena da noi, Joe? Mamma potrebbe fare il
riso al curry.» Assunse un tono rassicurante. «Non preoccuparti,
andrà tutto bene. Di solito lo compra già pronto...»
«Maisie!»
Dopo neanche cinque minuti, Bernie rallentò. L’ auto si avvicinò
a una grande villa in stile Tudor, con una cancellata in ferro battuto
nero. Maisie aprì svelta la portiera e saltò giù.
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«Sette e mezza precise, Maisie. Non ammetto ritardi.»
Scuotendo la testa a bocca spalancata e borbottando «Sì, sì»,
la ragazzina corse verso la cancellata e suonò al citofono. Quando
parlò, uno dei due grandi battenti si aprì silenziosamente. Bernie
tolse il freno a mano e fece per proseguire.
«Aspetta» ordinò Kate.
Lui frenò di colpo. «Ci sei nata, così prepotente, o hai dovuto
imparare?»
Kate rimase a osservare Maisie che percorreva l’intero vialetto
e raggiungeva la porta d’ingresso, che si aprì a rivelare la sagoma
alta e aggraziata di una donna bionda. La madre di Chelsey agitò
una mano per salutarli.
Una volta ottenuto un cenno di assenso da parte di Kate, Bernie
fece manovra e si allontanò dalla casa. Nel giro di pochi minuti si
trovarono in viaggio sull’affollatissima carreggiata a due corsie di
Hagley Road, una delle maggiori arterie che conducevano fuori
città.
30
4
Ora che stavano per raggiungere la scena del crimine, la crescente
impazienza di Kate si tinse all’improvviso di ansia. Da quando
lavorava alla Udi non le era mai capitato di dover esaminare resti
umani. Chissà se la ragazza era quella della foto che le aveva portato
Bernie. Come se le avesse letto nel pensiero, lui la guardò dallo
specchietto retrovisore.
«Abbiamo la collana, ma magari non è lei, Doc. I dettagli che
la riguardano sono nel database delle persone scomparse, ma sai
quanta gente scompare in dieci anni, no?»
Kate annuì e guardò l’aperta campagna sfrecciare davanti ai loro
occhi, fuori dal finestrino. Kate era nata nel Sud-Est dell’Inghilterra e, anche se viveva ormai da parecchi anni nella seconda città
britannica per densità di abitanti, si sorprendeva ancora di quanto
fosse rapido il passaggio dal tessuto urbano alle campagne che lo
circondavano. Anche partendo dal centro, bastavano solo pochi
minuti. In teoria. Il traffico ci aggiungeva una buona mezz’ora.
Dopo molti altri minuti passati a seguire il flusso delle auto,
i pensieri di Kate furono interrotti dalla voce di Joe. «Ci siamo
quasi.»
Lei sollevò lo sguardo e si accorse che gli occhi azzurri dell’uomo la stavano fissando, ma poi tornarono a seguire la strada. Con
il cuore che iniziava a battere più velocemente, Kate si chinò in
avanti, tra i due colleghi, guardando nella direzione indicata da
31
Joe. Un po’ più avanti era parcheggiato un gruppo di veicoli della
polizia che faceva rallentare gli automobilisti di passaggio.
Decelerando, Bernie mise la freccia a sinistra e svoltò passando
accanto a un giovane agente dal viso paonazzo. Aveva addosso
la camicia bianca a maniche corte dell’uniforme ed era intento a
gesticolare verso i guidatori che fissavano il blocco di polizia con
aria allibita. Kate riconobbe l’agente. Era Whittaker, che di solito
presidiava il banco della reception di Rose Road. Il ragazzo fece
cenno a Bernie di parcheggiare in una radura accanto alla fitta
macchia di alberi oltre la strada. Si fermarono di fianco a una station wagon nera dai finestrini oscurati, sei volanti a quadrati gialli
e azzurri, oltre a due furgoni con gli stessi colori.
Nonostante l’ora, quando uscirono dall’auto di Bernie passarono dall’aria condizionata al caldo improvviso. Kate scorse qualcosa
di bianco nel folto degli alberi che la circondavano e sentì il polso
accelerare nuovamente.
Bernie mostrò il tesserino a un altro agente, che segnò i loro
nomi su un foglio fissato a un portablocco a molla, scrivendo quello
di Kate sotto la colonna «Civili». Consegnò a ciascuno un’ampia
tuta bianca simile a quelle da paracadutista, che indossarono con
qualche difficoltà, poi li indirizzò verso un sentiero stretto che si
insinuava nel sottobosco.
Camminarono in fila indiana: Joe in testa e dietro di lui Bernie, che agitava le mani per scacciare gli insetti e si era messo un
berretto rosso con la visiera.
«Non prendertela, Bernie, ma non ti sta tanto bene.»
«Me l’ha dato Julian. È una questione di salute. Ho il cuoio
capelluto delicato.»
Mentre seguivano il sentiero sul terreno inaridito, Kate osservò la mescolanza di vari tipi di erba e piccoli fiori blu di cui non
conosceva i nomi. Vide che da un lato c’erano tracce di un falò e
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alcune lattine abbandonate. Camminarono in silenzio, accanto ad
arbusti grigio argento e sotto a vecchi alberi curvi, con i rami più
bassi che si allargavano come le dita di una mano, le foglie illuminate dal sole. Kate pensò che in altre circostanze sarebbe stato un
bel posto per una passeggiata.
Come era stato possibile che qualcuno arrivasse fin lì dalla strada, con un peso morto addosso?
Oppure lei era stata costretta a camminare?
Lei.
Molly Elizabeth James.
Forse, tanti anni prima, quella zona non era così ricca di
vegetazione.
Il calore diretto del sole fu momentaneamente attenuato dal
fogliame spesso e Kate rabbrividì. Oltre al canto degli uccelli e al
brusio lontano del traffico, si sentivano le voci gracchianti e disincarnate della radio della polizia, emesse dalle ricetrasmittenti degli
agenti lì intorno. Da una parte, gli specialisti della Scientifica, in
tuta azzurra, stavano costruendo un reticolato usando pioli e un
sottile nastro giallo. Altri invece stavano conficcando le mani guantate nelle impronte lasciate dagli animali sul suolo, oppure lavoravano a coppie setacciando il terreno, il cui strato più superficiale,
aridissimo, si frantumava al contatto coi piedi coperti dalle tute.
Kate vide di striscio Harry Creed, che dava ordini e indicazioni
spostandosi su tutta la scena del crimine. Insieme a lui c’era Matt
Prentiss, un membro della sua squadra, che lo seguiva ubbidiente
con un’espressione arcigna stampata sul viso allungato.
Un tecnico era intento a fotografare ogni dettaglio. Nonostante
la maschera e la tuta, Kate riconobbe i capelli scuri e la montatura
di metallo degli occhiali di Jake Brown, fotografo specializzato in
scene del crimine. Lo salutò. Nessuna reazione. Quando Kate era
entrata nella Udi, Jake l’aveva invitata a cena fuori. Lei aveva gen33
tilmente declinato. Da allora, a sua memoria, lui non l’aveva più invitata né salutata. Un uomo cosiddetto maturo che non riusciva ad
accettare un banale rifiuto? Meno male che l’aveva scaricato subito.
All’improvviso, Kate si accorse di una snella sagoma in tuta
bianca, oltre il nastro tremolante con su scritto accesso vietato.
Fece un cenno, che fu subito ricambiato. Quando raggiunsero il
nastro si fermarono. Bernie, che aveva tolto il berretto, si lisciò i
capelli.
Connie Chong, medico legale del ministero dell’Interno, si avvicinò tenendo in mano la maschera protettiva di plastica. Era rossa
in viso. «Stavo proprio aspettando voi della Udi! Passate sotto al
nastro e seguitemi.»
Kate e i colleghi ubbidirono e la seguirono mentre si incamminava verso una tenda bianca. Kate si sentiva addosso gli occhi di
Matt Prentiss. Nessuno gli disse nulla, visto che tutti sapevano per
esperienza che Prentiss non rispondeva quasi mai quando veniva
interpellato.
Mentre oltrepassava l’ingresso della tenda, Connie tirò su il
cappuccio della tuta e si rimise la maschera protettiva sul viso.
«Bene, Udi. Su i cappucci, fate pure un passo avanti... avanti
ancora... ecco, fermi.» Sollevò una mano. I tre colleghi rimasero
fianco a fianco all’entrata della tenda, mentre lei avanzò un po’.
Furono accolti da un’ondata di calore e odore di terra. Kate, a
disagio, guardò lo spoglio rettangolo di terra smossa, circondato
da un’erba verde-giallognola. Ai bordi del rettangolo fremevano
dei fiorellini blu.
Ora Connie aveva raggiunto il lato opposto. Si accovacciò e con
la piccola mano guantata mostrò quelle che a Kate parvero poco
più che leggere ondulazioni sul terriccio. Poi sollevò lo sguardo
verso i colleghi.
«Due uomini della Forestale sono passati di qui, ieri mattina
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presto. Si sono accorti che in questo punto particolare la vegetazione era più rigogliosa.» Indicò l’area immediatamente di fronte
a sé. «Hanno rimosso un po’ di terreno con una paletta e hanno
trovato un pezzo della catenina d’oro che avete visto. Hanno fatto
due più due e hanno chiamato Rose Road.» Connie si alzò e si
sgranchì le gambe.
«Durante il corso di studi di Patologia nessuno ti avverte che
ti rovinerai le ginocchia. In ogni caso, gli scavi hanno evidenziato
che si tratta di resti umani. Quasi sicuramente di una donna.» Si
accovacciò di nuovo, indicando qualcosa. «Vedete? Testa da questa parte, piedi lì. Non posso essere categorica riguardo all’età o a
quanto tempo sia rimasta qui, ma appena riesco a mettere le ossa
sotto una lampada uv e a misurare il contenuto di nitrogeno vi
faccio sapere.» Osservò i resti appena visibili, poi sollevò gli occhi
e guardò gli altri, uno alla volta. «Tirando a indovinare, direi che
sono passati almeno cinque anni.»
Interessata, Kate fissò la terra smossa da poco. Ora riconosceva
le ondulazioni del terriccio come resti umani. Riusciva a distinguere le ossa lunghe, la cupola del teschio, le linee zigrinate di una
mano. Rifletté sulla tempistica appena indicata da Connie.
Poteva corrispondere al caso di Molly James, scomparsa nel
2002.
Poteva corrispondere a un gran numero di altri casi...
Connie fece un gesto verso l’area esterna alla tenda. «I tecnici stanno cercando di capire se ci sono in giro altri resti che potrebbero essere stati dissotterrati e portati via da qualche piccolo
animale.»
Kate e i colleghi si accovacciarono, esaminando lo scavo e lo
scheletro dai contorni indistinti.
Joe lanciò un’occhiata a Connie.
«Hai già un’idea sull’età?»
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Connie sorrise. «Calma, calma! Okay, direi giovane. Probabilmente tarda adolescenza.»
Un’altra corrispondenza con il caso James.
«Vi potrò dare un’opinione più attendibile da Rose Road, una
volta esaminate le ossa e la bocca. In questo momento non posso
neanche confermare che le mascelle siano del tutto integre. E se lo
sono, comunque potrò fare solo una stima. I campioni di Dna che
ho prelevato finora potrebbero essere compromessi, ma spero di
riuscire a identificarla facendo affidamento sul Dna dei famigliari.»
Attesero, mentre Connie rimuoveva con delicatezza il terriccio
bruno rossastro dall’area intorno al teschio usando uno strumento
che sembrava una piccolissima paletta da giardiniere. «Prima di
venire qui, stamattina, ho controllato i dati su Molly James presenti
nel nostro database.» Si abbassò sui talloni. «Nella squadra della
Scientifica di Bradford Street, che si era occupata delle prime indagini, c’era qualcuno di molto lungimirante che aveva chiesto di
prelevare dei campioni di Dna dalla madre poco dopo la denuncia
di scomparsa della figlia. Stamattina presto abbiamo inviato al laboratorio i campioni della nostra ragazza. Li stanno esaminando
proprio adesso, mentre parliamo.»
Kate agitò le dita in direzione di Connie. «E poi cosa succederà?»
«Continueremo a ripulire i resti dal terriccio, quanto basta per
spostarli senza danneggiarli.» Connie si alzò e si avvicinò a Kate,
togliendosi la mascherina e rivelando un viso umido di sudore. Si
scompigliò i capelli con l’altra mano. «Secondo i miei calcoli, potremmo metterci fino alle prime ore della sera. Abbiamo delle luci
apposite, ma se tardiamo troppo il mio compito diventa difficile.
Preferisco lavorare alla luce del giorno. Una volta liberi dalla terra,
i reperti verranno con me a Rose Road per un’indagine approfondita. Il resto della squadra rimarrà qui, ad accertarsi che abbiamo
raccolto tutto il materiale necessario.»
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Kate e i colleghi si tirarono in piedi. Bernie lo fece con un
grugnito.
«E i detriti qui intorno?» chiese Kate, indicando con un dito.
«Laggiù ci sono i resti di un falò e alcune lattine.»
Connie la guardò, piegando la testa da un lato. «A cosa stai
pensando, Kate? La ragazza è qui da almeno cinque anni. La spazzatura di cui parli tu, di sicuro, è stata lasciata lì in tempo recenti.»
Kate fece spallucce. «Ho pensato che valesse la pena di recuperarla. Dipende da chi è stato a uccidere questa ragazza, ma può
essere che sia tornato qui. Per scopi... ricreativi.» Si stava riferendo
al fatto che alcuni assassini amavano masturbarsi nei pressi delle
loro vittime.
Bernie emise uno sbuffo schifato. Nel breve periodo trascorso
dall’inizio della sua collaborazione con Kate aveva imparato molto
da lei. Ma la maggior parte delle cose avrebbe preferito non saperle.
Connie fissò la psicologa per alcuni secondi, poi fece una smorfia e scosse la testa. «È un mestiere sinistro, il tuo, Kate. Va bene. Darò ordine affinché i tecnici raccolgano e insacchettino quella roba.»
Kate fece un cenno di assenso, in segno di ringraziamento.
Bernie non aveva ancora aperto bocca. Aveva distolto lo sguardo e stava osservando fuori, socchiudendo le palpebre. «Schifoso
del cazzo. Chiunque sia stato, se volete la mia opinione, dovrebbe
essere impiccato...»
«Una volta incarcerati, questi delinquenti possono risultare utili
alla ricerca» intervenne Kate, fin troppo consapevole che secondo
Bernie gente simile meritasse solo la frusta o il patibolo.
«Sì, sì. L’ hai già detto. A sentire te, dovremmo dargli un bel
televisore al plasma, qualche farmaco e dopo saremmo tutti felici
e contenti.»
Kate lasciò perdere. «Hai delle idee sulla causa della morte?»
domandò a Connie.
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Lei scosse la testa. «Nessuna. Ed esiste la possibilità che non
sia in grado di stabilirla nemmeno a Rose Road, considerando le
condizioni del corpo e il tempo che è trascorso.»
Joe ringraziò Connie a bassa voce e si voltò per ripercorrere con
cautela il sentiero che portava alla strada, calpestando gli arbusti
secchi con gli stivali.
Bernie salutò e si incamminò nella stessa direzione. La patologa gli piaceva. Gli piacevano la sua eleganza e le sue proporzioni
minute. Era come Kate, ma senza il piglio aggressivo e la battuta
sempre pronta. Se Connie gli rispondeva a monosillabi, non lo
trovava fastidioso.
Il suo telefono squillò. Era Furman che voleva sapere come
stava andando.
Kate si fermò ancora un momento a guardare Connie che ripuliva abile i resti con il piccolo strumento simile a una paletta,
il viso lucido di sudore. All’interno della tuta della Scientifica, la
sottile peluria sugli avambracci di Kate si drizzò all’improvviso.
Si strinse nelle braccia, chiedendosi come e perché la persona che
aveva distrutto la vita di questa ragazza – chiunque lei fosse – le
avesse fatto una cosa simile.
Forse erano fidanzati e avevano litigato?
L’ aveva uccisa in un impeto di... gelosia?
O forse era un estraneo?
In quel caso, come era riuscito a raggiungere il suo scopo?
Un’aggressione improvvisa o qualcosa di più subdolo?
Aveva escogitato un espediente per attaccare discorso?
Ciao! Mi sapresti dire la strada per...
I pensieri di Kate si fecero più cupi.
Ciao, cara. Ti interessa un lavoro?
Guardò di nuovo i resti, che potevano essere tutto ciò che rimaneva di una giovane di nome Molly James. Rifletté su quanto si
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poteva ragionevolmente dedurre a proposito dell’autore del crimine – l’assassino –, che fosse noto alla vittima o meno.
Doveva essere uno che sapeva muoversi bene.
Che conosceva quella zona.
... Per il momento era tutto.
Se il caso fosse stato riaperto, nelle settimane seguenti la Udi
avrebbe avuto parecchio da fare.
Nonostante il caldo, Kate rabbrividì, pensando ai rischi costanti
che ogni donna correva nella vita quotidiana, mentre ai margini dei
suoi pensieri sentiva bisbigliare le sue preoccupazioni per Maisie.
All’improvviso si sorprese a sperare che la vittima non fosse la
ragazza che aveva visto in fotografia.
Evitando di guardare Kate, Connie disse piano: «Se vuoi sapere
quando potremo parlare di questa faccenda, dando per scontato
che io riesca a rientrare a Rose Road verso sera, direi che il momento migliore sarebbe venerdì mattina, molto presto. Saremo
tranquilli. Troverai solo me e Igor».
Dopo un’ultima occhiata ai resti, Kate lasciò la tenda, con la
mente ancora assediata dalle domande. Si tolse la tuta bianca e la
lasciò cadere nel grande sacco di carta sorretto da un agente con i
guanti all’ingresso della scena del crimine, poi raggiunse i colleghi
nell’auto di Bernie e iniziò a mettere ordine tra i suoi pensieri.
Le date corrispondevano.
Il sesso corrispondeva.
E soprattutto, corrispondeva la collanina con scritto «Molly»
trovata fra i reperti.
Scosse la testa. Avrebbero dovuto aspettare Connie. Eppure...
Adesso la domanda era: perché qualcuno aveva messo fine alla
vita di quella ragazza?
E scoprirlo li avrebbe portati ad affrontare una domanda ancora
più importante: Chi?
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Kate aveva finalmente terminato il lavoro arretrato ed era pronta
per il nuovo trimestre. Riordinò la scrivania nello studio al pianterreno, pensando – e non per la prima volta – che la sua attività
di docente universitaria era già di per sé abbastanza gravosa, senza
considerare gli impegni extra legati ai casi che accettava di seguire.
Scuotendo la testa, si ricordò della telefonata che aveva ricevuto da uno studio legale all’inizio delle vacanze estive. Le avevano
chiesto di incontrare un loro cliente detenuto nella prigione di Birmingham in attesa di rinvio a giudizio. Doveva valutarlo e scrivere
un rapporto, esprimendo la sua opinione in merito alla possibilità
che l’uomo, in futuro, tornasse a compiere atti violenti. Lei aveva
accettato, sentendosi lusingata sul piano professionale e attratta dal
passato criminale del detenuto.
Lanciò un’occhiata alla spessa busta posata su un angolo della
scrivania, già chiusa e indirizzata. Aveva terminato la stesura del
rapporto e all’avvocato non sarebbe piaciuto. E nemmeno al suo
cliente che, secondo Kate, era un connubio di impulsività e rabbia pronte a scattare alla minima provocazione. A un certo punto,
probabilmente, avrebbero convocato Kate in tribunale perché confermasse e spiegasse ciò che aveva scritto.
Aveva deciso di non accettare più incarichi simili. Il lavoro all’università e le ore trascorse con la Udi erano più che sufficienti. Uscì
dallo studio e chiuse la porta con decisione.
Ora che la sua vita professionale era sotto controllo, e Maisie era
invitata da Chelsey per cena, Kate poté godersi la tranquillità della vecchia casa guardandosi una replica dell’Ispettore Morse. Con
passo felpato e accompagnato da un lieve scampanellio, Mugger
attraversò il soggiorno, balzò sul divano e girò in cerchio per diverse volte prima di lasciarsi cadere sulle gambe di Kate. Il caso pareva
impossibile da risolvere per l’ispettore Morse, che stava assumendo
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un’aria sempre più scocciata nonostante avesse posato un occhio
su una birra e un altro sulle forme della protagonista femminile.
Kate aggiustò il cuscino del divano, gli occhi semichiusi fissi
sullo schermo. Non aveva idea di chi fosse il colpevole e non gliene importava nulla. I suoi pensieri andarono a Maisie e al litigio
avvenuto nel pomeriggio. Sopra al naso di Kate si formò una piccola ruga. Maisie sapeva di dover tornare da casa di Chelsey alle
sette e mezzo. Ma lo avrebbe fatto? Mentre la tv trasmetteva la
scena di una sbronza tra universitari, Kate si sentì combattuta fra
la riluttanza a concedere alla figlia di uscire da sola e la necessità
che Maisie diventasse indipendente. Kate sapeva che la natura del
suo lavoro e la sua innata indole sospettosa, la rendevano quasi
ossessionata dalla sicurezza personale. Voleva davvero lo stesso
per Maisie?
Relegò con decisione le sue preoccupazioni di madre single in
un angolo della mente e lasciò che i pensieri si soffermassero su
Joe. Il loro rapporto lavorativo era caratterizzato per lo più da frecciatine scherzose, e c’erano moltissime cose che non sapeva di lui.
Quanti anni aveva, per esempio? Tirando a indovinare, forse
poco più di quaranta...
Abbastanza perché avesse una relazione significativa a Boston?
I pensieri poi si spostarono sul nuovo caso della Udi. Che cosa
le aveva detto l’anziano, adorato professore che aveva seguito il suo
dottorato, parecchi anni prima?
Collabora con la polizia se ti senti in dovere di farlo, Kate. Ma
sei avvisata: se lavorerai bene, loro si prenderanno tutto il merito.
Se farai un disastro, sarà solo colpa tua.
L’ a lto volume di uno spot di una compagnia di assicurazioni
la fece tornare in sé. Fece scendere il gatto dalle gambe e passò
dal salotto all’ampio ingresso e poi in cucina, in cerca della busta lasciata da Bernie nel pomeriggio. Tornò sul divano, la aprì e,
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scuotendola, lasciò cadere la foto a colori sul tavolino davanti a lei.
Cadde a faccia in su.
Kate esaminò il soggetto ritratto.
Giovane donna, sorriso dolce, lunghi capelli biondi, sguardo
vivace. Sfiorò la fotografia. Era leggermente calda, come l’aria della
cucina. Sbirciò di nuovo all’interno della busta e si accorse che
c’era anche un foglio. Lo estrasse e lesse il nome «Molly Elizabeth
James», oltre a un appunto che indicava un ex fidanzato di Molly,
il quale al tempo della scomparsa aveva ventotto anni.
Mmm... Scommetto che questa faccenda non era piaciuta alla
madre di Molly.
Rimise il foglio e la fotografia nella busta. Intanto l’ispettore
Morse era ricomparso dentro un pub. Il gatto smise di stiracchiarsi
e girare in cerchio e si accomodò di nuovo sulle gambe di Kate.
Lei riprese a fissare lo schermo, ma vedere quella foto una seconda volta l’aveva ormai turbata. Pensò alla riunione a Rose Road,
il giorno seguente. Quel genere di formalità non le piaceva. Proprio
quando le parve di essere riuscita a rilassarsi un po’, la porta d’ingresso si aprì e si richiuse sbattendo.
«Ciao, mamma! Sono tornata. Spaccando il minuto!»
Kate si alzò di malavoglia, lasciando sul divano Mugger col
muso imbronciato.
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