Scheda Professor FELICE

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Scheda Professor FELICE
UNA METAMORFOSI MERIDIONALE:
PECULIARITA’ DEL “MODELLO” ABRUZZESE
di Costantino Felice
1. Tra modelli e specificità
Il tipo di sviluppo avutosi in Abruzzo - nei passati decenni certamente il più accelerato e solido tra le regioni meridionali - presenta una tale varietà di specificazioni e sfaccettature da non consentire un facile incasellamento entro la consueta modellistica con cui vengono descritti i processi di modernizzazione nelle regioni
italiane. Lo studio dell’Abruzzo può anzi costituire un’insolita opportunità - una sorta di laboratorio, si potrebbe azzardare - per sottoporre a verifica schemi concettuali, categorie storiografiche, paradigmi interpretativi
che, specie in riferimento al Mezzogiorno (ma anche all’Italia nel suo insieme), sembrano darsi ormai per definitivamente acquisiti e consolidati.
Una questione si pone preliminarmente: nell’immediato dopoguerra una serie di indicatori economicosociali, non tanto per effetto delle pur ingenti distruzioni belliche quanto soprattutto per ragioni propriamente
strutturali, collocavano l’Abruzzo nel “profondo Sud”, tra le regioni maggiormente in ritardo di crescita (Calabria, Basilicata, Sadegna) (Felice, 1993, pp. 344 sgg.); da qualche tempo invece esso è considerato la regione
del Sud d’Italia meno meridionale: una regione che per diversi motivi, pur restando sempre Mezzogiorno, potrebbe essere tranquillamente inserita tra le aree maggiormente progredite e dinamiche del Centro-Nord. Da più
arretrata, dunque, a più avanzata (volendo ancora usare categorie di questo genere). Se risponde a verità - come
tutti ormai sembrano concordare (E. e G. Wolleb, 1990; Trigilia, 1994) - questo giudizio postula alcuni interrogativi di fondo: quali specificità hanno caratterizzato lo sviluppo abruzzese per conseguire un tale risultato?
Cosa ha differenziato la “modernizzazione” di questa regione rispetto alle altre? Quali ne sono state le precondizioni e le forze trainanti?
Risposte esaurienti a questi interrogativi non possono certo venire (del resto nessuno lo sostiene) dagli
schemi di lettura elaborati in riferimento ad altre zone del paese. Per l’Abruzzo non vale, ad esempio, il modello della cosiddetta “terza Italia”, né il modello “Nec” (Nord-Est-Centro) o quello della “via adriatica allo sviluppo”: parametri interpretativi, come si sa, che sono tutti di derivazione prevalentemente sociologica, ma che
poi hanno ottenuto ampio credito anche nell’indagine e nel dibattito storiografico. Del resto i sostenitori stessi
di questi impianti esplicativi, particolarmente coloro che per primi li hanno applicati a determinate aree del paese, si guardano bene dall’estendere le loro ricognizioni alla realtà abruzzese (Bagnasco, 1977); solo con riferimento al Teramano (specificamente la Val Vibrata) si è ipotizzato, ma molto timidamente (Balloni, 1979), un
prolungamento della “via adratica” da nord verso sud.
All’Abruzzo, d’altro canto, non sono del tutto applicabili neanche i modelli interpretativi adoperati per
spiegare i persistenti ritardi del Sud d’Italia: non si può parlare di economia assistita o dipendente, e neppure di
“sviluppo senza autonomia”, come invece da più parti si sostiene con riferimento alla complessiva, seppur variegata, realtà meridionale (Trigilia, 1994; Felice, 2000, pp. 445-54). E’ anche discutibile, del resto, che
l’Abruzzo, una volta conseguiti determinati risultati, non venga più considerato parte del Mezzogiorno: dietro
questo tipo di concezione si nasconde, in realtà, una sorta di pregiudizio meridionalistico, vale a dire una persistente concezione dualistica dell’Italia per cui il Sud, con le sue congenite arretratezze economiche e culturali,
sarebbe altro dal Nord, una “anomalia” rispetto ad un paese per il resto normale. Pur di non contraddire tale
“paradigma” si giunge al paradosso di espellere questa regione (e da qualche tempo anche il Molise) dal Mezzogiorno d’Italia.
1
Questi tipi di lettura si ritrovano, in forme più o meno esplicite, anche nella maggior parte degli studi specificamente dedicati all’Abruzzo. Le interpretazioni fornite sul particolare sviluppo abruzzese possono infatti
riassumersi, come emerge chiaramente anche dai contributi raccolti in questo volume, inrorno a tre filoni principali. C’è un filone, forse il più noto e diffuso, che dà il primato alla geografia, in particolare alla collocazione
geografica della regione. Categorie come quelle di “cerniera”, “ponte”, “Nord del Sud”, cui solitamente si fa
ricorso quando si parla dell’Abruzzo, sottendono visioni di questo genere: sarebbero stati, in altri termini, preminenti fattori di natura geografica - orografia e morfologia del territorio, natura e disposizione dei suoli, ma
soprattutto la collocazione al centro della penisola - a determinare l’eccezionale perfomance della regione. E’
un’interpretazione ovviamente portata avanti, con riferimento all’Abruzzo, soprattutto dai geografi medesimi
(Landini, 1982), ma può vantare, sul paino generale, autorevoli ascendenze anche in campo propriamente storico 1.
C’è un altro filone di studi che invece conferisce il primato alla politica, fatta assurgere a “variabile indipendente” nel complesso delle dinamiche che si sono attivate nello sviluppo abruzzese. Sarebbe stato cioè il ceto politico, ovviamente soprattutto quello di maggioranza governativa, grazie alla sua particolare abilità nel
muoversi tra “centro” e “periferia”, trasformando persino l’accentuato particolarismo delle popolazioni in una
risorsa per il progresso (anzi nella principale risorsa), a fare di questa regione ciò che essa può oggi vantare di
essere (Mutti, 1994).
Ed infine c’è un filone di studi - nella cui produzione si è distinto particolarmente il Cresa (Centro regionale di studi e ricerche economico-sociali, istituito negli anni ‘50 dalle Camere di commercio d’Abruzzo) - che
pone al centro dello sviluppo abruzzese l’impresa o, per meglio dire, le scelte di natura imprenditoriale che
questa è andata compiendo nel corso degli anni. E’ il primato dell’economia, per cui tutto si risolve (e si spiega)
in termini di misurazioni statistiche (con prevalenza ovviamente dei dati macroeconomici), oppure dei differenti ruoli svolti, a seconda dei casi, dalla grande, piccola o media industria. Demiurgo del divenire, neutro ed impersonale, diventa l’azienda, con le sue ferree logiche di produttività ed efficienza. A fare la fortuna
dell’Abruzzo sarebbero state, secondo questa visione, soprattutto le convenienze di localizzazione e competitività offerte dalla regione.
Non c’è dubbio che ciascuna di queste interpretazioni qualche elemento di verità lo contenga. Ponendosi
da ottiche diverse, è ovvio che esse finiscano col cogliere aspetti più o meno significativi effettivamente riscontrabili - anche se spesso in verità si resta nella mera constatazione - nei processi di crescita che vengono analizzati. Si tratta però di vedere se le preminenze di volta in volta poste in rilievo - geografia, politica o economia - possono essere fatte assurgere a peculiarità del “modello” abruzzese. Di quante altre regioni - si pensi
alle Marche o alla Puglia (per stare a quelle di confine a nord e a sud) - non si possono dire, in fin dei conti, le
stesse cose? E’ probabile, viceversa, che i tratti specifici della straordinaria metamorfosi abruzzese - quelli che
davvero ne hanno fatto un “caso” peculiare - debbano essere cercati soprattutto altrove, o comunque anche altrove.
2. Imprenditoria e lunghe permanenze
E’ alquanto riduttivo, anzitutto, pensare che la storia dell’Abruzzo contemporaneo si sia dispiegata, prima
del boom avviato dagli anni ’60 (con qualche anno di ritardo rispetto al quadro nazionale), soltanto su una china
1
Si pensi, per richiamare il caso forse più noto e discusso (anche in Italia), a Sidney Pollard, sulla cui opera in proposito (1984) si
vedano tra l’altro i giudizi di Peter Hertner, Louis Bergeron e Giorgio Mori, in “Passato e presente”, 1982, n. 2, pp. 9-26
2
di ritardi e disgregazione. Il suo essere periferia non sempre ha comportato una condizione di marginalità e depressione. A parte gli elementi di modernizzazione che già nel corso dell'Ottocento e del primo Novecento hanno investito specificamente l’agricoltura (Felice, 1989), lo stesso settore industriale, ad un’analisi attenta, risulta tutt’altro che immobile. Occorre d’altro canto intendersi sul concetto di industralizzazione. Sul piano storiografico pare ormai assodato che non esistono modelli generali ed esaustivi (del resto anche quello inglese viene
continuamente ridiscusso). Si tratta invece - anche senza tirare in ballo la metafora del “cavallo morto che non
voleva rassegnarsi a tirare le cuoia”2 - di uno straordinario fenomeno che ha conosciuto forme e tempi diversi a
seconda dei contesti e delle sollecitazioni esterne: non una cesura epocale improvvisa e dirompente, ma un processo nella cui dialettica permanenze e novità - le classiche sedimentazioni della longue durée e le brusche rotture dell'histoire evenéméntielle - si sono sempre variamente combinate tra loro. Per non dire poi dell’ampio
dibattito sul “neoregionalismo economico” (Perulli, 1998) che, dopo la crisi del fordismo (anni ’70), si è sviluppato intorno alle direttrici dello sviluppo, con innumerevoli implicazioni dal lato dottrinale e delle ricerche
empiriche..
In Abruzzo la storia passata delle attività “secondarie” - industriali, artigianali o protoindustriali che dir si
voglia - non può essere rubricata sotto l’esclusiva categoria della “deindustrializzazione”. Qui una fitta rete di
centri minori sparsi sul territorio, tanto sul versante marittimo quanto soprattutto nell’interno montano, ha determinato uno straordinario sparpagliamento degli esercizi legati al commercio e all’artigianato. Certo, questo
vasto universo di botteghe, opifici e negozi per la gran parte è poi andato incontro, con l’irrompere
dell’industrializzazione vera e propria, ad un inesorabile declino. Ma non tutto si è dissolto. Dall’interno del variegato mondo dei mestieri e delle manifatture tradizionali fecondano terreni di operosità e d’intraprendenza su
cui crescono iniziative imprenditoriali che durano nel tempo e si consolidano, sapendosi ritagliare sicuri ambiti
di mercato in Italia e all’estero. E se pure finiscono con l’estinguersi, alcune parabole industriali, i “saper fare”
perdurati a lungo nelle comunità locali, lasciano sempre qualche segno della loro esistenza che funge da supporto, col passare del tempo, per nuove e più fortunate intraprese. Casi di questa vivace imprenditoria locale,
germinati sul ceppo di antichi saperi che permangono negli anni (talvolta nei secoli), sono tanti e tutti di grandissimo significato: si pensi, per citarne solo alcuni, al nucleo pastario di Fara San Nartino (De Cecco, Delverde, ecc.), alle indusstrie di liquirizia a Silvi e Montesilvano, all’Aurum di Pescara, alla sartoria Brioni di Penne
e così via.
3. Energia e industria
Un altro elemento ha caratterizzato fortemente lo sviluppo abruzzese: il fatto che le scelte fondamentali su
cui esso si fonda sono legate quasi tutte all’uso di risorse energetiche presenti sul territorio. La prima industrializzazione della Val Pescara, in età giolittiana, è stata determinata dallo sfruttamento idroelettrico del fiume3.
Preesistenti insediamenti industriali si basavano sul rinvenimento di giacimenti bituminosi e asfaltiferi (o addirittura petroliferi). Principale fattore di localizzazione industriale in passato era stata, comunque, soprattutto la
facile disponibilità di energia elettrica.
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Una brillante sintesi delle tante posizioni storiografiche che si fronteggiano sul tema della “rivoluzione industriale” fornita dal
saggio di David S. Landes che ha per titolo (ironico) proprio La favola del cavallo morto ovvero la rivoluzione industriale rivisitata
(Donzelli, Roma 1994), dove il bersaglio polemico è il “revisionismo” della New Economic History.
3
Mi permetto di rimandare, per questa fase dell’industrializzazione in Abruzzo, a tre precedenti miei lavori: Dal sonno di Aligi al
grande capitale. La prima industrializzazione della Val Pescara, in “Italia contemporanea”, 1990, n. 180, pp. 505-526; Energia idroelettrica e politica di sviluppo: l’Abruzzo e la valle del Pescara dall’Unità al secondo dopoguerra, in “Bollettino della Società geografica
italiana”, 1990, n. 7-9, pp. 317-38; Dinamiche di sviluppo e gerarchie gerritoriali: i censimenti industriali del primo Novecento, in “Abruzzo contemporaneo”, 1991, n. 1, pp. 13-46.
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Questa impronta del sistema produttivo restava identica anche nell’immediato secondo dopoguerra. “A
fondamento dell’industria abruzzese - si legge nel periodico dell’Unione Genti d’Abruzzo (1949, p. 60) - sta
la più che notevole potenzialità idroelettrica della regione”. Di qui il particolare impegno che viene dedicato alla ricostruzione del comparto. Su iniziativa delle più grandi società del settore - soprattutto Terni, Sme, Unes vi erano interessati tutti i principali fiumi dell’Appennino abruzzese, particolarmente i bacini maggiormente
promettenti di buoni risultati, cioè quelli del Sangro e del Vomano. Una forte spinta alla realizzazione di centrali idroelettriche viene dalle lotte sindacali del 1950-51. E’ anzi proprio in Val Vomano che il Piano del lavoro
della Cgil - certamente in ambito regionale ma forse anche nel Mezzogiorno - raggiunge il massimo di mobilitazione e di risultati concreti (Di Paolantonio; Melilla, 1980, pp. 5-38; Ginsborg, 1989, pp. 253-55). Nell'insieme del periodo 1944-51 tornano in funzione impianti per una potenza di 152.818 kw, equivalente ad oltre il
72% di quella del Sud (isole comprese). Sommandovi la potenza prodotta dalle nuove centrali attivate dal 1946
al 1952 (310.540 kw), si giunge ad un totale di 463.358 kw, che fanno allora dell’Abruzzo (compreso il Molise)
la regione di gran lunga maggiore fornitrice di energia elettrica nel Sud d'Italia (Svimez, 1954, p. 462).
E’ soprattutto con l’apertura dei cantieri per la costruzione delle centrali - le quali effettivamente richiamavano un’abbondante manovalanza - che compaiono sulla montagna abruzzese le prime forme di lavoro salariato. Le sonnolenti economie agro-pastorali finalmente trovano, come scrive Benedetto Barberi nell’inchiesta
parlamentare sulla miseria, un'occasione di “risveglio”, di “evasione dalla miseria” (Camera dei deputati, 1953,
p. 92). Anche da parte sindacale in seguito si rivendicherà il merito - una “cosa grande”, come avrebbe detto lo
stesso Di Vittorio - di aver creato, proprio con le centrali idroelettriche, gli “operai”, rompendo gli equilibri
preesistenti (Aa. Vv., 1978, p. 161). Indubbiamente, per fette consistenti di popolazione rurale, queste opere
rappresentano l’agognata opportunità per “fuggire” dalla terra e mettersi decisamente sulla strada della proletarizzazione industriale: prende avvio, allora, quel processo di “deruralizzazione” che negli anni seguenti assumerà dimensioni colossali.
A creare un’euforia industrialista negli anni ‘50 sono anche le voci di promettenti rinvenimenti petroliferi
nei sottosuoli abruzzesi. L’elettricità ovviamente continua a tenere banco. Ora anzi più che mai si lamenta il
fatto che - a differenza dell’età giolittiana che qualche fabbrica l’aveva portata - dalla crescente produzione di
energia non derivi alcuna ricaduta industriale in ambito locale. Poiché i capitali e la proprietà delle centrali provenivano dall’esterno, anche i profitti, come dimostrava Benedetto Barberi, finivano oltre confine. Una delle
regioni maggiormente produttrici di elettricità - nel Sud d’Italia certamente la più importante 4 - non ricavava
alcun vantaggio diretto da questa preziosa fonte di energia. Le lotte del Vomano e del Sangro, che tra i loro obiettivi avevano anche quello di indurre le grandi società (Sme, Terni, Acea) a realizzare in loco impianti industriali capaci di assicurare lavoro stabile, restarono senza esito sotto questo profilo. Anche in seguito si continuerà a fare della disponibilità di corrente elettrica, oltre che di materie prime (la bauxite in particolare),
l’occasione per rivendicare investimenti; ma sempre senza successo. Dall’abbondante produzione di energia idroelettrica - era questa la conclusione - all’Abruzzo venivano alla fine solo danni.
Ma proprio in quegli anni il dibattito sullo sviluppo industriale dell’Abruzzo andava intrecciandosi, come
si diceva, con un altro tema scottante: il petrolio. Fin dalla sua creazione l’Agip aveva installato in Abruzzo torri di trivellazione. Dopo l’interruzione della guerra, verso metà anni ‘50 la società petrolifera pubblica di nuovo
comincia a compiere sondaggi. Una “grande speranza” - come disse il leader democristiano Giuseppe Spataro
intervenendo in un dibattito parlamentare causato da una rivolta popolare scoppiata a Sulmona - torna ad ac4
Questa, per la precisione, la produzione di elettricità (milioni di kwh) in Abruzzo e Molise: 1.918,7 nel 1955, 2.129,7 nel 1956,
2.117,9 nel 1957, 2.056,6 nel 1958, 2.594,1 nel 1959 (Svimez, 1961, p. 452). In nessun’altra regione del Sud se ne produceva altrettanta.
Superavano l’Abruzzo e Molise solo alcune regioni alpine: Piemonte, Lombardia, Trentino e Veneto.
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cendersi nelle popolazioni abruzzesi. I risultati delle ricerche per la verità non inducevano a molto ottimismo,
ma tanto bastava - le notizie venivano ovviamente anche gonfiate - per alimentare entusiasmi e discussioni.
Soprattutto a Pescara si sviluppa un ampio dibattito. Come per i primi impianti idroelettrici in età giolittiana e
poi per il metano nei primi anni ‘60, la disponibilità di una “ricchezza regionale”, quale sembrava essere il petrolio, diventa occasione per una straordinaria mobilitazione delle élites locali, per un confronto acceso tra forze
politiche ed imprenditoriali 5, sulle dinamiche e sulla qualità dello sviluppo in Abruzzo. L'atmosfera politica e
culturale si elettrizza: sembra respirarsi un clima da California, “un clima che si protrarrà a lungo, permeando
di sé i più diversi atteggiamenti della società e del costume, e che è indubbiamente alla base della radicale scelta imprenditoriale e della svolta altrettanto decisa verso l’industrializzazione” (Colapietra, 1961, p. 625). Poi
questa prospettiva non approderà - ora si può dire per fortuna - ad alcun esito, anche se la questione petrolio in
Abruzzo torna di tanto in tanto a riproporsi 6.
4. Tra Fiat e Sangro-chimica
Artefice del particolare sviluppo abruzzese è stato anche un notevole protagonismo di massa. E’ un aspetto
che già emerge evidente dall’ampia mobilitazione popolare avutasi intorno all’uso delle fonti energetiche - elettricità prima e metano dopo - cui abbiamo fatto cenno. Ma esso risalta come fattore decisivo anche in altre
circostanze: momenti che in verità sono autentici snodi della recente storia abruzzese. Il particolare sviluppo
avutosi in questa regione - almeno in una certa misura - non è stato un prodotto del caso e neppure il risultato
di oculate scelte compiute dalle classi dirigenti.
Occorre ricordare che fino a metà circa degli anni ‘70 (e forse anche dopo) nella leadership politica regionale - o quanto meno nella gran parte di essa - permane la convinzione che solo un grande stabilimento chimico o siderurgico - una tipica “cattedrale nel desero”, come venne definito questo tipo di intervento - avrebbe
potuto innescare il decollo abruzzese. La formulazione più lucida di questa linea strategica - coerentemente in
effetti con la prevalente cultura meridionalista del tempo - l’aveva fornita all’inizio del precedente decennio
Benedetto Barberi, direttore generale dell’Istat, che certamente è stato il maggiore studioso dell’Abruzzo posbellico (se n’era occupato anche in periodo fascista), protagonista della creazione di quello che oggi è il Cresa
ed estensore dei primi documenti di programmazione regionale. Il dibattito era sempre legato al rinvenimento
degli idrocarburi nel sottosuolo abruzzese. Al loro utilizzo si legava l’idea di creare un grande stabilimento petrolchimico che potesse fungere da volano per l’industrializzazione. L'impianto di raffinazione dei prodotti petroliferi avrebbe dovuto sorgere, a giudizio del Barberi, “in qualche punto del litorale abruzzese o del suo immediato retroterra”, sul “grande asse” che dalla foce del Pescara, passando per la Valle Peligna, si sarebbe esteso fino al Fucino e di lì a Roma: in sostanza nei pressi di Pescara o di Ortona (Barberi, 1966, pp. 70 e 87). Giustificava questa scelta non solo con ragioni di sviluppo regionale, ma anche in base ad esigenze di una “equilibrata distribuzione territoriale delle attività economiche” nel più generale contesto dell’Adriatico, giacché da
Ancona a Bari - egli argomentava - non esisteva alcun impianto del genere, mentre sul corrispondente versan5
Opzioni ed umori degli ambienti industriali trovano espressione soprattutto nel quindicinale “Valpescara”, che nel suo primo numero del 1956 si presenta come uno strumento di stimolo per la valorizzazione della vallata del Pescara, “che, già ferace nella sua agricoltura e nelle sue industrie, si annunzia ricca, se non straricca, pure nel sottosuolo”.
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Ricerche verranno effettuate - ed anzi di tanto in tanto intensificate - in tutti i decenni successivi, da parte di società sia italiane
che estere. Con mezzi sempre più sofisticati si insiste nel cercare il prezioso liquido nel ventre delle montagne abruzzesi - Gran Sasso,
Maiella, Sibillini - col rischio di manomettere le aree riservate ai parchi. Continua a riprorsi, in qualche modo, il dilemma sul modello di
sviluppo (cfr., ad esempio, “Il Centro”, 1 marzo 1998). Alle lusignhe dell’“oro nero”, fatte balenare dalle compagnie petrolifere, vengono
contrapposte le più salutari (anche in termini economici) prospettive dell’“oro verde”.
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te tirrenico se ne potevano incontrare più d'uno a distanze ravvicinate. Esisteva, certo, un inconveniente: nel
settore petrolchimico operavano grandi aziende di Stato e società con capitale internazionale che avrebbero potuto “colonizzare” la regione, creando una fabbrica avulsa dal contesto locale. Ma lo si sarebbe potuto senz'altro
evitare - scriveva con ingenuo ottimismo Barberi - dando la priorità all’impiego di forze lavorative abruzzesi,
“anche a livello dirigenziale e tecnico in modo da inserire queste attività nel vivo dell’organismo economico
regionale” (Barberi, 1966, p. 126).
Su questa linea di uno sviluppo incentrato sulla grande industria di base si ritrovavano in sostanza tutti i
partiti, di qualunque orientamento. Le sinistre sostenevano, come per l’energia elettrica, la necessità della nazionalizzazione, tanto per le ricerche che per lo sfruttamento dei giacimenti, dando ovviamente la priorità agli
enti di Stato (Iri ed Eni), mentre accusavano i partiti di governo - Dc in primo luogo - di voler difendere i
grandi gruppi monopolistici italiani (la Montecatini) e stranieri (la Gulf). Per la Dc il problema era di procedere
rapidamente all’industrializzazione della regione, qualunque essa fosse: e il petrolio (come il metano) poteva
offrire l’occasione buona 7.
Ad un certo punto la prospettiva dell’impianto petrolchimico si fa concreta - siamo nella prima metà degli
anni ‘70 - con il progetto della Sangro-chimica. Se esso alla fine non si realizza, contro la volontà di settori
predominanti del ceto politico regionale, è perché nell’area frentana (epicentri sono i comuni di Lanciano e di
Paglieta) monta dalla società civile, con solidarietà anche di livello nazionale, un movimento di opposizione
vastissimo e di lunga durata, che coinvolge in profondità ogni ceto sociale, travalicando le contrapposizioni ideologiche e partitiche (Felice, 2000, pp. 454-64).
Un ruolo di primo piano nella industrializzazione della Val Sangro (e in genere dell’Abruzzo) ha svolto
anche la Fiat. Un primo progetto d’insediamento venne presentato dal gruppo torinese nella primavera del 1973
(proprio allora, dopo una lunga fase di lotte operaie, s'era giunti alla firma del contratto metalmeccanico): progetto che a maggio ottenne l’approvazione del Cipe (3.500 gli addetti previsti). Poi però, a seguito della crisi
petrolifera e delle connesse difficoltà del settore automobilistico, il promesso insediamento Fiat venne congelato. Tuttavia, in alternativa alla Sangro-Chimica, esso diventa un punto di riferimento costante per il movimento
popolare (sui cartelli innalzati dai manifestanti era frequente lo slogan “Sì alla Fiat no alla Sangro-Chimica”):
contribuisce anzi, sebbene non mancassero perplessità in settori ambientalisti e persino all’interno del Pci (almeno localmente), a dargli consistenza e continuità.
Speranze e delusioni, spesso anche rumorose proteste, si alternavano intanto in relazione ad altri stabilimenti che in quegli anni venivano prospettati: alcuni riusciti, destinati a durare, altri incerti e traballanti, altri
ancora destinati a sicuro fallimento. Qualcuno fu anche respinto a furor di popolo, analogamente alla SangroChimica, per i rischi di inquinamento che poteva comportare. E’ il caso della Rohm and Haas Sud Kerb, operante anch’essa nel settore chimico, che pure suscitò notevole clamore, anche sul piano nazionale (la sensibilità
ecologica s’era allora accentuata a seguito della drammatica vicenda di Seveso). Comunque, dopo lunghe polemiche e contrasti (che videro contrapporsi l’anima operaista e quella ambientalista all’interno dello Pci), per
l’opposizione soprattutto dell’amministrazione comunale di Atessa, non se ne fece nulla.
E’ tuttavia soprattutto il progetto della Fiat a tenere banco. Esso torna con forza alla ribalta nel 1977, allorquando il gruppo torinese stipula un accordo internazionale con la Peugeot per la produzione di veicoli commerciali (viene costituita la Sevel). Sebbene il contesto fosse ormai del tutto diverso dagli inizi del decennio,
nella documentazione presentata nel giugno 1978 al ministero del Bilancio e della programmazione economica
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Tra le tante prese di posizione al riguardo, forse la più significativa (fu il risultato di una serie di incontri tra i parlamentari e i segretari provinciali della Dc, presieduti da Giuseppe Spataro, e si giovò della collaborazione di Domenico Manna, dirigente della Svimez),
è data da A. Mancini, Schema di programma per la rinascita dell'Abruzzo, Pescara 1963, soprattutto pp. 57-58.
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per ottenere le sovvenzioni statali, la casa automobilistica ribadiva, insieme al proprio impegno in favore del
Mezzogiorno, la necessità che nelle vicinanze dello stabilimento Sevel non comparissero industrie inquinanti
tipo raffinerie: insomma veniva confermato che c’era incompatibilità tra la Fiat e la Sangro-chimica. Per la fabbrica Sevel, la cui ultimazione si sarebbe avuta alla fine del 1982, era fissata (“per affrontare con speranza di
successo il mercato”) una produzione di 80.000 furgoni all’anno, con un’occupazione di circa 3.000 persone.
Le previsioni, più o meno, alla fine sarebbero state rispettate.
Si tratta di vicende che in una seria ed approfondita ricostruzione storica, per comprendere davvero come e
perché l’Abruzzo è diventato ciò che è oggi, non andrebbero affatto dimenticate, e neppure sottovalutate. Si
provi ad immaginare cosa sarebbe stato l’Abruzzo, con la coscienza ambientalista ed ecologica che sempre più
in questi ultimi decenni è andata radicandosi tra la gente, se si fossero realizzati complessi chimici come la
Sangro-chmica e la Rohm und Haas. Il processo di industrializzazione della Val di Sangro dimostra come
l’azione svolta dalle comunità locali, più o meno sintonizzate con le loro élites politiche (o meglio con settori di
esse), non avesse nulla a che vedere - almeno in questo caso (che comunque costituisce uno spartiacque) - col
particolarismo nel senso di angusto ancoraggio solo a questioni d’ambito locale. Al contrario questo protagonismo di massa esprimeva una capacità di visione - questa sì lungimirante e consapevole - in cui gli interessi
della zona, pur presenti (e del resto pienamente legittimi), si combinavano proficuamente con quelli d’ordine
generale. La tentenza della grande impresa italiana e straniera a penetrare, soprattutto a cavallo tra anni ‘60 e
‘70, nel Mezzogiorno d’Italia - una spinta che ovviamente rispondeva anche a motivazioni interne alla logica
capitalistica - veniva ad incontrarsi, in Abruzzo, con una forte pressione sociale che saliva dal basso. Non si
trattava di un rivendicazionismo miope e particolaristico, bensì di una chiara percezione della posta in gioco,
con forte radicamento nel proprio contesto e attenzione agli interessi locali, ma anche con sguardo rivolto alle
sorti più complessive del Mezzogiorno e dell’Italia. Fu così nelle lotte per il metano dei primi ani ‘60 nel Vastese, da cui scaturirono, in buona sostanza, l’insediamento della Società italiana vetro (Siv, oggi Pilkington) e
la conseguente industrializzazione della zona (Felice, 1981, pp. 84-95). Ma non meno significativo, come già
detto, è quanto accade in Val di Sangro, dove un ruolo tutt’altro che secondario - nel far sì che alla fine prevalesse un certo tipo di sviluppo - svolge il lucido protagonismo delle popolazioni locali.
5. Un protagonismo di massa
Ritroviamo un consistente protagonismo di massa - continuiamo a chiamarlo così - anche in altre fondamentali opzioni del “modello” abruzzese. La modernizzazione dell’agricoltura sarebbe stata impensabile, per
esempio, senza il Fucino, scenario “epico” delle lotte contadine e della riforma agraria. La terra che Silone aveva innalzato a simbolo letterario del secolare immobilismo meridionale (soprattutto in Fontamara) nel secondo
dopoguerra si scuote in un sussulto di popolo - assai più che altre volte nel passato - che la trasforma in un laboratorio di dinamismo sociale e di mutamenti economici tra i più ricchi e significativi dell’Italia repubblicana.
Già per il suo passato il Fucino evocava un’infinità di significati: quasi non c’è versante dell’attività umana dall’economia alla politica, dalla letteratura alla tecnica - che non ne fosse stato in qualche modo coinvolto a
livelli più o meno alti. E’ difficile trovare un luogo - nel Mezzogiorno in particolare, ma anche nell’Italia intera
- altrettanto carico di pregnanza storica (Felice, 1992). L’anno di svolta è però il 1950, allorquando monta un
imponente movimento popolare che porta all’esproprio del latifondo e pone le basi per la riforma agraria.
Già nell’immediato dopoguerra le agitazioni contro i Torlonia avevano toccato momenti di particolare intensità ed asprezza. Ma è nella primavera del 1950 - la “calda primavera abruzzese”, com’è stata definita (Liberale, 1980) - che le lotte esplodono nella loro massima ampiezza, scuotendo in profondità il tessuto civile
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della regione, ed in parte anche quello economico. Il periodo 1947-49 si concludeva, anche per il movimento
sindacale abruzzese, con risultati complessivamente modesti. Se già particolarmente scarsi erano stati nella regione gli esiti della pressione contadina nel biennio 1944-46, quando la partecipazione delle sinistre al governo
poteva far sperare in sbocchi più concreti e soddisfacenti, ancora più forte diventava lo scarto tra potenziale espresso dalle lotte ed obiettivi effettivamente conseguiti ora che sul piano nazionale, con la fine della politica di
unità nazionale, s’era interrotto quel “temporaneo circolo virtuoso” tra rivendicazioni popolari e volontà del potere centrale (Barone, 1995, p. 350). Nel 1950 la spinta decisiva alla grande mobilitazione viene, com’è noto,
dal Piano del lavoro elaborato dalla Cgil. Con esso il più grande sindacato italiano indicava al paese una strategia d’intervento contro l’imponente disoccupazione (oltre 2 milioni) che, “tenendo conto di più complessivi obiettivi di politica economica, puntasse ad orientare riforme strutturali e investimenti”, anticipando “l’idea di
una programmazione economica che a partire dal Piano Vanoni del 1956 si sarebbe spesso riproposta nel corso
del dibattito politico dei primi anni sessanta” (Musella, 1995, p. 887). Riscoprendo le valenze produttivistiche
del riformismo nittiano, il Piano si muoveva su una triplice direttrice: nazionalizzazione delle societˆ elettriche,
bonifiche e trasformazioni fondiarie, edilizia popolare e attrezzature civili.
Le terre del Fucino, insieme al Vomano e all’alto Sangro per le centrali idroelettriche (Felice, 1997), diventano il principale “cantiere” nazionale dove si attua con successo questa strategia sindacale. E’ qui che lo “sciopero a rovescio” - l’arma che allora viene escogitata per condurre l’offensiva (Pepe, 1996, pp. 173 e 189) raggiunge la sua massima efficacia e risonanza. E alla fine risulta vicente. Le Norme per la espropriazione, bonifica, trasformazione ed assegnazione dei terreni ai contadini - la cosiddetta “legge stralcio” appunto (il progetto di “riforma generale” finirà affossato) - vengono varate il 21 ottobre 1950 in un clima, ormai, di smobilitazione politica anche nel Fucino. Un decreto del Presidente della Repubblica, in data 7 febbraio 1951, n. 66,
costituisce ufficialmente l’“Ente per la colonizzazione della Maremma tosco-laziale e del territorio del Fucino”
(Ente Maremma), di cui poco dopo verrà nominato presidente il senatore democristiano Giuseppe Medici. Nel
settembre di quell’anno una serie di altri provvedimenti dispone che il nuovo organismo proceda all’esproprio e
all’occupazione delle terre. Nel 1954, con la legge 639 del 9 agosto, viene infine costituito l’“Ente Fucino” (del
tutto staccato da quello della Maremma), divenuto successivamente “Agenzia regionale per i servizi di sviluppo
agricolo”, con ruolo indubbiamente decisivo, nonostante le distorsioni, nella modernizzazione del settore.
Ma si pensi, ancora, al peso che hanno avuto i movimeti ambientalisti nel fare dell’Abruzzo la “regione dei
parchi”, all’avanguardia non solo in Italia ma nella stessa Unione europea (Piccioni, 2000). Nelle letture che si
danno del “caso” abruzzese non si dovrebbe dimenticare, insomma, che nei momenti di svolta, quando si trattava di decidere sulle strade da percorrere e sui soggetti che sarebbero dovuti entrare in gioco, hanno avuto
un’influenza anche la sensibilità e l’intraprendeza delle comunità locali. E questa azione è di solito risultata tanto più incisiva quanto maggiormente è stata sollecitata e diretta dal basso.
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