I Perché proprio ora si è fermata? Non c`è nessuna ra

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I Perché proprio ora si è fermata? Non c`è nessuna ra
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Perché proprio ora si è fermata? Non c’è nessuna ragione perché lo faccia. Quante volte aveva oltrepassato
il parco senza guardare oltre il muro di cinta? Il tempo
breve di aspirare il profumo della vegetazione e proseguire. Dimenticare.
Ma all’improvviso l’ultima luce del crepuscolo ha
rovesciato un’ondata di calore che si è rappresa sulle sue
spalle. Senza pensare è entrata nel parco, lentamente.
C’è nebbia attorno, spumosa, leggera: impedisce agli
ultimi raggi di trafiggere il terreno sciogliendoli nell’atmosfera in un pulviscolo ancora dorato.
È incerta se proseguire. I rami degli alberi, non ne
aveva mai visti tanti, coprono gli ultimi spazi colorati
del cielo. È notte, pensa, non posso più tornare indietro.
Un fascio di luce artificiale e il suono acuto, ritmato
delle trombe, le indicano l’orientamento, la strada da seguire per non perdersi.
In alto su di un piedistallo di marmo un’orchestra al
completo sta suonando del jazz stile dixieland.
Gli orchestrali indossano smoking, si muovono freneticamente, danzano la melodia scendendo e salendo
i gradini della piattaforma. Una cantante intreccia con
loro un concertato allusivo.
Ora non sente più i suoi passi sulla ghiaia, eppure
continua a camminare quasi spinta.
La accoglie un mormorio sempre più forte di gente,
tanta gente. Gremisce i viali alberati che conducono alla
pista da ballo. Signore fasciate in abiti eleganti, lucenti,
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si muovono con i loro compagni da una tomba all’altra,
appoggiano i calici ancora colmi di champagne ai piedi
delle statue o accanto alle foto del defunto. I posacenere
prendono il posto dei vasetti di metallo svuotati in continuazione dei fiori dai camerieri che si affaccendano da
una postazione all’altra della pista da ballo. Chi smette di
danzare si allontana nel parco chiacchierando e ridendo.
Si è fermata a guardare. Affascinata dallo spettacolo
e dalla musica, ora non sente più il bisogno di camminare né tanto meno di fuggire. Anzi si diverte. In fondo
anche lei vorrebbe far parte della compagnia allegra e
senza tempo. Spera quasi che qualcuno di quegli uomini
eleganti le venga a proporre di ballare.
Più avanti, alla sua sinistra, due gruppi di giovani si
rincorrono facendo lo slalom tra i cespugli. Stanno gareggiando tra i fischi e le urla dei tifosi. Vince chi raggiunge per primo la tomba di travertino, alta, imponente,
un vero e proprio mausoleo di famiglia. Il vincitore o la
vincitrice vengono premiati all’interno della cappellina
con una corona di fiori freschi sottratti a qualche lapide
lì intorno.
Vicino, tra i topi che corrono freneticamente, una
coppia danza con un ritmo del tutto personale. Sono
languidi e si baciano. Il braccio di un angelo protettore
copre i loro volti che appaiono e scompaiono nel semicerchio della penombra.
Poco lontano la voce stridula di una donna la attrae.
Dentro un’edicola illuminata, seduta su di una lastra di
marmo, una ragazza completamente nuda parla con concitazione al telefono. Il faro accecante si riflette sulla
carnagione bianchissima e gli occhi truccati pesantemente. Discute di denaro. Entra un vecchio. La afferra e
la penetra ansimando mentre quella continua a parlare.
Lui chiude l’edicola sbattendo la porta con un rumore
assordante, quasi fosse di ferro.
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“Che ci faccio qui!” Tenta di dirlo ad alta voce ma
non ci riesce. Soffoca. Vorrebbe muoversi ma avanza
verso di lei un uomo giovane. Come è bello, pensa. Ma
la parola bello in tutte le sue sillabe si sparge nell’aria
in piccolissime bolle di sapone. Lui è vestito di nero.
Pedala elegantemente una bicicletta e porta a guinzaglio
una volpe minuta che fatica a tenere il passo. Come è
bello, pensa.
Improvvisamente la musica si spegne per lasciare
il suono di un’unica tromba. In alto scende dalle scale
leggera una ballerina. È vestita di un lungo velo bianco, allargando le braccia l’abito disegna nell’aria due ali
grandi di farfalla. Tutti si fermano a guardarla in silenzio
con ammirazione. Non riesce a leggere i lineamenti di
quel volto, il tulle li scopre a tratti rapidissimi. Sembra
volare tanto è leggera.
Di colpo la pista si allarga in un’ampia distesa di
acqua. Nessuno si stupisce. Tutti rimangono immobili
a osservare lo spettacolo. Come pietrificati. Donne, uomini, orchestrali, cantante, camerieri. Quasi si trattasse
di una visione cui tutti fossero abituati da tempo. Lei
si ferma accanto a loro. Sente il desiderio di integrarsi
definitivamente a tutto il gruppo.
A mano a mano che il lago si allarga, il battito del
cuore sale. Vorrebbe sottrarsi ad un imprevisto stato d’animo, rimanere ferma vicino agli altri, ma il battito forte, ingovernabile, la costringe a indietreggiare.
Lo scroscio corposo dell’acqua si flette nel lago tra
le ninfee, ma si allunga in una forma strana, artificiale,
quasi gonfia. Un germano reale è aggrappato alla sponda. Emette uno strano gracidio: sembra un rospo, una
rana. All’improvviso le sue zampe si tramutano in mani
umane che si allargano a dismisura, si infittiscono di
piume. Ora è un’aquila, una sorta di polena che guida la
navigazione. La segue la ballerina che ha rimpicciolito il
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suo corpo. Ha le dimensioni di una bambina, bella come
un putto dipinto. Cammina sull’acqua veloce, forse pattina. Il vestito scintilla, la innalza nell’aria e di nuovo
la immerge rapidamente nel lago. La piccola ride, ride,
la chiama con la voce di donna matura. La chiama per
nome, la invita a entrare nell’acqua. Ma lei non può. Una
linea di luce artificiale le sbarra il passo. Dalle sponde
escono d’un tratto bambine simili a lei. Guizzano nell’aria come tanti delfini lucenti e si inabissano nell’acqua.
La piccola donna chiama “Adaaa, Adaaa” e ride. Ma
quel riso fa paura. “Ada”, continua ad urlare, ma nessuno la ascolta. Nessuno sembra muoversi in suo aiuto.
Sa che deve fuggire.
Fuori dal parco la madre la attende.
“Mamma cosa vuoi dirmi? Muovi le labbra. Cosa
dici?”
“Non dimenticare il crisoberillo... il diaspro... anche
il quarzo rosa. Nella bara... non dimenticare...”
La linea di luce allaga il suo sguardo. Si risveglia
fissando la finestra. Dal basso il rumore dello scroscio
d’acqua la sorprende ancora intorpidita dal sogno.
La porta finalmente si era spalancata. L’infermiera le
aveva bisbigliato qualcosa.
La madre era lì, elegante e fiera, nel vittorioso silenzio. Qualcuno le aveva appoggiato delle rose sul cuscino: erano scese in disordine sulla testa imitando un’acconciatura. Il letto troppo sollevato conferiva alla morte
una imprevista suggestione teatrale. Sulle labbra, appena percettibile, quel sorriso dall’impietosa ironia che la
figlia, soltanto lei, sapeva interpretare. L’abito azzurro,
uno dei suoi preferiti, nascondeva ancora abilmente la
vera età. Forse, d’accordo con qualche infermiera, aveva stabilito nei dettagli l’ultimo abbigliamento, la posi12
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zione del letto, cosa dovesse contenere l’armadio, la valigia. Ma soprattutto il momento in cui la figlia doveva
essere avvertita.
La madre le aveva risparmiato fino all’ultimo la lenta corruzione della malattia. Gli odori nauseabondi dei
disinfettanti, la trasparenza della flebo, la resa del corpo
ai bisogni, vomiti, escrementi. L’esasperazione dolorosa
dell’attesa. La discontinuità della mente. Le ultime parole. L’attimo.
Se avesse voluto, Ada le avrebbe parlato a lungo,
spiegato i motivi del suo esistere, i conflitti più intimi, sarebbe andata fino in fondo e il dialogo si sarebbe
tramutato in una confessione da donna a donna. Forse,
ormai alla deriva dell’esistenza, le avrebbe rivolto lo
sguardo, forse le avrebbe stretto la mano.
Si era avvicinata. Aveva toccato il corpo rigido immobile. L’aveva scossa, quasi con un risentimento rabbioso, incapace di piangere.
Un lamento debole, a tratti sussurrato, come la fine
del pianto agitato di un bambino, la distolse dalla presa
del corpo. La sorella le aveva appoggiato la mano piccola e sottile sulla spalla.
“Vieni da Parigi?”
“Come è morta?”
“Cancro, in pochi mesi.”
“Te ne occupavi?”
“Non mi permetteva di vederla, lo sai. Avevo notizie
dai medici, da qualche infermiere.”
“Il funerale?”
“Domani. Va’ a casa a riposare. Abbiamo tante incombenze. Servono a tenere a bada il dolore.”
Il sottile movimento dell’aria le riportò lo sguardo
sulla madre. Solo allora si accorse che l’impermeabile bianco della sorella aveva una piega profonda sulle
spalle, una specie di mantello che ora copriva il corpo
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della morta. Come una bambina spaurita Iria piangeva,
sussurrava parole incomprensibili, accarezzava il volto
di marmo. Il mantello le avvolgeva nel loro sentimento
di sempre, profondo, esclusivo.
Ada chiuse la finestra. Giù, nel parco, sulla superficie
del laghetto cosparso di ninfee, il germano reale faceva
il verso alla primavera e alla sua strafottente voglia di
vivere.
Avevano superato la cittadella. Alle loro spalle affondavano nella vallata casette raffinate, statue, scritte,
struggenti e fantasiose, versi, arzigogoli letterari. Tutto
ciò che fermava l’ultimo slancio, l’ultimo contagio di
vita per l’altro o l’altra, segregati per sempre alla vista.
Tuie, pini imparruccavano il cielo.
Il “luogo” dominava l’ultima altura come una grande
stazione spaziale. Accoglieva, invitava a salire, a respirare
finalmente aria nuova priva del profumo acre del bosso.
Ada si era seduta nel salottino di vimini. Era arredato
con cura, piante, mobili, pavimento tirato a lucido. Tutto
simile a una sala d’attesa qualsiasi, di un medico dentista, di un professionista appena affermato. Il soffitto a
cassettoni distribuiva luce in abbondanza, scendendo si
fondeva morbidamente con le lampade rosate poste agli
angoli della sala. Lì si attendeva l’ultimo commiato. Si
poteva pregare, parlare di lui o di lei, piangere o invocare con più libertà di fronte al catafalco. La brezza dalle
finestre aperte esaltava, nella fissità artificiale, l’intransigenza della morte.
La bara, posta in alto attendeva l’inizio del rito antico. Poi, finito il tempo degli addii, sarebbe sprofondata
con delicatezza a pianterreno. Gli inservienti, prontamente avrebbero posto l’involucro di legno sulle fiamme, l’ultimo guscio senza più palpiti.
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