LA NONNA CI RACCONTA Di Ivana Baldassarri

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LA NONNA CI RACCONTA Di Ivana Baldassarri
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La nonna ci racconta
Ivana Baldassarri
LA NONNA CI RACCONTA
Di Ivana Baldassarri
Lei ha sempre raccontato: la sua vita, il suo paese, le atmosfere, le feste, le discendenze, la
Storia. Se fosse viva racconterebbe ancora, colorando il suo narrare della sua intelligenza, della
sua fantasia, della sua curiosità e di quella superiore capacità di capire, nelle cose e nei fatti, quel
nucleo di originalità che fa di una vita, anche se semplice e sconosciuta, una vita speciale:
pensava che la memoria fosse un esercizio di alta formazione culturale e che narrare le cose
desse loro una longevità e un brillio che assomigliavano alla vita vera.
Si chiamava Cleofe Baldassarri ed era la mia nonna: era nata il 20 Novembre 1883 al Mulino
Albani in contrada Canonici di San Pietro in Calibano, oggi Villa Fastiggi, in una povera casa di un
solo piano, stesa in lunghezza, con davanti una vite rampicante di uva corna, proprio lateralmente
al mulino: la casa aveva due porte verdi affiancate e appena distanziate, una del mugnaio
Baldassarri e l’altra del fattore Cangiotti. Due case, due mestieri, due famiglie, tanti bambini, le
nonne rimaste vedove e le zie rimaste zitelle.
Il mugnaio Girolamo Baldassarri e il fattore Cangiotti, o meglio la fattora Benilde Cangiotti
perché in casa e sul lavoro era lei che comandava, non erano né “condomini” né colleghi: erano
più che parenti.
Cleofe era la più grande dei quattro figli del mugnaio Baldassarri detto Momo, che aveva
sposato la dolcissima Maria Pagnini figlia del fattore degli Antaldi-Santinelli.
“La mamma – raccontava la nonna Cleofe – era nata in quella bella e grande casa bianca
vicina a Porta Rimini, (ora schiacciata fra la strada e la Caserma Aldo Del Monte) proprio di fronte
alla casa degli Antaldi che custodisce le palle di Cialdini come se fossero mele in un portafrutta.
Una grandissima casa che aveva perfino la foresteria per l’accoglienza dei viaggiatori che
arrivando tardi a Pesaro, trovavano le porte della città chiuse. E quando i viaggiatori che
chiedevano asilo per una notte avevano facce e modi poco raccomandabili, il vecchio Pagnini
ordinava alle donne e ai bambini di non uscire dalle loro stanze fino a mattina.”
La vita al mulino dei Canonici scorreva felice e serena: i bambini Baldassarri e i bambini
Cangiotti crescevano insieme scorrazzando nei campi: d’estate c’erano i bagni nel “bottaccio” e
d’inverno le lunghe camminate nella neve per raggiungere la scuola di San Pietro. Molta neve nei
racconti della nonna Cleofe:
“Il garzone più giovane e più forte e a volte perfino due garzoni, ci accompagnavano a scuola,
aprendo con i loro corpi e con grosse pale, “la rotta”, tanta era la neve!”
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Nel 1892 nacque l’ultimo figlio dei fattori Cangiotti, Claudio: piccolo e malaticcio rifiutava di
dormire, di mangiare e piangeva sempre. La fattora Benilde che doveva spesso assentarsi di casa
per curare gli affari e le terre degli Albani, chiedeva alla mia nonna, che allora aveva nove anni, di
dare un’occhiatina a quel suo piccolo “ranz”. Fu per la piccola Baldassarri la scoperta vera della
vita, della dedizione assoluta al femminile e della gioia profonda di essere importante e amata da
protagonista. Quel bambino piccolissimo diventò il suo: chiese se poteva tenerlo a casa sua per
guardarlo meglio e ottenne perfino di farlo dormire nel suo letto. Per mesi e mesi la bambina si
dedicò al piccolo Claudio con attenzione e cura totalizzanti. Gli faceva perfino le pappe:
“Lessavo una carotina, una zucchina e una patatina che poi pestavo nel mortaio, come
vedevo fare con la carne a Natale per i cappelletti. Quando le verdurine diventavano cremose
aggiungevo l’acqua di cottura e ci cuocevo dentro il pane. L’olio di oliva completava il pancottino
che Claudio imparò a mangiare e a gustare con grande profitto per la sua crescita e il suo colorito.
Avevo imparato a fare per lui anche la crema, perché uova e latte a casa non mancavano mai!”
E di notte, le fredde notti delle case con cattivi infissi e nessuna fonte di riscaldamento,
Claudio rimaneva attaccato al corpicino saldo e caldo di Cleofe assaporando istintivamente calore,
protezione e sicurezza.
“Claudio sarà un uomo fortunato – profetizzò Benilde Cangiotti compiaciuta e grata di vederlo
crescere così bene – ha avuto due grandi mamme!”
Non so quando durò questa dolcissima simbiosi, ma so per certo che non fu mai dimenticata
se Claudio Cangiotti, ormai anziano, ricco e potente, parlava della mia nonna con accenti di
commossa tenerezza, accenti rari e insoliti nei suoi giudizi e nei suoi commenti.
Era a Natale la vera grande festa dell’anno al mulino dei Canonici! Arrivavano i parenti da
Fano, anche loro mugnai di Albani, con le carrozze, il pesce per la vigilia e i dolci per il cenone.
“Da giorni e giorni prima si cominciavano i preparativi d’accoglienza: tutti i bambini
Baldassarri e Cangiotti avrebbero dormito in un’unica stanza per far posto ai fanesi: le bambine da
una parte e i maschietti dall’altra, su sacchi provvisori di foglie di granturco che cricchiavano
chiassose sotto i nostri salti eccitati. Sacchi provvisori, perché in casa nostra ci sono sempre stati i
materassi di lana e di crine. - precisava la nonna come chi vuol puntualizzare la cifra di un blasone
- Le lenzuola odorose di spighetta, gli asciugamani di lino col pizzo e il secondo cassetto di ogni
comò lasciato libero perché gli ospiti potessero farne uso”.
Ma il Natale era soprattutto sinonimo di cappelletti. Un’orgia di cappelletti!
“La mamma chiedeva aiuto alle donne dei contadini vicini – raccontava ancora la nonna
Cleofe – e queste venivano volentieri e si facevano duemila, tremila cappelletti o forse più! La
carne, selezionata con cura maniacale, veniva cotta col burro in grandi tegami di coccio e poi
battuta nei mortai. Le lame dei coltelli non dovevano neppure avvicinarsi alla carne: avrebbero
lasciato un cattivo sapore di metallo.”
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Nella grande cucina, oltre le chiacchiere allegre delle donne, non si sentiva per ore, altro che
il battere ritmato e regolare dei pestelli nei mortai, fino a che la carne non diventava un pesto
raffinato, omogeneo e soffice.
Poi la pasta, “morbida, mi raccomando! Se no, i cappelletti non si possono chiudere bene e “i
va tutti par el brod”!” diceva la mamma che dirigeva i lavori.
Sul grande tavolo della cucina due, a volte tre taglieri su cui fiorivano le sfoglie, gialle come
l’oro, perfettamente rotonde, senza imperfezioni, lisce come seta. Dopo l’ultimo scenografico
schiocco della sfoglia, che era l’annuncio che la si poteva tagliare, ogni donna tirava fuori dalla
propria parananza bianca e odorosa di bucato, un attrezzo tondo e tagliente col manico di legno,
per fare i tondi di pasta dentro i quali rinchiudere il pesto di carne odoroso di limone, noce moscata
e cannella. Mentre le mani delle donne di casa, bambine comprese, e delle contadine orgogliose di
partecipare al rito più importante dell’anno, si muovevano svelte a chiudere i cappelletti, le
confidenze, i consigli, i sorrisi e le lacrime parlando dei figli, del lavoro, degli amori e della morte.
Eccoli finalmente i cappelletti! Tutti uguali, tutti in fila, tutti contati, bellissimi, appoggiati sulle
tavole del pane, ricoperti di teli bianchi e poi portati nei grandi vani sopra il mulino, dove era
freddissimo e si sarebbero mantenuti fino a Natale.
Un altro appuntamento annuale era la visita della Principessa Albani: per la nonna Cleofe un
vero incubo, fin da piccolissima. Non sopportava di doversi mettere in ginocchio nello spiazzo
grande davanti al mulino, per accogliere quella vecchia incappellata, con i guanti di pizzo e
orecchini preziosi: quella gran signora aveva la faccia dura, senza sorriso e nella voce l'arroganza
dei dominatori.
“Non mi voglio mettere in ginocchio.” diceva Cleofe alla sua mamma.
“Abbi pazienza – supplicava Maria a quella sua bambina tenace – è un momentino solo, poi
se ne va!”, ma Cleofe, “avrò avuto cinque o sei anni”, precisava compiaciuta la nonna, non
s’inginocchiò più né davanti alla Principessa, né a nessun altro mai: come sentiva il rumore della
carrozza dell’Albani, annunciata già dall’ansia e dai preparativi materni, Cleofe fuggiva e andava a
nascondersi fra i sacchi di grano, nella parte alta del mulino, dove a Natale si mettevano i
cappelletti.
La Principessa, passando in rivista la famiglia e guardando con i suoi occhialetti a
mascherina i bambini inginocchiati vicini alla carrozza, diceva:
“Come mai non c’è la tua figlia più grande?”
“La perdoni Signora Principessa, si sarà nascosta da qualche parte, quella birichina –
sussurrava servile la moglie del mugnaio – era proprio qui un minuto fa!”
Un altro appuntamento, ma questo ricordato con immenso piacere, era la visita che assieme
a sua madre Maria faceva ogni tanto al Conte Ciro Antaldi Santinelli che era il “padrone” del fattore
Pagnini, suo nonno.
Era già bellissimo venire a Pesaro col calessino: tutta la strada alberata fino al Miralfiore e poi
costeggiare le belle mura pentagonali fino a Porta Rimini!
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“Qualcuno apriva il grande portone di casa Antaldi: saluti, “gran vedute” e complimenti, e poi
lungo i corridoi silenziosi, lucidi, freschi e pieni di quadri, fino alla sala grande delle visite, dove
c’era una specie di trono. Su una grande pedana con tre gradini ricoperti di damasco rosso,
poggiava una poltrona sontuosa con i braccioli di velluto e schienale alto, sulla quale era seduto “il
padrone”, Ciro Santinelli Antaldi con papalina rossa ornata da una greca color oro come quella di
Garibaldi.
“Brava la mia Maria che mi sei venuta a trovare! E tu piccola Cleofe come stai? Vieni e siediti
qui vicino a me!” e indicava il terzo gradino, proprio vicino alla sua poltrona!
“Mi piaceva tanto stare lì – continuava la nonna – mi sembrava di essere la figlia del re!. Ogni
tanto “il padrone” mi accarezzava la testa e io sentivo come in sogno la voce della mamma che
raccontava, con rispettosa confidenza di noi, del mulino, del paese e delle visite di quella strega
della Castelbarco.”
Poi Ciro Santinelli faceva un cenno al cameriere che ci portava un vassoio pieno d’arance:
una vera rarità.
“Prendi quante ne vuoi! mi diceva e io guardando la mamma per avere il permesso, ne
prendevo sempre due, una per mano.”
Sarà stata l’aria rivoluzionaria e progressista che circolava a San Pietro più prepotente che
altrove per i nuovi trasalimenti socio-politici che si sarebbero poi imposti lungo tutto il ‘900, a far
maturare nella nonna Cleofe uno spiccato senso di insofferenza nei confronti di ogni ingiustizia e
sopruso specie se commessi contro le donne. Scoprì presto, e con una specie di sgomento, la
consolidata disparità femminile nel mondo: ancora non si conosceva la parola femminismo, ma lei
fu una femminista viscerale, per quell’istinto di equità violata che riscontrava quotidianamente, nei
comportamenti, nelle abitudini e nella mentalità di tutti gli uomini, anche i migliori.
Non capiva, per esempio, perché i suoi due fratelli maschi venivano mandati alla scuola
superiore dopo le elementari pur senza nessun costrutto e lei che aveva una passione sincera e
appassionata per tutte le cose che riguardavano il sapere, doveva fare la sarta. Teneva da conto i
rari giornali che capitavano in casa, leggeva con interesse e passione i libri sulla vita dei santi che
le prestava il parroco, nascondeva i libri di scuola suoi e quelli dei suoi fratelli perché sua madre
non li vendesse a scuola finita.
Le piaceva la mitologia e la storia, si esercitava nelle operazioni tanto che era diventata così
svelta che il padre spesso la chiamava nel mulino per farsi aiutare a fare i conti; fantasticava sulla
geografia, ma si confondeva sulla possibilità di rimanere attaccati ad una palla che girava da sola e
le riuscivano difficili i concetti di lontananza e di alternanza della stagioni e si confondeva sempre
fra i meridiani e i paralleli. Questi interessi che tutti dicevano non essere adatti alle femmine, le
avevano però dato un tono diverso da tutte le altre sue amiche. Moralmente limpida, niente la
stupiva e la limitava, nemmeno una conversazione impegnativa e ardita, come il lavoro delle
donne e il diritto ad esprimere le proprie opinioni. Cleofe si arricchiva via via di una garbata
autorevolezza e di una personale fermezza che mescolandosi all’innata simpatia, all’acuta
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sensibilità, alla prontezza fulminante dei riflessi, le consolideranno una seduzione spigliata e
comunicativa, non priva di una spiccata tendenza al comando.
Da giovane era agile e minuta: le piaceva cantare, recitare e ballare: a carnevale Momo, il
capo mugnaio, staccava i cavalli e col carro del mulino portava tutti a ballare: sua madre Clarice,
sua moglie Maria e le sue due figlie Cleofe e Cleomene: quando arrivavano a San Pietro, tutti si
facevano loro intorno per salutarli con deferenza e rispetto.
“La più festeggiata era la nonna Clarice, - raccontava Cleofe – perché si era fatta fin da
giovane una fama di donna ardita e coraggiosa.” Una specie di Calamity Jane che non aveva
paura di affrontare i ladri e i banditi che infestavano le campagne pesaresi. Tutti sapevano che
Clarice Baldassarri, moglie del placido Giocondo mugnaio dei Canonici, rimaneva spesso sola
quando suo marito andava ad acquistare le granaglie per il “suo padrone”. Il principe Castelbarco
Albani aveva scelto Giocondo Baldassarri per queste incombenze per l’assoluta onestà e la
grande competenza che si era fatto sui cereali: queste importanti trasferte lo tenevano lontano da
casa anche per molti giorni. Ma Clarice non aveva paura di niente e di nessuno: la sera sprangava
diligentemente le porte e le finestre di casa, metteva a letto i suoi numerosi figli – Giocondo e
Clarice ne avranno fra vivi e morti ben dieci - e si ritirava nella sua camera da letto col fucile vicino
al comodino. E se di notte, nello spiazzo silenzioso del mulino qualcosa si muoveva, fossero
uomini o animali, Clarice metteva il fucile nell’incrocio delle due persiane socchiuse e cominciava a
sparare, fino a che il fitto silenzio non tornava a tranquillizzarla. La mattina dopo le donne e gli
uomini delle case attorno andavano a chiederle ragione di tutte quelle schioppettate, ma lei li
rassicurava con l’occhio lucido di sorriso e un’alzata di spalle.
“ Avret avut na bella paura Sora Claric!” (Avrete avuto una bella paura, Signora Clarice)
“Nisciuna paura, cara la mi donina – rispondeva lei fiammeggiando con gli occhi – dle donn
an ho paura e d’iom i vag in cerca (Nessuna paura, cara la mia donnina, delle donne non ho paura
e degli uomini vado in cerca).
Tutti ridevano soddisfatti e ammirati: questa “sora Clarice” nonostante il temperamento fiero e
dirompente, considerato quasi scandaloso, era una gran donna, capace di attendere sola e senza
paura il ritorno del suo dolce Giocondo, di sbrigare tutte le “incombenze” del mulino, comandare
con polso fermo tutti i garzoni e di cantare, con voce modulata e bellissima le romanze d’opera e le
lodi a Pio IX, quando i suoi bambini avevano la febbre.
La nonna Cleofe aveva mantenuto per lei, nel cuore e nei ricordi un rispetto e una tenerezza
indelebile: da lei che veniva dalle campagne di Urbino, aveva imparato antiche storie di Duchi e di
Duchesse, di matrimoni sfarzosi e infelici, di guerre e di veleni assieme all’immagine, quasi mitica,
di un gran palazzo con due torricini alti bianchi e slanciati, che dominava tutta la valle attraversata
una sola volta, nel 1848, quando, giovanissima era venuta verso Pesaro per sposare Giocondo
Baldassarri mugnaio dei Castelbalco Albani.
Nel 1903, al mulino dei Canonici arrivò da Fano, Francesco Storoni detto Checco: anche lui
mugnaio, esperto nel battere le macine, che era un lavoro da veri specialisti.
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“ Occhi di velluto nero – ricordava la nonna con ancora una punta di eccitazione nella voce –
con sguardi lunghi, dolci e selvatici che mi facevano battere il cuore fino alle orecchie.”
Bello, bruno, di pochissime parole, quasi cupo Checco era rimasto orfano di padre a 11 anni
con cinque fratelli e una mamma da aiutare: era serio, lavoratore, obbediente e intelligente, diventò
presto uno di casa. Dormiva nel mulino con gli altri garzoni venuti da fuori , ma spesso Maria lo
chiamava a mangiare a tavola con loro, specie la domenica quando, dopo la Messa, tutti
rimanevano con i vestiti buoni e le scarpe lucide. Checco si incantava ad ascoltare i racconti della
nonna: a lui così cupo e malinconico, pareva di venir trasportato in un mondo diverso, più positivo,
più allegro, dove tutti si sorridevano e si salutavano.
Cominciò ad aspettarla, la sera all’uscita del suo lavoro di sarta: e in quei due chilometri di
strada del ritorno, da San Pietro al mulino, nel soave paesaggio piano, pezzato di toni d’ocra e
spruzzato dall’oro ancora acceso dei pioppi che l’autunno andava rapidamente sfoltendo, Checco
cominciò a raccontarle con voce morbida e intensa della sua adorata mamma Caterina, dei suoi
fratelli sempre affamati, delle sue sorelline che già sapevano cucire e pulire la casa: Caterina, per
cercare di racimolare qualche “baiocco”, andava ogni mattina a pettinare le signore aristocratiche
fanesi, lei che veniva proprio da una di quelle famiglie, i Mariotti. Tornava con pochi soldi, ma con
gli avanzi di quelle ricche cucine.
Checco e Cleofe avevano 20 anni, si innamorarono e decisero di sposarsi: lui diventò capo
mugnaio al mulino della Sacca, nel comune di Serrungarina dove nacque la loro prima figlia, Isora:
poi fu trasferito a Pesaro al mulino di San Cassiano, dove rimase, con pochi e brevi trasferimenti
occasionali, fino alla morte. Nel mulino di San Cassiano, nacque Maria la mia mamma.
La nonna Cleofe fu felicissima di stabilirsi a Pesaro: la casa sopra il mulino non era bella, ma
era grande e tutta per loro: dopo la morte di Momo avvenuta nel 1905, appena dopo le loro nozze,
Cleofe aveva preso con sé la sorella Cleomene, mentre Maria era andata a vivere con i figli
maschi.
La giovinezza della sposa fu tormentata, e non poco, dalla gelosia:
“ Checco era troppo bello – diceva la nonna – le donne lo guardavano e le più sfacciate
andavano perfino nel mulino un giorno sì e uno no, con un cartoccino di grano da macinare, con la
scusa che la farina macinata fresca era più buona. E lui sotto quella berretta floscia, aveva due
occhi che non si lasciavano dimenticare!”
La nonna, alla quale nulla sfuggiva, notò che una di queste donne rimaneva nel mulino più
tempo di quanto la macinata di quel famoso cartoccino di grano, non richiedesse.
Scelse fra i ferri e i bastoni che servivano per trasportare i sacchi, una barra che fosse
maneggevole e che potesse essere facilmente nascosta tra gonna e zinale: non appena la
sospettata entrò nel mulino, la nonna scese rapida con la sua barra di ferro ben nascosta fra le
pieghe delle gonne e si avvicinò dove il suo Checco e la sfacciata stavano parlottando. Appena
Cleofe si presentò, Checco, allarmato, le si avvicinò per sentire cosa volesse e lei, con un sorriso
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radioso e velenoso, sollevò appena un lembo del zinale e, mostrandogli la barra di ferro, gli disse
minacciosa, fra i denti:
“ Questa Checchin è metà per te e metà per quella!” Il nonno capì che Cleofe faceva sul serio
e non macinò più a nessuna donna piccole quantità di grano.
Se le si chiedeva, quando era già anziana:
“ Nonna, cosa avresti voluto fare se ti avessero fatto studiare?”
“L’avvocatessa” rispondeva, sicura di rigenerare la parola al femminile con un significativo
apporto di valore: andava spesso perfino in Tribunale ad assistere ai processi, sapeva tutto di
Bruneri e Cannella e del fosco caso Murri: facendo la spesa comprava “L’Idea Cattolica” e a volte
anche “Il Progresso” perché quella prima giovinezza sanpietrana le aveva lasciato un’ansia di
rivendicazioni e di uguaglianza sociale.
Amava la lirica e come tutti, ricchi e poveri, andava con il suo bel Checco al Teatro Rossini ad
assistere alle opere: con i vestiti più belli, quelli che lei stessa si cuciva per le grandi occasioni. Le
piacevano “Andrea Chénier”, "La Bohème” e “Tosca” che poi cantava, con una bella vocina, alla
Toti del Monte. Poi imparò a cantare “Francesca da Rimini” e nessuna musica le sembrò più bella
di quella di Zandonai!
Con il suo ombroso, taciturno e bellissimo Checco, fu vita difficile: ma una cosa li unì
indissolubilmente oltre ad un amore caldo e rissoso, una reciproca considerazione e la generosità
nei confronti di chi aveva bisogno. Checco ricordava la sua infanzia poverissima come un marchio
d’infamia e non sapeva rinunciare ad aiutare tutti quelli che si rivolgevano a lui. Nelle capaci tasche
del suo giaccotto da lavoro aveva un notes nero, tenuto chiuso da un elastico: lì segnava i soldi
che prestava, senza interessi e senza speranze di restituzione. Ogni settimana la nonna andava a
fare una spesa supplementare per alcune famiglie che abitavano a San Pietro e che erano in
difficoltà: carne, pesce, zucchero, olio, tanta farina e un mucchietto di soldi in un sacchettino di
stoffa. Partiva il garzone del mulino con carretto e cavallo alla volta di San Pietro e i nonni si
guardavano soddisfatti. Nella casa del mulino di San Cassiano non mancava nulla, ma nulla
veniva sprecato: la nonna non buttava via neppure gli stracci e le ossa (quelli della carne da brodo,
per intenderci), perché li vendeva ad un ambulante che di tanto in tanto passava sotto casa
urlando: “Stracciiii! Ossiiii!”; il ricavato veniva devoluto con una ricca aggiunta alle missioni
Comboniane.
Nel 1940, il nonno Checco morì: aveva appena 56 anni e nel suo camiciotto da lavoro la
nonna trovò il notes nero con tutti i crediti e i nomi dei creditori: vicino a tutte le cifre il nonno aveva
già scritto “requiescant”.
Da allora la nonna Cleofe visse con noi e diventò la mia instancabile intrattenitrice. Da lei ho
saputo la storia dei Castelbarco Albani e dei Baldassini, quella degli Antaldi e dei Perticari, ma la
sua storia preferita era quella di Oreste Ruggeri, delle sue 11 ville, dei suoi sei figli con nomi strani
e insoliti, dei suoi glomeruli e della sua bellissima moglie Olga che quando andava a teatro pareva
una regina.
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“Spesso andavamo a vederla entrare in teatro! La signora Olga aveva diadema con brillanti,
file e file di perle e stola di pelliccia bianca..” Le piaceva raccontare anche di Mascagni quando era
direttore del Liceo musicale:
“ Era un gran bell’uomo: giovane, con i capelli lasciati liberi senza scriminatura e senza
brillantina: portava gilet sgargianti e un “sortout” giallo, corto, e il sigaro sempre in bocca. Era un
vero rubacuori: ha tolto la pace a molte famiglie!” aggiungeva severa. Era scandalosamente e
segretamente sedotta da D’annunzio: pur così elegantemente atteggiato, baffi incollati, levrieri ai
piedi, cranio lucido e mani troppo curate, configurava forse una trasgressione così eccitante da
essere assolutamente irraggiungibile, ma con un che di squisito, di sfuggente, e di struggente…
Durante la guerra e lo sfollamento, la nonna fu la vera figura di riferimento per tutti noi:
coraggiosa, generosa e attiva, regnava incontrastata con fervidi pensieri organizzativi, sul piccolo
gineceo di famiglia formato da lei, dalla zia Isora elegante, signorile e malmaritata, dalla mia
mamma Maria bellissima e bruna come Checco e da me bambina avida e interessata di tutto: mio
padre era in Africa prigioniero degli inglesi nei campi di Gil Gil Kenya.
A proposito di gineceo ricordo una funzione alla quale le mie tre donne offrivano grande
attenzione: il bidè e dato che in casa nostra si mangiavano molto spesso le erbe di campagna costavano poco, spesso ci venivano regalate e qualche volta erano la nonna e la zia che le
raccoglievano - era sistematico che l’acqua di cottura venisse usata per fare il bidè. Quasi
un’anticipazione al successo che hanno oggi tutti i prodotti da erboristeria. C’era un turnover
preciso e gerarchico: oggi la nonna, la volta dopo (poteva essere anche l’indomani) la zia Isora e
poi la mia mamma: poi si ricominciava il giro ombrato di pudore, ma con regolarità di cura e con
certezza di un risultato rinfrescante che almeno esorcizzasse brutte malattie.
Come volle il Signore, fra ristrettezze al limite della miseria, tessere annonarie e poche
amlire, fra vestiti mille volte rifatti, lo sferruzzare della nonna per calze e maglie di lana caprina,
scatolette di piselli e caffè di cicoria, la terribile guerra finì: il ritorno di mio padre il 26 Dicembre
1946 segnò la faticosa ripresa postbellica. La nonna Cleofe mollò la presa dell’autorevolezza e del
comando, divenne più silenziosa, badando soprattutto se stessa.
Aveva imparato a giocare a canasta con abilità ed era un’entusiasta spettatrice degli
sceneggiati in TV. La mattina, dopo la Messa delle sette, si preparava il caffè, metà caffè e metà
“Vecchina” (un misto di orzo, cicoria e non so che altro) e vi aggiungeva due cucchiai di latte
condensato “Berna”; nel delizioso liquido spezzettava un panino fresco del forno Bortolotti: verso le
11 la spremuta di ½ arancia e l’altra ½ sempre allungate con l’acqua tiepida, nel pomeriggio.
Cuoca abilissima, pranzava con appetito ma era esigente e raffinata; la sera non cenava,
un’abitudine presa da giovane dopo una colica di fegato e quando d’estate l’afa le scombinava un
po’ la respirazione, prendeva la sua bottiglina di “acqua antisterica”, annusava a lungo,
riprendendosi in fretta. Pregava con gli occhi chiusi: la si vedeva muovere le labbra e far scorrere il
rosario fra le piccole dita appuntite e bianche a ritmo regolare, senza distrazioni.
Si sedeva vicino a me quando studiavo le poesie e la storia:
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“Non fa mai male imparare ancora qualcosa!”
Negli ultimi tempi, quando non cuciva più, non pregava più, e non guardava neppure la
televisione che tanto l’entusiasmava, allontanata dalla realtà e da se stessa per una specie di
frantumazione interiore, chiedeva sempre della sua mamma Maria e di essere riportata nel bel
mulino dei Canonici: poi, leggermente contrariata per non poter
mai essere accontentata,
cominciava a tracciare con il piccolo indice appuntito o sul tavolo, o sul bracciolo della poltrona o
sulle sue gambe coperte dal plaid, indecifrabili e nervosi segni, forse parole, allusive a ricordi che
non riusciva più a raccontare e che non sapremo mai.
Come per cercare di ristabilire in se stessa, i rassicuranti equilibri della memoria.