La medicalizzazione della vita, ovvero la costruzione commerciale

Transcript

La medicalizzazione della vita, ovvero la costruzione commerciale
La medicalizzazione della vita, ovvero la costruzione commerciale di realtà patologiche http://gianlucavagnarelli.wordpress.com/2009/12/06/118/ Considerazioni sul secondo numero della rivista “Salute e società” (Franco Angeli, 2009) interamente dedicato al tema della medicalizzazione della vita. Dr. House, serie TV tra le più seguite negli USA «C’erano una volta dei bambini indisciplinati, qualche adulto timido e certi signori che, calvi, portavano il cappello. Oggi tutte queste descrizioni possono essere attribuite a delle malattie‐entità con nomi, criteri diagnostici e una serie crescente di opzioni terapeutiche». Questa citazione, tratta dal secondo numero del 2009 della rivista “Salute e società”, rende bene il senso del termine “medicalizzazione della vita”. Con il termine “medicalizzazione” si intende la progressiva estensione dello sguardo medico ad ambiti che prima ne erano esclusi. La serie di articoli raccolti nel volume della rivista tenta, con il contributo di autori diversi (soprattutto sociologi), di tracciare una prima mappa di un processo che, nella società odierna, sembra essere divenuto inarrestabile. Origini e significato del termine “medicalizzazione” Come afferma Conrad, la medicalizzazione, concepita come estensione di categorie mediche ad ambiti che non erano dominio della medicina, presuppone una tendenza a patologizzare fenomeni che, in precedenza, non venivano considerati come malattie. Il desease mongering, ovvero la creazione di malattie, riguarda proprio quel processo che fa sì che ciò che prima era considerato normale divenga ad un certo punto anormale, patologico (ad esempio la timidezza che si trasforma in fobia sociale) e dunque necessitante di aiuto medico. In realtà, come ricorda Maturo, non si tratta di un fenomeno recente (già à metà degli anni settanta Michel Foucault aveva tematizzato alcuni aspetti di quella che egli definiva “medicalizzazione indefinita”), ma oggi sembra venir meno la soglia tra il miglioramento umano (human enhancement) e il patologico. “E’ possibile che in una società nella quale tutti hanno denti sani e bianchissimi, avere i denti storti e un po’ ingrigiti sia percepito come anormale, se non come sikness […]” (Maturo). Secondo Conrad, storicamente la spinta alla medicalizzazione della vita è stata il risultato di cause diverse: l’accresciuto potere e l’autorità della professione medica, l’espansione degli specialisti, l’attività dei movimenti sociali o gruppi di interesse che chiedono (come nel caso degli alcolisti) la patologizzazione di alcuni fenomeni, le attività inter o intra professionali. A questi fattori va ad aggiungersi il peso degli interessi economici che, nel mondo della sanità, a partire dagli anni ottanta sembra essere divenuto il vero fattore propulsore della medicalizzazione, soprattutto in alcuni ambiti della medicina come la psichiatria. Si pensi al caso, oggetto del contributo di Horwitz e Wakefield, della medicalizzazione della tristezza. "Qualcuno volò sul nido del cuculo" film di M. Forman del 1975 Nel loro The loss of Sadness Horwitz e Wakefield mostrano come, a partire dal DSM III, pubblicato nel 1980, sia stata involontariamente medicalizzata la normale infelicità. Notano i due autori che, se si guarda alla storia di questo sentimento, si scopre come la depressione (o melanconia) sia stata un fenomeno presente nella storia umana sin dall’antichità. “Ippocrate e gli altri antichi medici […] sapevano che gli stessi sintomi che, in taluni casi, potrebbero indicare un disturbo depressivo, in altri casi rappresentano stati normali che derivano dalla perdita di qualcosa o qualcuno” (Horwitz e Wakefield, p. 57). Il modo per differenziare la normale tristezza dal disturbo depressivo era infatti quello di distinguere tra due tipi di condizione. Veniva considerata normale la tristezza “con una causa”, come ad esempio quella che ci colpisce a seguito della perdita di una persona amata. L’altro tipo di condizione, la depressione “senza causa”, era invece considerata come un disturbo medico che, come tale, necessitava di cure. Questa distinzione ha caratterizzato anche la psicanalisi che, nel XX secolo, ha distinto tra depressioni “anormali” e depressioni “normali”, chiamando le prime “melanconia” e le seconde “lutto” e riservando solo alle prime cure specifiche. L’attuale “epidemia” di depressione, scrivono ancora Horwitz e Wakefield, anche se è il risultato di molteplici fattori sociali “[…] è stata resa possibile da una mutata definizione psichiatrica di disturbo depressivo che spesso permette la classificazione della tristezza come malattia, anche quando non lo è” (Horwitz e Wakefield, p. 62). Per la diagnosi del MDD (Major Depressive Disorder), il “disturbo depressivo maggiore”, è infatti oggi richiesto che almeno cinque di nove diversi sintomi si presentino per un periodo di almeno due settimane. Questi sintomi sono: umore depressivo, diminuzione dell’interesse nello svolgere le attività, aumento o perdita di peso, insonnia o ipersonnia, agitazione psicomotoria o rallentamento, affaticamento o perdita di energia, sentimenti di inadeguatezza o di colpa eccessivi, diminuita capacità di pensare o di concentrarsi o indecisione, pensieri ricorrenti di morte o ideazione suicidiaria o tentativi di suicidio. A questo elenco si aggiunge la precisazione che questi criteri non si applicano nel caso del lutto, purché non persistano per oltre due mesi. Come facilmente intuibile, continuano i due autori, sintomi come quelli descritti potrebbero comunemente verificarsi per un periodo superiore alle due settimane a seguito di eventi traumatici come, ad esempio, il tradimento del partner, la scoperta di una malattia potenzialmente mortale per se stessi o per una persona amata o altri eventi di questa natura. “Nel tentativo di caratterizzare il tipo di sintomi accusati come disordini depressivi senza fare riferimento al contesto in cui tali sintomi si verificano, la psichiatria contemporanea ha anche inavvertitamente definito l’intensa, normale sofferenza come una malattia” (Horwitz e Wakefield, p. 63). Il caso relativo alla medicalizzazione della tristezza è però solo uno dei numerosi esempi che vengono riportati nei vari contribuiti della rivista. Rossella Ghigi, ricordando come i chirurgi estetici, da un secolo a questa parte, abbiano portato avanti la costruzione sociale e discorsiva della bruttezza come patologia, evidenzia il processo che ha portato alla sua progressiva medicalizzazione. «La cellulite – scrive – non è stata “scoperta” che nel 1873, ed è stata diffusa dai giornali femminili prima in Francia e poi negli Stati Uniti in concomitanza con la promozione di prodotti per dimagrire, massaggiare e depurare il corpo: prima di allora non era che carne femminile adulta, non riconosciuta nella sua alterità rispetto al resto del corpo, né definita come un problema medico» (Ghigi, p. 79). Kristin Barker evidenzia, infine, come negli ultimi anni si assista sempre più alla medicalizzazione della devianza degli utenti dei servizi sociali perché questo è un rimedio rapido e politicamente efficace, per risolvere i complessi problemi che affliggono gli assistiti. Come afferma Quaranta, questo bio‐riduzionismo, riconducendo sempre più l’origine dei problemi alla sola dimensione individuale, non fa altro che opacizzare il peso dei fattori sociali contribuendo ad una sostanziale depoliticizzazione dei fenomeni. ER medici in prima linea, altra famosa serie TV USA Come ricordato in precedenza, la medicalizzazione della società, essendo il risultato di una molteplicità di fattori, non può essere spiegata in modo monocausale. Tra i vari fattori che la determinano occorre infatti considerare anche la pressione esercitata dai consumatori (auto‐medicalizzazione) che riconducono sempre più i loro guai a problemi di carattere medico, chiedendo specifiche soluzioni ai loro bisogni. Essi, dunque, non possono essere considerati meri soggetti passivi di questo processo. Pur tuttavia, dall’insieme dei contributi contenuti nel volume di “Salute e Società” non si può non notare come, a partire dalla metà degli anni ottanta, il ruolo svolto dal libero mercato e dalle politiche liberiste sia divenuto un fattore preminente della medicalizzazione. Conrad fa notare come nel mondo post‐Prozac l’industria farmaceutica sia diventata sempre più aggressiva nel promuovere i propri prodotti. Joshua Murray ricorda che nel 1981 “[…] il Bayh‐Dole Act ha permesso alle aziende farmaceutiche private di registrare i brevetti di scoperte finanziate pubblicamente; poi, nel 1984, l’Hatch‐Waxman Act ha ridotto la concorrenza fra le grandi aziende farmaceutiche, estendendo la durata dei brevetti per i farmaci” (Murray, p. 208). Questi atti del Congresso degli Stati Uniti hanno determinato un’esplosione dei profitti delle case farmaceutiche. “Dal 1960 al 1980, le vendite di farmaci con obbligo di prescrizione diretta ai consumatori sono state piuttosto stabili rispetto al prodotto interno lordo, ma dal 1980 al 2000 sono triplicate” (Murray, p. 208). La possibilità poi di pubblicizzare direttamente i farmaci ai consumatori ha contribuito ad un forte incremento nella spesa sanitaria pubblica. Gli spot pubblicitari, ricorda ancora Murray, hanno determinato la crescita dei costi perché hanno generato un aumento nella prescrizione dei medicinali più costosi. Un ulteriore fattore della medicalizzazione, scrive Conrad, è stata l’introduzione del managed care, la gestione di tipo manageriale della sanità che ha determinato, ad esempio, la diminuzione dell’ammontare della copertura sanitaria per la psicoterapia di individui con problemi mentali, spesso troppo lunga, rendendo invece molto più facile il pagamento dei farmaci psicotropi. A queste scelte politiche va ad aggiungersi il mutato clima culturale che sembra indurre ad un maggior uso/abuso di farmaci per migliorare le proprie perfomances. Smits ricorda come Trudy Dehue, autrice de L’epidemia della depressione, pur guardandosi bene dal dare una spiegazione unidimensionale del fenomeno, suggerisca che sono proprio le norme morali della cultura competitiva neoliberale ad ordinare all’individuo di prendere in mano il proprio destino. “L’auto‐
espressione e l’auto‐realizzazione sono considerati come i beni e i doveri più importanti; sempre più persone si ritengono unicamente responsabili riguardo al loro progetto di vita e al loro successo” (Smits, p. 112). Tale dettato neoliberale, ricorda ancora Smits, potrebbe essere una importante causa dell’epidemia della depressione. In questa ottica Quaranta sottolinea come l’uso sempre più diffuso, soprattutto in ambiti particolarmente competitivi, di farmaci per aumentare le proprie capacità cognitive, consenta la produzione di soggettività compatibili con l’ordine sociale: esseri umani in grado di superare i limiti fisiologici della fatica per rispondere alle crescenti richieste della vita sociale. La medicalizzazione della vita, o biomedicalizzazione (come alcuni studiosi suggeriscono di definirla in ragione degli effetti prodotti dalle nuove tecnologie e dai nuovi processi sociali), sembra essere dunque non solo un processo in continua espansione, ma anche un fenomeno sempre più condizionato da interessi economici che si traducono in un’inquietante costruzione commerciale di realtà patologiche.