107 10 Categoria Saffo C`è anche un`altra Saffo
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107 10 Categoria Saffo C`è anche un`altra Saffo
10 Categoria Saffo C’è anche un’altra Saffo, oltre a quella che abbiamo cercato nelle sue parole. Una Saffo prigioniera del suo stesso mito di alunna delle muse e in quanto tale proiettata all’esterno, icona della sua storia. Nei suoi carmi, lo abbiamo visto, aveva cantato il legame stretto, per non dire esclusivo, con Eros e Afrodite, e aveva anche dato corpo di parole, ancora nel nome di Afrodite, all’amore per le fanciulle del suo thìasos. Questo non bastò a fissarne una figura ancorata alla verità oggettiva dei suoi versi, e si tradusse invece in una fioritura di escrescenze inventive che, se non negavano la “verità” di cui dicevamo, di fatto assai spesso la stravolgevano, fuorviandone anche l’interpretazione. Al riguardo si realizzò, nell’immaginario degli antichi commentatori, almeno a partire dal quarto secolo a. C., una vera e propria discrasia tra la figura della poiétria, la poetessa inimitabile mai messa in discussione nella sua qualità di creatrice di versi, e la donna che materialmente produsse la celestiale misura del perfetto poetico. Si tenga conto che nel mondo greco è abituale che il poeta si veda anche “ripetuto” nell’icona della sua figura fisica: Omero fu vecchio e cieco perché aveva visto assai più che l’occhio mortale, come 107 Sofocle, nella graduatoria dei tre tragici, fu “perfetto” nella sua misura umana come “perfetti” erano i suoi personaggi, e via dicendo. Nel caso di Saffo avvenne qualcosa di paradossale. Da un lato non poteva evitarsi, anche per la singolarità della sua esperienza insieme poetica e umana, la ricerca di una corrispondenza tra la poetessa che canta l’amore e la donna che si misura continuamente col bello. E quindi la donna non poteva che essere bella anche lei. Dall’altro la fama malevola, certo influenzata dai comici ma anche orientata dalla dirompenza di quel tipo di amore, la volle invece, in un rovesciamento radicale del criterio di cui sopra, decisamente brutta, almeno nella concezione che del brutto ebbero i Greci: mikrà kài mélaina, minuta di statura e di carnagione nerastra, per citare una delle sue fonti più ricorrenti, Massimo di Tiro. Massimo visse al tempo degli Antonini, alla fine del secondo secolo dopo Cristo. Ma non fu certo lui ad inventarsi questo ritratto riduttivo di Saffo, anche se non sappiamo quando esattamente si fissò questo cliché così negativo. Uno scoliaste di Luciano, pressappoco dello stesso periodo del filosofo di Tiro, ci aggiunse anche la peluria deformante nel corpo minuto. Massimo, a onor del vero, non mancò di ricordare, nel luogo in cui la descrive piccoletta e di carnagione scura, che per Platone essa era stata kalè, bella: che era un andare contro quell’opinione che da tempo si era diffusa. Ma mentre omette di dire che anche altri (Ateneo ed Eustachio, suoi contemporanei) l’avevano definita kalé, sente il bisogno di precisare il motivo del giudizio di Platone, che lui ben conosceva in quanto filosofo platonico. Esso aveva la sola giustificazione, dice, nel godimento che al sommo filosofo aveva procurato la leggiadria dei versi di Saffo. Quasi a dire che lui invece non si lasciava condizionare dalle parole, sia pure sublimi, e aveva informazioni che andavano ben al di là della suggestione estetica. 108 E ci fu anche di peggio: se l’apologista Tatiano, cristiano e dunque ferocemente ostile a tutta la morale pagana, nella sua Oratio ad Graecos la considerava gùnaion pornikòn erotomanès, specie di ninfomane dai costumi scandalosi, il dubbio sulla moralità di Saffo doveva essere ben più antico se già qualche secolo prima il grammatico Didimo, vissuto nel primo secolo a. C. e già ricordato per lo stizzito giudizio di Seneca, era fortemente impegnato a chiedersi, in uno dei suoi innumerevoli libri, se Saffo non fosse stata per caso una prostituta a tutti gli effetti. Opinione peraltro abbastanza ricorrente nelle pieghe del discorrere di lei. Anche Ovidio, come vedremo, ci aveva almanaccato sopra, sia pure alla sua maniera. E Ovidio, come sappiamo, attingeva a piene mani alla tradizione greca, tanto più se impertinente. Va da sé che nessuna di queste definizioni ha un minimo di fondamento storico. Né sarebbe serio contrapporle, sia pure per negarne l’attendibilità, all’unica descrizione fisica che ci sia rimasta di Saffo, quella già citata del contemporaneo Alceo. Che sicuramente la conobbe e così si rivolse a lei: Iòplok’àgna mellikhòmeide Sàpfoi, “Dai capelli viola, divina, che ridi dolce come il miele, Saffo”. E neanche sarebbe serio dare credito, a parte le incongruenze storiche, a leggende di amori avuti o respinti con poeti del suo tempo: con lo stesso Alceo, con Archiloco, con Ipponatte. La verità, che fa giustizia dell’intero armamentario leggendario, è che Saffo totalizzò in sé il tema dell’amore, fino a divenirne icona per un tempo che pure aveva visto i migliori tra i suoi esponenti non alieni dal fare poesia erotica: Anacreonte e Alcmane su tutti, ma anche gli stessi Archiloco e Alceo. E questo non fu dovuto solo alla singolarità anche dirompente di una poetessa donna che parlava di amore per altre donne, ma al fatto che mai nel mondo greco, né prima di Saffo né dopo di lei, il tema dell’amore in quanto tale, colto nel suo far109 si accadimento reale, era stato così intensamente vivisezionato in ogni sua parte, analizzato in ogni sua componente. Più che poi nello stesso Platone. Che affronta sì il problema nei suoi dialoghi “erotici”, ma come parte di un discorso filosofico complessivo: tassello di un edificio, sia pure tassello fondamentale. In Saffo la scelta tematica fu più radicale proprio perché unica, onnicomprensiva. Per lei non ci fu altro che Eros, nulla fu preferibile al rapporto con Afrodite. A voler fare qualche paragone, e senza alcun intendimento di stabilire legami o confronti peraltro antistorici, nei carmi di Saffo si concretizza per la prima volta, come vicenda interna di una poetessa e insieme occasione di analisi non casuale ancorché condotta in linguaggio poetico, il discutere esclusivo d’amore e della sua natura. Se pensiamo al solo frammento 31, non è difficile convenire sul fatto che i “sintomi” dell’insorgenza amorosa sono anche, per l’appunto, una rivelazione della sua “natura”. Non è un caso, lo abbiamo già notato ma vale la pena di insisterci, che nel luogo citato del Fedro di Platone Socrate si rifaccia proprio a Saffo “la bella” per indicare qualcuno più esperto di Lisia in materia di eros. Questo non c’era mai stato prima di lei, e solo poche altre volte si sarebbe verificato, in termini così esclusivi, nelle epoche successive. Nel mondo latino lo avrebbe fatto, assai più dello stesso Catullo che pure attinse a Saffo a piene mani, il monotematico Ovidio, col concetto dell’amore lusus, gioco; nel grande arengo poetico del medioevo cristiano, che conosceva Saffo solo di nome e che sul tema dell’amore e della sua natura si impegnò sostanzialmente per secoli, avrebbero scavato in esso la grande lirica provenzale, poi la Scuola siciliana col notaio Iacopo fino allo Stil novo e a Dante e poi a Petrarca. Con quel che ne seguì nei tempi a venire. Saffo è insomma, lei vissuta nei primi secoli della cultura greca, l’antesignana di un argomento poetico che avrebbe 110 marcato per sempre la cultura occidentale. Non ha solo scritto i più sublimi tra i versi, ha anche creato un genere. Un motivo in più per dare ragione a Strabone, che la definì thaumastòn ti chréma, una cosa stupefacente. Nasce da questa stessa matrice l’altra leggenda che connotò la figura di Saffo, quella del suo amore non corrisposto per Faone conclusosi col disperato salto in mare dalla rupe di Leucade. La storia è nota, e Palefrone ce la racconta in forma assai chiara. Faone, dice, era un anziano battelliere di Lesbo assai stimato per la sua morigeratezza e per il fatto che non chiedeva nessun compenso ai clienti poveri che salivano sulla sua barca. Un giorno Afrodite, assunta la forma di una vecchia, gli chiese di traghettarla dall’altra parte, cosa che Faone fece prontamente. Poi, come al solito, non si fece pagare. La dea lo compensò trasformandolo in un giovane bellissimo. Palefrone non aggiunge altro, ma le altre versioni della storia ci mettono il particolare di una pomata miracolosa donata dalla dea al generoso traghettatore. Bastava spalmarsela addosso e tutte le donne si innamoravano di lui. Per questo suo successo era diventato, ovviamente, superbo e arrogante. Di lui, racconta ancora Palefrone, si innamorò anche Saffo che, a suo dire, “cantò spesso il suo amore” per il bel barcaiolo. Che avrebbe potuto essere la notizia più importante dal punto di vista della conoscenza di Saffo, solo che avesse avuto il supporto di un pur minimo riscontro. Che Palefrone per primo avrebbe potuto (e dovuto) fornire. Cosa che invece non fa. Nessuna parte dei frammenti, d’altro canto, mostra un qualche legame con Faone, peraltro oggettivamente estraneo, anche inteso come “personaggio”, al mondo culturale di Saffo. Strabone, vissuto a cavallo tra il primo secolo a. C e il primo d. C., ci informa meglio sulla vicenda raccontandoci la fine della storia com’era nota sin dai tempi del grande poeta co111 mico Menandro: Saffo, ardente di desiderio ed evidentemente non corrisposta dal giovane Faone, si getto giù in mare dalla rupe di Leucade, dove sorgeva un tempio di Apollo che, si diceva, aveva la virtù di porre fine agli amori. Che Saffo non fosse corrisposta da Faone per la sua “bruttezza” Strabone non dice, in verità. Anzi appare chiaro che lascia a Menandro la responsabilità del salto dalla rupe. Ma non è difficile immaginare che nel formarsi della leggenda dovette anche intervenire la fama della donna piccoletta e di carnagione nerastra che già accompagnava la malcapitata poetessa. Anche qua l’incongruenza è somma, a misurarla col mondo di Saffo. Lasciamo stare la bruttezza e riflettiamo un istante sul suicidio. Sappiamo bene che lei, se anche qualche volta “crede di morire”, in realtà cantò la vita “bella” vissuta sotto le ali di Afrodite, come abbiamo visto. Il tema della morte vera non le apparteneva. La stessa vecchiaia non è ancora la morte. Aristotele, che di poesia e di poeti si intendeva e non si dilettava ad inventare leggende, aveva scritto nella sua Retorica che per Saffo la morte era kakòn, un male. Lo avevano sentenziato gli dei. Che, era l’argomento della poetessa, avrebbero scelto di morire se la morte fosse stata kalòn, una cosa bella. Dicendo questo Saffo polemizzava con certo catastrofismo pessimista che era nelle corde dell’uomo greco, e avrebbe poi trovato echi in Mimnermo e in Solone oltre che in Pindaro e nei tragici. Era dunque impensabile che si fosse suicidata, quale che ne potesse essere il motivo. Altri autori sostenevano, per superare l’incongruenza e insieme per spiegare la storia di Faone – che nella vulgata si concludeva comunque con la morte per suicidio in mare di una donna di Lesbo non ricambiata – che non Saffo la poetessa, ma un’altra Saffo di Lesbo aveva amato fino al salto dalla rupe 112 il bel barcaiolo. Magari una psàltria, insinua Suda, una citareda che portava lo stesso nome della poetessa. Lasciamo perdere le altre varianti, la più simpatica delle quali potrebbe essere quella raccontata da Cràtino, secondo la quale Afrodite in persona si era innamorata di Faone e lo aveva nascosto in mezzo alle lattughe. Ortaggi decisamente cari alla dea perché in mezzo ad esse, come a detta di Ateneo avevano narrato Callimaco ed Eubulo, si era acquattato il bellissimo Adone. Ahimè inutilmente, quando fu inseguito e sbranato dai cinghiali mandatigli contro da Artemide. Il naturalista Plinio tenta addirittura una spiegazione “scientifica” dell’amore di Saffo per Faone, che attribuisce al potere di una pianta miracolosa, l’eringe, la cui radice ha la forma di un sesso doppio, maschile e femminile: se un maschio, spiega Plinio, si accosta a degli uomini (ovviamente con la radice dell’eringe in mano) diventa sessualmente appetibile. Ecco perché Faone di Lesbo, dice nel ventiduesimo libro della sua Naturalis historia, fu amato da Saffo. Ma non è del tutto chiaro, né Plinio si pone il problema, chi dei due si fosse procurata la portentosa eringe. Che era raro inventu, difficile da trovare, come il più profumato tra i tartufi.. Si capisce bene che la bella storia non poteva sfuggire alla penna di Ovidio, che la trattò in una delle più note Heroides, la quindicesima, mettendone insieme tutti gli elementi fin qui richiamati. Ma nell’universo tutto eros del poeta latino in cui il “fatto d’amore” valeva per se stesso, dato oggettivo poeticamente trattabile alla stregua di qualunque altra storia di intrecci amorosi, c’entrasse o non c’entrasse il mito, Saffo non è più, neanche per un istante, la poetessa che abbiamo conosciuto dai suoi carmi. Ora è soltanto un personaggio del mondo ovidiano con addosso la fama negativa di aver amato con lascivia le sue allieve, non sine culpa le fa dire il poeta latino, e tutto il peso del mito posticcio di donna innamorata cui diffi113 cilis formam natura negavit ( cui la natura maligna negò la bellezza), brevis e non candida (piccoletta e di carnagione non chiara): dove le litoti sono un atto estremo di galanteria del poeta, che è anche uomo di mondo, nei confronti della poetessa straordinaria pur coi suoi difetti. Che è però anche donna che non si dà pace per l’indifferenza dell’uomo che disperatamente ama, determinata a morire per questo amore. Eletta, unica figura storica in un’opera dedicata a personaggi femminili mitici, ad eroina impegnata in un ruolo di patetismo estremo, come le altre eroine, ciascuna nel suo mito: Arianna Penelope Briseide Medea eccetera, tutte protagoniste di amori ardenti per eroi famosi. Amori difficili sempre, talvolta anche finiti in tragedia. Fu questa la Saffo che il Rinascimento conobbe dopo il lungo silenzio del medioevo, recuperandola dal rifiorire degli studi classici. A questo punto Saffo non era più lei, era ormai diventata una categoria dello spirito. E lo sarebbe rimasta fino a tutto il settecento e oltre, quando la filologia, con l’ampliarsi della conoscenza dei suoi testi attraverso i papiri via via venuti alla luce lungo l’ottocento nelle sabbie di Ossirinco, ma anche con l’avvento della metodologia critica più rigorosamente storica, non avrebbe liberato dalle incrostazioni del tempo e rivelato al mondo della cultura la vera Saffo. L’altra, quella del mito innalzata da Ovidio a categoria dello spirito, sarebbe rimasta per l’appunto una categoria dello spirito: pronta a svolgere questo ruolo tutte le volte che un poeta o un uomo di teatro o un narratore più o meno ispirato avessero avuto bisogno di una figura capace di interpretare, al di là dell’oggettività dei fatti, o il loro piacere di immergersi dentro un’Arcadia di belle avventure sentimentali, o il loro proprio e individuale dramma esistenziale. O un’idea qualsiasi di don114 na tanto “libera” dai condizionamenti della morale corrente quanto posseduta dalla devastante passione amorosa. Come avvenne per il John Lyly di Sapho and Phao in età elisabettiana o per l’Alessandro Verri delle Avventure di Saffo nell’ultimo settecento o per il Leopardi romantico dell’Ultimo canto o, nel secolo scorso, per il Pavese di Schiuma di mare, nei Dialoghi con Leucò. Trovatigli accanto quando si suicidò. O, ancora più recentemente, ne Il salto di Saffo di Erika Jong, trasposizione in chiave tutta hollywoodiana della figura “scandalosa” della poetessa di Lesbo. Per dire solo di alcuni. Ma qui parlare di Saffo condurrebbe a parlare di Lyly, di Verri, di Leopardi e di Pavese, oltre che di Erika Jong. E solo di loro. Che sarebbe fare un torto a Saffo e in ogni caso non era negli intenti di questo libro. 115 1. Ad Afrodite Dal trono variopinto, Afrodite immortale, figlia di Zeus, ti invoco (se anche lo so, intrecci inganni): non tormentarmi più l’anima, signora, con angosce e affanni. E invece qui vieni, se anche altre volte di lontano udisti le mie preghiere, e le ascoltasti. Via dalla casa del padre, tutta d’oro, venisti sul carro bardato: belli ti conducevano gli struzzi veloci sopra la terra nera e fitte agitavano le ali immersi nell’aria. E giunsero, in un baleno. Ridevi beata nel volto immortale e mi chiedesti di che soffrivo, perché ancora ti chiamavo, che altro ancora volevo nel mio cuore folle: “Chi debbo convincere al tuo amore? Chi ti offende, Saffo? 123 Ma se fugge ti verrà dietro, se non accetta regali te ne farà lei, se non ti ama presto ti amerà: voglia o non voglia”. Anche ora vieni. Dai tormentosi affanni liberami. Quanto a me il cuore comanda che si compia, tu compilo: combatti al mio fianco tu stessa. 1. V. 124 2. Il tempio e il boschetto Lasciala Creta, e qui vieni, in questo sacro tempio cui tutt’intorno è un boschetto di meli, e altari odorosi d’incenso. Fresca risuona tra i rami l’acqua, ombra di rose tutto il luogo avvolge, sonno leggero dalle foglie smosse discende. Nel prato cavalli tra i fiori di primavera si pascono e miele spirano brezze leggere. Qui delle bende liberati, e in calici d’oro mesci, Cipride, nettare gioioso di feste. Come sai tu. 2. V. 125 3. Il fratello scapestrato Incolume, Cipride e Nereidi, fatemi tornare il fratello. In ciò che il suo cuore brama contentatelo. Li cancelli tutti i suoi errori, e gioia finalmente sia agli amici, ai nemici dolore (ch’io mai non abbia nessun nemico). Felice la sorella del suo onore renda, dal cuore angoscia tolga a chi sinora ha afflitto. Con suo dolore. ...................................... 5. V. 126 4. Dorica ....di Dorica..... ......................... ma è giusto che paghi per la sua arroganza.......... ......................... essere come i giovani...... .......................... 7. V. 5. arcigna ............................. più arcigna ancora potrebbe Cipride trovarti, né Dorica vantarsi potrebbe più dicendo che un’altra volta egli venne all’amore. 15. V. 127 6. Amava Qual è la cosa più bella sulla terra nera? Una schiera di cavalieri? Di fanti? Di navi? Ciò che tu ami, io dico. La prova? La più bella di tutte le donne lasciò il marito, nobilissimo lui, Elena lei. Si mise in mare e fuggì a Troia. Credi che alla figlia abbia pensato? Ai genitori? Amava, e si affidò a Cipride. …………………………….. ………………….. e io a chi penso ora, se non ad Anattoria? Lontana? È splendido il suo modo di camminare, lampi di fuoco nel suo sguardo. Altro che carri di Lidi, o schiere di fanti in armi. 16 V. 128 7. Invocazione ad Era Vienimi accanto Era veneranda, che bella i re Atridi invocarono. Superate prima prove innumerevoli a Troia sbarcarono, ma tornarne non poterono prima di avere Zeus e il figlio di Tiona invocato, come sempre è stato. Dovrò fare le stesse cose per avere l’amore di quella bella ragazza? 17 V. 129