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Ti do la mia giovinezza
Con cosa e con che Mircea Cantor ci dà la sua giovinezza come appare nell’opera al neon Ti do la mia giovinezza, che è
anche il titolo, sia dell’opera sia della mostra? Naturalmente con opere d’arte, affrontando così un tema, anzi temi
originari come il dono e la giovinezza.
Già nascere è un dono alla vita e Gesù diceva che “Vi è più gioia nel dare che nel ricevere”, mentre Dominique Lapierre
che: “Tutto ciò che non viene donato va perduto”. Marcel Mauss nel suo saggio sul dono del 1923, per molta parte
ancora inossidabile, sosteneva che il dono è un fatto sociale totale, un agente di libertà e per questo pure un produttore
di simbologia e quindi perfetto per l’arte, che è essa stessa una grande creatrice di simboli. Così l’artista Cantor con
l’arte ci dona la giovinezza, non quella fisica, ma dell’arte che è antica quanto il mondo, perché essa, l’arte, lavora per
l’eternità e quindi per fermare il tempo, facendolo restare giovane e infinito. Si badi bene, qui non parliamo di biologia, ma
di sensibilità, di poetica e non di anni o di età: per cui ci sono persone, poetiche di ogni tempo che restano eternamente
giovani e questo non ha prezzo, come dice un proverbio italiano per cui: “Nessun soldo può pagare la gioventù”, o come
ci fanno musicalmente sentire Robert Schumann con “Tutto ciò che ha giovinezza, quindi futuro, troverà corrispondenza
nel mondo e vi riecheggerà” oppure Jim Morrison per cui: “I giovani adorano ciò che è stato da sempre celebrato: la
gioia di vivere, la scoperta di se stessi, la libertà”; la bella intelligenza di Kafka ci dice invece che: “La giovinezza è felice,
perché ha la capacità di vedere la bellezza. Chiunque sia in grado di mantenere la capacità di vedere la bellezza non
diventerà mai vecchio”.
Dono della giovinezza poetica e con essa libertà, gioia, bellezza, futuro che sono impagabili, come sottolineano queste
citazioni. In questo caso è il dono poetico e spirituale che ci fa Mircea Cantor con una mostra impeccabile costruita su
tre momenti specifici e collegati, su idee passate, presenti e future come per il futuro sono state pensate le opere Future
Gifts che, in questo caso, sono una sapiente rielaborazione di un’istallazione prodotta per una mostra del 2008 presso la
Mucksarnok Kunsthalle di Budapest, Seven Future Gifts composta di 7 sculture in cemento simili ma di dimensioni
diverse. Oggi per Magazzino a Roma, Cantor propone 21 opere in tre gruppi ognuno composto di 7 sculture uguali per
dimensione, ma di forme, materiali e colori diversi: cemento grigio, marmo nero e marmo bianco. In primis, la scelta di
queste materie crea una relazione sull’idea della forma come costruzione e come estetica in un rapporto tra passato e
presente, tra antico e moderno, essendo il cemento un materiale caratterizzante la modernità come il marmo lo è per
l’antichità. Perciò, si tratta di materie non neutre ma simboliche di epoche diverse, che hanno dato vita a differenti
narrazioni, dove il primo è inventato dall’uomo come molte cose moderne, mentre il secondo è creato dalla natura: difatti
il cemento si fabbrica e il marmo si cava. Tuttavia, la cosa interessante è che questi materiali non sono utilizzati per
creare dei pieni, ma per circoscrivere il vuoto, essendo le sculture costituite solo dal nastro con fiocco che avvolge il
pacco dono che qui è assente, così che il nastro-fiocco serve a contenere il vuoto come nella migliore tradizione
minimalista del moderno. Certo quest’ultima non avrebbe mai permesso di essere infiocchettata, ripetendo all’infinito la
stessa geometria, Brancusi, mentre il fiocco del pacco-dono serve a contraddire tutto questo.
Inoltre in Italia e
soprattutto nel Centro-Sud un pacco vuoto è un “pacco”, dove “dare un pacco”, “fare un pacco” sta proprio a significare
che si è data una fregatura, addirittura per estensione può essere attribuita a una persona che non mantiene la parola
data, quindi sta a significare un imbroglio, perché all’apertura il pacco contiene cose diverse da quello che ci si aspetta, o
perché vuoto. Ovviamente in questo senso il pacco non ha a che fare col dono, ma con la verità che è cosa che
comunque lo accomuna con il pacco dono; quindi “pacco” finisce per essere anche un dispositivo discorsivo che
stabilisce una relazione vero-falso, verità-menzogna. Per ciò il pacco è anche totemico, in molte occasioni un organismo
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a tempo, non tanto come pacco bomba, ma nel senso, pensiamo a Natale, che sta lì per un certo tempo immobile
aspettando un momento preciso per poter essere aperto, per rivelare il suo contenuto e quindi la sua verità che proprio
per questo è una verità, o una menzogna futura. Allora il pacco è un attivatore di desiderio che non sappiamo se e come
sarà appagato, perché questo lo scopriamo solo quando apriamo il pacco, quando sciogliamo il fiocco-nodo, quando
togliamo il nastro e vediamo cosa c’è dentro. Un senso e una tradizione su cui hanno riflettuto molti artisti da Man Ray,
con l’Enigma di Isidore Ducasse fino a Christo che ne ha fatto una cifra e un’estensione territoriale, a Warhol a Koons e
tanti altri. Tuttavia, mai nessuno si era spinto così in là da ridurre il dono solo al nastro-fiocco che però non si potrà mai
sciogliere, non tanto materialmente, ma perché non necessario, perché è come se lo fosse, in quanto qui il solo nastrofiocco legato è una parte che sta per il tutto. Da solo basta a dirci che esso contiene un pacco e che dentro a questo ci
dovrebbe essere qualcosa; ma se noi non possiamo aprire un pacco non sapremo mai cosa c’è dentro. Allora non
potendo sciogliere questo nastro, benché non vediamo niente dobbiamo agire come quando ci danno un pacco
impacchettato e infiocchettato, dove prima di aprire cerchiamo d’immaginare cosa c’è dentro. Per questo l’opera si
chiama Future Gifts, perché solo in futuro potremmo sapere cosa c’è in quella scatola reale o immaginaria e piena di
vuoto circoscritto dal nastro con fiocco. Per questo ci sentiamo con Cantor di aggiungere alla socialità e libertà del dono
di Mauss che, nel bene e nel male, un dono è sempre un contenitore di futuro. Un futuro, proprio perché sconosciuto,
incerto e fragile, da proteggere pure nella relazione con il passato, come in L’A.M. della mia vita, altra opera della mostra
consistente in un piccolo recinto angolare-circolare composto di tre barre di ferro orizzontali e sette verticali a punta,
dove su una sta in equilibrio una piccola moneta d’oro antica. Come il nastro del pacco anche la cancellata è una
chiusura, un limite, un marcatore di confini tra un dentro e un fuori e un dispositivo del vedere, o meglio dell’intravvedere,
ma a differenza del nastro che chiude il pacco e quindi racchiude un dono, un cancello, una recinzione delimita una
proprietà e una separazione fra noi e gli altri, insomma mentre il dono è comunque per l’altro, il recinto esclude l’altro. Tra
l’altro, qui l’abilità poetica dell’artista sta nel collocare la moneta d’oro in bilico sulla punta della cancellata, tra il dentro e
fuori, facendo di questo tesoro metaforico e reale il punto di equilibrio della relazione tra esclusione e inclusione. Tuttavia
ciò non è dovuto a una programmazione, ma alla casualità del dove cadrà la moneta in bilico e quindi a chi apparterrà
questo tesoro. Il valore è quindi un fattore instabile come lo sono i confini, continuamente ridisegnati proprio a causa
delle lotte economiche; confini di cui questo soldo, in bilico su un piccolo recinto di sette barre verticali e tre orizzontali, è
testimonianza.
Ecco il numero 7 tornare e unirsi al 3: due numeri come l’oro altamente simbolici, perché 7 sono i cieli dell’antichità, e 3
sono le grazie, 7 sono i colori dell’arcobaleno e 3 i colori fondamentali, 7 sono i re e i colli di Roma e 3 la trinità cristiana,
7 sono gli attributi di Allah e 3 è la prima manifestazione dell’Unità nell’Islam, 7 sono gli dei della felicità del Buddismo e 3
il numero della conciliazione del conflitto, 7 sono i Chakra e 3 il numero della creazione nell’Induismo, 7 è il terzo numero
primo divisibile solo per se stesso e perché 7 e 3 come l’oro sono simbolici della perfezione a cui ogni futuro nell’oggi
sembra tendere; un oggi e un domani giovane, fragile e incerto di cui già nel rinascimento Lorenzo de’ Medici
poeticamente cantava: “Quant’è bella giovinezza, / che si fugge tuttavia! / chi vuol esser lieto sia: di doman non c’è
certezza”.
Giacinto Di Pietrantonio
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