Il Signore degli Anelli di Peter Jackson (2001-2003)

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Il Signore degli Anelli di Peter Jackson (2001-2003)
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Il Signore degli Anelli
di Peter Jackson (2001-2003)
di Andrea Monda
Uno dei film che la maggior parte degli studenti delle classi superiori ha visto è senz’altro Il Signore degli Anelli, trasposizione cinematografica, in tre episodi, realizzata dal
regista neozelandese Peter Jackson, del capolavoro letterario dello scrittore cattolico
J.R.R.Tolkien. Apparso cinquant’anni fa in
Inghilterra questo libro singolarissimo (come definire questa favola di oltre 1200 pagine? un romanzo epico? un poema fantasy?) ha venduto milioni di copie diventando, probabilmente, il libro più letto al
mondo dopo la Bibbia.
Era quindi inevitabile che il cinema si occupasse di questa storia che, ai fini dell’insegnamento della religione cattolica, si rivela
quanto mai preziosa e feconda. Sul messaggio cristiano racchiuso nel romanzo di
Tolkien ormai si sono occupati diversi critici
e saggisti e sarebbe lungo elencare le opere
critiche sotto questo aspetto più interessanti.
Far leggere tutto il romanzo agli studenti è
ovviamente improponibile; anche sotto questo aspetto il film (su supporto VHS o, ancora meglio, DVD) permette un uso snello ed
efficace di questa storia profonda quanto avvincente. Anche la visione dell’intera trilogia
cinematografica non è praticabile: oltre 10
ore di spettacolo sono troppe. Proprio per
questo nel presente articolo verranno presentate solo due sequenze dei tre film, tra loro strettamente collegate, che rappresentano,
a parere di chi scrive, due momenti “centrali”
della storia, ricchi di significato e di spunti
interessanti ai fini dell’IRC.
Gli Hobbit, più santi che eroi: umiltà e
pietà
La prima sequenza è tratta dal primo film
della trilogia, intitolato La Compagnia
dell’Anello. Innanzitutto è necessaria una
brevissima riflessione preliminare sul senso profondo della storia inventata da
Tolkien che già ad un primo esame superficiale denota la sua “originalità cristiana”. Al contrario di tutti i grandi poemi
epici del passato, Il Signore degli Anelli
non racconta di una conquista (o ri-conquista) di un tesoro rubato o di una patria perduta, non c’è Ilio, Itaca o un Sacro
Graal da cercare, trovare e riprendere: qui
il tesoro (l’Anello, malefico talismano del
Potere) è già a disposizione dei protagonisti che dovranno fare un lungo viaggio
(classico topos letterario) non per prendere, quanto per perdere. La ricerca non è
per affermare e conquistare, ma per rinunciare. Ecco perché dove i “grandi” falliscono, sono i piccoli hobbit a riuscire
nell’impresa, sarà Frodo infatti a portare
l’Anello fino al Monte Fato, l’unico luogo
dove può essere distrutto, un’impresa
molto ardua, perché perdere è più difficile che conquistare. Per un’impresa del genere non servono grandi virtù fisiche o
mentali; gli eroi di Tolkien non sono poi
così tanto “eroici”, ciò che serve è un cuore semplice e la disponibilità a mettersi a
servizio di un disegno più grande, cioè
che serve è la fede in una Provvidenza che
guida la storia umana.
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La prima morale del romanzo può essere
quindi facilmente rintracciata nell’Inno di
Giubilo di Matteo 11,25: «Ti benedico o
Padre, perché hai tenuto nascoste queste
cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli» o, se vogliamo, nelle parole del Magnificat exaltavit humiles. Al centro del romanzo di Tolkien ci sono questi
hobbit, gli umili del Vangelo, e in particolare l’attenzione dello scrittore si concentra
su tre personaggi: Frodo, Gollum e Sam.
Nella prima sequenza che vorrei esaminare,
che vede protagonisti i primi due, si possono riscontrare delle tracce dei temi appena
enunciati.
Ci troviamo a metà circa del film 1 e la
Compagnia (dal latino cum-panis, coloro
che spezzano il pane insieme: la solidarietà,
concreta e fraterna, della Compagnia si
contrappone alla solitudine dei “cattivi”,
Sauron e Saruman chiusi nelle loro torri superbe e irraggiungibili) si trova all’interno
delle Miniere di Moria, un antico regno
sotterraneo dei Nani. A questo punto il regista introduce un breve dialogo tra il protagonista, Frodo, e il saggio mago Gandalf,
trasferendo qui una discussione che nel libro è posta all’inizio (si tratta infatti di un
dialogo ricco di profondi significati che
danno luce all’intero romanzo). Leggiamo
quindi questa discussione direttamente dalla pagina del romanzo, anche perché, pur se
sintetizzata, la trasposizione cinematografica è rimasta fedele al testo originale:
«O Gandalf, il più caro e sincero tra i
miei amici, che devo fare? Che peccato
che Bilbo non abbia trafitto con la sua
spada quella vile e ignobile creatura
quando ne ebbe l’occasione!». «Peccato?
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Ma fu la Pietà a fermargli la mano. Pietà
e Misericordia: egli non volle colpire
senza necessità. E fu ben ricompensato
di questo suo gesto, Frodo. Stai pur certo che se è stato grandemente risparmiato dal male, riuscendo infine a scappare
ed a trarsi in salvo, è proprio perché all’inizio del suo possesso dell’Anello vi è
stato un atto di Pietà». «Mi dispiace disse Frodo - ma sono terrorizzato e non
ho alcuna pietà per Gollum». «Non l’hai
visto», interloquì Gandalf. «No, e non
ne ho alcuna intenzione», disse Frodo.
«Non riesco a capirti; vuoi dire che tu e
gli Elfi l’avete lasciato continuare a vivere impunito, dopo tutti i suoi atroci crimini? Al punto in cui è arrivato è certo
malvagio e maligno come un Orchetto,
e bisogna considerarlo un nemico. Merita la morte». «Se la merita! E come!
Molti tra i vivi meritano la morte. E parecchi che sono morti meritano la vita.
Sei forse tu in grado di dargliela? E allora non essere troppo generoso nel distribuire la morte nei tuoi giudizi: sappi
che nemmeno i più saggi possono vedere tutte le conseguenze. Ho poca speranza che Gollum riesca ad essere curato ed
a guarire prima di morire. Ma c’è una
possibilità. Egli è legato al destino dell’Anello. Il cuore mi dice che prima della fine di questa storia l’aspetta un’ultima parte da recitare, malvagia o benigna
che sia; e quando giungerà, la pietà di
Bilbo potrebbe cambiare il corso di
molti destini, e soprattutto del tuo».2
È in effetti una pagina ricca di tanti temi e
suggestioni che, per brevità, non potremo
affrontare interamente. Innanzitutto è da
Nella “extended version” pubblicata nel cofanetto da 4 DVD, la sequenza in questione si trova nel DVD n. 2 alla scena n. 34
intitolata Un viaggio nell’oscurità (durata: 6 minuti circa, dal 17’ al 21’)
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J.R.R. TOLKIEN, Il signore degli anelli, Milano, Rusconi, 1970, p. 94
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sottolineare la centralità del tema della
pietà. Bilbo, zio di Frodo, a suo tempo ebbe
pietà di Gollum e pur potendolo uccidere
(un omicidio “giustificato” dalla legittima
difesa) lo ha risparmiato: l’antico atto di
pietà di Bilbo lo preserverà a lungo dal male, su di lui l’Anello non potrà esercitare
tutti i suoi effetti e non solo proteggerà Bilbo ma si estenderà anche sulle sue generazioni successive. Anche Frodo, peraltro,
quando si troverà davanti Gollum, ne proverà pietà e lo perdonerà risparmiandolo e,
anche qui, è proprio la pietà a salvare Frodo
e la sua missione. Lo afferma esplicitamente
Tolkien, fuori e dentro il romanzo. Nella
lettera ad Amy Ronald scrive: «È possibile
che i buoni, persino i santi, si trovino di
fronte ad un potere malvagio troppo grande
da subire con le loro sole forze. In questo
caso la causa (non l’“eroe”) vince, perché
grazie al fatto che loro hanno praticato la
pietà, la compassione e il perdono delle offese si è creata una situazione tale che capovolge tutto ed evita il disastro. Gandalf l’aveva sicuramente previsto»3. Abbiamo appena letto infatti che Gandalf aveva intuito
l’esito finale della vicenda, un esito che vede Gollum protagonista (come ormai è
mondialmente noto, Frodo, non riuscirà a
gettare l’Anello nella voragine del vulcano
ma alla fine crollerà di fronte alla tentazione e rivendicherà la proprietà del talismano; solo l’intervento di Gollum e la lotta
che si scatena tra i due provocherà la caduta
e la distruzione dell’Anello).
È interessante osservare la finezza letteraria
di Tolkien che in questa prima scena mostra un Frodo insolitamente duro, animato
da una spietatezza prodotta dalla paura:
«…sono terrorizzato e non ho alcuna pietà
3
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per Gollum». Ed è molto bella la risposta di
Gandalf: «Non l’hai visto». Non è facile vedere Gollum. Non solo perché, in quanto
hobbit, egli è dotato di piccolezza e di notevole capacità di nascondersi silenziosamente, ma perché quando qualcuno non
vede qualcosa, spesso il problema sta negli
occhi del soggetto, non nella natura dell’oggetto. Molti s’imbattono in Gollum ma
ben pochi lo vedono. Lo stesso Sauron,
l’Oscuro Signore degli Anelli ad un certo
momento trova Gollum e, attraverso i Cavalieri Neri, lo imprigiona e lo tortura per
fargli rivelare il nome dell’attuale possessore
dell’Anello, ma, appunto, Sauron non “vede” Gollum, non ne vede la pena infinita,
non prova per lui alcuna compassione ma
lo usa soltanto per i suoi fini, scartandolo e
gettandolo via appena non gli serve più. Altri invece, come Gandalf e Bilbo, quando
incontrano Gollum, lo “vedono”. Da questa “visione” nasce quella pietà che gli impedisce di fare del male a questo vecchio
hobbit di cui conoscono per altro tutti i
crimini. Così sarà anche per Frodo. Ad un
certo punto Frodo incontrerà anche lui
Gollum, e lo vedrà.
Questo mi sembra un tema già molto importante, soprattutto per gli studenti delle
scuole superiori che, come è noto, dedicano
molto tempo del giorno e della notte davanti alla televisione. Il più delle volte essi,
però, “guardano” la televisione, senza “vederla”. Infatti lo sguardo che la TV induce
ad assumere nei confronti della realtà è lo
sguardo dello spettatore o, peggio, del
voyeur, non di chi vede dentro la realtà, con
occhi carichi di intelligenza e di pietà.
Quando invece Pier Paolo Pasolini incontrò
Madre Teresa di Calcutta scrisse: «Madre
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Teresa ha uno sguardo che quando guarda,
vede». Anche Frodo, al contrario del suo
amico Sam, guardando Gollum, lo vede e,
aspetto ancora più interessante, in Gollum
egli vede se stesso. Questo fatto viene suggerito dal rapporto tra Frodo e Gollum, quel
rapporto che Sam non riesce a capire, tutto
preso dall’affetto possessivo e protettivo nei
confronti del suo padrone. Frodo invece vede in Gollum quello che lui potrebbe diventare, quello che sta diventando, come in una
sua proiezione futura e quindi ne prova
compassione ed è questa sim-patia che gli
impedisce anche in seguito di ucciderlo e di
farlo uccidere (da Faramir, da Sam) e che
conduce Frodo a quella immedesimazione
con Gollum che Sam non può comprendere; del resto è fin troppo evidente, agli occhi
di Sam ma anche del lettore, che continuare
a seguire Gollum lungo il cammino non solo non è “conveniente” ma è anche pericoloso. Il ragionamento di Sam, da un punto di
vista pratico, non fa una piega, ma è, appunto, solo un “ragionamento”, senza la minima apertura di cuore che, sembra dirci
Tolkien, è possibile solo in virtù di una speciale “grazia”, una grazia misteriosa che passa
attraverso la croce e la sofferenza. E infatti lo
stesso Sam comprenderà quella pietà e la
praticherà solo dopo essere stato anche lui
portatore dell’Anello, quando, sulle pendici
di quel “Golgota” che è il Monte Fato,
avrebbe l’ultima occasione per compiere un
atto «giusto e più volte meritato; e sembrava
l’unica cosa sicura da farsi», ma che evita di
compiere:
Ma in fondo al cuore qualcosa lo tratteneva. Non poteva colpire quella cosa distesa nella sabbia, disperata, distrutta,
miserevole. Lui stesso aveva portato l’A4
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nello, solo per poco tempo, ma poteva
vagamente immaginare l’agonia della
mente e del corpo di Gollum, incatenato
all’Anello, dominato, incapace di ritrovare nella vita mai più pace o sollievo.4
Viceversa (e ciò è altrettanto commovente),
Gollum vede Frodo e in Frodo ri-vede se
stesso: se Frodo vede in Gollum una sua
proiezione futura, Gollum vede in Frodo
una sua proiezione passata. Frodo pre-vede
ciò che sta diventando, Gollum ri-vede ciò
che era. In Frodo Gollum vede un’immagine antica, quella di Smeagol, un giovane
hobbit innocente prima ancora dell’irruzione nella sua vita del malefico Anello.
Purtroppo per lui l’incontro con Frodo arriva troppo tardi: si è incamminato sulla via
del tradimento e della violenza e la conversione (che pur ad un certo punto sembra
affacciarsi) è al di là della sua portata. Questa “dannazione” però risulterà funzionale,
perché è proprio la mancata conversione di
Gollum che permette la scena finale, quella
della sua aggressione ai danni di Frodo incapace di gettare l’Anello. Il “male” di Gollum è necessario per l’affermazione del bene. Al buon esito della vicenda contribuiscono sia le buone che le cattive azioni dei
personaggi. In altre parole, non esiste una
giustizia “matematica”, un’arida meritocrazia nella visione morale del cattolico
Tolkien. Frodo e Sam riescono a portare a
termine la missione non per i loro meriti
(che pur ci sono) ma perché offrono tutta
la loro persona, ricca di virtù come di difetti, a quella missione. E oltre a questi due
hobbit c’è il terzo hobbit, Gollum che, in
modo del tutto misterioso, è cooperatore
del bene; è proprio mediante questo essere
abbietto che si realizza la salvezza del mon-
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do: emerge prepotente tutta la paradossalità
del cattolico inglese Tolkien. Nella figura di
Gollum che nel cuore di Mordor precipita
fino a immergersi nel fiume di lava che distrugge l’Anello, si può intravedere una
chiara immagine cristologica: come Cristo,
Gollum porta su di sé il peccato del mondo
da cui libera il mondo; come Cristo Gollum compie la discesa ad inferos; egli si immerge nella lava come Cristo si immerge
nelle acque del Giordano e compie quel
battesimo che riscatta tutti ribaltando la situazione creatasi con il peccato di Adamo.
Egli si fa «peccato per noi, affinché noi potessimo diventare giustizia di Dio in lui»
(2Cor 5,21). Quando spiego queste cose ai
ragazzi, anche dell’ultimo anno di liceo,
noto che l’inesauribile paradossalità della
Scrittura colpisce sempre nel segno, disorientando gli studenti, spesso ancorati a fragili certezze e vecchi luoghi comuni.
La Via Crucis di Frodo e la Provvidenza
La sorprendente fine della vicenda permette
di collegarci alla seconda sequenza5, tratta
dal finale del terzo film, Il ritorno del Re.
Frodo e Sam si trovano sulle pendici del
Monte Fato, quasi ad un passo dalla meta
del loro lungo e penoso viaggio. Frodo si
inerpica sulle rocce del vulcano e continuamente è gettato a terra dal peso dell’Anello
divenuto un fardello sempre più pesante.
La similitudine con la Via Crucis è fin troppo facile: Frodo, il portatore dell’Anello, è
un alter Christus: come Cristo, Frodo rinnega se stesso e prende la croce, si umilia e
quindi alla fine verrà esaltato con i massimi
onori. Con il suo sacrificio della vita egli
acquisterà in pienezza la vita per sé e per il
mondo. Qui si può inserire una brevissima
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riflessione che, ho constatato, colpisce sempre gli studenti. Il titolo del capolavoro di
Tolkien fa ovvio riferimento a Sauron, l’Oscuro Signore del reame di Mordor che anticamente forgiò gli Anelli del Potere: è lui
“il signore degli anelli”. Però, a ben vedere,
è invece proprio Frodo che può essere chiamato legittimamente “signore” dell’Anello
per la libertà con cui, per quasi tutto il romanzo, dispone di questo oggetto, senza
soccombere alla sua potenza malefica. “Signore” è solo colui che è disposto a donarlo, non chi se ne impossessa. Chi non è in
grado di donare un suo oggetto, rinunciandoci, non è il padrone ma il servo di quell’oggetto (questa dinamica non vale ovviamente solo per gli oggetti). Ho notato che
questa semplice riflessione sulla generosità e
la forza interiore dell’uomo che è “signore”
e “re” proprio perché libero, colpisce sempre il cuore dei ragazzi che mi ascoltano,
forse perché essi vivono in una società dove
la dimensione dell’avere ha preso il sopravvento sull’essere. Rispetto agli schemi angusti della logica del potere-possesso, la figura
di Frodo che compie un viaggio pericoloso
solo per perdere e rinunciare al potere, risulta rivoluzionaria, devastante, dotata di
quella forza propria della paradossalità
evangelica delle Beatitudini.
Questa seconda sequenza che voglio segnalare comincia con la scena in cui Frodo decide di togliersi l’armatura da orchetto che
aveva indossato per camuffarsi e introdursi
nel territorio del nemico. Frodo vuole compiere la sua missione “disarmato”, un gesto
fortemente simbolico come qualche critico
ha sottolineato: «Egli si disfa di quanto resta della sua corazza esterna. In pratica vie-
Nella “extended version” la sequenza in questione si trova nel DVD n. 2 alla scena n. 63 intitolata La terra d’ombra e vale la pena far vedere anche le scene successive, fino alla n. 66 intitolata Non posso portare io l’Anello… ma posso portarvi (durata: 15 minuti circa).
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ne sottratta ogni parvenza di forza alla sua
missione: Egli sperimenta quanto si potrebbe definire “l’oscura notte dell’animo”».6
Un altro critico ha osservato: «Come Gesù
Frodo entra nel cuore del regno del nemico
per sconfiggerlo. E come Gesù egli è innocente, disarmato in termini materiali, ma in
fondo forte e invincibile proprio perché rifiuta di utilizzare le armi del nemico».7 Disarmato ma non da solo. Innanzitutto accanto a sé c’è il fido Sam. Se Frodo è figura
di Cristo, Sam è il discepolo fedele, è il Cireneo che, fisicamente, sostiene Frodo nel
cammino e, in questa scena davvero toccante, si carica sulle spalle dell’intero peso
del suo amico e lo aiuta a compiere la missione. Non è solo e la presenza di una stella
ostinatamente brilla anche nel cielo cupo
del regno di Mordor è il segno di una Provvidenza che vigila sul suo cammino. Non è
solo, d’altro canto, anche perché, oltre a
Sam e all’occhio vigile di una Provvidenza
superiore, c’è pure l’occhio scrutatore di
Sauron che, chiuso nella ferrea e disumana
logica del potere, cerca incessantemente il
suo Anello. Eppure il potentissimo Sauron
non riesce a scorgere Frodo, non ci riesce
perché, ancora una volta, il suo occhio
guarda ma non vede.
Qui la sequenza del film si può interrompere, anche se la storia continua con la celebre
scena 8 del “crollo” di Frodo. Giunto nel
cuore del regno del nemico Frodo, infatti,
soccombe e di fatto fallisce rispetto alla sua
missione, quella di distruggere l’Anello nel
cratere del Monte Fato. Sul “più bello” di
quella missione egli crolla: un crollo fisico,
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psicologico e morale. È interessante osservare le parole che Tolkien mette in bocca a
Frodo nel momento del crollo:
«Sono venuto», disse. «Ma ora non scelgo di fare ciò che per cui sono venuto.
Non compirò quest’atto. L’Anello è
mio!». E improvvisamente, infilandoselo
al dito, scomparve alla vista di Sam.9
È l’ora delle tenebre, un momento del tutto
“negativo”: la scelta di Frodo è di fatto una
non-scelta («Ma ora non scelgo di fare ciò per
cui sono venuto»). Lo scrittore sottolinea con
questa strana costruzione grammaticale l’assurdità del Male, il non-senso del Peccato che
contraddice in sé l’esistenza dell’uomo, il suo
fine. Tutta l’esistenza di Frodo aveva un senso,
una direzione che ora, proprio alla fine, egli
stesso rinnega, vanifica. Tutta l’esistenza di
Frodo, dalla prima pagina del romanzo all’ultima è segnata dal carisma dell’obbedienza (da
ob-audire, ascoltare): egli è “chiamato” da Gandalf a compiere una missione e, fino all’ultimo, ha corrisposto a questa vocazione, facendo
la volontà della sua guida. Come per Cristo,
l’Obbediente per eccellenza, anche per Frodo
la sua ragione di vita, il suo “cibo”, è fare la volontà di colui che l’ha inviato. Ed ecco che invece, sul più bello, egli sembra non avere più
alcuna forza di volontà. Irène Fernandez, filosofa e teologa, nel suo saggio sulla spiritualità
nel Signore degli anelli ha osservato che Frodo,
semplicemente, dopo l’enorme logorio a cui è
stato sottoposto, «non ne può più, non può
più volere, nel senso di compiere un atto di vera volontà. La sua “scelta di non fare” è più
una paralisi che una decisione, un esaurimento
della volontà in senso proprio: non rimane più
6
C. GARBOWSKI, La Terra di Mezzo di Tolkien e la spiritualità per il mondo reale, in Mitopoiesi. Fantasia e Storia in Tolkien (a cura
di F. MANNI), Grafo Edizioni, Brescia 2005, p. 70.
7
C. GUNTON, «A Far-off Gleam of the Gospel: Salvation in Tolkien’s Lord of the Rings», in: J. PEARCE (ed.) Tolkien: a celebration. Collected writings on a literary legacy, HarperCollins, London-Glascow 1999, p. 133.
8
Nella “extended version” la sequenza in questione si trova nel DVD n. 2 alla scene n. 67 e n. 68 intitolate L’ultimo atto e Monte Fato.
9
J.R.R. TOLKIEN, Il Signore…, p. 1128.
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nulla, e questa assenza può solo assumere la
forma di un blocco o di un rifiuto»10. Questo
blocco può essere superato, precisa la Fernandez, solo con un intervento improvviso e violento: a Frodo verrà tagliato il dito per potergli
estrarre l’Anello. Esattamente come aveva fatto
anticamente Isildur a Sauron. Frodo come
Sauron: eccoli qui, entrambi monchi, feriti, segnati, incompleti, i due “signori degli anelli”.
Abbiamo qui il più ampio e totale rovesciamento di ogni paradigma, di ogni prospettiva
edificante o consolatoria; la grande narrazione
fantastica di Tolkien assume una coloritura a
dir poco inquietante. Il “gran rifiuto” di Frodo
all’interno della Sammath Naur, che conduce
Sauron ad un passo dalla vittoria totale (con
tutto ciò che ne sarebbe conseguito) ha tutta
l’aria del più classico dei colpi di scena, ma in
realtà era stato preparato saggiamente dallo
scrittore che, infatti, nelle sue lettere, osserva
come: «seguendo la logica della trama, era un
avvenimento chiaramente inevitabile», e aggiunge: «di sicuro è un episodio molto più significativo e reale del finale di una fiaba in cui
l’eroe vince sempre»11. Aspetto fondamentale
però è che, anche se Frodo all’ultimo fallisce, la
sua missione si compie a causa della sua Pietà e
dell’intervento di un’altra protagonista, nascosta, del romanzo: la Provvidenza. Frodo ha
dunque fallito ma a questo punto, osserva
Tolkien, «la salvezza del mondo e la salvezza
dello stesso Frodo vengono raggiunte grazie alla sua precedente pietà e capacità di perdonare
le offese […]. Gollum lo derubò alla fine e lo
ferì - ma per una “grazia”, l’ultimo tradimento
avvenne in un momento particolare quando
quell’azione malvagia era la più benefica che
qualcuno avrebbe potuto fare per il bene di
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Frodo! Grazie ad una situazione creata dalla
sua capacità di perdonare, Frodo si salva, e vie12
ne sollevato del suo fardello» . Frodo quindi
non è solo, ma accompagnato da una Grazia.
Non importa che essa abbia il volto inquietante di Gollum (anzi, semmai questo ne dimostra la sua natura divina che è sempre oltre la
comprensione umana), sta di fatto che la missione si compie perché Frodo realizza tutto
quello che umanamente gli era possibile, e si
mette nelle condizioni di poter ricevere quel
“di più” che la Provvidenza gli assicura nel momento opportuno.
In una lettera del 1963 Tolkien, ripercorrendo
la via crucis di Frodo, afferma che il fallimento
del suo eroe non è stato un fallimento morale:
«Frodo aveva fatto tutto quello che aveva potuto, non si era certo risparmiato (come strumento della Provvidenza) e aveva creato una
situazione in cui l’obiettivo della sua ricerca
avrebbe potuto essere raggiunto. La sua umiltà
(con cui aveva iniziato il compito) e le sue sofferenze vennero giustamente ricompensate dall’onore più alto; e l’aver esercitato la pazienza e
la compassione nei confronti di Gollum gli fecero meritare la Pietà: il suo fallimento si trasformò in vittoria»13. E in un’altra lettera confida che: «... A quel punto prese il sopravvento
l’altro potere: lo Scrittore della Storia (e non alludo a me stesso) “l’unica persona sempre presente che non è mai assente e mai viene nomi14
nata” (come ha detto un critico)». È ovvio
che Tolkien sta parlando di Dio e della sua
Provvidenza. Grazia e Provvidenza si intrecciano di continuo nel romanzo dalla prima all’ultima pagina anche se il loro apparire è discreto,
non è mai sottolineato, è sempre silenzioso e
quasi impercettibile.
I. FERNANDEZ, La spiritualità del Signore degli Anelli, Elledici, Torino, 2003, p. 72.
J.R.R. TOLKIEN, La realtà in trasparenza, Milano, Rusconi, 1990, lett.192, p. 286.
12
J.R.R. TOLKIEN, La realtà..., lett. 181, p. 264.
13
J.R.R. TOLKIEN, La realtà…, lett. 246, pp. 367-368.
14
Ivi, lett. 192, p. 286
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