10 verde - Richard e Piggle

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10 verde - Richard e Piggle
192 P. C. Verde: Aggressività, violenza e sviluppo emozionale in infanzia e adolescenza
Aggressività, violenza e sviluppo emozionale
in infanzia e adolescenza
PIER CHRISTIAN VERDE
“L’energia istintiva che viene repressa
costituisce un pericolo potenziale
per l’individuo e per la comunità”
D.W. Winnicott (1984)
La questione aggressiva si pone come delicata e centrale nel corso dello
sviluppo proprio in quanto intimamente legata alla fondamentale strutturazione del Sé e della personalità, del mondo interno e della possibilità di relazioni oggettuali sane e valide. Il presentarsi dell’individuo al mondo e l’affermazione dell’individuo come tale, soggetto e oggetto nella relazione, pongono
in primo piano la questione della modulazione dell’espressione di sé e, dunque, dell’aggressività. Il destino dell’aggressività, da necessità biologica sino
al suo declino deumanizzante, si compone di numerose variabili evolutive,
ereditarie ed ambientali oltre che specifiche del soggetto. Le basi intrapsichiche, relazionali e genetiche, dell’aggressività e del comportamento aggressivo si rapportano e si sviluppano, dunque, a partire dall’incontro tra l’individuo e l’ambiente e dalla creazione di significati che tale incontro genera nel
suo evolversi. Nella progressione evolutiva del senso del Sé e dell’altro (Stern,
1985), l’individuo modula con l’ambiente l’espressione e i significati dell’aggressività secondo le crescenti riorganizzazioni soggettive dell’esperienza.
L’aggressività, come sappiamo, può essere a buona ragione considerata,
in prima istanza, protettiva (A. Freud, D. Burlingham, 1942). È chiara, dunque, la natura non necessariamente patologica dell’aggressività. L’aggressività è una “necessità biologica” (Meotti, 2006). Proviamo, allora, a distinguere due tipi principali di aggressività (su di un continuum) che potremmo
chiamare una affermativa-creativa/fredda (ed epistemofilica - cfr. M. Klein,
1978) e l’altra distruttiva/calda, aventi come matrice comune una dotazione
biologica naturale “aggressiva” che permette all’individuo di “esistere nel
mondo” e, dunque, in un’ottica evoluzionistica, di sopravvivere e tramanRichard e Piggle, 15, 2, 2007
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dare il proprio corredo genetico.1 È verso l’ambiente che l’aggressività si direziona; anche l’autoaggressività (ivi comprese le condotte alimentari patologiche e di dipendenza dalle sostanze), che per il suo alto valore di comunicazione è invero un atto “direzionato”, oltre che verso il Sé, verso l’ambiente
esterno, reale, e interno, cioè relativo alla realtà psichica dell’individuo. Il
“piacere di esplorazione”2 (Jeammet, 1998) è intimamente connesso con
quella che stiamo chiamando aggressività affermativo-creativa ed è un
aspetto psicologico connaturato. Come entra in contatto un individuo con la
sua dotazione biologica aggressiva e il suo ambiente di crescita? Presentare
il mondo, supportare la curiosità oltre che fornire protezione e calore
appaiono elementi strettamente correlati alla strutturazione di un Sé autonomo ed efficace. In altri termini, un ambiente supportivo favorisce la separazione e l’autonomia identificandole come non contrapposte alla saldezza e
alla disponibilità del legame affettivo.
L’angoscia di separazione, l’ansia (il panico) e la depressione, quali
risultati di una disregolazione nella relazione,3 si frappongono tra l’individuo e la “meta autonoma”, ponendosi quali fattori favorenti l’incremento e
anche l’espressione di aggressività “calda”, sia in forma espressa, violenta
(ad esempio, DDiA, disturbi del comportamento, agiti violenti etero- e autoaggressivi) che inibita (tic, disturbi psicosomatici, disturbi isterici, forme
ansioso-depressive e fobico ossessive).
Nel suo “stare nel mondo” l’individuo compie un atto di affermazione di
Sé, che ha varia intensità nel singolo e diversa intensità tra gli individui. La
risposta ambientale si pone, poi, come necessario corollario di una raggiungibile regolazione autonoma dei propri stati interni e dei propri comportamenti.
1
Laplanche e Pontalis (1988) richiamano l’attenzione sulla distinzione nella lingua
inglese tra le due definizioni di aggressivness e aggressivity. Le due definizioni si sposano bene
con la distinzione tra aggressività creativa e distruttiva “fredda” (affermativa-creativa; aggressivness) e una “calda” (distruttiva; aggressivity) (Solms e Turnbull, 2004) e sulla distinzione,
qui proposta, tra affermativo-creativa e distruttiva.
2
È interessante notare come il “sistema di ricerca” (Panskeep, 1998) sia quel sistema cerebrale (limbico) che si attiva sotto il comando della dopamina (il sistema di ricerca fa parte del
sistema dopaminergico). Al sistema di ricerca e a quello dopaminergico è intimamente legato,
e per gran parte attiguo e sovrapposto, il “sistema del piacere” comandato dalle endorfine. Questo ci appare una conferma della sovrapposizione tra aggressività fredda “-ness”, il piacere
esplorativo, la ricerca di stimoli e di relazioni, che appaiono tutti strettamente interconnessi
alla questione della separazione e individuazione e della tensione positiva alla soggettivazione,
quali corollari fondamentali dello sviluppo e della autonomia. Il fallimento della “ricerca” ha
poi tre esiti principali: rinnovo della ricerca stessa, blocco depressivo oppure esito rabbiosoaggressivo, per l’appunto.
3
Secondo gli studiosi dell’attaccamento le declinazioni ansiose dell’attaccamento del bambino alla madre, in particolare quello evitante, in età prescolare si caratterizzano proprio per
la presenza, tra le altre, di depressione, scarsa autostima, scarsa curiosità, difficoltà cognitive,
impulsività e aggressività ostile o comportamento antisociale.
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Le “manifestazioni” (Bruner, 1987) di un individuo, sin dalla gestazione, subiscono una codifica e una significazione da parte dell’ambiente
(prima dalla madre, poi dai diversi caregivers e poi dal sociale tutto) che, in
tal modo, restituisce un significato biunivoco all’individuo, costruito sulla
base di sistemi: interpersonali, familiari, transgenerazionali e culturali,
condivisi. Le manifestazioni (come la mobilità primaria di Winnicott) divengono ora “segnali” (ibidem).
Aggressività e sviluppo emozionale
Mentre nell’adulto e nel giovane l’atto, il pensiero o l’ideazione aggressiva sono più facilmente delineabili e la demarcazione tra affermazione di
sé-aggressivness e distruzione-aggressivity risulta più facile, nel bambino
tale operazione diviene più complicata per motivi sia biologici (il piccolo in
quanto tale è “inoffensivo”)4 che psicologici.5 Tuttavia è dall’analisi dell’epigenesi, dallo studio e dall’osservazione dell’infanzia, che possiamo comprendere le diverse qualità aggressive del pensiero e dell’agire, nell’adulto e
nel giovane. Dunque, il bambino nasce in un ambiente già predisposto alla
restituzione e, invero, anche alla giustapposizione, di significati.6 In origine
l’aggressività “è quasi sinonimo di attività” (Winnicott, 1975). L’espressione
“vigorosa”, “muscolare”, del bambino, già da neonato, può essere per diversi
gradi, fraintesa come aggressività “calda”, anche per il limitato range di
mezzi di espressione che il bambino piccolo possiede (oltre che ovviamente
rispetto al registro culturale specifico del milieu di crescita). Un eccessivo e
ripetuto “fraintendimento” delle espressioni infantili, come di aggressività
distruttiva univocamente significata, può condurre nel tempo ad una
sovrapposizione7 disfunzionale dei significati di un’espressione efficace di sé
e di “aggressività ostile” (Sroufe 1995),“calda”. Non intendo con ciò proporre
4
Meotti (2005 e 2006) suggerisce, saggiamente, di fare ricorso alla tolleranza nei riguardi
dell’aggressività infantile in fiduciosa attesa di una spontanea autoregolazione autonoma e in
funzione proprio della inoffensività dei bambini stessi. Tale “invito” pedagogico sembra dover
essere rivolto non solo ai genitori ma anche alle istituzioni scolastiche, spesso impreparate ad
affrontare soggetti in età evolutiva “dotati” di una carica aggressiva (poi anche sessuale) facilmente espressa.
5
L’aggressività infantile, quale meccanismo di sopravvivenza, è primariamente una
manifestazione di esistenza, una forma di affermazione del Sé, con lo scopo primario di sopravvivere attraverso la relazione.
6
Generati, come già detto, dall’interazione di fattori intrapsichici, relazionali, mandati
inter- e transgenerazionali, fattori genetici e culturali.
7
Fonagy, Moran e Target (in Fonagy e Target, 2001) propongono l’ipotesi di una funzione
che porterebbe ad un piacere patologico nel distruggere.
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né un determinismo biologico né un determinismo ambientale ma una confluenza di significati che può facilitare tale sovrapposizione. Una sorta di
“via veloce”8 all’ottenimento della meta motivazionale.
La rabbia è non solo una risposta naturale del bambino, quando la sua
aspettativa di sicurezza vicino alla sua figura di attaccamento, viene delusa
- Winnicott (1984) dice anche che “l’aggressività, d’altra parte, può essere
anche un sintomo di paura” - ma si evidenzia anche in risposta ad un ostacolamento del raggiungimento “dell’autonomia e dell’indipendenza” (Stern,
1985), della separazione e dell’individuazione (Mahler, Pine e Bergman,
1975). In tal senso, l’attacco al Sé, all’altro e l’attacco al legame, esprimerebbero tutti un cortocircuito tra angoscia di separazione e rifiuto della dipendenza affettiva. Separarsi e dipendere divengono entrambi motivi di profonda
angoscia patogena e di una declinazione aggressiva “calda”. Sappiamo che, in
età prescolare, impulsività e aggressività si legano a modelli di attaccamento
(Bowlby, 1970) ansiosi, in particolare l’aggressività e il comportamento antisociale con il modello di attaccamento ansioso evitante (Sroufe, 1991). I
modelli di attaccamento ansioso non favoriscono autonomia, competenze
sociali, curiosità, fiducia e esplorazione (ibidem). Tale configurazione si collega ad una diminuzione della fiducia e della stima di sé sin dall’età prescolare. Il piccolo si trova così in uno stato di ansia e depressione (ibidem) dove
l’affermazione di sé risulta raggiungibile con estrema difficoltà, lasciando così
aperta la possibilità di esprimersi prevalentemente con atti ostili. Sroufe
(1995) suggerisce il termine “aggressività ostile” per identificare quell’aggressività che insieme all’empatia e all’altruismo implica il sapere, il comprendere che anche l’altro sperimenta sensazioni e desideri, ovvero implica
una teoria della mente propria e altrui. In tal senso, aggressività empatia e
altruismo dipendono dagli stessi processi cognitivi che si sviluppano procedendo insieme alle emozioni.9 Tali acquisizioni evolutive necessitano un’esperienza di sintonizzazione e “attunement” (Siegel D.J. 2007) genitore-bambino che si basi sulla sensibilità dei caregivers riguardo gli stati mentali del
figlio. Quella “disponibilità emozionale” (Sroufe 1995) che dispone il genitore
a stare con il bambino in modo “responsivo ed efficace” (ibidem).
Il caso di Diego, un ragazzo che ho in trattamento da diversi anni, si
inserisce sensatamente in questo discorso.
Diego, che oggi ha 12 anni, mi è stato inviato 4 anni or sono per consistenti problemi legati al suo comportamento aggressivo e alla conseguente
8
Il riferimento è, qui, al termine di le Doux (1998) che definisce le vie lenta e veloce proprio in riferimento alla possibilità o meno di mediare la risposta allo stimolo attraverso una via
più lunga e appropriata, ovvero corticale.
9
cfr. anche Lichtenmberg, 1989.
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implicazione dei processi sociali e cognitivi che la forte aggressività espressa
generava. Diego veniva da difficili esperienze familiari di maltrattamenti e
violente separazioni. I genitori di Diego, sin dalla sua nascita, mostravano
una limitata capacità di comprensione degli stati mentali e affettivi del
figlio, attribuendo ad ogni manifestazione attiva da parte sua una qualità
altamente incontrollabile ed aggressiva di chiara matrice persecutoria. Crescendo, anche la forte curiosità e l’effettiva irrequietezza del bambino vennero interpretate come un chiaro segnale di ingestibilità e di persecutorietà.
In tal senso “l’orrore per l’aggressività infantile”(Meotti, 2006) espresso dall’ambiente, si palesava anche come negazione dell’aggressività ambientale
stessa. Nel tempo si era strutturata una situazione intrapsichica e relazionale dove (come nel caso di David descritto da Fonagy, 2001) l’aggressività
rappresentava una difesa verso gli stessi pensieri, desideri e stati mentaliaffettivi, suoi e dei genitori, che Diego sentiva come minacciosi. L’aggressività, dunque, come attacco ai pensieri propri e a quelli altrui. Un attacco alla
propria e alla altrui mente la cui separatezza evoca fantasmi violenti e persecutori ovvero altamente aggressivi ed ostili. Il corpo, sempre in movimento
(e in subbuglio gastrico e intestinale), rifletteva l’esperienza psichica al
posto della mente “per riempirsi di pensieri e sentimenti” (Fonagy, 2001). Il
corpo e il comportamento aggressivo si ponevano come i rappresentanti di
pensieri e desideri sentiti come minacciosi e, altresì, rappresentanti di un
mondo interno popolato di oggetti scissi e persecutori, in continua lotta tra
loro. Sentiti tali, anche in quanto, ab inizio, interpretati e riconsegnati a
Diego come minacciosi e chiaramente aggressivi. Si direbbe un vero e proprio fallimento della funzione di rêverie. I comportamenti instabili e aggressivi (in un quadro diagnosticabile quasi come una DDAi) assumevano un
ruolo di integrazione per il Sé, proprio in assenza di una valida relazione che
desse significato, adeguatamente, ai contenuti intrapsichici e ai comportamenti di Diego. La reazione ambientale, spesso negativa, fungeva da
rinforzo dei comportamenti aggressivi e della visione di una realtà oltremodo persecutoria. Una conferma insomma dei fantasmi persecutori stessi.
Il mondo interno di Diego diveniva, allora, teatro di feroci battaglie drammatizzate in seduta attraverso il gioco. Come David (ibidem), Diego aveva
reso l’atteggiamento aggressivo non scudo e strumento di protezione “utilizzabile” ma parte integrante dell’esperienza e dell’espressione di sé, forma
prima di autonomia e tentativo di controllo dell’ambiente. Un ambiente
incontrollabile e imprevedibile, sentito come minaccioso, persecutorio e prevaricante. L’aggressività diviene, allora, un passepartout psichico, di ordine
narcisistico, che gestisce arbitrariamente la dinamica di separazione e individuazione e il conflitto di dipendenza oggettuale. La mente dell’altro, terapeuta compreso, diviene controllata, nell’immediato della relazione, dall’aggressività espressa in modo virulento, che impedisce di affrancarsi da un
regime di relazione dove il pericolo, la sensazione di pericolo, sono costanti.
L’impossibilità di distinguere e mediare tra espressione di sé e aggresRichard e Piggle, 15, 2, 2007
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sione/aggressività ostacolava Diego nell’entrare in relazione con gli altri
senza, appunto, porsi come effettivamente distruttivo e prevaricatore. Diego
agiva e impersonava i suoi stessi fantasmi persecutori. La relazione terapeutica ha permesso a Diego di affrancarsi da questo unico registro affettivo
e relazionale, attraverso un lavoro di holding, di condivisione delle regole
della relazione, di significazione e risignificazione degli affetti e delle intenzioni. Identificazioni reciproche, “cross identifications”, la possibilità “mettersi nei panni dell’altro” (Winnicott 1971; Rayner 1995), hanno permesso a
Diego di ampliare la gamma di rappresentazione dei suoi e altrui stati mentali ed affettivi, sino ad allora dominio della non mediata espressione corporea, aggressiva e irrequieta. Un percorso che ha permesso a Diego di sperimentarsi come facente parte di una processo di costruzione di significati e
di costruzione di una relazione e non della loro distruzione a scopo difensivo.
Oggi Diego si affaccia alla pubertà con strumenti più adeguati per affrontare, nuovamente, la sfida tra il mantenimento di solidi legami affettivi,
valide relazioni oggettuali, e la necessaria autonomia e soggettivazione in
una dimensione intrapsichica e relazionale libera da fantasmi aggressori e
persecutori con cui identificarsi per sopravvivere. In altre parole la capacità
di tollerare le tensioni e le frustrazioni e la capacità di autoregolazione emotiva di Diego sono oggi più ampie e permettono una declinazione meno
immediata e violenta delle componenti aggressive della sua personalità.
Aggressività e adolescenza
La questione aggressiva rimane centrale, per tutto l’arco di vita. Tuttavia due snodi fondamentali della vita psichica, quali l’Edipo e l’adolescenza,
risultano fortemente implicati nella tematica della gestione e espressione
della aggressività.
Identifichiamo un continuum che riguarda la psiche, il soma e la relazione, un continuum che collega disturbi psicosomatici, inibizione, autoaggressività e suicidio, aggressività (più o meno espressa) e violenza deumanizzante.
In adolescenza il corpo, ora sessuato, chiede una risignificazione delle
dinamiche interne e di relazione, proprio in appoggio alla risoluzione dell’Edipo (Freud, 1905) e in relazione a come, attraverso le fasi precedenti, si
è arrivati alla fase edipica. L’espressione e l’affermazione di sé passano nuovamente, con forza, attraverso il corpo “genitale” e, dunque, attraverso l’immagine che l’individuo ha di sé e del suo corpo sessuato. In tal senso uno dei
compiti evolutivi è proprio quello di gestire la sovrapposizione aggressività/sessualità. Il corpo è sessuato ma anche più forte, adulto, non più inoffensivo. In adolescenza la crescita corporea, l’aumento della forza fanno sì
che si aggiunga: “un vero pericolo che dà alla violenza un nuovo significato”
(Winnicott, 1984). Sappiamo quanto, soprattutto in adolescenza, “la possiRichard e Piggle, 15, 2, 2007
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bilità di farsi del male è illimitata” (Jeammet, 1998) e quella di fare male sia
evidentemente accresciuta. L’aggressività, forte e diretta, all’esterno
assume più facilmente la connotazione violenta con tutte le conseguenze
sociali, relazionali e intrapsichiche che ciò comporta. L’aggressività forte,
distruttiva e la violenza sembrano, nello specifico, implicare la deumanizzazione o, come dice Jeammet (1998), la desoggettivazione dell’altro, il suo
“assorbimento nel mondo interno dell’aggressore”, dove l’oggetto di aggressione incarna significati e attori del mondo interno dell’aggressore, spesso
di forte valenza persecutoria (vedi il caso di Diego). L’aggressività, quando
oltrepassa i confini autoconservativi, sino alla violenza gratuita, si scatena
“in assenza di identificazione con la vittima” e negando “la comune umanità”
(Meotti 2006), di aggressore e vittima.10 La negazione della natura umana
della vittima implica dunque negare anche la propria, deumanizzarsi.
L’aggressività distruttiva, psicopatologica, nella forma di deumanizzazione dell’altro, si può manifestare in forme silenti “senza aggressività manifesta o in forma fisica” (Jeammet, 1998). Le relazioni d’oggetto intese dall’individuo come al servizio dei desideri unici del Sé, senza alcun interesse a
quelli dell’altro/a, sono un esempio di deumanizzazione-desoggettivazione,
in un continuum che va dal narcisismo patologico al sadismo di alcuni
pazienti borderline. Se la propria identità, la propria sopravvivenza sono
sentite (nella realtà o in un quadro psicopatologico) come minacciate, l’aggressività e la violenza rappresentano per il soggetto una possibile difesa.
L’oggetto viene desoggettivato in funzione della minaccia che egli pone al Sé,
anche a partire dalla dipendenza che l’oggetto stesso evoca.
In altre parole il tentativo di controllo dell’oggetto esterno e del suo rappresentante interno può, dunque, palesarsi in atti drammatici, auto- ed
etero-aggressivi.
I vissuti depressivi, che caratterizzano individui fortemente aggressivi
e violenti (borderline, narcisisti), ci dicono come si crei un cortocircuito tra
l’affermazione e la sopravvivenza del Sé, la dipendenza affettiva-oggettuale,
il mantenimento di legami fondamentali (a gruppi o individui) e l’espressione aggressiva. L’aggressività intensa e la violenza rimandano alla percezione inconscia di una minaccia narcisistica, intesa come tanto più intensa
quanto più debole è la struttura narcisistica del soggetto stesso (vedi il caso
di Simone descritto più avanti). La minaccia narcisistica appare quale deno-
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Meotti (2006) indica poi come la violenza gratuita sia specifica umana e non necessaria alla sopravvivenza. In merito a ciò si può invece ipotizzare come la violenza gratuita, sia per
l’uomo un retaggio che per quanto distorto si inserisce nello schema evolutivo della specie come
comportamento ritualizzato e di prova del tipo di quello che alcuni predatori compiono su vittime che poi non vengono divorate ma solo uccise “per gioco”.
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minatore comune per i pazienti borderline come per quelli più prettamente
narcisistici. In tal senso anche la dipendenza sana da un oggetto o da una
relazione possono essere significati quali minacciosi per il Sé e dare luogo,
anche in pazienti molto giovani, a reazioni che vanno verso la distruzionenegazione del legame-bisogno oggettuale più che verso il suo mantenimento
e verso la dis-integrazione del Sé piuttosto che la sua coesione ed integrazione (condotte autoaggressive, atti e tentativi suicidari; disturbi alimentari
e tossicomanie e altre forme di profondo disagio psichico). Aspetti depressivi,
affezioni psicosomatiche e disturbi da iperattività e deficit attentivo,
appaiono come il negativo di una palese reazione aggressiva etero-diretta. Il
bisogno di oggetto diviene ferita narcisistica, fonte di collasso della personalità. L’aggressività diviene difesa psichica, bastione contro il “crollo psichico”. La deumanizzazione dell’oggetto diviene fonte di sollievo magico da
qualunque forma di vissuto di dipendenza affettiva oggettuale. Laddove vi
sia un trauma precoce, la propria, subita, deumanizzazione riceve catarsi
nella deumanizzazione della vittima. La violenza può, dunque, divenire sollievo, anestetico, temporanea restaurazione di un equilibrio narcisistico
luogo di fantasie onnipotenti, dove non c’è spazio per la dipendenza dagli
oggetti tanto meno da oggetti imprevedibili o minacciosi. A tal proposito, si
può delineare una plausibile interpretazione della tossicodipendenza come
tentativo posticcio di restaurazione di un narcisismo “primario” aconflittuale dove, solo temporaneamente, venga sospesa l’azione violenta e distruttrice propria e altrui, inflitta e subita.
Simone, un paziente politossicomane che ho in trattamento da cinque
anni, mostra proprio questo vincolo che, in successione, si può creare tra
espressione di Sé, violenza, rottura-perdita di un legame, autoaggressione/suicidio e tossicodipendenza.
Cresciuto in una famiglia dove la violenza agita e la sottomissione dell’altro erano valori fondanti, Simone passa un infanzia solitaria a causa
della tossicodipendenza dei due genitori e della totale assenza di figure sostitutive costanti e affidabili. Cresce come un bambino violento e aggressivo e,
dunque, inviso ai coetanei e alla scuola. Quando presenti i nonni e il padre
lo rinforzano sulle sue straordinarie capacità fisiche e dotazione muscolare
spingendolo a divenire pugile “io ero lì, piccolo, che mimavo la boxe, pugni e
anche calci tirati contro un avversario che non c’era e tutti intorno che mi
incitavano e dicevano che valevo per due…anche per mio fratellino che era
debole e silenzioso…”. La violenza e la sopraffazione e un pensiero onnipotentemente autosufficiente divengono valori primari e sostitutivi di sane
relazioni affettive. Una famiglia-banda dove la violenza la fa da padrona, ma
viene negata e proiettata persecutoriamente all’esterno. L’Edipo è by-passato, non affrontato e, dunque, irrisolto; il padre, violento e “noto” criminale,
diviene oggetto di una identificazione idealizzata che dovrebbe proteggere
Simone da una eventuale aggressione del padre stesso, una sua ritorsione
edipica. Alla pubertà e con la separazione dei due genitori Simone, uscito dal
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collegio religioso dove viveva dagli 11 anni, inizia a sperimentare diverse
droghe sedando l’ulteriore eccitazione e spinta onnipotente che il corpo
pubere di adolescente gli rimanda. La mobilità primaria (Winnicott, 1975)
si trasforma in ricerca della morte e annullamento della funzione di sopravvivenza delle relazioni interpersonali. L’investimento sul Sé come maschio
avviene su un registro violento e narcisistico dove il rapporto con le donne
elude ogni dipendenza affettiva, qualsiasi legame autentico. Fugaci esperienze omosessuali caratterizzano la strutturazione di un’impalcatura dissuasiva, falsa, appoggiata, posticcia, su di un Sé infinitamente fragile, specchio di una soggettivazione assolutamente precaria e irraggiungibile. La
droga e la violenza divengono gli anestetici avversi all’integrazione del Sé,
che combattono la dolorosa ferita narcisistica e la paura del crollo psichico.
Anestetici pericolosi per il Sé che fanno sentire Simone illusoriamente al
riparo da dipendenze affettive, dal bisogno di legami. “Improvvisamente”
ma in realtà coerentemente al suo stile di vita, il padre di Simone muore,
distrutto dalle sostanze e dalla malattia. La reazione di Simone è immediata
e drammaticamente consona alla situazione globale: prima, dà fuoco a casa
e, poi, si spara alla testa. Parafrasando Fonagy (2001) diremo che si verifica,
dunque, una crisi (di per sé, anche “evolutiva”) quando la richiesta, esterna
e reale, di separazione, diviene innegabile e irrinunciabile. Il comportamento autodistruttivo estremo, suicidario, diviene unica soluzione percepita
come possibile, ad un problema “insolubile”, ovvero liberare il Sé dall’altro,
la mente invasa e colonizzata, attraverso la distruzione dell’altro all’interno
di Sé (un tale meccanismo psicopatologico è invero rintracciabile anche nelle
gravi affezioni del comportamento alimentare). Winnicott (1984) asserisce
come in adolescenza vi sia “una forte disposizione a che l’aggressività si
manifesti in forma di suicidio”. Miracolosamente Simone sopravvive all’atto
suicidario.11 Le lesioni cerebrali lo lasciano fortemente invalidato con una
emiparesi e difficoltà visive. Il corpo, un tempo mezzo di conferma dell’onnipotenza e dell’autosufficienza, mostra ora l’evidenza del contrario e dolorosamente pone Simone di fronte ai suoi bisogni d’oggetto e alla sua necessità di identificarsi con un oggetto non violento e non persecutorio. Per anni
Simone sognerà un “Mostro” senza volto (l’oggetto paterno internalizzato,
elemento di patologica identificazione con l’aggressore-persecutore) che lo
insegue e in diverse maniere cerca di afferrarlo e “portarlo via”. Il sogno, un
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Differenziamo il tentativo di suicidio da un atto suicidario intendendo quest’ultimo
come un vero e proprio suicidio mancato e non una forma estrema di comunicazione di disagio
(il tentativo di suicidio) che si presenta però come più strumentale che realmente autodistruttiva.
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vero incubo che lacera la pellicola onirica risvegliandolo, ci mostra l’ambivalenza e la paura, il conflitto interno di Simone ad abbandonare un oggetto
di identificazione e una identità acquisita. Il duro e lungo lavoro in terapia
ha permesso a Simone di aprirsi alla possibilità di relazioni valide e reciproche, non imprevedibili, con oggetti non minacciosi. La successiva diminuzione e, poi, sospensione dell’uso delle droghe ha permesso a Simone di
accostarsi alla ferita narcisistica e di elaborare senza denegarlo, il suo vissuto depressivo all’interno di una relazione tutelante e sicura come quella
terapeutica di transfert e controtransfert. Nel tempo Simone si è potuto
accostare all’idea della profonda depressione (psicotica) paterna e permettersi la scelta di identificazioni meno disorganizzanti e tutelanti per il Sé.
L’interpretazione dei suoi agiti, anche in seduta, come manifestazioni onnipotenti di un Sé invero bisognoso, attacchi ad un legame e al bisogno di un
legame sentito come pericoloso e persecutorio (ma irrinunciabile) hanno permesso a Simone di avvalersi della relazione senza distruggerla e parimenti
di avvalersi di sé dei suoi pensieri e desideri senza distruggerli (lo sparo alla
“testa”) in quanto minacciosi e persecutori.
La minacciosità e persecutorietà dei propri e altrui pensieri appare, dunque, intimamente correlata alla non sintonizzazione soggetto-ambiente e,
dunque, all’invasione di contenuti mentali e psichici egoalieni, pericolosi,
invasivi e colonizzanti la mente del soggetto. Dunque tale colonizzazione della
mente da parte dell’ambiente attraverso contenuti persecutori sarebbe alla
base dell’attacco ai propri e altrui pensieri e, dunque, dell’attacco alla relazione, al Sé e all’oggetto. L’analista, resistendo ed esistendo, non facendosi
“desoggettivare”, rimanda indietro al paziente un’immagine di Sé non come
distruttore ma come soggetto bisognoso di legami validi e bisognoso di affermarsi senza distruggere Sé e l’altro. Il paziente può sviluppare un senso di
fiducia nell’oggetto e, allo stesso tempo, può sperimentare la separatezza e la
non minacciosità dell’analista, con la sua mente e i suoi pensieri, in una situazione non dissimile a quella delle “cross identification” di Winnicott (1971) e
delle “interpretazioni centrate sull’analista” di Steiner (Reyner 1995). L’azione interpretativa viene ostacolata dal terrore del paziente di trovarsi di
fronte ad un analista che offre comprensione e contenimento nella separatezza; un analista che nel transfert negativo rappresenterebbe l’oggetto che
ha fallito e che, dunque, riediterebbe, in analisi, la paura del crollo psichico.
Il messaggio familiare, trans- e inter-generazionale assolutamente
“doppio”, che si è tramandato fino a Simone, nelle generazioni era quello di
leggere e incoraggiare ogni manifestazione come propriamente aggressiva e
di sopraffazione dell’altro. Tale tramandata “predisposizione” alla violenza
e alla deumanizzazione degli oggetti era ovviamente negata all’interno del
nucleo culturale-familiare e proposta come forma di affermazione e sopravvivenza del Sé all’esterno, un pensiero onnipotente atto al diniego della
dipendenza affettiva dall’ambiente. L’aggressione e la violenza come difesa
estrema dal contattare i vissuti depressivi profondi e “tramandati”.
Richard e Piggle, 15, 2, 2007
200 P. C. Verde: Aggressività, violenza e sviluppo emozionale in infanzia e adolescenza
In casi estremi come quello di Simone, la violenza diviene non solo il
mezzo di restaurazione dell’equilibrio narcisistico ma la sua essenziale ossatura. Separarsi da un tale gruppo familiare, da una siffatta cultura diviene
un compito improbo. Il mondo esterno è imprevedibile e incontrollabile e
quello interno devastato e persecutorio. L’autonomia, l’indipendenza, la
separazione-individuazione e la soggettivazione divengono, così, dei miraggi
evolutivi.
In situazioni non limite come quella di Simone, permane, comunque, il
conflitto adolescenziale tra un soggetto che cresce e va verso l’autonomia e
un gruppo familiare da cui distaccarsi investendo su nuove relazioni e nuove
identificazioni. Il conflitto drammatico tra soggettivazione e riassorbimento
nella relazione primaria (di estrema dipendenza) si porrà comunque. Le
manifestazioni aggressive, e parimenti l’inibizione dell’aggressività, si
inscrivono in questo conflitto dove la possibilità di perlustrazione e il piacere
di esplorazione suscitano una reazione avversa da parte dell’ambiente.
Conclusioni
La questione aggressiva si compone di variabili soggettive e ambientali.
L’aggressività è tale in un contesto interpersonale e interdipendente dove le
relazioni con gli altri e con il proprio milieu culturale danno significato ai
pensieri e alle azioni. La crescente strutturazione del Sé e quella di una teoria della mente propria e altrui, possibile solo attraverso la relazione con
l’ambiente, permette di individuare la qualità propriamente aggressiva e
ostile (variabile di intensità) dei comportamenti e dei pensieri (consci come
inconsci) dell’individuo. L’affermazione di esistenza dell’individuo sin dalla
nascita, la sua mobilità direbbe Winnicott, contiene al suo interno la possibilità di una declinazione più calda e ostile. Tale declinazione incontra sin
dall’inizio un ambiente sociale, che ridefinirà i confini della sua espressione
proponendo diversi significati interpretativi dell’aggressività. In tal senso
appare fondamentale e primaria la sensibilità dei genitori nei confronti degli
stati mentali del bambino (Cfr. Fonagy P., Target M., 2001).
La definizione di sé, la strutturazione del Sé attraverso le relazioni, la
separazione, l’individuazione, la soggettivazione, l’indipendenza e l’autonomia sono acquisizioni evolutive che passano tutte attraverso la necessità di
una modulazione dell’aggressività che permetta il mantenimento di relazioni interpersonali e interdipendenti sane e soddisfacenti.
Riassunto
L’aggressività come dotazione biologica primaria risulta indispensabile alla
sopravvivenza dell’individuo. Tuttavia, nello strutturarsi della personalità attraRichard e Piggle, 15, 2, 2007
P. C. Verde: Aggressività, violenza e sviluppo emozionale in infanzia e adolescenza 201
verso le relazioni interpersonali, un’esperienza continua di mancato sintonizzazione
bambino-genitore può interferire sulla declinazione più o meno ostile dell’aggressività e rendere difficile la differenziazione tra le due modalità di pensiero e di relazione. Una scarsa sintonizzazione e disponibilità emozionale genitoriale verso il
bambino e il fraintendimento ambientale delle manifestazioni infantili possono nel
tempo strutturare nell’individuo una minore capacità di tollerare le tensioni e di
autoregolarsi nonché una sovrapposizione tra la sana affermazione di sé (sostenuta
dall’aggressività/calda) e l’aggressività ostile (espressione di una aggressività
fredda). Si inserisce in questo quadro il tema del trattamento di pazienti, anche
molto giovani, in cui l’affermatività del Sé si sviluppa patologicamente, come attacco
all’altro, al legame e alla relazione con l’altro e come letale attacco al Sé.
Parole chiave: Aggressività, attaccamento, autonomia, affermazione di Sé, soggettivazione, teoria della mente.
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Pier Christian Verde, Psicologo; Psicoterapeuta S.I.Ps.I.A; Consulente tecnico dei Tribunali Minorile e Civile di Roma.
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