Biblos Teller 3 - Giuseppe Di Grande
Transcript
Biblos Teller 3 - Giuseppe Di Grande
BIBLOS TELLER Volume 3 - Dicembre 2010 a cura di Giuseppe Di Grande VITA E MORTE Tutti i diritti dei racconti di questa raccolta appartengono ai rispettivi autori INDICE PRESENTAZIONE di Giuseppe Di Grande ........................................................... 2 1 - L'ANGELO CUSTODE di Franca Bernardi ...................................................... 3 2 - LE VITE E LE MORTI DI TOM HELLFINGER di Maurizio Luminoso ...... 10 3 - L'ALFA E L'OMEGA di Mena Mascia ........................................................... 17 4 - IL PREMIER E IL GATTO di Pier Luigi Giacomoni. .................................... 22 5 - IL TULIPANO di Silvia Peroni ....................................................................... 30 6 - AL COMMISSARIATO di Nicola Zambetti ................................................... 39 7 - UNO SPICCHIO D’INDIA di Elisa Brezzi ..................................................... 49 8 - LE ALI di Giuseppe Di Grande ........................................................................ 55 9 - LA VITA OLTRE IL SOGNO di Silvana Valente .......................................... 61 10 - UNA RIVELAZIONE STUPEFACENTE di Massimo Maccaferri .............. 69 11 - LA RUOTA di Mariangela Zaccone .............................................................. 80 12 - LA PASSEGGIATA di Pino Furci ................................................................. 88 13 - L'INSOSTENIBILE PESANTEZZA DELL'ESSERE di Fernanda Flamigni 94 PRESENTAZIONE Finalmente siamo di nuovo insieme. Raccogliere i racconti di questo terzo numero di Biblos Teller non è stata una cosa per nulla facile. Infatti pubblico questo terzo volume dopo ben un anno dal precedente. Credo che sia fisiologicamente accettabile perdere un po' di smalto e di grinta man mano che si va avanti. Poi il tema di questa volta penso che non sia stato molto di aiuto e facile da affrontare. D'altronde non abbiamo nulla da biasimarci, poiché, chi più e chi meno, siamo scrittori in fasce, e allontanare ciò che scriviamo dal nostro personale vissuto molte volte diventa difficile, se non addirittura impossibile. Biblos Teller 3 contiene racconti che narrano di vita e di morte, di amore e di odio, di tutte quelle situazioni legate a questi due passaggi inevitabili dell'esistere. Vi anticipo che questi racconti vi lascieranno un segno, vi faranno provare delle emozioni, a volte positive, altre negative. Il consiglio che posso darvi è quello di immergervi nelle storie belle che non mancano, e di leggere con distacco quelle più amare; tenendo sempre presente che questi sono solo racconti della fantasia e della sensibilità di noi autori, e non racconti di vita vissuta. Nonostante tutto, questo terzo volume contiene ben tredici racconti, numero impennatosi proprio negli ultimi due mesi, e soprattutto in queste settimane di dicembre. Adesso bando alle ciance: è tempo di andare avanti. Vi lascio ai racconti e vi auguro buona lettura. Giuseppe Di Grande 1 L'ANGELO CUSTODE Su di una minuscola isoletta a forma di stella che emergeva da un argenteo laghetto abitato da curiosi pesciolini e fiori ancor più strani, viveva un'allegra famigliola: mamma, papà ed un bimbo buono e vivace. La loro casetta era rosa, a forma di cono; sembrava di abitare in un ridente cappello fatato. Gli abitanti della felice casetta si chiamavano: mamma Chiarastella, papà Felice ed il piccolo Omar. Non erano ricchi, ma possedevano una barchetta verde di nome Speranza, minuscola come un guscio di noce, nella quale facevano delle lunghe passeggiate sul lago. Un giorno, durante una delle passeggiate, si alzò un gran vento; i capelli della mamma, neri e lucidi come il velluto, si aprirono a corolla come la coda del pavone quando fa la ruota. Il vento soffiava sempre più forte, cosicché dovettero rientrare riuscendovi a fatica. La mamma prese un brutto raffreddore tanto che si ammalò gravemente e morì. Il piccolo Omar andò a piangere per la sua mamma sulla sponda del lago; tra i singhiozzi diceva: “Chi mi condurrà per mano d'ora in poi a passeggiare nei verdi prati? Chi mi canterà la ninna nanna dandomi il bacio della buona notte?” Un gabbiano che volava sopra di lui sentì i suoi lamenti e si intenerì. “Ora chiedo al bimbo perché piange tanto”- pensò fra sé e si posò sulla sua spalla. “Piango perché la mia mamma è volata in cielo”- rispose Omar alla domanda del gabbiano. “E come si chiama la tua mamma?” “Chiarastella, perché lo vuoi sapere?”- chiese il bimbo a sua volta all'uccello. “Perché devo andare in paradiso per discutere col buon Dio su questioni riguardanti noi gabbiani e una volta lassù la cercherò per portarle i tuoi saluti”. “Oh sì, grazie!” – disse Omar al buon gabbiano, pieno di gratitudine nei suoi confronti – “Posso venire anch'io con te? Voglio andare dalla mamma!”. “Oh, mi dispiace! Lo farei volentieri, ma non posso; sei troppo pesante per le mie piccole dimensioni! Se fossi un'aquila ti porterei, ma su quest'isola non ce ne sono, vivono sui monti a centinaia di miglia di distanza da qui”. “Allora mentre voli verso il paradiso – disse il piccolo asciugandosi i lacrimoni – puoi passare sui monti per chiedere ad un'aquila se può farmi questo favore?” “Mi dispiace, ma non posso aiutarti – rispose l'uccello – perché se solo tentassi di avvicinarla, mi mangerebbe in un sol boccone”. “Allora, - disse Omar deluso – quando arriverai in cielo ed incontrerai la mia mamma devi dirle di tornare qui; il mio papà ed io la rivogliamo con noi”. “Glielo dirò senz'altro, vedrai che tornerà”. Il gabbiano sbatté le ali e volò via. Omar si accorse che si era fatto buio e la notte era umida e fredda. Rientrò in casa correndo; il papà, con gli occhi lucidi di pianto, l'attendeva, seduto vicino al caminetto: “Piccino mio, è ora di dormire! Vieni a fare la ninna fra le mie braccia”.- disse l'uomo. Le forti braccia del papà lo rassicurarono, ma sentì la mancanza di quelle morbide della mamma; comunque si addormentò. Il papà lo depose nel lettino e uscì. Omar sentì un fruscio d'ali: un tiepido vento riscaldava la stanza. Il suo angelo custode l'accarezzò e rimboccandogli le coperte gli disse: “La tua mamma ti sta aspettando!”. Il leggiadro angelo mise il piccolo sotto la sua ala per proteggerlo dal freddo e cullandolo nel suo sogno lo condusse verso il paradiso. Durante il viaggio incontrarono la stella Orsa Maggiore che li salutò e gli chiese dove fossero diretti. “Se desiderate che vi faccia strada, vi guiderò molto volentieri con la mia luce” – disse ella. “Grazie mia buona stella, ma conosco molto bene la strada – rispose l'angelo – non devi disturbarti per noi!”. Mentre volteggiavano, una nuvola rosa che viaggiava fluttuando nella loro direzione, li salutò. L'angelo disse: “Se saliamo a bordo di questo soffice tappeto del cielo, arriveremo più in fretta a destinazione!”. Si distesero allora sulla nuvoletta e Omar le disse: “Portami dalla mia mamma!” Il rosato batuffolo del cielo ubbidì. Mentre si dirigevano verso il paradiso si imbatterono in un gruppo di stelle filanti che danzavano, intrecciandosi nelle loro code l'una con l'altra allegramente. Quando arrivarono a destinazione l'angelo custode di Omar, di nome Benedetto, andò a cercare quello di Chiarastella. Benedetto chiese all'altro angelo di nome Aurora dove fosse la mamma di Omar; ella rispose che era appena arrivata e si trovava ancora davanti alla porta d'ingresso del paradiso, in attesa che le indicassero il suo posto. Con un alito di vento volarono all'ingresso e Omar balzò fra le braccia della mamma. “Sono venuto a prenderti, -le disse-devi tornare con noi!” “Ora non posso – rispose lei – perché sono appena arrivata, ma fra un anno tornerò; una mattina sentirai picchiare sui vetri della tua finestra e dovrai aprirmi subito, altrimenti potrei dissolvermi nell'aria. Verrò in forma di colomba e dovrai chiamarmi Pia; sarò un candido uccello di pace e resterò sempre con voi. Non dir niente al babbo perché voglio fargli una sorpresa. Per ora devi accontentarti di vedermi in sogno. Appena ti addormenterai, Benedetto verrà a prenderti e ti condurrà da me”. Lo baciò e si avviò al suo posto. Quando Omar si svegliò il sole splendeva, creando divertenti giochi di luce sui vetri della sua finestra. Chiamò il suo papà e gli disse sorridendo: “Ho appetito!” Il babbo sorrise a sua volta felice di vedere il piccolo spensierato come prima. Omar fece una gustosa colazione e appena finito di mangiare corse fuori a giocare sotto il sole con un aquilone; giocava tutto il giorno, ma quando si faceva buio non vedeva l'ora di dormire per andare dalla sua mamma. Ella mantenne la promessa; trascorse un anno esatto ed una mattina Omar sentì picchiare sui vetri. Dormiva ancora, ma balzò in piedi per non far attendere la bella colomba; aprì e con sua grande sorpresa vide che l'uccello della pace dalle piume di seta aveva sulla testa un ciuffo nero che ad Omar ricordò gli inconfondibili capelli della sua mamma. La colomba sbatté le ali in cenno di saluto e disse: “Eccomi, sono tornata per restare sempre con te!”. Da quel giorno la bella colomba parlante fece compagnia al piccolo Omar prendendo parte a tutti i suoi giochi e partecipando a tutti gli avvenimenti della famigliola. Ella non si limitò solo a partecipare, ma si preoccupò di organizzare loro una ancor più gradevole esistenza. Ogni giorno diceva al babbo cosa e come cucinare gustosi pranzetti. Per essere una colomba ne sapeva anche troppo, non trovate? I giorni trascorrevano in serenità ed allegria. Il clima si faceva sempre più mite, la primavera era alle porte, finché un giorno, finalmente, arrivò. Omar, riscaldato dalla tiepida brezza, ebbe voglia di passeggiare nel bosco. Così chiese a papà Felice e alla colomba Pia il permesso per farlo. Ella pronta rispose “Sì, piccolo mio, verrò anch'io con te. Ho voglia di sgranchirmi le ali. Sento il bisogno di muovermi e svolazzare qua e là. Mentre tu correrai da un arbusto all'altro, io svolazzerò di pianta in pianta”. Felice baciò il piccolo, accarezzò il ciuffo di piume nere della colomba, augurando loro buona passeggiata. Pia si posò sulla spalla del bimbo. Di tanto in tanto, per gioco, gli solleticava le gote con le sue soffici piume. Salterellando e svolazzando qua e là, giunsero nel bosco. Il ridente paesino aveva un curiosissimo nome “Vieni qua”. Esso, più che un nome, era un invito a soggiornare nel bel luogo. Per rendere ancor più curioso tutto ciò, gli abitanti si chiamavano “Vieniquanesi”. Il bosco era bellissimo. Scintillava di smaglianti colori. Omar e Pia si divisero. Pia però, tra un frullio d'ali e l'altro, continuò a tenerlo d'occhio. Egli si distrasse, e, saltellando tra siepi e cespugli, si smarrì. Pia però, attenta com'era, lo raggiunse. Anche le colombe hanno l'istinto materno, prima che lei rinascesse Omar era stato suo figlio. Comunque, tra un pensiero e l'altro ella, come il suo piccino, non riuscì più ad orizzontarsi. Era un pomeriggio stupendo. Per fortuna il sole brillava ancora alto. La colomba non si perse d'animo. Sbattendo le ali, in fondo al vialetto, scorse una bellissima ragazza che, vedendo lei e il piccolino che le trotterellava accanto, corse loro incontro. Omar, affettuoso com'era, non appena la raggiunse, le saltò al collo. Flory, questo era il nome della ragazza, trasalì per la sorpresa. Ma, dopo un primo attimo di smarrimento, lo strinse a sé. Pia stupita disse “Omar, ma da quando in qua sei diventato così intraprendente? Hai fatto spaventare questa ragazza, sei troppo irruente, così non va bene”. Flory carezzò i folti boccoli castani del bimbo poi lo strinse più forte a sé, scoccandogli un bacio sulla fronte. Chiese al piccolo ”Come ti chiami frugoletto?” “Omar” “Dimmi Omar, sto sognando o la colomba ha parlato?”. Poi senza attendere risposta disse, fra sé e sé “Devo aver preso troppo sole, perché sto delirando!” Il bimbo scoppiò in una fragorosa risata. Continuando a ridere disse “Non stai sognando, Pia è una colomba parlante. Prima era una ragazza e si chiamava Chiarastella. Poi il buon Dio ha voluto che ella tornasse in cielo. Ma io e il mio papà non potevamo stare senza di lei. Così ha deciso di tornare.” La ragazza spalancò gli occhi per la meraviglia “Povero bimbo, il sole ha fatto male anche a te” disse preoccupata. “No, Flory, il bimbo non ha preso un'insolazione. Quel che dice è tutto vero.” “Mi chiama per nome, ma io non ho ancora detto come mi chiamo!” disse parlando fra sé. Pia, divertita, sbatté le ali e disse “Ora vediamo se stai sognando. Abbiamo smarrito la strada del ritorno. Chissà se sarai in grado di accompagnarci! Abitiamo in via delle scarpe volanti, sai dove si trova?” Flory disse “Venite con me, vi accompagno io!”. La ragazza prese per mano il bimbo e Pia si posò sulla sua spalla. “Non è molto lontano da qui, solo che siete entrati nel viale dei numeri e questi vi hanno fatto confondere”. “Cos'è il viale dei numeri?” chiese Pia incuriosita, “io sono mancata per circa un anno. Questo viale dei numeri non lo conoscevo.” “Esiste da pochi giorni”, disse Flory “E' stato creato per dare un'attrattiva in più al nostro bosco. Ma è facile perdersi. Però basta seguire la direzione dei numeri e ci si ritrova subito”. Chiacchierando, in breve tempo, raggiunsero la casetta. Felice li attendeva nel giardinetto. Fu molto sorpreso quando vide quella meravigliosa ragazza con Pia che le svolazzava sulla spalla e Omar per mano. Corse loro incontro e sorridendo disse:”Che bella sorpresa, attendevo la colomba ed il bimbo, ma il Signore mi ha anche fatto dono di una meravigliosa creatura. Da quale firmamento vieni fanciulla?” chiese l'uomo stupito.- “Non sono una stella cadente, ma una ragazza in carne ed ossa!” -rise lei- “Mi chiamo Flory. E tu, buon uomo?”- “Non chiamarmi così, mi fai sentire un vecchio saggio! Ma la mia saggezza è svanita guardandoti. Sei talmente bella da far mancare il respiro! Prima di incontrarti mi chiamavo Felice, ora però credo di chiamarmi esterrefatto!”- rispose con lo sguardo sognante-“Venite entriamo, beviamo qualcosa!” Flory aveva un bellissimo volto. Gli occhi grigi accrescevano lo splendore del viso contornato da un lunghissimo manto di capelli biondo rosso. -“Hai visto, Felice, che meravigliosa creatura ti ho portato?”interloquì la colomba Pia -“Ella sarà la tua seconda sposa. L'ho deciso io. Tu ed Omar non potete restare soli per sempre. Dì qui a qualche mese vi sposerete. E avrete tanti meravigliosi bambini! Flory è molto buona. Io le sto leggendo dentro. Amerà Omar come se fosse suo e lui la considererà la sua mamma. Di me conserverà un dolce e tenero ricordo. Se vorrete, continuerò a restare con voi. Di tanto in tanto svolazzerò qua e là . Potrete accarezzarmi le piume così mi sentirò amata anch'io. Da domani inizieremo i preparativi per il grande giorno. Come colomba, potrò presenziare alla cerimonia. Anzi, se vorrete, uscirò dalla vostra torta nuziale! Siete d'accordo?”-“Oh sì, certo mammina!”-“E' un'idea fantastica! Resteremo sempre insieme in armonia”-. Franca Bernardi 2 LE VITE E LE MORTI DI TOM HELLFINGER E fu così che morii di nuovo. Come dite? Che non capite nulla? Vi sembra che sia folle? Probabilmente è meglio che vi racconti tutto dall'inizio… forse così mi capirete… Io sono, anzi, ero Tom Hellfinger: primo ed ultimo figlio di una delle famiglie più influenti della Noringia, mi toccò un'infanzia di favola, che chiunque avrebbe desiderato vivere… ma non io, almeno in quel momento, dando allora ancora per scontato che mi toccasse vivere quella sorte, credendo – ahimè, che folle idea! – che non potessero esistere sorti diverse, sorti certo non uguali, ma non per questo tanto dissimili tra loro. Quale unico e desiderato figlio, i miei genitori riversarono su di me tutte le attenzioni che il loro affetto smisurato ed il consistente patrimonio familiare consentiva di poter dare, così che nessun capriccio, per quanto sciocco o insignificante, mi era mai negato, né vi erano limiti a quel che potevo chiedere, se non quelli derivanti dalla mia ancora giovane ed inesperta fantasia. Fu in quel periodo che ricevetti ogni sorta di balocco che, anche per un solo momento, aveva attirato la mia attenzione, balocchi che però presto, sopraffatti dai nuovi incostanti desideri, mi tediavano irresistibilmente, rimanendo poi abbandonati ad impolverarsi tra cumuli di splendidi giocattoli sui quali non avrei mai più posto di nuovo occhio. Fu sempre in quel periodo che feci viaggi stupendi in terre lontane, i cui nomi non saprei riferire tutti, ma che hanno lasciato in me il fascino e l'incanto di sogni surreali e di malie indescrivibili, viaggi che mi hanno fatto conoscere quasi tutte le terre che vi sono, per visitare le quali non basterebbe tutta la vita di un uomo normale, e le meraviglie che vi stanno. Avevo i miei genitori totalmente per me, sempre pronti ad accontentare ogni mia voglia, cercando in ogni modo di compiacermi, senza che io avessi neppure bisogno di parlare: ero il loro vezzeggiatissimo principino che andava accontentato in ogni cosa… Dovevo essere pienamente felice, ma non lo ero, poiché non conoscevo ancora il dolore, quegli abissi di angoscia e di disperazione nei quali mi precipitò successivamente il destino, facendomi rimpiangere quegli anni giovanili come un lontano miraggio, un paradiso per sempre perduto ed oramai definitivamente irraggiungibile, di talché più volte, tra le tribolazioni degli anni successivi, riconsideravo il mio felice passato con viva meraviglia, come se l'avessi soltanto sognato, stentando a credere che potessi aver veramente vissuto quell'infanzia di favola che in effetti vissi. Non avevo infatti ancora neppure compiuto i dieci anni quando mio padre, a seguito del gravissimo fallimento a cui era andato sciaguratamente incontro, ebbe a suicidarsi per la vergogna e di lì a poco lo seguì nella tomba pure mia madre, che, vedova inconsolabile, aveva ormai votato i suoi ultimi giorni al pianto, uno struggente pianto continuo, che mi sembra ancora oggi di sentire, quando vi è silenzio. E fu in questo modo che al mio decimo compleanno mi trovai completamente solo al mondo, non avendo i miei genitori parenti prossimi che potessero tenermi per affetto e non volendo quelli più lontani, che invece c'erano, il peso ed il costo di tirar su un marmocchio spiantato, senza alcuna adeguata prospettiva di ritorno per i loro meschini tornaconti. Il mio decimo compleanno fu notevolmente diverso dagli altri compleanni che lo avevano preceduto: niente feste, niente regali, niente di niente, neppure una faccia amica, solo le sbarre della finestra dell'orfanotrofio, che separavano me dalla libertà, e gli sguardi ostili dei miei compagni di stanza che vedevano con invidia in me uno che era stato comunque privilegiato dalla vita. Anch'io in quel momento morii con i miei genitori, non sapevo capacitarmi di come, loro che mi volevano così bene, avessero potuto lasciarmi completamente solo al mondo, perché avessero scelto di morire, invece di restare con me… Ma tutto questo durò poco, appena il tempo che morisse il mio vecchio io, poiché ben presto, tra gli scherni spietati dei miei nuovi compagni ed il freddo distacco dei miei educatori, per non soccombere e perire alla dura legge del più forte, in quella giungla che era ormai diventata per me la vita, riuscii a trovare dentro di me un'energia immensa, alimentata dalla rabbia e dall'odio incontenibili che mi erano appena nati, che non solo riuscì a farmi evitare di essere sopraffatto dalle prepotenze degli altri, ma addirittura trasformò me da facile preda a feroce predatore, diventando così il più duro dei duri, il più forte dei forti: il bambino dentro di me era ormai definitivamente morto e sepolto, vivendo adesso un ragazzo che, mi vergogno ora a dirlo, si faceva strada con ogni mezzo, senza disdegnare neppure l'uso della violenza. Fu così che mi conquistai il rispetto, o forse dovrei meglio dire, il timore dei miei compagni di sventura, che obbedivano a tutte le mie richieste – non era forse pure quel che facevano anche i miei genitori? – e mi erano disgustosamente servili, ben conoscendo le dure punizioni a cui andava incontro chi non mi prestava la dovuta deferenza: anche i miei educatori, quelli che avrebbero dovuto cioè bene ammaestrarmi, mi temevano e perciò facevano finta di non accorgersi affatto di quel che avveniva, lasciandomi in tal guisa fortificare oltremodo. Nel terrore degli uni e nell'indifferenza degli altri, mi costruii quindi un piccolo regno votato alla prepotenza ed all'abuso, un piccolo regno di cui mi ero fatto da solo re, estendendo la mia nefasta influenza su ogni cosa, perfino fuori dell'orfanotrofio. Per questo, appena compii i diciotto anni, potei subito uscire dall'orfanotrofio senza problemi e, avendomi la mia triste fama già preceduto fuori degli angusti confini dell'istituto dove stavo, ebbi pochi ostacoli ad inserirmi nella società. Grazie al mio indiscusso ascendente sui giovani, mi misi nel mercato dei furti, poi mi estesi a quello della droga ed infine a quello del racket, mentre facevo una rapida carriera, passando da luogotenente di uno dei più noti boss malavitosi a suo uomo di fiducia, diventando infine, con un improvviso colpo di mano ai danni del vecchio gotha, uno dei capi del cartello criminale che governava la città di Norien, uno dei pochi che aveva il potere di vita e di morte e Dio solo lo sa come non ebbi certo scrupoli ad usare, con ferocia e raffinatezza – non ero forse di nobili natali? – tale potere, pur di rafforzare la mia supremazia assoluta! In virtù del potere che avevo, nessun piacere, neppure il più folle o raffinato, mi era negato ed indulgevo, con un certo fatalismo misto ad ansietà, in ogni tipo di sfrenatezza, alla vana ricerca di una felicità che, seppur momentaneamente raggiunta, infine svaporava subito come una bolla di sapone, lasciandomi un sapore amaro in bocca, e, per quando cercassi qualcosa che potesse per sempre rasserenarmi, ero invece divorato da una fame insaziabile di felicità che mi rendeva costantemente infelice ed insoddisfatto, così che sebbene fossi sempre in compagnia, mi sentivo ciononostante perennemente solo. Nell'olimpo inarrivabile dove stavo, ero ricco ed infelice, potente ed insoddisfatto, acclamato e solo, odiato ma temuto. Certe volte nel silenzio della notte, guardando dall'alto della mia suite la città che si stendeva sonnacchiosa ai miei piedi, pensavo al mio destino. Da promettente erede di una delle famiglie bene della Noringia a signore delle tenebre del lato oscuro di Norien, due vite completamente diverse, ai versanti opposti del bene e del male, senza affatto conoscere le sfumature intermedie: solo bianco o nero, nessuna tonalità di grigio… Non mi riconoscevo affatto nella vita viziata che avevo vissuto sino agli otto anni, ma i miei genitori, se fossero stati ancora vivi, non avrebbero di certo affatto riconosciuto in me il loro bravo figlioletto prediletto. Raramente, piuttosto raramente, mi coglieva un debole senso di colpa, ma rapidamente mi autoassolvevo: non era colpa mia quello che ero diventato. Tutti mi avevano abbandonato, nessuno mi aveva aiutato: era forse colpa mia se avevo cercato di sopravvivere? Era colpa mia se ci ero riuscito così bene da ripagare con la stessa moneta ricevuta la società che tanto mi aveva aiutato? Tutto ciò però non toglieva che la mia invidiatissima vita con gli enormi privilegi dello status sociale raggiunto – ho dimenticato di dire che mi ero messo in politica, diventando presto un potente senatore, e che avevo partecipazioni nelle varie società e banche che controllavano la Noringia! – mi lasciavano profondamente insoddisfatto, sentendo che mi mancava qualcosa, qualcosa che se l'avessi compresa avrei subito cercato di ottenerla per essere pienamente felice. Ma che cos'era che mi mancava? Che cosa mancava a chi aveva davvero tutto, potere, ricchezza, salute e giovinezza? Gli anni sarebbero potuti continuare a passarmi davanti inesorabilmente uguali, procedendo monotonamente io con sempre più ricchezze e più onori, e nel contempo, con sempre maggiore scontentezza, se non fosse che il destino mi frappose un insignificante granello di polvere, che presto diventò un enorme macigno per i miei perfetti ingranaggi di vita che mi ero costruito. Dovete sapere che, nella mia malvagità, mi accanii particolarmente sui miei lontani parenti, che in cuor mio ritenevo gli unici veri responsabili delle disgrazie che avevano seguito la morte dei miei genitori, ed in questo disegno di fredda vendetta, provocai la loro rovina economica, riducendoli sul lastrico, e li sospinsi inesorabile sulla via della vergogna e dell'abbrutimento, facendo loro perdere ogni minima dignità e trasformandoli in disonorevoli reietti della società, provando segreto compiacimento nell'informarmi della loro sorte e nell'apprendere gli abissi di ignominia nei quali man mano scendevano. Li ridussi a mendicanti che contemplavano le ville che un tempo erano loro, a marioli che si prestavano ad ogni bassezza pur di avere il pane per la giornata ed ogni pudore feci perdere alle loro donne, inducendoli a prostituirsi. Se questa non fu la più feroce e la più crudele delle vendette possibili… Una sola dei parenti però resisteva ai miei continui tentativi di umiliazione, mantenendo nella miseria la compostezza e la dignità che un tempo le competevano ed il suo esempio era di positivo sprone per i suoi fratelli e sorelle che, pur nell'indigenza, non cedevano all'avversa sorte, tirando a vivere onestamente col sudore della fronte, prestandosi, con umiltà, a qualsiasi lavoro, purché non disonorevole. Né le minacce alla sua incolumità, né le lusinghe di una possibile vita migliore concedendo il suo corpo, riuscirono in alcun modo a piegare questa mia lontana cugina, per cui alla fine, dopo innumerevoli quanto vani tentativi, spazientito, ancorché ammirandone quella fierezza che mi ricordava la mia stessa tempra, me la feci condurre davanti per vedere come potevo finalmente attentare e prostrare la sua virtù. Nei suoi occhi non vidi né paura, né odio, né disprezzo per me, ma solo pietà e compassione: come poi in effetti seppi, non ce l'aveva affatto con me e, pur condannando recisamente il mio operato, mi capiva, comprendeva, anche se non lo giustificava, la mia truce vendetta, ripetendo sempre ai suoi familiari che stavano soltanto raccogliendo ciò che avevano prima seminato, odio in cambio dell'indifferenza. La sua fierezza e le sue parole, unite all'avvenente bellezza del suo giovane aspetto, mi conquistarono, al punto che la feci riportare subito a casa, ammonendo i miei uomini di non fare più il minimo danno a lei ed ai suoi parenti. Ancora sento le sue parole: «È giusto ripagare con la stessa moneta, ma se sei stato così zelante nel ripagare tutto l'odio ricevuto, hai allo stesso modo saputo ripagare tutto l'amore ricevuto?». Era vero: l'amore immenso che i miei genitori, fino all'ultimo, avevano incessantemente riversato su di me, che fine aveva fatto? A chi poi avevo saputo trasmettere a mia volta quell'amore? «Non è mai troppo tardi per ricominciare, pensaci!», aveva lei aggiunto, ed anche in questo aveva ragione… La pudica rosa era diventata il macigno che aveva fermato, a sorpresa, il gelido acciaio dei miei perfetti ingranaggi. Da allora, infatti, allentai la mia nefasta morsa sui miei parenti ed anzi mi adoprai per riportarli agli antichi fasti, traendoli dal fango dove li avevo spietatamente gettati. Avevo un potere ed una ricchezza che neppure i miei genitori avevano mai avuto e, dopo le parole di Susan, così si chiamava mia cugina, decisi senza tentennamenti che era ormai tempo di fare del bene alla società, ripagandola con gli interessi di tutto il male che aveva subito. Non era più il tempo dell'odio, ma il tempo dell'amore ed io non ero ormai più lo stesso di prima, dopo quell'incontro… e forse avevo finalmente scoperto come essere felice… quel segreto sempre vanamente inseguito… E così morì il vecchio Tom Hellfinger e nacque il nuovo Tom, ma questa è un'altra storia. Considerate però questo soltanto: in un unico corpo si possono vivere tante e tante vite, infinite stagioni dell'esistenza, alcune belle, altre meno, illimitate sfumature tratte dall'incomprensibile tavolozza della lotteria del destino, morendo la vecchia vita e rinascendosi a nuova vita, al punto di essere talmente diversi tra una stagione e l'altra, da poterci dire a buon titolo individui diversi che solo per caso hanno condiviso lo stesso corpo. In questo perenne ed incessante ciclo di morti e di rinascite, tutti cicli di lunghezza incostante ed imprevedibile, però solo i più fortunati tra di noi riescono ad evolvere verso individui migliori ed io – nonostante tutto, anzi, proprio per tutto – ho avuto questa rara fortuna. Avola, 18 giugno 2010 Maurizio Luminoso 3 L'ALFA E L'OMEGA Cosa rappresentano la vita e la morte di una persona, se non l'alfa e l'omega, l'origine e la fine, su una strada decisa non si sa perché, non si sa da chi, non si sa come, in un percorso già ineluttabilmente tracciato? Sarebbe nella naturalità delle cose che, così come la vita nascie, la morte arrivi, ma non allorché deliberatamente lo si decida, e, soprattutto, se non si hanno che sedici anni. le strade del borgo antico odoravano dell'uva appena pigiata nei tini che uscivano dalle cantine, riportando alla luce l'uso di un retaggio d'altri tempi. Quasi a far rivivere le radici tornate a galla dal rimosso, nel centro storico della città dove ognuno s'improvvisava contadino per rifornirsi di vino, un ragazzo troppo triste varcava la soglia di una finestra per volare giù e spiaccicarsi sui sampietrini della strada. In tutte le case, compresa la sua, ci si preparava per la cena, mentre il suo disagio si compiva con l'andarsene tra gli svariati fumi che donano l'ebrezza. E così anche il sabato se ne andava verso la notte tutta da vivere, con le sue attese, per consumarsi tra i rumori che stordiscono e l'illusione che uccide. Intanto che egli se ne andava, i ragazzi come lui decidevano col proprio gruppo cosa fare per tirare mattina, ritenendosi i padroni dell'inebriante notte rumorosa. In tal modo, mentre lui lasciava questo mondo perché non ci stava più bene, tutti gli altri pensavano a divertirsi, ignari che uno di loro non ci sarebbe stato mai più a sorridere. Nella fredda sera d'autunno, la strada stretta era quasi deserta, quando all'improvviso lo avevano visto cadere sul selciato. Vestito soltanto del pigiama, in un tragico momento, egli aveva deciso di lasciarci; solo, per andarsene verso il niente che lo inghiottiva, lui aveva realizzato così di rifiutare il proprio gregge di appartenenza. Un monello solitario tirava calci ad un pallone, quando ad un tratto egli lo aveva visto volare giù, Nudo fagotto di carne, spiaccicarsi sul selciato che s'intrideva di sangue e lo aveva guardato senza capire. Tra gli altri sgomenti, egli lo vide e gli chiuse gli occhi, pur non potendo far nulla perché non si facesse male alla fine del volo, prima che diventasse un niente da rimpiangere e venerare. Chi può dire quale fosse il disagio che vivevi, giovane come tanti che non apprezzano l'esistere, considerandolo troppo faticoso da affrontarsi giorno per giorno? Non lo avrebbero saputo mai i suoi compagni carichi di fiori e di fazzoletti che nascondevano lagrime di compassione, mentre cercavano di pregare per lui. Proprio come quel figlio sconsolato, con il loro pianto, essi ammettevano di essere le vittime designate del nostro tempo confuso. In presenza del povero spirito vagante, la folla della strada guardava piangendo quel corpo senza vita, che aveva voluto morire, forse nella perenne ricerca del bello. Era un giorno di ottobre inoltrato quello alla fine del quale il figlio di Angela aveva deciso che non valeva più la pena di vivere. In base a quali criteri quel ragazzo, in apparenza pieno di vita, avesse valutato giusto di compiere un gesto considerato così assurdo da chi non era nella sua stessa condizione spirituale, una volta andatosene, non avrebbe potuto più dircelo, né i suoi genitori che lo avevano amato sopra ogni cosa al mondo, avrebbero potuto desumerlo da atteggiamenti vanamente ricordati, o da espressioni diventate vangelo da decodificarsi tra le pieghe del non detto, da leggersi tra le righe delle ultime parole pronunciate dall'adolescente scontento, con l'indifferente arroganza dei giovani che tutto sanno e nulla desiderano apprendere dai grandi, verso i quali talvolta solo per partito preso, provano avversità e non esitano a reputare nemici. Ma a far tornare vivo il figlio all'affetto dei genitori non sarebbero servite le immancabili analisi sociologiche che di certo ci sarebbero state a iosa a tentare di capire il suo gesto solitario e a riportarlo a casa. Quei poveri genitori disperati non l'avrebbero più potuto sentire respirare, vederlo uscire vestito con la casualità dei giovani, non avrebbero nemmeno saputo come immaginarlo protrarsi in un futuro che non ci sarebbe stato mai più. Cosa avrebbero potuto dire, da lì in avanti, suo padre che l'idolatrava e sua madre che lo riteneva il progetto migliore uscito da lei, se non che lo aveva desiderato sopra ogni cosa, sfidando l'età e le convenzioni? Aveva superato i quarant'anni, quando suo figlio aveva visto la luce, in seguito ad una gravidanza difficilissima. Tornando a ritroso con la mente attraverso tutti i valori che pure sperava di avergli trasmesso, da quella sera in poi, si sarebbe sempre chiesta dove aveva sbagliato, la povera donna distrutta, incapace di darsi una risposta possibile. Come il ritornello ripetuto da un disco rotto, a vuoto avrebbe rivolto incalzanti domande a se stessa . Purtroppo però, per quanti sforzi potessero farsi, mai nessuno le avrebbe dato risposte consolanti. Eppure anche suo figlio era stato un bambino da coccolare, un fagottello piagnucoloso cui cantare una ninnananna per calmarne le paure, un piccolino da far diventare uomo. Come aveva potuto dimenticarlo in quell'attimo infausto d'eternità che fu suo, soltanto suo? In nome ed in favore di quali negatività quel ragazzo che pure era stato bambino, aveva potuto scordare quei valori, se a soli sedici anni una lametta da barba e un tetto spiovente gli erano sembrate le ancorette cui appigliarsi non per salvarsi, bensì per farla finita col sole, con le stelle, con i colori dell'arcobaleno? Nel fiume di parole che da quella sera e nei giorni a venire per un poco avrebbe scorso inadeguato per commemorare il suo breve passaggio quaggiù, quel ragazzo non si sarebbe ritrovato. Dalla dimensione dov'era capitato, gli sarebbe sembrato che avessero parlato d'altri, appellandoli con il suo nome e forse avrebbe finalmente riso, nel mondo lontano da cui quelle parole gli sarebbero giunte ipocrite. Se, quel figlio unico forse troppo viziato, un ragazzo sicuramente troppo solo, era stata una pecorella svanita tra i fumi dell'alcool che complicano vieppiù l'esistere difficile, sarebbe stato necessario chiedersi quanto ci aveva pensato per decidersi di andarsene tutto solo. Cosa lo aveva affascinato perché potesse compiere l'assurdo viaggio in compagnia dell'illusorio star meglio? Così è tanto difficile alla mia età immaginare cosa significhi essere giovani ora, che non ci provo nemmeno. Perdona a me e agli altri, tu che giovane rifiutasti di essere oltre. Ti chiedo perdono per l'indifferenza verso una condizione che pure fu nostra e l'abbiamo dimenticata. Come acqua torbida che va a buttarsi nel mare dell'indifferenza, una volta che sia passata la bagarre per purificarsi nel cammino, anche il tuo nome tornerà ad essere pronunciato pulito, una volta che il tempo lo abbia purificato dell'accaduto. Pellegrino dell'immenso universo che ti toccherà percorrere da solo, abbi pietà per quelli come me che non seppero alleviare il tuo disagio. Guarda con compassione a quei puntini neri che pure ti furono cari e che si fanno sempre più minuscoli nel desiderio che la terra li inghiotta, tanto manca loro la tua essenza giovane. Sappi che se non fummo in grado di sentire i tuoi richiami, non fu tutta colpa nostra; anche noi vivevamo il disagio dell'essere uomini fallibili. Nell'incapacità di comprendere di quel disagio i vari perché. Se non t'ascoltammo, perciò, non fu perché non volemmo, ma non sapemmo farlo. Dal mondo del vero dove ora vivi, perdona a tutti noi che pure ti amammo, poiché, nostro malgrado, non riuscimmo a capirti. Non negarci il tuo perdono, perché perdendoti fummo già troppo puniti. Rimpianto, nostalgia, forse tutto questo messo insieme, ma alla base delle sensazioni provate da Angela quando perse suo figlio, lei sapeva per certo che c'era soltanto tanta amarezza, delusione e dolore per le sfide che non aveva vinto, per le gioie che non aveva provato, per il tempo che le era sfuggito dalle dita inutile e vuoto. Quel senso di perdita che le faceva mancare il respiro quando la solitudine diventava padrona di tutto il suo essere, lo spazio vitale che la nera, mostruosa signora le aveva tolto per esprimersi, erano condizioni attraverso le quali probabilmente era passato il suo ragazzo, forse perché si era sentito mal tollerato, un peso, rifiutato come zavorra da sopprimere, e si era tolto di mezzo. Se all'improvviso anche a voi capiterà di sentirvi un invisibile, perché considerato meno di nulla da chi vi circonda, e perciò tenuto in nessunissimo conto, così come sempre più spesso ancora oggi capita ad Angela, una madre sconfitta, non crediatevi colpevoli, come pure vi verrebbe naturale. Convincetevi di essere solo incappati nella disgrazia di avere urtato permalose suscettibilità, abbandonate l'idea che vorrebbero fosse fatta vostra, secondo cui non sarebbero mai gli altri a sbagliarsi sul vostro conto, perché, ad avviso del solone di turno, sarà stato comunque il vostro comportamento a farvi risultare irrimediabilmente fuori di testa, al punto che il sapiente del momento si riterrà in diritto di consigliarvi di farvi visitare da uno bravo, uno che abbia gli attributi al proprio posto, uno che sia in grado di riprogrammarvi il cervello. Così come ha fatto Angela per molto tempo, avrete pianto fino a non credere di non essere capaci a fare altro, e poi arriva una sera, passata la quale, non l'avreste mai creduto possibile, vi rendete conto di non aver lacrimato per tutto il giorno. Proprio come lei, vi sarete ripresa in mano la vita, ed accorti di rimpiangere la catastrofe, ma, incredibile eppure vero, vi troverete a non essere più tanto scontenti di esser sopravvissuti ad essa. Bari, 17/03/2010 Mena Mascia 4 IL PREMIER E IL GATTO. - Mi trattengo in ufficio ancora un po' - disse il Primo Ministro alla segretaria - va' pure, spegnerò io le luci! Se avrò bisogno di qualcosa, chiamerò la Sicurezza! La segretaria salutò e rincasò: anche per lei era stata, come al solito, una giornata dura. Sulla scrivania il Premier trovò la solita montagna di documenti: dei discorsi da pronunciare, un importantissimo rapporto dei servizi segreti riguardante un possibile attentato terroristico, un disegno di legge da portare al prossimo Consiglio dei Ministri, dei ritagli di giornale, delle interrogazioni parlamentari. Per un attimo, il Capo del Governo si chiese cosa leggere per primo: decise di aprire il rapporto dei servizi segreti. Prese la cartellina elettronica di color nero con impresso le lettere "T. S." digitò la password e cominciò. «E' stata scoperta dai nostri agenti una rete di fanatici che stanno preparando un attentato dinamitardo al Grande Grattacielo...» Era talmente intento nella lettura che non s'accorse che un enorme gatto nero s'era sdraiato sugli altri documenti. a un certo punto un rumore lo fece trasalire: erano le fusa del micio, così sonore da far tremare la scrivania. Al Primo Ministro venne quasi un coccolone, quando sollevò lo sguardo dalle carte e vide la bestiola comodamente sdraiata sui discorsi e il disegno di legge. - Un gatto nel mio ufficio!!! Chi l'ha fatto entrare? - si domandò ad alta voce, un po' alterato. Stava per chiamare gli uomini della sicurezza per mandar via l'animale, poi cambiò idea: richiuse la cartelletta, dicendosi: - Al diavolo: Leggerò 'sta roba domani! Il gatto attirò su di sé l'attenzione dell'uomo politico. Senza che se n'accorgesse, il Premier cominciò ad accarezzarlo e, a mano a mano che andava avanti, gli riaffiorarono alla mente i ricordi di tutta una vita. Si ricordò della sua infanzia, quando in campagna sua madre aveva decine di gatti. Si ricordò dei suoi ideali giovanili, quando militando nella federazione dei ragazzi dell'Alleanza Arancione dichiarava in discorsi infiammati che la classe politica al potere non avrebbe mai cambiato lo status quo. Si ricordò dei suoi studi universitari alla facoltà di giurisprudenza e del momento in cui era iniziata la sua ascesa politica. Si rammentò della sua prima campagna elettorale, il suo ingresso in Parlamento, tra i deputati più giovani e spregiudicati, il suo primo discorso alla Camera. Poi subentrarono i ricordi dei momenti bui della vita politica quando per sopravvivere agli attacchi dei rivali s'era alleato con certe canaglie. Si ricordò dei compromessi che aveva dovuto accettare, delle bassezze, delle dissimulazioni e delle "pugnalate" inferte agli amici di un tempo per farsi largo e raggiungere la guida del partito e la poltrona di Primo Ministro. Se si guardava indietro non poteva far a meno di rivedere, come in un album fotografico, i volti di coloro che, per causa sua, eran stati eliminati dalla scena pubblica. Si rammentò dello scandalo "perfetti" in cui il suo fedele amico Ministro della Difesa era stato costretto alle dimissioni sotto l'accusa, rivelatasi falsa, d'aver incassato una corposa tangente per favorire una fornitura di carri armati, tra l'altro assai insicuri. Si ricordò dello scandalo a sfondo sessuale che aveva travolto l'Onorevole Tagliavini, candidato alla guida del partito, e che lo aveva indotto a togliersi la vita. si ricordò delle ragazzine, che prima erano passate per il suo letto, che aveva raccomandato alla TV di Stato perché facessero le veline e comparissero in tutti i programmi d'intrattenimento che andavan per lamaggiore. Si ricordò dei giornalisti e dei direttori di quotidiani che aveva favorito pur di averne in cambio un sostegno incondizionato. Si ricordò del giorno, dieci anni prima, in cui, finalmente, aveva giurato nelle mani del Capo dello Stato come nuovo Primo Ministro. Da quel giorno non ce n'era stato per nessuno: tutti i tentativi per rovesciarlo erano falliti. I sondaggi d'opinione indicavano invariabilmente che avrebbe stravinto le prossime elezioni generali. Poi subentrò l'amarezza del momento, la sua solitudine di uomo, la fine del suo terzo matrimonio, i figli che non lo potevano vedere. A quel punto si chiese se quella era vita. Scoppiò a piangere, lui che era un duro dallo sguardo glaciale. Pianse sul gatto, ma le lacrime caddero anche sulla cartella dei servizi segreti, sui discorsi, sul disegno di legge, sui ritagli di giornale, sulle interrogazioni parlamentari. Era un pianto dirotto, con singhiozzi da bambino irrimediabilmente ferito, inconsolabile, disperato. Il micio rimase ad osservarlo in silenzio, come se comprendesse più di chiunque altro la disperazione d'un uomo schiantato dal dolore di tutta un'esistenza. Confortato da quello psicologo silenzioso che lo guardava e non diceva nulla, si rilassò e si addormentò sulle carte. Il gattone rimase lì a vegliare sul suo sonno. Al mattino l'uomo politico si svegliò e si guardò intorno: il gatto nero era ancora lì sulle sue carte stropicciate e inumidite dalle lacrime della sera prima. Appena sveglio nella testa del Primo Ministro maturò la decisione definitiva, irrevocabile, la sola che avrebbe potuto ridargli la serenità perduta. Alle undici in punto si presentò nello studio del Presidente della Repubblica: il Capo dello Stato, facendolo entrare, notò che lo sguardo del Premier era diverso dal solito, ma non ebbe nessuna premonizione di ciò che di lì a poco sarebbe accaduto. Non sapeva nemmeno spiegarsi come mai gli era stato richiesto un colloquio urgente: in fin dei conti non era scoppiata la guerra e il prezzo del petrolio era più o meno quello del giorno prima! - Eccellenza - attaccò il Capo del Governo - ieri sera ho preso una decisione irrevocabile: rassegno nelle Vostre mani le mie dimissioni. Lascerò anche il partito e il Parlamento: entro qualche ora Vi indicheranno il nome del mio successore. Il Presidente rimase senza parole: lesse la lettera di dimissioni che diceva: «caro Signor Presidente, mi dimetto perché un gatto mi ha fatto capire che ci son cose più importanti nella vita.» Un gatto? Ci son cose più importanti nella vita? Che cosa c'è di più importante nella vita del successo, della fama, dei soldi, del potere? Per un attimo nella mente del Presidente frullarono tutte queste domande. Aveva voglia di chiedere al Premier se si sentiva bene, se aveva bisogno di un periodo di riposo in certe cliniche private, dove strizzacervelli d'alta qualità e assai costosi potevano rimettere in sesto un uomo in poche settimane. In fin dei conti, la legge prevedeva che, "in caso di malattia o temporaneo impedimento", il Premier poteva delegare il suo vice a sostituirlo! Poi decise che quello aveva perso il senno e che per il bene dello Stato era necessario accettare la rinuncia in modo da procedere ad un rapido ricambio. - Non capisco bene il senso di questa lettera - rispose - ma accetto senz'altro le Vostre dimissioni. Vi prego soltanto d'attendere che il Vostro successore venga designato. Il colloquio era finito. Poco dopo venne diramato il comunicato ufficiale: «Il Presidente della Repubblica, al termine di un colloquio urgente, ha accettato le dimissioni del Primo Ministro, rassegnate per ragioni di salute. Il Premier si è anche dimesso da leader del suo partito e dal mandato parlamentare.» Poche ore dopo fu nominato un nuovo premier e formato un nuovo Governo. Tutti i principali osservatori della vita politica non seppero dar spiegazioni dell'accaduto. Le TV mostrarono un'auto blu che si allontanava dal palazzo di governo con a bordo un sorridente ex Primo Ministro e un grosso gatto nero sdraiato sulle sue ginocchia. L'uomo politico Si ritirò in campagna, in compagnia del suo fedele amico; rifiutò ogni richiesta d'intervista. Respinse anche la proposta, assai lucrosa, avanzata da un importante editore di scrivere le sue memorie: riallacciò i rapporti coi figli e con la terza moglie e per il resto della sua vita fu un tipo molto diverso da quello che tutti avevano conosciuto e malsopportato. Passarono gli anni e sembrò che tutti avessero dimenticato quell'odioso Primo Ministro che tanto dolore aveva arrecato. Non lo aveva dimenticato Guido Perfetti, l'ex Ministro della Difesa che viveva solo per potersi vendicare. Si presentò un giorno di giugno presso la villa dell'ex amico, chiese di potergli parlare, fu fatto entrare. Lo raggiunse nell'orto dove stava annaffiando i pomodori, fischiettando un'allegra canzone. Lui era lì, il vigliacco, l'infame, il farabutto, in calzoncini e maglietta, allegro come una pasqua. Lui, il Perfetti, era un uomo decrepito, stanco di vivere, pieno solo del suo rancore: - Eccellenza - esordì - forse non mi riconoscerete, io sono... - Certo che ti riconosco: Guido Perfetti, il mio vecchio amico! Come potrei dimenticarmi di te. Sono proprio felice che tu sia qui. Oggi sarai mio ospite: pranzeremo insieme, berremo del buon vino. Staremo allegri: rievocheremo i vecchi tempi! Il Perfetti aveva una faccia giallastra: forse era malato. - Sì, farabutto, perché oggi ricorderemo insieme i giorni dello scandalo che tu alimentasti contro di me per togliermi di mezzo ed impedirmi di prendere il tuo posto. Da quel giorno ti odio e non vedo l'ora di poterti ammazzare come un cane. La voce del Perfetti aveva rapidamente raggiunto una tonalità quasi isterica: l'ex Premier rimase impietrito, paralizzato, incapace d'aprir bocca, di chiamare aiuto. Il suo rivale estrasse dalla tasca dei pantaloni una pistola, ma il movimento fu troppo lento: improvvisamente qualcosa lo fece ondeggiare, perse l'equilibrio e cadde all'indietro. L'autopsia rivelò che era morto battendo violentemente il capo contro il cemento dell'aiuola retrostante. Il grosso gatto nero gli aveva fatto lo sgambetto poco prima che esplodesse il colpo. Cadendo per terra, però l'arma sparò ugualmente: la pallottola colpì l'ex Capo del governo ad una gamba. Fu chiamata un'ambulanza che accorse immediatamente. quando i medici arrivarono trovarono l'ex Cancelliere per terra con vicino un gatto che gli faceva le fusa. L'uomo fu ricoverato al più vicino ospedale, fu operato e si salvò: anche se per tutta la vita, dissero i sanitari, avrebbe zoppicato. Il Perfetti fu sepolto quasi in segreto e la notizia meritò un trafiletto di poche righe sui giornali: dopo tutto era un politico di tanti anni prima e nessuno, se non i più anziani, se ne ricordava. Se il gatto avesse potuto raccontare i fatti, avrebbe riferito che il suo padrone stava per essere ammazzato e lui voleva in tutti i modi salvargli la vita. Una volta dimesso dall'ospedale, l'uomo politico tornò nella sua villa e rivedendo il felino lo ringraziò di cuore per ciò che aveva fatto. Per molto tempo furono amici inseparabili. Un giorno arrivò alla villa una telefonata: era il Presidente della Repubblica. - Prima di lasciare il mio incarico voglio nominarVi senatore a vita. L'ex Premier era tentato di rifiutare, ma poi l'antica ambizione, apparentemente sopita, riemerse. Il 15 settembre si presentò al Quirinale per la cerimonia di consegna della medaglietta: nella grande sala dei ricevimenti c'erano tutte le persone che contavano in quel momento. Non s'accorse l'uomo politico d'una donna anziana, molto ben vestita e ingioiellata che faceva di tutto per stargli vicino. Il Capo dello stato fece cenno al Maestro delle Cerimonie che si doveva cominciare. Si abbassarono Le voci: - Signore e signori, oggi abbiamo sottratto dai suoi ortaggi e dai suoi legumi (risata generale) un uomo che tanto ha dato al nostro Paese e che tanto ha fatto per il progresso di tutti noi. Sono certo che per molto tempo i nostri libri di storia riporteranno il suo nome perché senza di lui non saremmo arrivati ad essere una nazione forte e rispettata. (Applauso scrosciante). - Si tratta di colui che ha guidato con mano ferma il governo del nostro Paese per oltre dieci anni e che lo ha salvato da numerose guerre e crisi economiche. tutti noi abbiamo verso di lui un debito di riconoscenza che, temo, non riusciremo mai a ripagare. (Nuovo applauso). - Prima che termini il mio mandato come Presidente della Repubblica desidero nominare l'Onorevole... In quel preciso momento una fortissima esplosione squassò la sala, crollarono i muri, si staccarono i preziosi stucchi, un arazzo prese fuoco. I soccorritori riuscirono a farsi strada tra la folla che, in preda al panico, cercava di uscire fuori. In mezzo alla polvere dei calcinacci, ai lamenti dei feriti, alle telecamere delle TV che riprendevano senza sosta l'apocalittica scena, riuscirono a raggiungere l'epicentro dell'esplosione. Per terra c'erano, dilaniati, i corpi di diverse persone: tra esse quello della donna ben vestita ed ingioiellata e dell'ex Primo Ministro. Si scoprì che la vecchia indossava una cintura esplosiva, una di quelle che usavano in Medio Oriente i kamikaze. Le immagini del tremendo attentato fecero il giro del mondo, ma qualcuno si chiese che razza di misure di sicurezza si adottavano al Quirinale, se una donna, con addosso del tritolo, si era potuta infiltrare tra gli invitati. Nel Paese fu proclamato il lutto nazionale e furono celebrati solenni funerali di Stato. Qualche tempo dopo si venne a sapere che l'anziana donna ben vestita era la vedova dell'Onorevole Tagliavini, morto suicida tanti anni prima, che aveva deciso di vendicare il consorte. Inutile dire che il grosso gatto nero, quando seppe la notizia della tragica morte del suo padrone, si sentì solo e sconsolato e trascorreva le sue giornate triste e cupo, ricordando quella notte in cui la sua sola presenza, nell'ufficio di Palazzo Chigi, aveva fatto piangere il più disumano degli uomini politici. Bologna, 11 giugno 2010 Pier Luigi Giacomoni 5 IL TULIPANO “Ciao, sono un fiore giallo, la gente mi chiama tulipano. Abito in un bellissimo giardino circondato da un muretto sormontato da una ringhiera che mi permette di guardare al di fuori: a me piace molto osservare le persone che passano ed ascoltare i loro discorsi, le loro risate, le loro confidenze, ma… aspettate un attimo. Cominciamo dall’inizio. Sono nato da una grossa gemma ovale detta bulbo e sono rimasto nel calduccio della terra per tutto il lungo inverno. Ero un po’ bruttino a dire il vero; ero assai curioso di uscire a scoprire il mondo colorato , ma la temperatura rigida mi avrebbe ucciso. Là sotto il buio era totale, ma non avevo paura, sapevo che, per il momento, quella era la mia casa. Non ero solo, tanti futuri fiori mi facevano compagnia, insieme fantasticavamo del sole e del prato dove forse saremmo cresciuti. Avevamo sentito parlare delle farfalle, del venticello tiepido e della rugiada mattutina ed avevamo udito storie sui pericoli di lassù. Intanto io mi allungavo ed ogni giorno mi avvicinavo sempre più alla superficie del terreno che ora era lì, ad un passo dal mio spuntare alla vita. Le giornate godevano di maggior luce e di maggior tepore e, così, un bel mattino, aprendo gli occhi, vidi per la prima volta il cielo. Com’era bello ed azzurro, immenso sopra di me ancora tanto piccino ed indifeso. Attorno a me, altri amici punteggiavano l’aiola di tenere foglioline verdi. L’aria era fredda e mi solleticava un poco, mi sentivo umido, ma il sole già stendeva un raggio generoso ad illuminarmi donandomi calore. Stavo proprio bene, ero felice perché tutto intorno era nuovo, pronto ad essere conosciuto e compreso dalla mia inesperienza;alzavo le mie antenne ricettive per captare ogni segnale, ogni stimolo, ogni movimento. Per la prima volta sentivo la voce umana di coloro che, passando sulla strada, gettavano uno sguardo all’interno del giardino per rimirare piante e fiori: io speravo che si accorgessero anche di me, benché io fossi appena nato. Ogni giorno che trascorreva, emergevo sempre più dalla terra alzandomi un tantino e la realtà che mi circondava si dilatava in un orizzonte più ampio. Il mio stelo cresceva piano nascosto tra le mie giovani foglie turgide. Tutti i pomeriggi, una donna veniva a controllare me e i miei compagni e ci diceva parole strane che non capivo, ma i suoi modi erano gentili ed amorevoli, sorrideva compiaciuta ogni qual volta notava dei cambiamenti nella nostra struttura vegetale. L’inverno, ormai, avanzava stancamente con i suoi ultimi strascichi e cedeva il passo alla primavera con le sue promesse di rigoglio e di fertilità. Un giorno, tuttavia, ci svegliammo sotto una pioggia sferzante, righe d’acqua pungente ed incessante. A noi fiori fa bene la pioggia, ma preferiamo quella sottile che penetra piano nel terreno impregnandolo di dolce nutrimento. Quella mattina avrei desiderato tornare nel ventre di madre terra per ripararmi, ma non era possibile; per fortuna, tutto si concluse in serata lasciandomi fradicio e tremante. Crescevo e mi ingrandivo proiettandomi verso il cielo, adesso possedevo un bocciolo gonfio da cui si poteva presumere di che colore sarei stato. Se per molto tempo non pioveva, quella donna che ci faceva visita ogni giorno, attraverso un oggetto chiamato annaffiatoio ci regalava una pioggerella fine fine che fuoriusciva da un cerchio bucherellato. L’acqua mi ridava vigore, scivolava lungo il mio gambo, mi rendeva lucido e mi dissetava. Avrei voluto trovare un modo per ringraziare, ma il mio linguaggio non era decodificato dalla signora, speravo almeno che il mio essere sano e bello la rendesse felice. Sulle mie ormai lunghe foglie rimanevano piccole goccioline che sembravano brillare al sole come perle. Naturalmente io non avevo mai visto le perle, ma le immaginavo proprio come quelle stille benefiche che mi ricoprivano. Diventato alto, potevo avere una visuale migliore di ciò che accadeva al di fuori del muretto di cinta e venni così a conoscenza dei cani: quelle bestie mi facevano paura, non so perché, ma quei denti aguzzi nelle loro bocche mi facevano pensare al peggio, quelle zampe forti avrebbero potuto annientarmi in un colpo solo. Poi facevano quei versi strani che chiamano abbaiare e ciò mi spaventava ancor più. Nonostante la mia figura fosse altera sul mio stelo dritto, ero una creatura assai delicata. Una fitta rete applicata nella parte bassa della ringhiera, però, mi proteggeva tenendomi fuori dalla loro portata, quindi me ne stavo tranquillo nella mia oasi. Ogni tanto entrava un gatto dalle sbarre del cancello, ma quell’animale dalle zampette felpate, non si curava di me, passava disinvolto e spariva dalla parte opposta a quella da cui era venuto. Solo, talora, scavava nella terra e faceva una cosa buffa, poi ricopriva la buca e, come se niente fosse, tagliava la corda. Un grosso pericolo, invece, che ci terrorizzava tutti, era il bimbo che abitava nella casa del nostro giardino. Quel furfante possedeva un oggetto sferico di nome palla che roteava di qua e di là, spesso troppo vicino a noi, sorvolava i nostri capini provocando uno spostamento d’aria che ci spettinava tutti. Che paura! Alcuni dei fiori, cresciuti sotto lo svettante acero, erano stati spezzati da atterraggi maldestri del pallone rosso. La donna, che era la mamma, rimproverava il figlioletto, ma il danno era oramai irreparabile. I fiori non si possono aggiustare. Con la bella stagione, un buon numero di persone passava rasente la mia ringhiera parlando e discorrendo; io tentavo di cogliere quante più notizie mi era concesso dai rumori circostanti, dai motori delle automobili che sovrastavano le parole. In tal modo appresi molte cose del mondo: questo mondo doveva essere semplicemente interessante e molto variegato, pieno di posti meravigliosi e di genti diverse tra loro. Lontano da qui esistevano le montagne ed il mare; questo nome mi piaceva, mi faceva pensare a qualcosa che avrei voluto conoscere davvero, non solo per sentito dire. Origliando attentamente, tuttavia mi resi conto anche che l’universo umano viveva spesso nelle tribolazioni, nelle malattie che non riuscivo bene a comprendere, nella fatica e nei litigi che sovente degeneravano. Altre volte, invece, la gente parlava di speranze, di progetti, di risultati, di sentimenti e di amore. Una faccenda che mi lasciava del tutto attonito era la morte, così era denominata quella circostanza per la quale qualcuno spariva per sempre dalla circolazione, non nel senso che andasse in un altro luogo di questo pianeta, ma proprio non lo si sarebbe più veduto né udito. Gli umani possedevano dei marchingegni particolari detti telefoni con i quali potevano comunicare con chiunque e in qualunque posto del globo terrestre, ma quando una persona era morta, tali aggeggi non consentivano alcun colloquio. Questa era l’unica cosa che avevo ben compreso e, addirittura, codesta sparizione rendeva molto molto avviliti coloro che venivano definiti viventi. Per quanto mi sforzassi di capire quegli esseri che avevano la facoltà di muoversi e di viaggiare, e benché, crescendo, avessi appreso il significato di parecchi dei loro vocaboli, la mia confusione nei loro confronti era palese, la perplessità sulle loro complicazioni mi sconvolgeva. Le guerre? Ma cosa sono? Perché esistono? Cosa sono i confini, cosa sono le ideologie? Cosa sono la politica, l’inflazione, il deficit , la disoccupazione? Considerate poi che io catturavo frammenti di discorsi fatti nell’arco di tempo che occorreva ai passanti per costeggiare il muretto che circoscriveva il mio limitato habitat. Io, povero umile fiore non capivo, ma non smettevo di interessarmi delle loro questioni. Ero comunque arrivato alla conclusione che gli uomini e le donne potevano andare ovunque, e ciò era fantastico, ma la loro esistenza era costellata di troppi problemi e di troppi dolori, alcuni forse inutili; l’essere un vegetale, invece, era molto più semplice, anche se ciò comportava il restare sempre fissi in un luogo. L’umanità non si rendeva minimamente conto che l’intelligenza di cui era dotata, avrebbe dovuto essere usata solo per cose costruttive? A me pareva così ovvio e banale! Quante polemiche assurde, troppe cattiverie gratuite. Quante contraddizioni! Ma un’altra verità che avevo appreso era proprio la tendenza degli individui a complicarsi la vita. Fortunatamente esistevano pure persone buone, quelle, per l’appunto, che provavano sentimenti, che si diceva, avessero cuore. Altra cosa a me incomprensibile, ma dentro di me, sentivo che ciò era giusto. Però anche i buoni finivano per morire. Basta, basta! Non potevo continuare così! Un bel giorno decisi di proseguire la mia attività di uditore pur senza curarmi dei fatti umani tristi. Mi concentrai di più sulla mia crescita. Infatti mi stavo schiudendo. Man mano che trascorrevano i giorni, i miei sei petali gialli cominciavano ad aprirsi verso l’esterno lasciando filtrare il sole nella mia corolla fino a baciare i miei teneri pistilli. Anche i miei compagni stavano fiorendo, eravamo di tanti colori e la donna, consueta visitatrice del meriggio, ci elogiava per la nostra bellezza. Nel cielo, apparivano sempre più frequentemente degli animali in grado di volare, credo si chiami così quel movimento prodotto dalle loro ali, ma questi non li temevo. Erano uccelli, pure loro emettevano dei versi, ma piacevoli all’ascolto. Quando atterravano, venivano a beccare le briciole e i semi caduti. Animali volanti ma molto più piccoli erano gli insetti e tra questi si distinguevano le farfalle, che meraviglie! Dipinte nelle fogge più svariate, delicate come danzatrici, giocavano tra noi fluttuando nell’aria tiepida. Vi erano pure altri esserini ronzanti, con un buffo vestito a righe giallo e nero, forniti di un pungiglione che faceva paura ai bambini, ma a noi fiori no. Anzi, con quell’arnese ci facevano il solletico rubandoci un po’ di polline che andavano poi a depositare su altre piante. Era un gioco divertente per noi, ma da ciò che avevo imparato nella mia breve vita, sapevo che questa era un’operazione indispensabile per il regno verde. Margherite bianche, narcisi gialli, giacinti azzurri, rosa, viola, tulipani rossi, arancione, gialli, rosa tenue o carico, delicate viole del pensiero, sfumature, tinte e profumi, il prato con le sue aiuole era un tripudio di colori sotto un cielo terso. Successe, però, che un giorno, mentre eravamo tutti intenti a goderci il sole che asciugava le gocce rilucenti di rugiada, la signora della casa ci fece visita prima del solito. Quella mattina, il suo viso era dolce, ma recava in mano delle forbici minacciose ed affilate. Ci squadrò attentamente, uno per uno, poi, con gesto deciso recise il gambo di alcuni miei amici facendo un bellissimo mazzo e li portò via. Tra l’erba restavano le foglie solitarie laddove prima si ergevano trionfanti e vanitosi i miei compagni. Vidi la donna salire le scale e scomparire in casa. Noi tutti attendevamo con impazienza ed un po’ di preoccupazione che i fiori raccolti fossero riportati al loro posto in giardino, ma ci accorgemmo ben presto che non sarebbero più tornati. Allora erano forse morti? Non li vedevamo più, non erano più lì con noi a bearsi del dolce clima primaverile e noi… eravamo assai tristi. La nostra esistenza divenne così meno tranquilla, ogni mattina il terrore ci attanagliava quando, la padrona di casa, che fino a pochi giorni prima si era dimostrata tanto gentile si avvicinava alle aiuole con quell’arnese infernale. La sua ombra si stendeva fredda sulle nostre figure tremanti di paura. Ogni volta, toccava a qualcuno lasciare la quiete del giardino per andare chissà dove. Restavamo sempre in meno a rallegrarlo, guardavamo sempre più sconsolati quei vuoti, quelle assenze che, sapevamo, sarebbero restate tali. Noi superstiti tiravamo il fiato, ma eravamo consapevoli che l’indomani si sarebbe rinnovato lo spavento. Ed il giorno successivo toccò a me. Il taglio netto mi fece male, mi separai definitivamente dal mio bulbo che rimase nella protezione della terra e sperai che ve lo lasciassero o che, se sradicato a fine primavera, fosse ripiantato in autunno per generare un altro tulipano giallo. Eravamo così pochi che la signora ci colse tutti e ci condusse in casa. Ci mise in un vaso trasparente dove l’acqua lenì un tantino le nostre pene. In quello stesso vaso stavano due miei amici, recisi il giorno precedente. Erano ancora sufficientemente belli, ma il loro aspetto era vagamente floscio, i petali tendevano a spampanarsi. Ero felice di averli ritrovati, ma le loro condizioni non mi facevano ben sperare, né per loro né per me: era chiaro che stavamo andando verso la fine, quella fine chiamata morte. Mi guardai attorno, l’ambiente era confortevole, pieno di luce. Ci trovavamo praticamente su un tavolo di legno scuro attorniato da sei sedie in mezzo ad una grande sala. In un angolo una mensola resistente sosteneva una scatola con uno schermo nero, seppi più tardi che, quella scatola, si chiamava televisione. La sera fu accesa e vidi molte cose , alcune armoniose e piacevoli colorate e piene di vitalità, altre disturbavano la mia sensibilità di fiore, soprattutto, tutte quelle brutte storie che venivano descritte all’interno di un programma detto telegiornale. Non mi feci domande sul suo funzionamento come non mi posi quesiti su altre attrezzature presenti nelle varie stanze che, magari non riuscivo a vedere, ma delle quali sentivo i fastidiosi rumori o i più godibili suoni. Sì, perché avevo scoperto la musica e le canzoni che facevano vibrare qualcosa nella mia essenza. Nel breve periodo che trascorsi lontano dal giardino, che osservavo con rimpianto dai vetri della finestra, appresi un’infinità di nozioni e compresi molto, sia nel bene che nel male. A proposito, ieri, mi è capitato persino di vedere il mare, certo non dal vivo, ma attraverso le immagini in tv; non avrei mai creduto potesse essere tanto vasto e stupefacente, nel moto perpetuo delle sue onde che non dormono mai. Adesso sono qui: il bimbo che abita in questa dimora, ha appena terminato di seguire un documentario sul mondo vegetale in genere, io sono stato molto attento, non mi sono perso nemmeno una virgola, come dicono gli umani. E’ stato veramente illuminante e chiarificatore: ho capito qual è il mio destino e so di aver vissuto al meglio delle mie possibilità, facendo parte di una catena vitale invisibile, ma importantissima. Ognuno , di qualsiasi natura sia, ha un compito che deve assolvere secondo le sue caratteristiche ed ognuno ha il suo posto nel mondo, piccola unità di un Tutto. Come vi ho già raccontato, durante le mie riflessioni, ho notato che gli uomini sono maestri nel combinare guai, ma io che ci posso fare? Peggio per loro! E non dico altro. La mia esistenza è stata forse di poco conto, ma non priva di senso ed ora non mi spaventa più così tanto la morte: anche quella fa parte del ciclo vitale di tutte le creature. In effetti, oggi non mi sento in forma, i miei petali sono avvizziti e cadenti, il mio stelo, nel punto in cui è stato reciso, comincia a marcire e non è più ben dritto e turgido, sono un tantino stanco. Probabilmente la fine è vicina, ormai ascolto di rado la televisione o i discorsi delle persone che abitano o transitano in questa casa. Credo che domani, la donna che ci ha coltivati, irrigati ed apprezzati e che ha avuto l’ardire di levarci dalla terra per adornare la sua sala, ci getterà nella spazzatura. Non sono triste, penso solo al mio bulbo laggiù; spero davvero che possa restare nella fecondità umida e buia dell’aiola per accogliere, tra un anno, un altro me, un nuovo tulipano. Addio!” Silvia Peroni 6 AL COMMISSARIATO Il suono della sirena dell’auto della polizia riecheggiò nel silenzio pomeridiano in cui la piazza era immersa, per poi terminare la sua corsa davanti alla sede del commissariato di Piazza Isabella D’Aragona. Spenta la sirena, la vettura si arrestò ai piedi dell’ampia scalinata del palazzo. I due agenti, uscirono dall’auto, chiudendo rapidamente gli sportelli, poi, apertone uno posteriore, lasciarono uscire una terza persona. Era questi, un uomo sulla cinquantina, che i due presero sottobraccio tenendoselo ben stretto fra di loro e, salita l’ampia scalinata, si addentrarono nell’edificio. I loro passi rintronarono lungo i corridoi, fino ad arrestarsi dinanzi alla stanza del loro ispettore. Un breve tocco alla porta poi, uno di essi, entrò delicatamente nella stanza, chiudendosi l'uscio alle spalle. “Avanti.” disse, l’ispettore, quasi in risposta a quel tocco. “Ispettore, i miei omaggi!” rispose l’agente, fermandosi ritto dinanzi al suo superiore. “Un’attimo di pazienza.” ribadì quest’ultimo, che nel frattempo era intento a leggere sottovoce, una delle tante pratiche che erano accatastate sulla sua scrivania. “Questo è quanto avrebbe dichiarato il querelante”. Si fermò un’attimo, poi riprese, tentennando il capo e, quasi parlando con se stesso, continuò. “Avrebbe dichiarato il querelante?” Ancora un’attimo di silenzio. “L’italiano, l’italiano! Certo è, che questi appuntati, lasciano molto a desiderare!” Poi alzando il capo e rivolgendo lo sguardo verso l’altro lato della stanza, chiamò, ad alta voce. “Appuntato Basile. Ehi! Appuntato. Venga qui un attimo!” Subito dalla stanza accanto, si precipitò un agente che, fermandosi rapidamente davanti al suo ispettore, lo salutò, militarmente. “Eccomi: signor ispettore!” Uno scatto secco dei tacchi e la mano tesa sulla fronte. “Riposo!” gli disse il suo superiore. “Ai vostri comandi.” replicò l’agente. “Niente comandi. Dimmi piuttosto, chi ha stilato questo verbale?” “Io, signor ispettore!” “Allora vuoi spiegarmi cosa intendi per: avrebbe dichiarato il querelante?” “Ma! Veramente!” abbozzò quest’ultimo. “Avrebbe, o, ha dichiarato: il querelante?” “Veramente, non saprei!” “Vada. Vada pure.” continuò l’ispettore, mentre, firmato il verbale vi appose sopra un grosso timbro che fece un gran baccano. “Questo,” riprese poi, alzando lo sguardo verso l’agente che, era fermo davanti a lui, “questo è il livello culturale dei nostri commilitoni”. “Bisogna accontentarsi.” concluse poi, riabbassando il capo. “Eccomi a lei.” soggiunse, dopo una breve pausa. “Ecco: questi sono i fatti” iniziò a dire l’agente che, nel frattempo, era rimasto in assoluto silenzio. “Questi i fatti. Eravamo di servizio: io e l’agente Pascazi, al pronto soccorso del Policlinico, quando si è presentato, nell’attiguo ambulatorio, un tale signor Gaetano Pastore che accompagnava una donna tale Maria Saponaro che risultava poi, essere sua moglie. Detta signora, in apparente stato confusionale, presentava una grossa lama di coltello da cucina, conficcata nel basso ventre, con sopra, alcuni asciugamani intrisi di sangue, a significare che era in essere un’evidente stato emorragico”. “Il Pastore” continuò poi - “dichiarava dinanzi a noi agenti e al personale del pronto soccorso, di essere accorso alle grida della donna e di averla trovata, davanti al tavolo da cucina, con il coltello già conficcato nel ventre. Da ciò, lo stesso, deduceva che la donna si era ferita, accidentalmente, mentre stava maneggiando il suddetto coltello”. “I sanitari” - riprese poi - “subito intervenuti ad estrarre la lama, si erano dati un gran da fare, per cercare di tamponare l’emorragia che era ancora in atto. Poi, il medico di turno, raggiuntoci fuori dall’ambulatorio, dichiarava che era necessario intervenire urgentemente, con una trasfusione di sangue, per cercare di salvare la donna. Lo stesso sanitario, poi, esternava i suoi dubbi sul modo in cui si sarebbe ferita”. “Infatti” - riprese poi l'agente - “Nel verbale rilasciato dal medico, lo stesso conclude dichiarando che: vista la posizione in cui la lama era penetrata, nel ventre della donna, cioè dal basso verso l'alto, era facile dedurre che la stessa, non poteva, in nessun modo ferirsi da sola; ma che c'era stato l'intervento di una terza persona”. “Pertanto”, concluse poi, l’agente, dopo essere rimasto a lungo in silenzio, ad osservare il volto del suo superiore. “Pertanto, abbiamo ritenuto necessario, io e l’agente Pascazi, che era nostro dovere il procedere al fermo del succitato signor Gaetano Pastore, in quanto imputabile di procurato ferimento nei confronti della signora Maria Saponaro”. A questo punto, l’ispettore che nel frattempo aveva ascoltato in silenzio il rapporto del suo agente, si rivolse a lui dicendo: “Dov’è, attualmente, il Pastore?” “Egli, signor ispettore, è fuori in compagnia dell’agente Pascazi”. “Falli accomodare”. L’agente, aperto l’uscio, invitò gli altri due ad entrare. Poi, ad un cenno del loro capo, i due agenti uscirono lasciando l’ispettore in compagnia di quell’uomo. “Prego, signor Pastore. Si accomodi” disse l’ispettore, tendendogli la mano. “Allora, signor Pastore, vuol dirmi qual è la sua versione dei fatti?”. “Ecco, signor ispettore” iniziò a dire quest’ultimo, con aria impacciata. “Io, ero comodamente seduto, nell’altra stanza del nostro appartamento, intendo a seguire, alla televisione, la partita della Nazionale. Ero talmente assorto che non mi sono accorto di nulla. Quando, ad un tratto, ho sentito mia moglie gridare. Accorso subito in cucina, mi son trovato di fronte alla scena che ho poi descritta ai sanitari del pronto soccorso”. “La scena che si è presentata ai miei occhi” - riprese poi, dopo un breve attimo - “era, a dir poco: veramente impressionante”. “Ho visto mia moglie” - continuò - “con un grosso coltello da cucina, conficcato nel ventre. Mentre, sul tavolo sul quale si era appoggiata, c’era un grosso pezzo di carne bovina che ella stava tentando di affettare”. “Vorresti farmi intendere” - lo interruppe l’ispettore - “che tu non hai nessuna colpa in tutta questa faccenda? Vorresti convincermi che tu, da tutta questa vicenda, ne usciresti candido e pulito come una colomba? Ma, a chi vuoi darla a bere?” “Ma, signor ispettore!” “Dal rapporto dei miei agenti; nonché, dal referto del sanitario del pronto soccorso; risulterebbe tutto il contrario della tua versione dei fatti”. “No, signor ispettore. Non è così come crede lei. Vi state sbagliando. Io, in tutta questa storia, non c’entro per niente. Ve lo giuro. Sono innocente!” “Troppo comodo, nascondersi, sempre dietro la maschera dell’innocenza! Troppo semplice liberarsi delle proprie colpe, evitando la realtà dei fatti!” “Sono innocente. Ve lo ripeto, signor ispettore, sono innocente! E ve lo potrà confermare anche mia moglie, non appena sarà in grado di poter essere interrogata”. “Dal verbale che è qui, davanti a me, risulta che la ferita sarebbe essere stata inflitta da una seconda persona. Non si è, trattato quindi di un ferimento accidentale: come vorresti farmi credere. A chi vuoi darla a bere! Ti ripeto. Ti conviene dire la verità. Tutta la verità!” “Sono innocente!” “Spera solo che la tua donna ne esca fuori. Spera solo che venga subito sciolta dai sanitari la prognosi riservata e che, non succeda l’irreparabile, altrimenti, per te, si metterebbe veramente male!” “Sono innocente!” “Forse,” riprese l’ispettore dopo aver osservato a lungo il suo interlocutore che, nel frattempo, era rimasto in silenzio e a capo chino. “Forse, provo a dirtela io: la verità”. A questo punto, il Pastore, alzò il capo e fissò l’ispettore con lo sguardo impaurito. “A parer mio, la verità è un'altra. A parer mio qui, ci troviamo davanti ad un banale e normale caso di gelosia”. Mentre il funzionario di polizia parlava, l’altro restava sbigottito, in silenzio ad ascoltarlo. “Una normale lite” - continuò poi - “e tu non ci hai più visto. Hai perso, per così dire, il controllo dei tuoi nervi. Non sei stato più in grado di controllarti, ed hai afferrato la prima cosa che ti è capitata a portata di mano: un coltello da cucina. E’ bastato quello, per farti perdere i lumi della ragione. E’ bastato quello, per accecare la tua ira. Ed allora hai colpito, forse, senza nemmeno renderti conto di quello che stavi facendo”. “Adesso dimmi” soggiunse l’ufficiale, dopo una lunga pausa durante la quale i due rimasero in assoluto silenzio. “Adesso dimmi: che mestiere fai?” “Il macellaio”. “Hai mai avuto a che fare con la giustizia?” “No, signor ispettore. Mai! Fino a questo momento non conoscevo; fino a questo momento non avevo nemmeno minimamente l’idea di come fosse fatto un commissariato di polizia”. “Ti rendi conto, finalmente, in quale guaio ti sei cacciato?” “Ma! Signor ispettore!” “Eppure, a vederti bene, non mi sembri un cattivo soggetto. Io, difficilmente mi sbaglio. Certo, te lo ripeto, ti sei cacciato in un brutto guaio e, mi dispiace per te, sarà molto difficile che tu ne venga fuori”. “Ma…!” “Voglio aiutarti. Ma tu devi venirmi incontro! Devi dirmi esattamente come si sono svolti i fatti”. “Non lo so nemmeno io. E’ stato un banale incidente. Si è trattato di un imprevisto”. “Non continuare a tergiversare. Dimmi piuttosto, sei stato tu, si o no, a ferire tua moglie?” “Ve lo ripeto. E’ stato un banale incidente. Una fatalità!” “Continua”. “Mi creda, signor ispettore, non so nemmeno io da dove iniziare questa assurda vicenda”. “Calmati e riprenditi. Hai tutto il tempo che vuoi”. “Sono rientrato a casa, dopo una giornata faticosa, con l’intento di sapere, una volta per tutte, chi era l’uomo con cui mia moglie mi tradiva”. “Maria! Vuoi dirmi, una buona volta, chi è il tuo amante?” “Tu vaneggi! Tu sei andato nel pallone! Il tuo cervello si è totalmente fuso! Quante volte, devo dirti, che non c’è nessun amante? Quante volte devo dirti che non c’è stato e che non c’è nessun uomo nella mia vita? Tu sei stato il primo e tu solo, sei e sarai il mio uomo! Vuoi capirlo, una volta per tutte, tu solo e nessun altro!” “Tu menti!” “Nino. Tu sei pazzo!” “Voglio la verità. Una volta per tutte: voglio la verità!” “Tu sei pazzo!” “Va bene! Adesso inizia la partita. Poi ragioniamo!” “Non ho niente da dirti. Tu sei pazzo!” Detto ciò, il Pastore, si fermò un attimo. Respirò profondamente e poi riprese con tono sommesso. “Alla fine del primo tempo, mi sono recato nell’altra stanza, dove mia moglie era intenta a preparare la cena”. “Ferma, davanti al tavolo da cucina, stava tentando di affettare un grosso pezzo di carne”. “Accecato, da quel tarlo che mi rodeva dentro, ho afferrato quel coltello che nel frattempo ella aveva posato, e gliel’ho puntato contro gridando”. “Vuoi dirmi, una volta per tutte, la verità?” “E’ stato in quel momento che ella, indietreggiando, è scivolata e mi è caduta di peso addosso infilandosi la lama nel ventre”. “Ve lo ripeto, signor ispettore. E’ stata una fatalità! Non so, nemmeno io, come sia potuto accadere. Non so…” “Non sai? Ma ti rendi conto di quello che hai fatto?” “Non so! Mi sembra di impazzire: non so! Non so cosa mi ha preso!” “A questo punto, egregio signor Pastore, non si tratta più di fatalità ma di vera e propria premeditazione”. “Non so! Non so come ciò è potuto accadere!” “Calmati e cerca di ragionare. Cosa ti faceva pensare che tua moglie avesse un amante?” “Non so… non so! Non riesco a farmene una ragione!” Posò entrambi i gomiti sulla scrivania che gli era davanti, si prese il volto fra le mani e scosse più volte il capo. “Mi sarò chiesto mille volte: perché, perché l’hai fatto?” “L’hai sorpresa, tu, in fragrante o hai dato ascolto alle dicerie della gente?” “A dire il vero, per quanto abbia cercato, per quanto mi sia messo a fare la posta, non mi è mai riuscito di sorprenderla in, per così dire: in fragrante”. “Allora dimmi: chi è stato a metterti il tarlo nel cervello?” “Una persona sicura, una persona della massima affidabilità, un vero amico”. “Non penso affatto che tu possa chiamare amico una persona che ti metta in condizione di fare quello che hai fatto!” “No, signor ispettore, su Romolo non posso dubitare. Su di lui non ho motivo di aver alcun dubbio”. “Romolo, chi è costui?” “Romolo Tagarelli. E’ un amico, un vero amico. Siamo cresciuti nello stesso quartiere. Anzi, per essere più precisi, nello stesso portone”. “Con lui” riprese poi “abbiamo condiviso tutto. Stesse scuole, stessi amici”. “E, ci scommetterei, stesse ragazze”. “Beh! Si. Anche se, a dire il vero, fui io il primo a mettermi insieme alla Maria”. “Continua”. “Inizialmente, eravamo entrambi innamorati della stessa ragazza. Ma, poi Maria scelse me e lui dovette farsene una ragione”. “Ah!” “Successivamente, anche lui trovò la sua anima gemella, con la quale è stato felicemente sposato per oltre vent’anni”. “Come mai, è stato? Forse ora non stanno più insieme?” “Purtroppo, un brutto male gliela portata via”. “Ah! Mi dispiace”. “Sono ormai due anni e, in tutto questo tempo, io gli sono stato molto vicino. Glielo ripeto: per me è più di un amico. E’ un fratello”. “Capisco”. “In un primo momento, non riusciva a farsene una ragione. Poi col tempo si è finalmente rassegnato. A dire il vero, per anni non ci siamo più frequentati. Sa, com’è? Le famiglie e poi le nostre diverse occupazioni”. “Io,” riprese poi, “con la macelleria, lui, all’epoca faceva il rappresentante di biancheria intima. Due campi diversi. Difficilmente ci si incontrava”. “Perché, ora non fa più il rappresentante?” “Dopo la morte della moglie ha dovuto prendere le redini del negozio di abbigliamento che prima gestiva la stessa”. “Bene. Bene”. “Sa. I nostri negozi sono molto vicini, per questo, adesso abbiamo più possibilità di stare insieme”. “E, questo tuo amico, questo signor Romolo Tagarelli, adesso ha anche il tempo di controllare tua moglie?” “Egli è convinto convintissimo di quello che dice”. “L’ha vista lui, per caso, in compagnia di un altro uomo?” “Certamente. Perché non fa altro che ripetermi di stare attento a Maria”. “Allora, questo tuo amico, ti avrà detto con chi la tua donna si incontra, ti avrà sicuramente riferito chi è il terzo uomo?” “No. Romolo dice che non me lo dirà mai per rispetto alla nostra vecchia amicizia”. A questo punto, l’ispettore scattò in piedi, dietro la sua scrivania. Batté fortemente le nocche delle dita della mano destra sulla stessa e poi riprese con tono duro e possente. “Adesso, egregio signor Pastore, te la dico io la verità”. L’altro alzò il capo e restò in silenzio: fissandolo con aria sbigottita. “Il tuo caro amico, questo signor Romolo Tagarelli, rimasto solo è ritornato, per così dire, alla carica. Egli, in realtà, non l’ha mai mandata giù. L’essere stato rifiutato dalla tua donna gli aveva lasciato l’amaro in bocca. Ed ecco, che ora, ha cercato di riallacciare quella vecchia relazione con colei che era stata la sua prima fiamma”. Si fermò a fissare lo sguardo sempre più sbigottito dell’altro, poi riprese. “Di fronte ad un comprensibile netto rifiuto della stessa, ecco che, il tuo caro amico, si inventa tutta una fantomatica storia di tradimenti e di amanti”. “No, non posso crederci. Maria me lo avrebbe detto!” “Maria non te l’ha detto, e non te lo avrebbe mai detto per non distruggere in te quel mito”. “Quando si ha la coscienza pulita,” riprese poi, “quando si è sicuri della propria onestà, si è convinti che anche il partner abbia nell’altro la massima fiducia. Non te lo ha detto perché si è resa conto che per te, quell’amicizia era troppo importante”. Rimasero entrambi in un lungo silenzio. Lo squillo del telefono, nella stanza accanto, li fece sussultare. “Pronto”. Disse, l’appuntato Basile, alzando la cornetta. “Mi invii un fax”. Concluse poi, dopo un breve attimo. Il lento ed assordante stridulo di una vecchia stampante riecheggiò nella stanza e per quell’uomo, seduto al di là della scrivania, sembrò che dei grossi aculei gli stessero perforando il cervello. Preso il foglio dalla stampante, l’appuntato Basile si recò lentamente a consegnarlo al suo superiore. L’ispettore, ebbe un attimo di esitazione poi alzò lo sguardo verso quell’uomo, che lo stava fissando incuriosito. “Signor Gaetano Pastore: da questo momento ella ha la facoltà di non rispondere, potrà avvalersi di parlare solo davanti al suo avvocato, potrà…” Quell’uomo, ormai distrutto dal dolore, non parlò, non disse nulla. Abbassò il capo e si lasciò andare in un pianto disperato. L’ufficiale si avviò lentamente verso la porta invitando gli altri due agenti ad entrare. Costoro posarono le mani sulle spalle dell’uomo, restando per qualche attimo in religioso silenzio. Poi, i tre si avviarono lentamente fuori dall’uscio. Nicola Zambetti 7 UNO SPICCHIO D’INDIA Le giornate degli anziani in una casa a loro dedicata trascorrono all’insegna dei ricordi. Dopo avervi udito raccontare di soldati periti in guerra, marinai inghiottiti da mari tempestosi e di gente dell’alta borghesia, è giusto che vi narri anche la mia storia. Tutto ha inizio a Pali, una piccola città del Rajastan una regione dell’India centrale, nel settembre del 1930. Una sedicenne di nome Indira, in avanzata gravidanza, mentre stava lavorando nei campi assieme ad altre due anziane donne, viene colta da dolori al ventre che la fanno accasciare al terreno. La richiesta implorante di aiuto a Shiva venne udita da Surya, da Kirti e da Rishi, mio padre, che era stato svegliato mentre faceva il suo sonnellino pomeridiano. Era uscito di corsa dalla casa e aveva iniziato a gettarle addosso ogni sorta di improperi, e quando si accorse che mia madre era per terra sofferente addolcì il tono della voce. In India, credo sia ancora in vigore la legge delle caste, ovvero, la distinzione fra le varie classi sociali e la donna in tutto questo, a qualsiasi casta lei appartenga, viene trattata peggio d’una schiava. Non le è permesso di saper leggere e scrivere, non ha potere decisionale in nessun caso, è costretta a lavorare duramente fin dalla tenerissima età e fin dalla nascita i maschi di casa le scelgono il marito che se la porterà via stile merce da mercato. Una volta ceduta in matrimonio, intorno ai nove anni, continuerà a subire maltrattamenti, violenze sessuali con conseguenti gravidanze e riduzione in schiavitù. Se il figlio che metterà al mondo sarà maschio, spetterà al marito-padrone deciderne il nome ed occuparsi della sua educazione e della sua formazione, mentre alla moglie soltanto il compito di nutrirlo, ma se il bambino dovesse nascere femmina, apriti cielo! Il marito, ne decide il nome e fino a quando non sarà cresciuta a sufficienza, sarà compito della madre il nutrimento e l’educazione, e non importa se alla bimba dovesse venire un accidente. Il nome Rishi, tradotto nella vostra lingua, significa veggente, santone, e non capisco come mai mio nonno avesse pensato che fosse adatto ad una persona brutale come lo erano tutti gli uomini di allora. Rishi è un nome spirituale che generalmente viene dato a un bramino, ma io sono qui per raccontare e non per esprimere giudizi. Ritornando alla storia, mio padre disse a mia madre di pregare affinchè dopo Eknat mio fratello maggiore ci sia un altro maschio. Colto da un raptus di spregevole compassione, autorizza Kirti e Surya a portare via la puerpera dalla sua vista perché certe scene lo disgustano, cosa che invece non avvenne perché mia madre aveva iniziato il travaglio e non poteva più venir mossa da terra. Mentre il liquido primordiale m’aveva abbandonata costringendomi a resistere aggrappata alle pareti d’un tunnel leggermente viscido, quello stava tempestando di frustate le due malcapitate soccorritrici di mia madre. Come avrei voluto essere già in grado di poter combattere ogni forma di sopruso e invece… Una parte di me, forse il mio lato nascosto, stava esprimendo all’ignoto la sua voglia di prendere a pugni il malvagio, che subito Brama, Shiva e Vishnu risolsero per me la questione. Non appena il bruto riuscì a capire che stavo nascendo, prima, cercò di ricacciarmi a ritroso nella piccola galleria che avevo così faticosamente percorso, e vedendo che accadeva il contrario, fece di tutto per strangolarmi. E mentre la mia anima esultava per l’ennesima vittoria, l’orrido soggetto, dopo esser stato costretto a chiamarmi Chitra, proseguì nello sfogo del suo istinto folle, scagliandosi su mia madre che fu salva grazie a un piccolo ramo portato dal vento che aveva iniziato a soffiare qualche istante prima. Questo piccolo dono benedetto da Brama, Shiva e Vishnu era andato a infilarsi in mezzo alle gambe del mostro che cadde a bocconi nel terriccio imbrattato di liquido amniotico, e mentre lui si stava ripulendo la faccia schifato, mia madre, nonostante il parto non troppo facile aiutata dalle sue anziane amiche era riuscita a portarmi in tutta fretta al sicuro. Dopo un anno è nato Eshwar e due anni dopo Eshwar mia madre ha dato alla luce ancora un maschietto che mio padre ha chiamato Esh. Eknat ha tre anni più di me. Io sarei andata in sposa a Rashid un insegnante che non incontrai mai perché una violenta inondazione spazzò via cose e persone, famiglia mia compresa ed io, rimasta sola al mondo, scelsi d’andar via da quel luogo maledetto prima che qualche altro superstite in odore di matrimonio intendesse rapirmi. Il mio viaggio a piedi nudi e con un solo sari logoro addosso alla volta di Dheli, inizia in una notte sferzata da un vento gelido. Antony e Maxine Patton, erano una coppia di medici, sposati da cinque anni che avevano un grande desiderio di diventare genitori. Le avevano tentate tutte, ma senza risultati, finchè sono arrivata io, come un dono mandato loro dal cielo. È sempre difficile generalmente per un bambino proveniente da un paese straniero, integrarsi in quello adottivo che non parla la sua lingua, ma ancora una volta la buona sorte m’aveva presa per mano, perché mamma Maxine, d’origine indiana per parte di madre, aveva potuto farmi da interprete dal momento che avevo messo piede nella mia nuova casa, fino al giorno che avevo iniziato a frequentare la scuola e di conseguenza ad imparare l’inglese. è grazie a ciò che ho capito di essere stata adottata da una famiglia del Nebraska. Se Carrie la mia compagna di banco non avesse insistito affinchè andassi all’unica partita di basket della mia vita quel pomeriggio di fine maggio del 1948, non avrei conosciuto quello che poi sarebbe diventato mio marito. Il suo nome era Benjamin, ma che tutti chiamavano Ben. Oltre a me e Carrie, alla piccola palestra della scuola per tifare i Lincoln jyants era venuto pure Charlie il di lei fidanzato. Ben, che sedeva qualche posto più in là, aveva due grandi occhi color nocciola incastonati in un solare volto dai lineamenti regolari circondato da un nuvolo di riccioli ramati. La mitezza di quello sguardo era in netto contrasto con la robusta corporatura. Avvertiti Carrie e Charlie che non mi sentivo bene, decido di abbandonare quella cagnara e non fui la sola a farlo, anche il giovane di poco prima, aveva scelto un luogo più tranquillo per poter rimanere con i suoi pensieri. Fui io a farmi avanti e ciò lo sorprese perché non sarebbe stato corretto un comportamento simile, ma la timidezza l’aveva fermato e quindi… Gli chiesi di quale città fosse, perché non l’avevo mai incontrato fino ad ora. Mi raccontò di provenire da Denver e di esser venuto a far visita a dei cugini dai quali si sarebbe trattenuto per tutta la settimana. Se qualcuno in questo preciso momento mi venisse a dire che il colpo di fulmine non esiste gli affermerei l’esatto contrario visto che era proprio ciò che era scattato fra me e il mio primo e unico uomo. Avevamo deciso di sposarci il 14 novembre, giorno del suo ventiseiesimo compleanno, e i pochi mesi che mancavano al nostro sì, per il mio cuore significavano grossi cappi metallici. Quando lo dissi ai miei genitori, sulle prime rimasero interdetti, più per preoccupazione che per altre ragioni, ma col trascorrere dei giorni, ebbero modo di dissipare ogni dubbio. Al contrario di Carrie e Charlie che si erano sposati qualche mese prima in modo sfarzoso, Ben e io avevamo scelto la semplicità. All’inizio del 1949 mi ero trasferita a Red hill sulle montagne rocciose del Colorado dove mio marito da qualche anno lavorava come portatore presso una delle tante miniere di carbone presenti nella zona. In un villaggio minerario c’è solidarietà e armonia perché siamo tutti figli dello stesso destino. Se fossi riuscita a portare a termine tutte le gravidanze Cindy avrebbe avuto altri quattro fratelli. Se non ci fossero state tre donne coraggiose capitanate da mia suocera Susan, la mia unica figlia sarebbe morta strangolata mentre cercava di venire al mondo in quanto podalica. E mentre Cindy muoveva i primi passi nel mondo della scuola, io impazzivo per Cliff Richard, e Ben che per una malattia polmonare aveva ottenuto il trasferimento negli uffici della società che gestiva la miniera, s’era lasciato conquistare dalla musica di Hank Marvin e i suoi Shadows ricevuta in dono dal collega andato in pensione per raggiunti limiti d’età. A Cindy parlavo in indie e ciò suscitò la curiosità delle sue amichette con le quali veniva a fare i compiti a casa e quando volevano fare pausa non c’era di meglio che un dolcetto di cocco o delle palline di latte e pistacchio affogate nello sciroppo di zucchero al suono delle canzoni dei Beatles. Il 12 luglio del 1967 Cindy compiva 14 anni e i Beatles tenevano un concerto a Denver. Come regalo per quel compleanno avevamo deciso di accompagnarla al concerto. Le ragazze gridavano talmente forte che era impossibile poter ascoltare ciò che sul palco stavano suonando. Chissà se almeno i fab four riuscivano nell’intento. Ciò che a noi importava di più, era la felicità di nostra figlia e il suo amore passeggero per John Lennon urlato ai quattro venti. I genitori miei e quelli di Ben c’avevano mandato in luna di miele in Inghilterra in occasione del nostro decimo anniversario di matrimonio visto che non avevamo avuto la possibilità di andarci appena sposati. E mentre noi visitavamo i regni dei Beatles e di Cliff Richard i miei genitori si erano trasferiti a Red hill dove la morte li sorprese sereni qualche anno più tardi, e Cindy aveva conosciuto l’amore della sua vita sulla pista di pattinaggio a rotelle che frequentava quando non era troppo occupata con gli studi magistrali. Il giorno che i Beatles si sciolsero coincise con l’unione in matrimonio di Cindy e George che qualche mese più tardi divennero genitori della piccola Trisha. George aveva trovato lavoro come camionista mentre Cindy era stata assegnata provvisoriamente ad una prima elementare. Nel giro di un anno e mezzo la piccola Trisha è rimasta orfana prima del padre morto in uno scontro fra mezzi pesanti e qualche mese dopo anche la nostra Cindy c’aveva lasciati colpita da leucemia fulminante. Il loro matrimonio era ripreso fra le stelle mentre il dolore di noi rimasti sulla terra era stato confortato dall’amore per Krishna e per la piccola. Più il tempo passava più negli occhi di Trisha vedevo le esistenze dei suoi bravi genitori ed è ciò che mi spinse ad insegnarle l’indie e ad ascoltare assieme a lei i Beatles. Nel 1992 la nostra nipofiglia, come lei amava definirsi, che per studio s’era trasferita a Boston, s’era laureata in biologia molecolare con un bel 105. Lo so che ci sarebbe poco da esultare, ma l’importante era che lei fosse stata felice di ciò che aveva scelto. Galeotto fu un concerto del cantautore Ben Harper che Trisha andò a sentire con delle colleghe ricercatrici a farle incontrare Dhani McNeel un informatico dalla bellezza adolescente e dagli emozionati e gentili modi che Ben ed io conoscemmo davanti a pietanze indiane mangiate con le dita e i filmati della Beatles Antology. Il sacro fiume Gange ricevette le ceneri del mio Ben dopo cinquantasei anni di matrimonio, ma non era ancora venuto il momento di congiungermi a lui. Trisha e Dhani benedetti da me e Krishna si sposarono nella primavera del 1997 e i primi ad augurarci buon 1998 sono stati i miei pronipoti venuti alla luce a mezzanotte in punto, i quali hanno ricevuto in eredità i nomi di Cindy e George. Trisha e la sua famiglia andranno ad immergersi nelle acque della sacra corrente e mi porteranno con loro sotto forma di cenere racchiusa in una scatola di cartone come George Harrison di qualche anno fa. Ora è tempo di raggiungere Ben. È in questo letto anonimo fra molti di voi, che stò per chiudere gli occhi del tutto, e prima che Ben e Krishna mi vengano a prendere, vi voglio ringraziare per avermi ascoltata. Elisa Brezzi 8 LE ALI Il bambino strappò le ali alla farfalla e iniziò a tagliuzzarle come aveva visto raffigurato nel libro. Il coltello dalla punta a serretta le sfilacciò un poco. Il risultato non fu proprio come quello che aveva visto, ma per lo scopo che si era prefissato forse sarebbe andata bene anche così. Si aggiustò il ciuffetto sulla fronte. Il cuore non gli batteva forte, non sudava, nemmeno un po', e le mani non gli tremavano: stava solo facendo quel che c'era da fare. Prese tra l'indice e il pollice l'esile corpicino della farfalla, andò in bagno e lo buttò nel lavandino: aprì il rubinetto per qualche istante. Riportò poi il coltello in cucina dove prese un bicchiere di plastica e la bottiglia di veleno. L'appartamento sapeva di vuoto. Dalla strada arrivava debole il rumore del traffico, un po' come dei frangenti lontani sul bagnasciuga. I suoi genitori non c'erano, in casa era da solo, i vicini non si sentivano, e aveva spento la tv poco prima, dopo aver guardato una serie di cartoni animati. Immerso in quel mantra silenzioso il pensiero gli andò alla bambina, quella che prima viveva col padre al piano di sotto: chissà come stava, dov'era, perché se n'era andata. Erano passati ormai cinque anni, ma il ricordo persisteva, e per un bambino di dieci anni era una cosa insolita ricordarsi così lucidamente di qualcuno conosciuto cinque anni prima. Il pensiero fu comunque come quella lama sulle ali della farfalla: tagliò in fretta e sfilacciò un po' il tessuto dei ricordi. Il sole era ormai quasi calato e tinteggiava di un cupo e amaro arancio i condomini vicini. Per temporeggiare un poco, andò al compatto e avviò il suo cd preferito. La voce tormentata di Jim Morrison iniziò a cantare in inglese, seguita da una chitarra allegra e poco altro. Lui sapeva le parole a memoria, anche nella loro traduzione italiana, le aveva trovate su un tascabile con le liriche del cantante. Dicevano press'a poco che la "gente è strana quando sei uno straniero". Scritte sull'onda emotiva di fine anni sessanta, percorrevano sottilmente una linea invisibile di verità, almeno quella verità percepita da chi viveva o credeva di vivere esperienze simili. Stette rapito ad ascoltare: People are strange/ when you're a stranger/ Faces look ugly when you're alone/ Women seem wicked when you're unwanted/ Streets are uneven when you're down/ When you're strange/ Faces come out of the rain/ When you're strange/ No one remembers your name/ When you're strange/ When you're strange... Sentiva proprio di essere uno straniero, un errante tra gente sconosciuta. Nato nei primi anni settanta, soffriva del cambiamento che gli erranti come lui stavano portando in seno al mondo. Non era consapevole di questo, era la sua stessa natura a fare tutto, tranne in quei momenti quando si faceva traviare dai suoi coetanei. Era come un insetto, vivente in una coscienza collettiva per svolgere inconsapevolmente determinate azioni. Ogni tanto qualcuno emergeva alla superficie e ricordava, tornando alle origini, proprio come quella farfalla a cui ora si stava unendo. Sulle note finali della canzone, emise un sospiro e tornò in camera, prese il foglio su cui prima aveva scritto poche significative parole, gli mise sopra la penna, si allontanò un poco e guardò come appariva la scena. Spostò la penna di traverso, accese la lampada da scrivania e spense la luce. La scena gli piacque e stava per lasciarla così. Poi in un moto di rabbia gli diede una manata facendo finire a terra foglio e penna. Guardò anche quel quadro: era più eloquente e tormentato del primo. Spense la lampada, raccolse quegli oggetti e li rimise sulla scrivania, senza più voler con essi costruire uno scenario. Comunque li mettesse, tutto l'insieme era come una foto che lo guardava mentre piangeva. Era lui stesso la foto, e presto avrebbe guardato delle persone piangere su di sé. Nel foglio aveva scritto qualche riga di spiegazione. Le spiegazioni le riteneva necessarie per preservare la mente di chi le avrebbe lette. Era conscio che le persone d'apprima avevano bisogno di essere messe di fronte a informazioni chiare, incontrovertibili. Poi, subito dopo, immediatamente dopo, avevano una estrema necessità che in loro fosse insinuato un dubbio, meglio più d'uno. Era assolutamente necessario metterli di fronte a qualche "forse?", qualche "ma?", alcuni "se?". Li avrebbe aiutati a non impazzire chini di fronte a un muro, gli avrebbe dato la possibilità di arrovellarsi e girare attorno alle spiegazioni, a districare i loro gomitoli di dubbi piuttosto che farli trascinare via dalla limpida corrente delle certezze. Il respiro dell'appartamento era inquietante. Solo chi si fermava e sapeva ascoltarlo lo avrebbe udito. Si comprimeva e si allargava, molto lentamente, facendo a volte scricchiolare le imposte, gli armadi, gli stessi muri. Camminare per il corridoio vuoto gli dava i brividi alla nuca. L'unica ancora di salvezza erano i suoi passi, che faceva sonoramente echeggiare per tutto l'ambiente. Non per dispetto, ma per farsi un po' di compagnia, per ricordarsi che tutto era ancora lì, reale, solido, ancora percettibile. Se avesse potuto registrare il pulsare di quell'immobile, accelerare poi la registrazione, forse si sarebbe potuta ascoltare la voce di casa sua chiedere aiuto, cantare, parlare... chissà. Per non dire delle porte, ciò che lui chiamava "porte". Nella sua camera li aveva fatti portare via tutti, grandi e piccoli. Gli specchi erano "porte", passaggi verso qualche altro luogo dove sarebbe potuto andare, e da dove altri sarebbero potuti arrivare. Nella sua immaginazione, di notte quei passaggi si animavano, si aprivano silenziosamente, proiettavano la luce di un altro mondo in questo, lasciavano che sconosciuti da un altro luogo lo guardassero dormire, oppure entrassero a curiosare. Non aveva mai voluto specchi in camera, perché erano porte. Tornò al davanzale, dove la luce del tramonto cominciava ad ardere, e iniziò a preparare l'intruglio: versò nel bicchiere due dita di veleno, gli aggiunse tre dita di acqua, prelevata di soppiatto quella stessa mattina dall'acquasantiera della chiesa di San Gerardo, e mischiò tutto lentamente, facendo sette giri a destra e sette a sinistra, per nove volte. E poi gli mise dentro il dubbio, quell'ingrediente così semplice da trovare, così insignificante che tutti lo avrebbero potuto usare, che molti già lo usavano e nemmeno si rendevano conto che quell'ingrediente là, così comune, era la chiave di tutto: era l'ingrediente che avrebbe trasformato del veleno e qualche sorta di magia, nella quint'essenza che rende gli uomini liberi dalla morte. Fare quelle cose gli pareva stupido, ma continuò come era scritto nel libro. In grandi lettere rinascimentali c'era scritto "IL RITO". Ma era veramente un rito? Pensò che forse lo era per chi leggeva quelle parole. Lui le sentiva, come una profonda, antica e amorevole voce che sussurrava nei suoi occhi. Quello che stava facendo era solo continuare il suo racconto di vita con altre parole. Terminato di mescolare aspettò cinque minuti, poi si punse il dito con un ago e fece cadere diverse gocce del suo sangue nel liquido. Osservò i lenti ghirigori che il sangue disegnò in superficie, diluendosi poi lentamente in un tenue colore rosato. Ottenere il veleno era stato difficile. Aveva dovuto corrompere un suo compagno di classe che aveva il papà farmacista e erborista raccontandogli una frottola. Il ragazzo gli aveva fatto avere un flaconcino di digitalis, un rimedio erboristico in dose concentrata che vendeva suo padre. La bottiglia diceva che era un rimedio naturale per il cuore. Glielo aveva pagato il triplo e non gli importava come l'altro lo avesse ottenuto: l'importante che lo aveva avuto. Nel grande libro di medicina aveva letto che qualsiasi sostanza che reagisce chimicamente col corpo umano può essere un veleno. è la dose che fa di un rimedio un veleno: anche l'acqua assunta in grandi dosi. Il ragazzo gli aveva dato uno spintone, lo aveva deriso, lo aveva chiamato femminuccia, ma alla fine glielo aveva dato. Lui non aveva reagito, sapeva che per raggiungere il suo scopo doveva tenere un profilo basso, e così aveva fatto. "Femminuccia", ripensò. Una mattina, all'uscita di scuola, erano le una e mezzo, tornava a casa con lo zaino sulle spalle, in compagnia di quel suo compagno di classe. Quel bambino era un prepotente, però tutto sommato, per le cose banali, andavano d'accordo. A metà strada si erano imbattuti in un alterco di due adulti. Come due spettatori, li oltrepassarono e poi si fermarono poco distante ad osservare quella scena. I due uomini dopo qualche secondo alzarono ulteriormente la voce. Poi volarono parole grosse. Infine vennero alle mani. Uno scagliò un violento pugno sul viso dell'altro. Quegli barcollò, poi si riscosse e gli saltò addosso. Si azzuffarono con violenza. I colpi che si scambiavano avevano un suono duro. La visione di quella scena gli si insinuò dentro cominciando a fargli male. Sentiva come se lui stesso ricevesse quei colpi, da entrambe le parti. Cominciò a tremare, mentre l'altro bambino assisteva rapito, quasi fosse in un palazzetto dello sport a guardare un incontro di pugilato o di lotta libera. Si strinse le braccia sul petto e poi si sedette sulla panchina, ad occhi chiusi. L'altro bambino si accorse del suo tremito, e poi delle sue lacrime, e lo apostrofò: "Femminuccia, che fai?!". "Non faccio nulla", pensò, mentre ascoltava il suo compagno di scuola che sghignazzando gli diceva: "fifone!", "cagasotto!". Ma lui non si sentiva affatto un fifone. Non sentiva affatto di non aver coraggio. In quegli istanti aveva avvertito una intensa sensazione di pietà verso quegli uomini. Una emozione talmente intensa che gli aveva reso molli le gambe e lo aveva fatto accasciare lì. L'altro bambino gli avrebbe potuto lanciare addosso tutti gli epiteti che avesse voluto, ma lui era solo tremendamente assalito dalla pietà verso gli uomini, quegli adulti che si picchiavano con una violenza immane. Era finalmente arrivato il momento più importante. Si spogliò e, un po' imbarazzato, aprì la finestra e vi accostò una sedia. E se qualcuno lo avesse visto? Pensò che difficilmente al tramonto qualcuno rivolgesse lo sguardo al decimo piano di un palazzo di trenta. E anche se lo avessero visto? Sorrise amaro. Prese le ali della farfalla e il bicchiere e salì sul davanzale. Guardò il tramonto e poi il liquido, e attese che diventassero dello stesso colore. L'aria fredda della sera lo fece rabbrividire. Le finestre del palazzo di fronte erano talmente distanti e buie che sembravano i quadrati neri di una scacchiera. Quando venne l'attimo giusto diede uno sguardo al cielo, mise sulla lingua le ali della farfalla e bevve il contenuto del bicchiere. Un alito di vento gli accarezzò il corpo nudo. Il sapore era sgradevole, ma si costrinse a ingugitarlo tutto. D'altronde nel libro c'era scritto che avrebbe avuto un sapore amaro. Diede un ultimo sguardo alla sua stanza, dove tutto sembrava in ordine. Mentre le automobili dieci piani più in basso sembravano scarafaggi che fuggono da un piede che vuole calpestarli, attese il sudore freddo e i crampi che gli avrebbero irrigidito il corpo, così come aveva letto. Chiuse gli occhi, pesanti di lacrime. I pensieri si susseguirono veloci e caotici nella sua mente. Tra qualche attimo sarebbe diventato una farfalla, avrebbe spiegato le ali al vento e sarebbe volato al di là del male e del bene, sù libero nel cielo. Giuseppe Di Grande 9 LA VITA OLTRE IL SOGNO Era un martedì di maggio quando Lara mise piede per la prima volta nello studio di una psicoterapeuta. Si sentiva combattuta e in cuor suo un po’ si vergognava. Sapeva che la famiglia l’avrebbe derisa, però l’idea di raccontarsi a qualcuno l’aiutava a sentirsi più protagonista della sua vita. In passato, Lara aveva frequentato qualche corso per imparare a guardarsi dentro ed avere cura di sé. Ma non le erano valsi a molto, perché la vita, diceva lei, si impara solo vivendo. Eccola dunque, davanti a Luisa, la sua nuova terapeuta conosciuta in occasione di un corso sulla comunicazione. Ma perché aveva scelto proprio lei? Di quella donna l’aveva colpita l’immediatezza, la passione per la sua professione, le sue doti di grande umanità, e quel suo trarre positività da ogni risvolto della vita. Inoltre, intorno a Luisa sembrava circolasse un’energia speciale. Lara aveva ben chiaro cosa avrebbe voluto raggiungere attraverso quegli incontri. Non cercava certo qualcuno che le desse ragione, che avvalorasse i suoi comportamenti. Voleva solo fare un po’ di pulizia e di chiarezza nell’archivio della mente per arrivare a cavarsela da sola, magari sbagliando, ma comunque scegliendo, senza più delegare nessuno né sfuggire buttandosi a capofitto sul lavoro. Entrata dunque nello studio, convinta ma anche un po’ confusa, si guardò intorno. L’arredamento era semplice, ma di buon gusto. Notò subito la porta-finestra che dava luce alla stanza e la rassicurava. Sul terrazzino erano sistemate ciotole di fiori di mille varietà e anche questo contribuiva a metterle allegria. Luisa poteva avere meno di 50 anni; aveva un sorriso aperto sul suo viso tondo e dei lunghi capelli ramati che le scendevano lungo la schiena, ornando la sua figura di donna alta, un po’ in carne, ma ben proporzionata. Lara fu piacevolmente rapita dal sorriso della sua interlocutrice e da quegli occhi discreti che sapevano scrutare nel profondo, spingendosi ben oltre le parole pronunciate da chi le stava davanti. Luisa sembrava avvalersi di mille sensi, attraverso i quali riusciva a leggere il non verbale e a percepire gli stati d’animo degli altri, come quando si ascolta un buon brano di musica e se ne distingue ogni singolo strumento che la compone. Così, dopo qualche minuto di rodaggio, Lara incominciò a sciogliersi e a parlare senza riserve. Rientrata a casa, la madre le chiese dove fosse andata e lei, con gli occhi bassi, disse che era stata a conversare con un’amica. Poi, per cambiare discorso velocemente, chiese cosa ci fosse di buono per cena. In realtà non aveva fame, il suo stomaco era già pieno con il peso di quella mezza bugia. Ogni volta che era costretta a non raccontarla giusta si sentiva male fino in fondo all’anima, perché anche l’anima, come il corpo, si alimenta di quel che gli diamo, costretta spesso a soffocare sentimenti ed emozioni. Se avesse svelato la verità, i suoi genitori non l’avrebbero compresa. La loro figlia non era né malata né matta. Era solo un po’ depressa e dunque che bisogno c’era di spendere tempo e soldi ad interrogarsi? Fin da piccola, sua madre l’aveva abituata a non far caso al dolore, solo così sarebbe diventata una donna forte, perché lei, tra tante disgrazie e vicissitudini, se l’era cavata alla grande con quella corazza da combattente e tutti l’ammiravano per la sua forza e temerarietà. In questo la figlia più piccola, Lucia, le somigliava tutta, ma Lara no. In lei sentimenti e stati d’animo trasparivano come quando si tiene un libro tra le mani per sfogliarlo. Spesso, era la sua sensibilità ad avere il sopravvento e, se qualcuno per strada stava male, lei prendeva ad interrogarsi su ciò che poteva essere accaduto allo sconosciuto, domandandosi se avesse mai potuto intervenire. Quando capitava ad esempio, di parlare di qualcuno che aveva commesso gesti assurdi di violenza, prepotenza o mancanza di rispetto, insomma gente che si faceva forte delle proprie debolezze, Lara segretamente s’immaginava riflessa in ognuna di queste persone, convinta che certe situazioni condizionano il nostro comportamento, tanto da portare anche una come lei a poter commettere qualche cosa di simile. Presto aveva imparato a non giudicare, ascoltava paziente, facendo tesoro di tutto quello che sentiva, come quei vecchi che raccolgono ogni cosa, perché non si sa mai, prima o poi potrebbe tornare buona. Quella settimana passò più veloce, finalmente sentiva che qualcuno intendeva davvero occuparsi di lei. “Però peccato dover pagare per essere ascoltati sul serio!” aveva bisbigliato a sé stessa. In casa sua tutto era sempre così perfetto, quasi troppo, per essere vero. C’era rispetto sì, ma tutto filava tranquillo perché non ci si spingeva mai oltre. Delina, la sorella maggiore, aveva ormai trent’anni, ma il suo lavoro precario non le permetteva di andare a vivere sola come avrebbe voluto. Lucia invece, la più giovane, aveva diciannove anni. Sapeva sempre dove voleva arrivare e fin da piccola, non aveva mancato un colpo, guadagnandosi la stima di genitori ed amici. Proprio in quei giorni, Lucia aveva detto in famiglia che di lì a poco sarebbe andata a vivere con il suo fidanzato. Al suono di quelle parole Lara sentì il peso d’un macigno serrarle lo stomaco, facendole ricordare il fallimento e la delusione di quando, due anni prima, aveva lasciato il suo Riccardo, quello che avrebbe potuto essere l’uomo della sua vita. Il martedì successivo Lara si recò nuovamente nell’ambulatorio della dottoressa che l’accolse con il calore di un’amica. “Credi di essere riuscita a modificare qualcosa nel tuo comportamento durante questa settimana? Hai lavorato un po’ su te stessa?” Lara rifletté un istante, poi scosse la testa. “No, non mi pare, anzi direi che la prima sconfitta l’ho avuta in famiglia, per non aver neanche provato a dire di essere venuta qui.” “I tuoi genitori sono contrari, immagino.” “Sì, per andar d’accordo con mia madre bisogna comportarsi esattamente come dice lei, altrimenti parte con le sue battute sarcastiche che mi feriscono il cuore come coltelli, mentre le si legge negli occhi quel sottile piacere nell’incutere timore. Una volta le parlai del mio desiderio di andare a vivere in una comunità, della volontà di arricchirmi dentro, di misurarmi con le mie forze e del mio impegno per crescere con sani valori. Lei mi rispose di stare attenta che a crescere in fretta si rischia di sbattere la testa sul soffitto. Ancora non avevo capito che quello era un modo per non guardare dentro sé e non sentirsi colpevole di tutte le cose che non aveva fatto, perché io diventassi la donna che sperava, simile a lei.” “E tuo padre?” “Mio padre mi guarda da sotto i baffi, con gli occhietti piccoli. Chissà come dovrei interpretare i suoi silenzi velati di mistero. E’ un uomo colto lui, che ama esser lasciato tranquillo e vivere per sé. Dai suoi silenzi non so se ricavarne pillole di indifferenza o di saggezza. Di me credo non abbia molta stima, ma mi sopporta perché non gli ho mai mancato di rispetto. In realtà, l’unica persona della mia famiglia che io ho sentito sempre partecipe, con gli occhi vigili ed il sorriso complice, è mia nonna Amelia. Lei abita poco lontano da noi e quando posso passo a trovarla volentieri. Che donna invidiabile! Sembra venuta al mondo per mettere serenità e dare luce ai pensieri. Quel suo donarsi spontaneamente agli altri senza mai aspettarsi niente, è quasi disarmante. Dentro il suo corpo minuto, c’è un vulcano di idee che prontamente concretizza. Se dovessi farle un ritratto la disegnerei con cento gambe e cento braccia laboriose. Guardandola, sembra che ogni parte di lei abbia un contatto diretto con tutto ciò che la circonda. Così, tesse il filo della vita, in sintonia con il mondo. Ho imparato da lei che tutto ciò che riesci a fare con gioia non ti fa sentire il peso della fatica.” Poi, abbassando gli occhi e con voce strozzata disse: “Dovrei vergognarmi davanti a lei che a quasi ottant’anni e nonostante la sua salute precaria non si è mai lamentata. E’ stata la mia ancora di salvezza nei momenti più difficili della mia depressione e, vedendomi in quello stato pietoso, incapace di reagire, mi sorrideva con gli occhi che trasmettevano la gioia e la luce del suo dentro. Spesso mi rimaneva vicina in silenzio, ma anche i suoi silenzi erano carichi di vita. D’altra parte, cosa avrebbe potuto dire davanti alle mie orecchie che si facevano sorde a qualsiasi parola o suono? Intanto, più fallivo nel tentativo di far pace con la mia vita e più mi autocommiseravo, rafforzando la convinzione d’essere impotente davanti a un destino beffardo che si accanisce e ci schiaccia sotto un peso invisibile”. “Rispetto a questo ora come ti senti? Ritieni di esserne uscita?” “In parte sì, ma ho delle ricadute e sicuramente continuerò ad averle finché non riuscirò a sciogliere i nodi del mio essere. Credo che quel tunnel maledetto sia la rovina per tante persone come me che quando viene meno la forza di lottare scivolano dentro all’indifferenza, all’apatia. Allora, ti sembra di muoverti e invece ti ritrovi sempre al solito punto. Credimi, che quando si è in questo stato, anche il vociare gioioso dei bimbi, le melodie, la miscela di profumi di fiori a primavera infastidiscono, perché percepite come troppo lontane e non più in sintonia con la propria vita. “Non sarà forse che quando un traguardo sta diventando irraggiungibile gli togli l’importanza che merita, ingannando così te stessa per evitare una sconfitta?” “Non lo escludo. A volte proprio la gioia degli altri mi fa sentire ancora più sola nel dolore. Forse non sarà normale. Ecco la mia diversità che si scontra con la normalità di mio cugino sordomuto che invece ha fatto uscire dalla sua vita la più bella melodia con i suoni dell’anima. Anche da bambina ero un po’ diversa, mi sentivo e vivevo una profonda solitudine. Ricordo che una volta l’insegnante ci diede un tema sulla felicità e io mi buscai un’insufficienza, scrissi solo che non sarei neppure riuscita a sfiorarla. Mi accontentavo di immaginarla, sognando ad occhi aperti e in fondo rinunciando a vivere. E’ come quando s’immagina di esser già grandi e attraverso i nostri ideali sconfiggere il mondo. Dunque, questa benedetta-maledetta felicità me la son sempre fatta bastare anche quando non bastava, perché il cervello non credo faccia grandi distinzioni tra il vissuto e l’immaginato.” “Per la paura di fallire ti sei impedita di provare, di osare, di cercare…” “Probabilmente sì, anche quando ho lasciato il mio Riccardo, mi son chiesta se fosse stato meglio non averlo mai incontrato. Quando si perde qualcosa e ci si chiude, ci si accorge che forse era meglio non aver avuto niente, perché si fatica troppo a reggere il confronto.” “Dicevi di Riccardo. Cosa ti va di raccontare di questa esperienza con lui?” “Beh, sì, da dove potrei cominciare? Riccardo lo conoscevo fin da bambino, ma non l’avevo mai guardato con interesse, fino a quando lui mi fece capire, dosandosi pian piano come in un crescendo, che il sentimento che nutriva per me aveva sconfinato dall’amicizia nell’amore. Lentamente, lo lasciai entrare in me, nei miei pensieri, nei miei progetti, fino a innamorarmi dell’amore che aveva per me. Ma si sa, quando si è innamorati, da ogni cellula si sprigiona una forza incontenibile che ci fa volare, oltrepassando ogni ostacolo, però forse per me finì troppo presto l’incanto dell’amore. Quando lui s’accorse che mi guardavo intorno perché più forte era il bisogno di libertà e di rimettermi in gioco, fece anche l’impossibile per farmi felice, perché mi sentissi importante e per tenermi lontana dai tentacoli della depressione. Era profondamente innamorato, tanto da rischiare di annullare la sua personalità per adattarsi a me che ero ormai lo specchio della sua felicità. Ma il troppo storpia. Cominciai anche a trattarlo male per convincerlo che poteva puntare più in alto e, neanche a farlo apposta, in quel periodo Tania cominciò a stargli dietro, a messaggiargli in modo strettamente confidenziale e ad aspettarlo all’uscita dal lavoro con la scusa di andare a fare una corsetta a piedi. Nonostante lei fosse una bella ragazza con due occhi dolci e vispi, lui raccolse qualche invito solo per cortesia, senza mai farsi prendere la mano né il cuore.” “Cosa ha fatto scattare la molla che ti ha allontanato da lui”? “L’ho lasciato con la consapevolezza che se fossi un giorno stata sua moglie non sarei stata capace di renderlo felice proprio a causa del mio umore altalenante. Riccardo era invece un ragazzo solare, aperto, entusiasta di ogni cosa, per cui mi sembrava giusto lasciarlo andare a percorrere vie più facili. Così, finii la storia prima che fosse l’amore a finirla, prima che il gioco mi prendesse il cuore, prima che nel vuoto dei miei silenzi si facesse strada la paura dell’amore. Si apriva dunque un’altra pagina triste della vita che non potevo più rimandare, già vista con altri occhi che sforano il buio, gli occhi profondi dell’anima. Da due anni non vedo più Riccardo, eppure credimi, ancora non ho trovato la pace dell’anima e temo di non riuscire più a districarmi in mezzo alla foresta che è questa vita. Sento che il buio della mia anima ha offuscato la luce del cuore.” “Bene Lara, io ti aiuterò a far sì che tu da sola possa mettere mano a questo groviglio, se però troverai il coraggio di viaggiare poi sul filo della vita.” “Sì, il destino è nelle mie mani, ma se tu solo immaginassi quanto mi riesce difficile pensare alla vita come il dono più prezioso che ci ha fatto il buon Dio, ammesso che Dio esista. Le stesse cose per ognuno di noi assumono valore e significati diversi a seconda dell’angolazione da cui riusciamo a guardarle. Troppo spesso io sento il peso di tutto ciò che vado ad affrontare e le mie insicurezze hanno il sopravvento, accompagnate dai dubbi che mi assalgono e allora non mi spiego a cosa vale tutta questa fatica per restare a galla. Fossimo almeno certi che c’è vita oltre la vita, oltre la morte. Potessimo almeno sapere che non si comincia per finire, semmai si finisce per ricominciare. Se così fosse, sarebbe certo più semplice. Dimmi tu, come possiamo vivere in balìa di quel tutto che diventa niente e dal niente, quasi per miracolo, ci siamo inventati un Dio, che comunque ci fa bene anche se magari non c’è.” “Cosa intendi Lara?” “La preghiera, la speranza, il conforto, l’amore e tutto il resto fanno muovere energia positiva, che si espande come il calore e la luce di una lampada. Ma poi, come potrà tutto questo protrarsi al di là del tempo? Vale poi la pena di porsi tante domande o non sarà forse meglio prendere tutto come viene, consapevoli che non avremo mai certezze sul significato profondo del nostro ruolo nell’universo e sull’evoluzione della vita attraverso la morte?” “Come vivi l’idea della morte?” “La morte è un ingannevole rifugio, specie se cercata anzitempo, perché chi sta male pur di uscire dalla tagliola, andrebbe anche all’inferno, varcando il confine alla cieca. La morte non ha un volto e per ciò non possiamo vederla in faccia. Essa ci cambia, ci trasporta nella nostra interezza, rendendoci apparentemente tutti uguali, ma lasciandoci il nostro codice che ci rende unici. Noi però credo che potremmo sconfiggerla solo amandola ed aspettandola, dato che, prima o poi, dovremo incontrarla.” “In questo sono d’accordo Lara, ma ora pensa intanto a vivere e a tirare fuori i tuoi talenti sepolti sotto alle tue debolezze.” A quel punto, prima ancora di rendermi conto che stavo sognando, vidi le due anime di Lara e Luisa volare insieme come due figure quasi appaiate. Lara, tra mille tempeste, s’era infine salvata, tenendosi aggrappata al destino, ai suoi dubbi, alla speranza che davvero un Dio, dall’infinito, le avesse dato la pace tanto sognata. Luisa, dopo aver abbandonato serenamente il corpo fisico, volava in pace anche senza un Dio, supportata dalle ali della sua coscienza. Eccole dunque ritrovarsi, oltre la vita, oltre il sogno, al di là di ogni mia immaginazione giunte sullo stesso percorso per vie diverse. Così, ci si trova dove non si crede, si aspetta ciò che non ci spetta, e attraverso l’amore si sconfigge la paura della morte di ogni cosa. Silvana Valente 10 UNA RIVELAZIONE STUPEFACENTE Distesa sul giaciglio della sua stanza, Evilànnail teneva gli occhi chiusi, ma era sveglia. Da alcuni giorni non riusciva a dormire bene. Era infatti molto in ansia per le sorti del tempio. La novizia addetta al suo servizio entrò aprendo piano la porta, e senza far rumore scostò il pesante tendaggio che copriva tutta la parete di fondo, interamente costituita da una unica lastra della oramai introvabile pietra di Algàrean. Queste infatti, erano lastre quasi completamente trasparenti, costituite dallo stesso materiale con cui Ark l'Imperturbabile, aveva creato sul fondo del mare la sua splendida ed ineguagliabile dimora, quando un giorno Egli aveva deciso che non erano i cieli la casa degna di un Dio. Riflessi di luce azzurrina filtrati dall'acqua di mare, e fulgidi raggi di sole entrarono insieme, danzarono dapprima ognuno per conto proprio, poi si unirono, andando a dipingere i muri della stanza di un colore omogeneo. Era quella infatti la più bassa, la più profonda del tempio, quella più vicina alla dimora del Dio. Girò lo sguardo verso fuori, e si immaginò lo spettacolo. oramai i suoi occhi vedevano ogni cosa ricoperta da miriadi di puntolini neri che danzavano vorticosamente sui colori e sui contorni delle cose. Il primo giorno infatti che il sole aveva fatto capolino lei si era ricordata di alcuni brani degli antichi tomi sacri: "Puri come la purezza personificata saranno coloro che riusciranno a scorgere il luminoso viso del figlio della splendente Laanu, quando è alla guida del suo carro alato, quando volteggia nel punto più alto del cielo." Così si era irrimediabilmente compromessa gli occhi, e non osava rivelarlo. Ora, al posto dello splendido spettacolo che avrebbe visto al di là della parete trasparente, scorgeva solamente Piccole macchioline prive di colore che danzavano pigre innanzi ai suoi occhi, e nonostante lei avesse provato a scacciarle, esse restavano inesorabilmente al loro posto, celandole la vista delle forme e mischiando continuamente i colori. Dapprima le pareva che quella vista fosse stata sublime, ma in seguito aveva constatato che gli occhi le erano rimasti irrimediabilmente danneggiati. Ora però voleva tenerlo segreto, e trascorreva distesa le sue giornate, ostentando un malessere cronico. All'improvviso si ricordò di qualche cosa, e mentre la novizia nell'uscire stava richiudendo piano la porta, le comunicò col pensiero che avrebbe voluto vedere Oril, e che la attendeva al capezzale. Nell'attesa ripensò alle sensazioni oramai improbabili, quando aveva lottato contro all'impellente esigenza di scostare gli occhi brucianti dal volto del Dio Áshnash quando spavaldo reggeva con una mano le briglie dei suoi divini destrieri alati, e con l'altra faceva schioccare la lunga frusta tutta d'aurghènteon, quando pochi giorni prima per la prima volta dopo tanto tempo li aveva lanciati lungo gli invisibili sentieri del cielo aperto. Eppure per un attimo aveva creduto di esserci riuscita, e lo splendore degli occhi del Dio le era rimasto per un attimo impresso sulla retina dei suoi. Poi però era pian piano svanito e si era irrimediabilmente cancellato, come il bagliore di una torcia tenuta nella mano di qualcuno che si allontana nella nebbia. Ma quando Oril entrò, anche quel pensiero svanì. «Mi avete fatto chiamare, buona madre?» chiese restando sulla soglia. Oril diede alla Somma GranLungimirante solamente una fugace occhiata, poi abbassò timidamente lo sguardo a terra. Ma anche solo così, scorse nel suo sguardo,il vago alone della sua sofferenza che a stento riusciva a celare. «Come state oggi?» azzardò timidamente, non udendo risposta. «Siediti Oril, oggi il Dio aprirà una parte degli scrigni ove conserva quei segreti che ha deciso di rivelare, e che oramai da troppo tempo attendono di correre liberi.» Oril si irrigidì per un attimo, poi lentamente si accostò al giaciglio e si sedette su di un lato. Evilànnail, mentre inutilmente cercava di scrutare la figura della sacerdotessa, perduta nel caos di ombre e colori dei propri occhi, formulò inavvertitamente nella propria mente quella domanda che avrebbe voluto ponderare prima di voler porre. I sacerdoti del Dio Árk infatti, comunicavano sovente tramite il pensiero, sia quando si rivolgevano ai subordinati di infimo ordine, sia in una conversazione particolarmente intima, ove si volesse narrare lunghe vicissitudini, o trasmettere velocemente grandi quantità di nozioni. Così in risposta, Oril rivisse per un lungo momento il sogno che da tanto tempo la assillava, e che in alcuni periodi della sua vita le si manifestava di frequente. Allora immagini vorticose inseguite da grida crudeli iniziarono a agitarle la mente, ma Evilànnail se ne avvide e con un rapido ed abile intervento della propria mente, la calmò. «Ti tormenta spesso quel sogno, Oril?» le chiese passando allora alle parole. «Ultimamente no, ma qualche tempo fa mi ha a lungo turbata» rispose Oril distogliendo lo sguardo. «Chi credi chi sia quella bambina, Oril? La hai mai riconosciuta?» Nonostante conoscesse le capacità di colei che era al vertice degli adepti del Dio, e che sapeva che comunicasse direttamente col Supremo, se ne stupì ugualmente un poco. Poteva forse anche guardare i suoi sogni? Oppure aveva potuto vederne solo uno spezzone quando poco prima lo stava solamente ricordando? Non lo sapeva. «A volte credo di essere sul punto di riuscirci, ma ogni volta immancabilmente la risposta mi sfugge.....» «Ricordi quel viso? Ne hai veduto chiaramente i lineamenti?» «Spesso era solo ciò che mi rimaneva più impresso.» «Lo hai mai confrontato con il tuo?» «Sì... ho notato una piccola rassomiglianza... ma che c'entra tutto questo?» Evilànnail tacque. Oril allora cercò di comprendere la portata di quella strana domanda. Nella mente, Il viso di quella bambina le si affacciò grande, immenso, come se fosse disegnato su di una parete, avendone occupato l'intero spazio. Poi man mano che rimpiccioliva,scorgeva sempre più nuovi particolari. Oril ora vedeva attorno al viso accaldato ed ansimante, tutta una serie di immagini che schizzavano via, alberi, muri di abitazioni, la massicciata di un molo ed alcune barche ad esso attraccate. La bimba stava correndo, correva veloce, stava fuggendo. Poi senza soluzione di continuità alcuna, vide lo stesso viso incorniciato in un ovale di legno, sorretto da un manico d'argento cesellato. Nella propria stanza, si stava tranquillamente guardando allo specchio, mentre si passava la spazzola sui capelli. «Ma sono io! Quella bambina sono io!» gridò nell'istante in cui comprese. Evilànnail annuì gravemente. «Quando anni fa, molti anni fa, i predoni del mare sbarcarono ad Árkon» riprese afona Evilànnail «prima che gli armigeri li ricacciassero, nel villaggio riuscirono ad infondere molta paura...» Oril ascoltava come impietrita. «Una bambina che probabilmente sola stava giocando nei pressi del molo, presa da terrore riuscì a fare la cosa più giusta che mai potesse fare... fuggire verso il punto più vicino e più sicuro al tempo stesso. Così, tu, piccina di pochi anni, riuscisti a raggiungere la porta di questo tempio, e bussasti e bussasti fino a che riuscisti a farti udire, ed il fato volle che il Sommo GranLungimirante di allora di persona ti aprisse...» «Ma allora io non nacqui qui!» esclamò incredula Oril. Poi un dubbio la colpì come un maglio. «E quindi io..... io non sono..... non sono uno dei servitori del Dio, e di conseguenza non..... non posso essere nemmeno una sacerdotessa!» gridò balzando in piedi incapace di contenersi. Gli antichi Sacri Tomi narravano infatti, come il Dio Árk, avendo scelto proprio quella piccola penisola ove edificare la dimora nuziale per sé e per la sua sposa, aveva Inviato i suoi servitori più capaci, affinché gli approntassero una dimora degna di ospitare la Dea più bella. Ma l'edificazione durò molte generazioni di uomini, ed i discendenti degli originali servitori continuarono l'opera generazione dopo generazione , ed approntando le loro dimore tutt'attorno, diedero vita ad un tranquillo villaggio che in onore del Dio prese il nome di Árkon. Le donne andavano a partorire nell'acqua bassa della risacca, Così la prima realtà,il primo sentore di vita del feto era l'accarezzevole dolce impatto con la tiepida acqua di mare, lontana propaggine della sacra dimora del Dio. E solo quando il Sommo Ark, dalle profondità marine annunciava il proprio benestare, i polmoni si svuotavano dall'acqua di mare, ed il cordone ombelicale poteva venir reciso. Così solo i loro discendenti, e solo quelli da parte di madre avrebbero potuto dedicargli l'intera esistenza indossando le vesti azzurre del sacro sacerdozio. Oril adesso era completamente sconvolta. Incapace di trattenersi, si diresse alla parete trasparente e guardò fuori. A dire il vero, già da tempo avrebbe dovuto avere qualche sospetto. Nessuno tra la "gente del Dio" aveva capelli così neri, dai riflessi corvini come i suoi. Ognuno di essi li aveva talmente chiari, in una gamma compresa tra il bianco pancia di pesce, ed l'azzurro trasparente, che sembravano ricoperti da una sottile patina di cristallo. Anche il colore degli occhi era fuori posto. Le loro iridi erano di un vacuo grigio ceruleo con sfumature azzurro pallido, mentre i suoi erano di un inquietante viola scuro, quasi nero. Inoltre all'interno di un avambraccio portava segretamente un piccolo tatuaggio che loro non avevano. Non era certa che proprio tutti ne fossero sprovvisti, ma tutti coloro di cui aveva potuto guardare le braccia nude non lo avevano. Ad un tratto, mentre distrattamente guardava senza vedere, percepì qualcosa di estremamente sottile insinuarsi in lei, e comprese che la GranLungimirante le stava sondando la mente. Ma che cosa voleva in quel momento da lei? Cosa voleva sapere ancora? Non conosceva oramai già tutto di lei? Stava per ostacolarne l'intrusione quando s'avvide con stupore che Evilànnail si limitava solamente a trasferire nella propria mente ciò che in quel momento lei stava guardando. Com'era possibile? Aveva la possibilità di scrutarla fin nei più profondi recessi del proprio interiore, ma si limitava solamente ad usare i suoi occhi. Ma come mai? voleva forse guardare più da vicino? Ma no, Oril non pensava che fosse quella la ragione. Forse le si era indebolita la vista..... ma no, non poteva essere nemmeno quello. Allora una curiosità colma d'urgenza la pervase, e senza nemmeno quasi rendersene conto, penetrò pian piano, lentamente, nella mente di lei..... Intanto Evilànnail dal suo giaciglio con gli occhi di Oril stava guardando al di là della parete trasparente. Emozioni, sensazioni, nella propria mente svolazzavano gaie. Ma ciò che permeava ogni cosa era una gran soddisfazione, una grande contentezza, una felicità tangibile. Anche se gli occhi non erano i suoi, era completamente appagata in quel ritornare a vedere, a tal punto da lasciar completamente sguarnita la sua soglia d'allarme. Così Oril con facilità inaspettata riuscì ad entrare. Dapprima si perse all'interno di quella straordinaria struttura come in un sogno. sondò ancora più profondamente ed infine comprese. Alla GranSacerdotessa non interessavano minimamente i suoi pensieri, e le sue profonde preoccupazioni non la sfioravano nemmeno, voleva solo continuare a vedere. Ma ad un tratto, presa dall'improvviso timore di venir scoperta, ritirò velocemente la sonda e si girò verso di lei. Allora la GranLungimirante parlò: «La tua devozione verso il Dio è grande e sincera, Oril» cercò di rassicurarla. «e non dovrai preoccuparti se non discendi direttamente dagli antichi servitori» Oril era sempre più confusa. Ma come era possibile? Quella era una delle regole fondamentali del tempio, perché mai avrebbero fatto un'eccezione? E per lei poi? Sollevò il capo e la guardò direttamente in viso. Dapprima Oril resistette all'impellente impulso di ripenetrare nella mente della vecchia, ma la sgradevole sensazione di non riuscire a comprendere la tormentava, e quasi senza accorgersene era già nella di lei mente. Sorpresa per quell'ardire, Evilànnail calò la propria barriera protettiva, ma non fu sufficientemente rapida, ed Oril per un lungo istante vide ogni cosa. Indietreggiò d'impulso finendo a sbattere con la schiena contro alla parete trasparente. Ma com'era possibile? Dalla buona madre non se lo sarebbe mai aspettata. le aveva mentito. Evilànnail di quel gesto era anch'essa rimasta stupefatta, ma poi aveva compreso che lo stato d'animo di Oril era a pezzi. Ma Oril si sentiva in colpa. Era certa che sarebbe stata punita per quell'affronto, e adesso si aspettava perlomeno una grave punizione. «Ma tu sei ugualmente del nostro popolo, Oril» invece le disse con gentilezza, con le parole. «almeno di parte di padre, anche se con sicurezza non possiamo escludere che anche tua madre non lo sia...» «Ma chi sono allora i miei genitori?» esclamò Oril senza più trattenersi, e facendo un passo in avanti. Evilànnail era conscia che ciò che stava per rivelare avrebbe provocato un qualcosa le cui conseguenze sarebbe stato difficile prevedere, ma che sarebbero state egualmente terribili. Si concentrò profondamente ed iniziò a prender possesso della mente di Oril. Voleva solamente disabilitarle la parte emozionale, affinché la rivelazione non le provocasse troppi danni, e nel contempo voleva assicurarsi che un'eventuale risentimento non desse luogo ad una possibile ribellione. Ma non appena Oril se ne accorse, anziché calare la propria barriera difensiva, in un impeto di ira, utilizzò tutta la propria energia mentale in un impulsivo attacco mirato. Evilànnail presa alla sprovvista, parò sapientemente il colpo. Il silenzio era totale. Immobili, con le membra rigide e le labbra contratte, ognuna delle due stava sostenendo una cruenta lotta. Evilànnail sosteneva dall'interno gli urti al portale della propria mente rinforzandolo con massicce sbarre e robusti catenacci, costituiti dal metallo più resistente , sostituendoli ogni volta che ognuno di essi cedeva, mentre Oril gli menava contro potenti fendenti con enormi mazze ferrate. Ma la resistenza risultava sempre più debole, ed il portale a difesa dei propri poteri vacillava sempre più, coi cardini che scricchiolavano e le potenti assi che si imbarcavano. "Bada Oril" sentiva rimbombare nella propria mente "non sai quello che stai facendo....." Ed infatti lei non lo sapeva. Sfidare così apertamente il potere di una GranLungimirante era una cosa inconcepibile. Oril però non se ne curava, anche se le conseguenze sarebbero state gravissime. Quel tipo di sfida avrebbe portato solo a due tipi di conseguenze: la morte o o la successione alla carica. A differenza dei membri del Gran Consiglio infatti, che nominavano essi stessi i loro successori, i quali entravano in possesso della carica quando i loro predecessori morivano o decidevano di ritirarsi a vita privata, nel tempio di Ark le cose andavano diversamente. Chi più del Dio poteva conoscere meglio di chiunque altro chi fosse il più meritevole, il più capace, il più adatto a comandare nella propria dimora? D'altronde non era stato egli stesso a decidere fin dall'inizio chi dovesse sorvegliare la conduzione della propria casa? Così, generazione dopo generazione il più potente soverchiava la posizione più elevata, quando chi la ricopriva si ritrovava in inferiorità gestionale, e le proprie capacità carismatiche risultavano insufficienti per ostacolarne la caduta. Il duello mentale a volte si protraeva per lungo tempo, e solo dopo la capitolazione di uno dei contendenti, il Dio manifestava con una tremenda mareggiata tutt'attorno all'edificio del tempio, il proprio benestare. Evilànnail vedeva la propria barriera mentale cedere sempre più. Ma com'era possibile? Aveva esercitato la propria mente per tutta un'esistenza, e non aveva nemmeno mai immaginato che qualcuno con un'esperienza molto più acerba della sua avrebbe potuto farla anche solo vacillare. Da una mezza sangue poi, e nemmeno del proprio popolo. Come aveva potuto impadronirsi di così tanta energia e competenza? Com'era possibile che il Dio le permettesse di osare così tanto, e le lasciasse così tanta potenza? Ma era anche grazie ai suoi dubbi, alle sue incertezze, alla mancanza di quella cieca ed assoluta fede nel dio che stava cedendo. Evilànnail però non ne era cosciente. e come avrebbe potuto? Era caduta in un inesorabile circolo vizioso. La mancanza di fede le attenuava la forza, e la debolezza le alimentava quei dubbi che infidi le serpeggiavano dentro, e le davano un senso di vittimismo. Ed era proprio questa sensazione di esser vittima di una grave ingiustizia che le attenuava la fede. Ma ciò nonostante non intendeva cedere. Quando sentì prossima la capitolazione, comprese che se non avesse reagito immediatamente sarebbe finita. Comprese anche che continuare solamente sul fronte di una seppur strenua difesa sarebbe stato inutile. Decise di cambiare immediatamente tattica. Con l'esperienza di un veterano, S'avvide che Oril utilizzava tutta la propria energia nell'offensiva, e che stava lasciando sguarnita la sua soglia d'allarme. Con tutta la concentrazione possibile insinuò nella mente dell'avversaria la consapevolezza che il Dio la stesse osservando da dietro la lastra trasparente che arginava stolida l'acqua di mare, e che la stesse biasimando per il suo sacrilegio. Quando Oril lo percepì, pregna di vergogna e disperazione, si voltò di scatto verso la parete trasparente. Allora Evilànnail trionfante balzò in piedi, e la sua folle risata riempì la stanza. Oril comprese in un istante di esser stata giocata, e con l'impeto tipico di colui che sta per annegare, e che raccoglie ogni ultima briciola di energia, rapida come una serpe si rigirò e si scagliò alla gola della sua avversaria. La risata scemò pietosamente, mentre i polmoni svuotati cercavano invano di riempirsi. Evilànnail annaspava con le braccia nell'aria come se stesse sfuggendo a dei potenti marosi, gli occhi sbarrati fissavano penosamente il nulla, mentre tutta la sua potente mente era incapace di formulare una qualsiasi reazione. L'impeto le scagliò entrambe sul giaciglio. Oril era come invasata. Le mani continuavano a stringere la gola della GranSacerdotessa come mosse da un moto proprio, mentre con la mente la squarciava fin nel suo più profondo essere . Le sbriciolò l'identità, poi ne raccolse ogni frammento e lo fece suo. La svuotò di ogni nozione come se stesse travasando goccia a goccia un elisir da una boccetta ad un'altra, le spezzò la consapevolezza della propria somma posizione assunta all'interno del tempio, e se la appiccicò sulla propria. Così in un solo istante non solo venne a conoscenza di ciò che stava disperatamente cercando, ma venne a conoscenza di tutto quello che la somma sacerdotessa aveva accumulato durante tutta un'esistenza. Sapeva adesso a menadito tutta la storia del tempio fin dagli albori, ogni vicenda, ogni segreto. Sapeva come accedere ad ogni meandro dell'edificio, come aprire ogni stanza, come scoperchiarne ogni scrigno, come accedere al sapere di ogni antica pergamena. Ma quel che in quel momento le importava maggiormente, era che adesso sapeva chi era suo padre. Ne rivedeva il bel viso che aveva dimenticato da così tanti anni, ne risentiva la calda voce, il suo particolare odore. Conosceva anche l'identità della sua buona mamma, Si rivide per un istante piccina rannicchiata nella calda protezione delle sue forti braccia , ma il viso le si oscurò quasi subito. la consapevolezza che Non la avrebbe mai più ritrovata, e che le era stata tolta per sempre, la lasciò stordita. Ma non poté restare più a lungo immersa in quella condizione, perché ad un tratto tutto l'edificio del tempio tremò visibilmente. Scosso da una tremenda ondata d'acqua salata, parve vacillare pesantemente sotto l'urto. Evidentemente l'Ineguagliabile Ark, dalle profondità della sua splendente dimora aveva fatto sentire il suo parere. Oril tremò tutta. Staccò le mani dalla gola inerte di colei che aveva sempre ritenuto la sua buona madre, scese dal giaciglio e si girò verso la pietra del Dio. O forse il Dio non si era fatto sentire dalle profondità, perché Per un attimo le era sembrato di vederne l'irraggiungibile viso che la fissava severo. Aveva dato il suo benestare o aveva mostrato piuttosto la sua contrarietà? Oril non lo sapeva. Ma non ebbe il tempo di appurarlo. All'improvviso la porta della stanza si aprì, ed un corteo di sacerdoti salmodianti entrarono rispettosamente, e le si fecero attorno lanciandole ai piedi petali multicolore dall'intenso profumo. Ma lei quasi non se ne avvide. I ricordi delle ultime emozioni le turbinavano nel capo incessantemente. Il viso del padre, la stretta amorevole della madre, l'acre olezzo dell'ultimo respiro esalato dalla vecchia, l'imperscrutabile cipiglio del viso del Dio, il vacillare delle pareti come durante un terremoto, ed ora quella pesante responsabilità che non aveva mai cercato, la lasciarono come dissanguata. Massimo Maccaferri 11 LA RUOTA Lidia era una bambina molto vivace; un po' cicciottella, ma sempre sorridente. Fin da piccola amava gli animali, perché essendo nata in campagna era sempre stata a contatto con cani, gatti, galline, maiali, buoi, pulcini e chi più ne ha, più ne metta! Dato che i suoi genitori erano contadini, quindi si alzavano molto presto e rimanevano tutto il giorno nei campi; Lidia trascorreva moltissimo tempo coi nonni, ma più con la nonna, perché anche il nonno andava a lavorare nei campi. Un giorno la piccola sfuggì alla nonna e cadde in un mastello di zinco pieno d'acqua! Meno male che la nonna la scorse in tempo! Chiamò subito la mamma di Lidia che accorse immediatamente a salvarla! Quanta paura per tutta la famiglia! E Lidia? Lei era per fortuna troppo piccola per ricordare quel brutto episodio successole in una bella Domenica di Luglio! Via via che cresceva i nonni le raccontavano molto spesso a mo' di di favola quel incidente, naturalmente chiamando la bambina con un altro nome, ma era chiaro che lei non ricordava nulla, perché non ha mai detto: questa cosa è capitata anche a me!” Intanto il tempo passava, finiva l'Estate, arrivava l'Autunno; passava l'Inverno e Lidia cresceva! Arrivò all'età di sette anni senza mai un dolore morale, per lei la vita era una bella favola! Il nonno l'adorava, la nonna a suo modo le voleva bene anche se era un po' gelosa delle attenzioni che il nonno aveva per lei. Papà e mamma le volevano bene, senza viziarla troppo; ci pensava già il nonno! Un triste giorno quando Lidia rincasò da scuola, trovò i genitori in lacrime! - Cos'è successo? – Chiese, e il papà: - Alì è morto! – E Lidia: - Morto! Come, morto?! – - Lo ha schiacciato stamattina una macchina mentre rincorreva una lepre! - Rispose il padre. Alì era un cane da caccia, un Segugio color miele, di media taglia; molto bravo quando andava a caccia col papà di Lidia, molto affettuoso con gli altri componenti della famiglia, ma con la bambina era il massimo! Affettuoso, giocherellone, insomma quasi un bambino anche lui! Quel giorno Lidia per il dispiacere della perdita di Alì non mangiò. Si rifugiò nella sua cameretta e pianse tanto fino ad addormentarsi. Mentre dormiva, sognava di essere a giocare nel prato con il nonno e Alì che la rincorreva e poi le mordeva le caviglie. – Mamma che male, ma che bello! Si svegliò in tarda serata, suo papà le disse: - Domani seppelliremo il povero Alì dietro la casa, sotto il nocciolo – E lei con gli occhi gonfi di pianto: - Va bene, ma com'è brutta la vita! - Era la prima volta che aveva un giudizio negativo nei confronti della vita stessa. Dopo Alì arrivò un altro cane che purtroppo fece la stessa fine! Poi arrivò Boby, un cane di razza spinone, tutto nero, molto bravo, affettuoso, ma attaccatissimo al nonno, perché era sempre lui che gli dava da mangiare. Quando il nonno per qualche motivo non poteva dargli da mangiare e gliene dava la nonna o qualcun altro, lui non mangiava! Purtroppo un triste giorno il nonno di Lidia, dovette andare all'ospedale per accertamenti; Boby quel giorno non mangiò e nemmeno l'indomani ancora! Beveva solo acqua. Dopo una decina di giorni il nonno tornò a casa e Boby riprese a mangiare! Era diventato così magro che il nonno quando lo vide gli disse: - Ma come mai Boby sei diventato così magro? – Non ti hanno dato da mangiare in mia assenza? – E Lidia: - No! Nonno, non è proprio così! La nonna gli dava la pappa, ma lui non mangiava! Allora alla sera gliene dava il papà, ma niente! Poi magari il giorno dopo gliene dava la mamma, ma lui, l'annusava e poi andava a rifugiarsi dietro alla casa, sotto il nocciolo! Purtroppo un triste giorno il nonno di Lidia si ammalò gravemente. Iniziò a perdere la memoria e divenne inappetente. Così i genitori di Lidia d'accordo con la nonna, decisero di ricoverarlo di nuovo. Boby ricominciò a non mangiare come la volta precedente. Lidia, attaccatissima al nonno, vedendo che il tempo passava e non lo dimettevano, cominciò a preoccuparsi e a fare domande ai genitori. Mamma, ma cos'ha il nonno? Perché non lo mandano a casa? E la mamma: - Il nonno è molto malato, Ma non devi preoccuparti, vedrai che verrà presto a casa! - Ma avrà bisogno di cure e per un po' di tempo dovrà restare infermo a letto. Tu gli farai compagnia, vero? E Lidia: - Certo mamma! Finalmente il nonno tornò a casa. Era veramente molto malato; magrissimo, ma il peggio era che a momenti non riconosceva nemmeno i suoi famigliari! Appena i volontari dell'ambulanza lo scesero, Boby gli corse incontro; lo annusò tutto, poi corse via! Lidia gli si fece vicino e lo salutò dandogli un bacino. Lo sistemarono a letto e a turno gli stavano accanto. Purtroppo dovevano anche imboccarlo. Ogni tanto Boby saliva le due rampe di scale che portavano alle camere da letto, faceva capolino alla porta della camera dove il nonno di Lidia era allettato. Lidia andava ad aprirgli l'uscio e il cane si avvicinava al letto del nonno. Vedi Boby – gli diceva Lidia, - il nonno sta male, ha la bua, ma tu devi mangiare, altrimenti il nonno non guarirà! – Il cane si accovacciava davanti a lei ascoltando attentamente quello che la bambina diceva! Poi leccava una mano che il nonno teneva ciondoloni fuori dalle coperte, metteva le zampe anteriori in grembo a Lidia dandole una leccata suo malgrado in faccia; poi giù per le scale, nel cortile. Una tristissima Domenica di Giugno, il nonno di Lidia si aggravò! I famigliari di Lidia erano tutti molto agitati e preoccupati per la bambina che era morbosamente attaccata al nonno! - Speriamo che non si accorga di nulla! – Si dicevano parlando sotto voce. A metà mattinata, si udirono giù nel cortile voci di bambini più o meno della stessa età di Lidia. - Lidia! - Un ragazzino chiamò a gran voce - Lidia! - Lei uscì sul poggiolo a guardare chi la stesse chiamando! Era Roberto, un ragazzino di due anni più di lei; accompagnato da sua sorella Michela di due anni meno di Lidia e un'amica: Fabrizia coetanea di Lidia. Ciao Roberto! Lo salutò Lidia – e poi: - non gridare! Mio nonno sta molto male! E Roberto: - OH! Scusa! Siamo venuti a chiederti se vuoi venire a fare un giro in aperta campagna con noi, ma se le cose stanno così: - ci dispiace molto! La mamma di Lidia che aveva sentito tutto, uscì sul poggiolo e le disse di andare pure coi suoi amici, cosicché il nonno non vedendola si sarebbe acquietato un po'! Ma Lidia replicò: - Oh! No mamma, non voglio andare con loro! Ma la mamma: - Ti prego, fai la brava, vai coi tuoi amici, ti distrarrai un po'. E Lidia: - Ma se il nonno mi cerca? E io non ci sono, come faccio ad avvicinarmi a lui e prendergli la mano come faccio sempre da quando è tornato a casa dall'ospedale! Due lacrimoni solcarono il tondo visino di Lidia. Roberto salì le scale e la raggiunse sul poggiolo; la cinse con le braccia e la strinse a se più forte che poteva; nel mentre le diceva: - Non fare così! Fai piangere anche noi che ti vogliamo bene. – In realtà lui le voleva bene più di un semplice amico, ma non aveva mai trovato il coraggio di rivelarglielo! Anche lei era attratta da lui, ma era troppo piccola per capire con esattezza che sentimento provasse per lui! Mentre Roberto la stringeva a se’, Lidia si sentì avvolgere da un calore e una serenità che la fecero sentire subito meglio. Anche le sue amiche dal cortile le dissero di non fare così e di andare con loro a fare quattro passi; di stare tranquilla che sarebbero rimasti nei paraggi cosicché se il nonno l'avesse cercata, potevano udire il grido di sua mamma che la chiamava per farla rincasare. Lidia si convinse, entrò a prendere un golfino e abbracciata a Roberto scese le due rampe di scale volando. Michela e Fabrizia la abbracciarono affettuosamente e tutti quattro si avviarono per un sentiero dietro la casa bianca dove Lidia abitava coi genitori e i nonni. Passarono vicino al nocciolo dove il papà di Lidia aveva seppellito diversi cani. Videro Boby sdraiato pensieroso sotto alla pianta.. Passandogli vicino Lidia gli disse: Cosa ci fai qui solo soletto Boby? Hai fatto la pappa? – A quelle parole il cane si alzò e mogio, mogio seguì il gruppetto di ragazzi. Lidia e Boby rincasarono attorno a mezzogiorno! Boby salì di corsa le due rampe di scale che portavano alle camere da letto. Vedendo che non l'avevano fatto entrare, Lidia capì subito l'accaduto! Corse col cuore in gola nella camera del nonno che non c'era più! Gridò: Nonno! Nonno, perché non mi hai aspettata?! Io non volevo andare con loro; iio volevo stare vicino a te! - Piangeva, si tirava i capelli e gli prendeva le mani ancora calde tra le sue manine. Dopo il funerale del nonno, Boby che mangiava sempre meno, sparì! Lidia e tutti lo cercarono disperatamente, ma del povero cane non si seppe più nulla! Quando Lidia si fece più grande, si fidanzò con un ragazzo di diciotto anni più grande di lei. Paolo così si chiamava il ragazzo era laureato in medicina. A causa della professione di Paolo erano costretti a vivere in due città differenti, ma ad ogni occasione che si presentava lui o lei a turno si spostavano per stare un po' assieme. Si volevano un gran bene. Lidia non mancò di raccontargli del suo infinito bene che voleva al suo povero nonno che l'aveva lasciata cinque anni prima che loro due si conoscessero. Gli disse che la vita, che lei amava molto, con la perdita del nonno l'aveva profondamente delusa! – Perché nascere se poi bisogna morire? – Aveva detto a Paolo. E lui: - Da un certo punto di vista, hai ragione, ma da che mondo e mondo, è così! È legge della natura! - E ancora: - Tu puoi ribellarti alla legge di natura?! No, Ma . . . – Rispose lei. Ma, cosa? - Replicò lui. Ma – disse Lidia: - Tu, dico tu, per dire io, lui o un'altra persona! Nasci, ti affezioni naturalmente alla mamma che ti ha tenuto nel suo grembo per nove lunghi mesi; poi ti allatta. Vuoi bene al papà, ai nonni e a tutti quelli che ti circondano! Poi un bruttissimo giorno arriva la morte e si porta via qualcuno dei tuoi affetti! Non ti sembra che sia una crudeltà?! Certo! - Rispose Paolo, - Ma ora hai un'età per capire e devi tuo malgrado accettare questa perdita che ti ha segnata. - E ancora: Stai certa che chi ti ha voluto bene in questa vita, ti starà sempre vicino anche dall'aldilà! A queste parole, le si riempirono i suoi bei occhioni azzurri di lacrime. Paolo la strinse a sé. - - Non essere triste - le sussurrò - Io ti amo, non sei felice per questo? - Certo - rispose Lidia, - ma non è tutto! Sarei stata più felice se avessi potuto presentarti a lui! Dai, è la vita - replicò lui. Ora Lidia dopo un bellissimo anno di fidanzamento col bel dottore, aveva ritrovato il suo equilibrio! Andava a scuola, era iscritta all'università alla facoltà di legge. Nei fine -settimana perlopiù andava a casa dai suoi genitori e la nonna che viveva con loro. Ogni volta che la vedeva, la nonna le faceva sempre la stessa domanda: - Hai trovato il fidanzato? E lei: - Ma nonna! Sei proprio sclerotica, quante volte te lo devo dire?! Certo che mi sono fidanzata! E la nonna: - Scusami, lo sai che ormai ho poca memoria! - Ma dimmi, com'è? È un bel ragazzo? È bravo? E Lidia: - Oh! Nonna, è bellissimo! Peccato che non ci sia più il nonno, gliel'avrei fatto conoscere molto volentieri! E a me no? - Replicò la nonna. Certo - disse Lidia; - la prossima volta che vengo a casa porterò anche lui. Un bruttissimo giorno quando Lidia tornò dall'università, ricevette una telefonata dall'ospedale di Torino. Lidia, - la chiamò una sua amica con la quale condivideva l'appartamento; - Lidia al telefono. Lei si alzò da tavola e corse al telefono. Pronto, Paolo? - E dall'altra parte: - Pronto, signorina Lidia? Sì, sono io, chi parla? Sono la caposala dell'ospedale, reparto chirurgia. Si, mi dica, cosa è successo? E l'infermiera: - La scorsa notte hanno ricoverato Paolo con forti dolori allo stomaco. Oh! Mamma mia! - Gridò Lidia. - E ora come sta? Purtroppo - rispose la voce dall'altra parte – purtroppo, questa mattina il primario ha tentato un'operazione d'urgenza all'ulcera, ma quando l'hanno aperto, si sono subito resi conto che non era un'ulcera; e l'hanno subito richiuso! Lidia si lasciò cadere su di una sedia che era vicino all'apparecchio telefonico e cominciò a singhiozzare. Si faccia coraggio signorina - aggiunse la voce dolce della caposala. È la vita! “Già” pensò Lidia: “è la ruota della vita che quando meno te l'aspetti, ti procura un'altra ferita! Rubandoti un'altra per te: preziosa vita!” Dicembre 2010. Mariangela Zaccone 12 LA PASSEGGIATA L'alba è sorta da qualche minuto ed io sono già in strada, in maglietta, pantaloncini e ciabatte, per la mia solita passeggiata mattutina. Gli uccelli impazzano già a tutto spiano con i loro voli ed i loro canti festosi, la gente è ancora a letto oppure impegnata nei preliminari di inizio giornata. Stavolta, essendomi alzato parecchio in anticipo rispetto al solito, decido di incamminarmi nella direzione opposta alla via che seguo abitualmente, così da giungere più o meno puntualmente all'apertura del bar. Beocio si trova a quattro chilometri e mezzo da Sablao, il mio paese, mentre, per raggiungere Ieapoa da Sablao, di chilometri bisogna percorrerne soltanto un paio e mezzo. Non impiego molto a lasciarmi alle spalle le ultime case della periferia di Sablao e a raggiungere la zona conosciuta come I cerzi, ossia Le querce, dove delle querce solenni che hanno dato il nome al posto non è rimasta la più pallida traccia. Nei tempi che furono, qualcuno, maledizione a lui, è riuscito a trovare l'escamotage per farle impunemente fuori. Quanta gente, al ritorno dalla campagna o arrivando all'uopo dal paese, trovava sollievo alla canicola estiva all'ombra delle loro chiome maestose! Il dolce stormire delle loro foglie, accarezzate da una brezza delicata ed avvolgente, mi risuona nostalgicamente negli orecchi, inducendomi ad affacciarmi al parapetto che costeggia la vallata in preda all'avvilimento più nero per un tesoro irrimediabilmente perduto. Sarebbero occorsi dei secoli, per ottenere delle querce simili, se qualcuno si fosse preso la briga di mettere a dimora delle nuove piantine. Purtroppo, com'è noto ed arcinoto, una delle sciagure che si abbattono sul genere umano è quella che gli attentatori all'integrità della natura si sprecano, mentre non è facile trovare chi ha voglia e mezzi per riparare i guai dei delinquenti matricolati. Un fischio tremendo, al cui confronto quello del più abile dei pecorai è un soffio flebilissimo, si impone per qualche secondo al canto delle acque del fiume e degli uccelli, distogliendomi dai miei pensieri. Mi guardo attorno con la sorpresa di chi, fino a pochi istanti prima, era assolutamente certo che in zona non ci fosse nessun essere umano all'infuori di se stesso. Nei pressi del ponte, in direzione di Beocio, la più soave delle fanciulle, un esemplare da sogno con addosso esclusivamente degli slip al cui confronto la classica foglia di fico è un velo immenso, mi sorride ancheggiando in maniera da non lasciare adito a dubbi. Figurarsi se sono io, ad aver voglia di tirarmi indietro! Non esito a liberarmi delle ciabatte, per non incontrare ostacoli di sorta, e mi fiondo verso di lei in preda ad un'eccitazione che il suo atteggiamento rende sempre più esplosiva. È con il massimo del disappunto che mi tocca prendere atto che all'ultimo istante l'oggetto dei miei desideri cambi idea e si lanci in una folle corsa verso Beocio. Troppo tardi per calmare i miei bollenti spiriti. La ragazza avrebbe dovuto tenerne conto, invece di lasciarsi guidare dall'incoscienza totale. Deve prendersela soltanto con se stessa, dunque, se è costretta a sorbirsi il più furioso degli inseguimenti. Riesco a tenerla costantemente sotto tiro, tanto che i suoi lunghissimi capelli al vento sfiorano a più riprese la punta delle mie dita, ma non a raggiungerla. Dalla sua bocca non esce alcun suono, sembra che nemmeno respiri, ed i suoi piedi nudi, a differenza dei miei, non producono alcun rumore. Se non le fossi alle costole e non la vedessi con i miei occhi da vicino, mentre calpesta l'asfalto, sarei portato a pensare che voli, e nessuno riuscirebbe a convincermi del contrario. La strada, tra Sablao e Beocio, presenta, ad un certo punto, due rettilinei paralleli uniti ad un estremo da una curva a gomito, abbastanza lunghi ed interamente osservabili dall'uno all'altro. È appunto a causa di simili circostanze che, superando la curva che immette sul rettilineo che ci compete, non posso evitare di notare, dall'altra parte, una macchina dei carabinieri in marcia nella direzione opposta alla nostra. I tutori dell'ordine, che a loro volta non possono fare a meno di vedere noi, arrestano la corsa dell'auto e saltano fuori con l'atteggiamento di chi intende attenderci al varco. Pur comprendendo a pieno la loro posizione, non riesco a non provare la massima irritazione nei loro confronti. Ciò, comunque, non vale a convincermi a rinunciare al mio inseguimento, essendo troppo eccitato per rendermi conto dei rischi non indifferenti che incombono sul mio capo. La ragazza, invece di precipitarsi loro incontro, come sarebbe logico attendersi, abbandona decisamente la strada asfaltata e si inoltra nella campagna attraverso un viottolo di fortuna, per nulla condizionata da tutto ciò che può agire negativamente sui suoi delicati piedini. Il mio sospetto che voli realmente si fa sempre più consistente, a dispetto di ciò che vedo, soprattutto alla luce del dolore che provo ai piedi al contatto con erbacce, sassi e simili. All'inizio sono costretto a rallentare inesorabilmente la mia corsa contro la mia volontà. Poi, vedendola allontanarsi, finisco per dimenticare ogni sofferenza, agevolato dalla vecchia abitudine a muovermi a piedi nudi su ogni sorta di percorso, e non tardo a recuperare il terreno perduto, incurante delle urla con cui i carabinieri mi intimano di fermarmi. Presto ci sottraiamo alla loro vista e al contatto con le loro voci. Sotto gli effetti di un ritorno di fiamma, la mia preda riguadagna un buon margine su di me e non trova di meglio che rifugiarsi in una grotta. So con certezza matematica che la caverna è priva di altre uscite e mi precipito al suo interno con l'acquolina in bocca. La ragazza è distesa per terra a pancia in su e a braccia aperte, immobile e senza gli slip, buttati a qualche metro di distanza dal suo corpo. Il suo volto cereo, unito alle sue palpebre socchiuse, raffredda di colpo la mia fretta di spogliarmi, avevo già tolto la maglietta in corsa, e mi induce a chinarmi su di lei per ascoltare da vicino il suo respiro apparentemente inesistente. È proprio vero, non respira più. Le sfioro la fronte con la punta dell'indice della mano destra e la trovo glacialmente fredda, ghiacciata. Accosto il più possibile un orecchio al cuore. Non batte più. Non è possibile! Fino a pochi secondi prima, la sua corsa più che sostenuta dimostrava inequivocabilmente, incontestabilmente che la ragazza era viva e vegeta. La palpazione in più punti mi toglie ogni illusione: il suo corpo non ha nunlla da invidiare a quello di una statua di marmo. Sconvolto fino all'inverosimile, mi precipito verso la strada con la speranza ardente di trovare i carabinieri dove li abbiamo lasciati, potrebbe non essere ancora tardi. Per fortuna sono ancora là. “Correte, vi supplico! La ragazza sembra morta!” “Di che ragazza parlate?” mi domanda il brigadiere, esterrefatto. “Come, di che ragazza parlo! Di quella che inseguivo, no?” “Perché, inseguivate una ragazza?” insiste il graduato con gli occhi fuori dalle orbite. “Non ditemi che non l'avete vista! Una ragazza di quel calibro non passa inosservata sotto montagne di abiti, figurarsi quasi del tutto nuda!” “Si vede che eravamo distratti, -osserva il mio interlocutore scuotendo la testa.- Comunque niente male, adesso ce la fate vedere voi.” Sono troppo sconvolto per prendere le sue parole nel giusto verso, per cui mi avvio a passo deciso in direzione della caverna, seguito dai tre tutori dell'ordine, guardinghi più che mai. A noi si aggrega un uomo appena sopraggiunto, che, a suo dire, ha un podere nella nostra direzione. Il tizio resta sorpreso nel prendere atto che la nostra meta è anche la sua. “La ragazza è lì dentro,” affermo con un brivido indicando la grotta. Il brigadiere mi esorta a precederlo ed io non ho alcun problema ad accontentarlo. Su sua richiesta si uniscono alla compagnia sia i due carabinieri che il proprietario del podere. Nella caverna non c'è la più pallida traccia della ragazza, il che mi lascia estremamente disorientato. “datemi retta, amico bello, -sbotta il capobanda,- voi non avete visto nessuna ragazza.” “Ed invece vi garantisco che non solo l’ho vista, -replico con la massima determinazione,- l’ho anche toccata.” Il padrone di casa, che segue gli avvenimenti con curiosità sempre crescente, in attesa di scoprire come stanno le cose, interviene con una serietà che spiazza il brigadiere ed i suoi agenti. “Signori, l'amico non racconta balle. Fino ad adesso ero convinto che la storia fosse stata inventata ad arte da qualcuno che aveva fantasia da vendere, approfittando di un incidente accaduto proprio in questa grotta tantissimi anni fa, ed invece è tutto vero. Quando ero bambino, il mio nonno paterno mi ha raccontato che un suo bisnonno aveva una figlia straordinariamente bella ed intelligente. Era inevitabile che, con delle credenziali del genere, la ragazza facesse innamorare di sé parecchia gente. Tra i suoi numerosissimi spasimanti c'era il figlio del più grosso possidente della zona. Il padre del giovane ne ha chiesto personalmente la mano al padre della fanciulla per conto del figlio, promettendo una grandissima dote a lei e questo podere a lui. Potete immaginare quale fosse la gioia del mio bisavolo, considerato che lui e la propria famiglia vivevano nella miseria più nera. La ragazza, però, era innamoratissima di un altro giovane e non voleva sentire ragione, nonostante che a livello economico il suo preferito non stesse poi tanto meglio di lei. È stato proprio quest'ultimo, spinto dall'amore sconfinato per lei, a dare inconsapevolmente al padre disperato una mano d'aiuto determinante per indurla a cambiare idea. La consapevolezza di non poterle offrire nient'altro, all'infuori di una vita di stenti, lo ha spinto a fare il suo bene pretendendo che sposasse il figlio del ricco possidente, pena il proprio suicidio. Per farla breve, la ragazza ha finito per sposare una persona che non amava, solo che, al momento di accingersi a consumare la prima notte di nozze, la sua avversione per il marito ha raggiunto il culmine. A quel tempo qui c'era una casetta attrezzata di tutto punto ed i due freschi coniugi si sono trovati d'accordo di passare la prima notte da queste parti. Entrambi erano già pronti, quando lei ha chiesto a lui di appartarsi per qualche momento nella grotta rigorosamente da sola. Pur non comprendendone il motivo, lui non se la sentiva di contrariarla, l'amava perdutamente, e l’ha lasciata fare, malgrado lei indossasse solo un paio di slip. Alla lunga, non vedendola ritornare, si è deciso a raggiungerla e l’ha trovata morta. Si dice che, da quel momento in poi, di tanto in tanto la ragazza si fa vedere in giro esattamente come si trovava al momento della morte, nella speranza di incontrare il suo amore vero, per concedere a lui l'onore della prima notte di nozze. Secondo tale diceria, finchè non lo incontrerà, si comporterà come si è comportata col signore.” “Sareste in grado di descrivercela? –gli chiede il brigadiere.- Se si, vi prego di non farlo subito, -si affretta a puntualizzare.- Fra poco vi spiegherò il perché.” L'interpellato va oltre, dichiara di poterla addirittura dipingere con fedeltà estrema, avendo avuto modo, durante la propria infanzia, di rimanere folgorato dalla vista della sua fotografia, fotografia che successivamente è andata irrimediabilmente persa. “Se la cosa può interessarvi, brigadiere, -mi affretto ad aggiungere,anch'io sono in grado di fare altrettanto.” Il brigadiere spedisce uno dei due carabinieri in paese con l'ordine tassativo di procurare, nel più breve tempo possibile, un numero notevole di fogli di carta dello stesso tipo e due serie di acquarelli identici. A cose fatte, fornisce a me e al proprietario del podere l'occorrente per metterci all'opera, quindi ci impone di appartarci in modo che nessuno di noi possa vedere ciò che disegna l'altro, controllando e facendo controllare severamente dai suoi agenti che rispettiamo rigorosamente le consegne. Le immagini della ragazza ritratte nei due disegni sono identiche come due gocce d'acqua, con l'unica differenza che la mia si ritrova addosso soltanto gli slip, , mentre quella del proprietario del terreno indossa un vestito, delle scarpe e delle calze elegantissimi. Eppure, fino a poco fa, io ed il mio collega disegnatore ignoravamo completamente l'esistenza l'uno dell'altro. Pino Furci 13 L'INSOSTENIBILE PESANTEZZA DELL'ESSERE "Quant'è pesante il corpo di un uomo, quando è svuotato dell'anima." Pensi, giovane aiuto medico legale, nel sollevare il sacco in cui è stato rinchiuso il mio corpo, per adagiarlo sul tavolo del tuo obitorio, con l'aiuto dei due addetti alle pompe funebri che l'hanno sganciato dal cappio che con tanta cura avevo confezionato al mio collo. Ah, amico mio, se sapessi quanto pesava a me, quel corpo. quell'abito che non ho mai scelto, nè mai voluto indossare e che mi perseguitava nello specchio ogni volta che uscivo dalla doccia. Quello non è il mio corpo, non è il corpo che avrei dovuto avere; qualcuno deve aver fatto confusione nel guardaroba della carne, quando eè arrivato il mio turno didiventare sostanza, e una volta adulta mi son ritrovata con un viso spigoloso coperto da una folta barba nera, un largo petto villoso e due gambe grosse e muscolose. Io, invece, avrei dovuto avere curve morbide e sinuose, seni tondi, fianchi generosi,gambe lunghe ed affusolate ed una pelle di seta come quella ragazza in bikini rosso, che giocava col frisbee sulla spiaggia l'estate scorsa in un'immagine di felicità perfetta che solo chi sta bene con se stessopuò esprimerecon tanta radiosità. Ecco, ti hanno appena detto della lettera che ho lasciato sulla scrivania. Sei rimasto stupito nel sentire che ho scritto di non sopportar più quella maschera che mi toccava indossare ogni volta che uscivo di casa. Ti sorprende? Oh, sì certo, anche tu a volte porti una maschera: ogni volta che fingi la sicurezza di Indiana Jones davanti a tua moglie quando devi raccogliere il topolino di campagna che è rimasto ghigliottinato dalla trappola che avevi messo in cantina, mentre una terribile nausea ti strizza lo stomaco e vorresti essere in qualsiasi altro luogo; o quando fingi di divertirti a giocare a dama con tuo figlio, e invece ti annoi mortalmente e tutto quel che chiedi è di poterti chiudere nel tuo studio a leggere un buon libro. Ammettilo, però, sono solo momenti che durano pochi minuti, dopo puoi toglierti la maschera senzacreare sconcerto in chi ti sta vicino, essere te stesso e tornare a respirare. A me questo non era concesso: io avevo l'aspetto di un uomo e dovevo comportarmi come tale sempre e comunque. Ora stai pensando che l'omosessualità, ormai, è comunemente accettata e che avrei pure potuto farmi operare, se proprio avessi voluto... Non sai quante volte ci ho pensato. Perchè non era la mia omosessualità che mi torceva le viscere, che mi stordiva quando vedevo la mia immagine riflessa sulle vetrine dei negozi, che faceva scendere lacrime salatissime a bruciarmi le guance come aghi infuocati, quando finalmente sola, chiusa in quel tranquillo utero che chiamavo casa, con un sospiro mi sfilavo la maschera, lasciando che la luna, e solo lei, guardasse il mio vero volto. Era quel corpo, quel maledetto insieme di ossa, carne e organi sbagliati a farmi sentire così. Ho sognato di potermi scuoiare, di poter far sparire quella massa ingombrante che mi ritrovavo tra le gambe e trasformarla in un soffice vuoto, di imbottire il mio petto con ormoni o silicone... ma non potevo: mia madre, mio padre, i miei e i loro amici, i clienti dello studio per cui lavoravo, i miei colleghi... nessuno di loro avrebbe accettato una Roberta al posto di un Roberto. Se tu avessi visto con quanto disprezzo Enzo e Luca facevano il verso al parrucchiere dal quale vanno le loro mogli. Se avessi sentito con quanta morbosa curiosità le ragazze della segreteria commentavano l'articolo e le foto di Novella 2000, che rivelavano "il lato choccante" dei due calciatori sorpresi, mano nella mano, nudi su una barca a vela al largo di Corfù. Credi che avrebbero continuato a trattarmi con altrettanta amicizia? Che avrebbero continuato ad invitarmi alle bicchierate serali o in pizzeria a festeggiare i loro compleanni? Credi davvero che Andrea avrebbe continuato a considerarmi il suo confidente, trattandomi con la stessa intimità e franchezza con cui mi ha sempre trattata? E che effetto avrebbe fatto un trans in un'aula di tribunale, a difendere gli interessi di una vittima di mobbing? Ero un avvocato piuttosto quotata in città, ma avrei continuato ad avere la stessa stima e considerazione, se mi fossi rivelata per quella che sono? No... non sarebbe mai successo. Avrei dovuto abbandonare tutto e tutti. Cambiare città, lavoro, amici e sperare di trovare un luogo in cui nessuno venisse mai a sapere chi ero stata. Anche se ci fossi riuscita, mio padre e mia madre ne sarebbero morti di dolore misto a vergogna. Certo, hai ragione, soffrono dannatamente anche così, con un figlio morto suicida, ma almeno così il figlio che tra qualche giorno seppelliranno sarà quello che i loro occhi hanno sempre conosciuto. Con un'operazione, Roberto sarebbe comunque morto per loro, ma avrebbe avuto l'aggravante del tradimento, della vergogna, dell'ignominia Stai prelevando campioni del mio fegato e di altri tessuti, per vedere se ho assunto droghe o alcool... non perdere tempo, non ho preso nulla, nemmeno unbicchiere di vino. Ho sempre avuto paura di perdere il controllo, figurarsi se potevo prendere in considerazione droghe o alcool rischiando che facessero cadere la mia maschera nel momento meno opportuno! Sono sempre stata una codarda incapace di mollare i freni inibitorio seguire percorsi ignoti. Quando ho deciso di farla finita, per un po' mi sono trastullata con l'idea di mandar giù una scatola di ansiolitici con una bottiglia di vodka al limone: “morire, dormire…” come diceva Amleto… ma poi ho avuto paura di quel che avrei sentito o fatto da ubriaca, prima di addormentarmi. Per questo ho scelto di impiccarmi. I nodi li ho imparati da ragazzina, con gli scout: un bel calcio alla scala e via, quasi non me ne sono accorta. Ora il tuo sguardo si è fermato all'altezza del mio inguine; ti stai chiedendo se sono mai stata con una donna, se ho mai, almeno una volta, provato ad essere "normale". Certo che l'ho fatto: avevo una fidanzata veramente bella. Intendo bella dentro, solare, gioiosa e molto arguta ma non ne sono mai stata innamorata. Le volevo bene e mi piaceva la sua compagnia: parlavamo di libri, andavamo al cinema e ai concerti, visitavamo mostre... ma non riuscivo a soffocare un doloroso senso di ribrezzo nei momenti di intimità. Claudia non era una stupida, l'ha capito quasi subito. All'inizio ha tentato di cambiarmi, di convincermi che con lei sarebbe statobello, che insieme potevamo creare qualcosa di speciale, ma presto si è arresa ed ha accettato la mia semplice amicizia. Sì, forse posso dire che Claudia è stata la mia migliore amica, quella che più si è avvicinata al vedermi senza maschera. Dda vera amica, ha persino continuato la finzione a beneficio dei miei genitori, fino a quando non ha trovato il vero amore con Nicola; allora ci siamo lasciati in maniera ufficiale ed ho dovuto asciugare le lacrime di mia madre che già ci vedeva sposati con almeno tre pargoli. Ho provato una certa gelosia, quando Claudia si è sposata. Non tanto per il fatto che Nicola si stava portando la mia migliore amica a vivere al dilà dell'Oceano, ma perché a loro veniva data la possibilità di essere felici con la persona che amavano, di creare un futuro e una famigliainsieme, liberamente, davanti agli occhi sorridenti di un mondo che li accoglieva senza riserve, senza commenti, senza discriminazioni. Stamane, all'alba, prima di salire sulla scala, le ho scritto un messaggio di saluto via posta elettronica… forse in questo momento lo sta leggendo , seduta alla sua scrivania. Spero proprio di non averle sconvolto la giornata, ma non potevo andarmene senza salutarla. Sento la tua anima che si ribella ad un nuovo pensiero che ti affiora alla mente: ti chiedi se ho mai avuto rapporti con uomini... E' stato difficile, sai. Difficile ammettere a me stessa di essermi innamorata di Guido, di desiderarlo e di volergli stare a fianco. C'era la paura di scoprire la persona che ero in realtà, il terrore di abbandonarsi ad un sentimento che gli altri definivano anormale, e magari scoprire che era meraviglioso e di non poterne fare a meno e poi il panico di essere respinta con sdegno ed essere evitata come la peste . Quella volta che, durante il processo Strati, si è avvicinato per sussurrarmi i suoi comenti sulla testimonianza del perito calligrafico ed ho sentito il suo respiro sul collo, l'odore della sua pelle, la sua mano sulla spalla… ho lottato con tutte le mie forze, focalizzando l'attenzione sul processo, sugli appunti che stavo prendendo e sui suggerimenti che lui mi stava dando, per non avvampare d'emozione, per tenere a bada il cuore che voleva saltarmi fuori dal petto… ed avevo quasi deciso di dichiararmi a processo concluso. Alla fine, però, mi è mancato il coraggio, sono rimasta ad ammirarlo a distanza, odiando ancora di più l'involucro maschile in cui ero imprigionata. Ecco, quella è stata l'insostenibile pesantezza del mio essere in tutti questi anni. Ogni giorno, ogni ora, ogni minutoin cui mi trascinavo dietro quel corpo che le tue mani inguainate nel silicone ora stanno frugando alla ricercadi chissà quale indizio a dimostrazione di chissàquale tesi, per me è stata un'interminabile agonia. Prigioniera di un ceppo chiamato cromosoma Y, ero costretta ad apprezzare con commenti pesanti lo sculettare di Gloria nei corridoi dello studio, mentre urlavo di dolore al pensiero che anch'io avrei dovuto avere un corpo come quello, anch'io avrei dovuto poter lanciare sguardi ammiccanti a Guido per fargli capire il mio interesse ed invitarlo ad avvicinarsi, anch'io avrei dovuto poter passeggiare nel parco, mano nella mano con lui, per poi sederci vicini a mangiare un gelato in due, su una panchina all'ombra dei tigli. E mi dimenavo, Dio quanto mi dimenavo, per poter uscire di lì e gettar via quel ceppo... Hai terminato i tuoi prelievied il tuo esame. Sembri quasi deluso di dover confermare un suicidio pienamente consapevole. Ora che hai finito di ricomporlo, lanci un'ultima occhiata al mio cadavere prima di fargli indossare gli abiti che mia madre ha consegnato alla tua assistente. Fatichi non poco ad infilarmi la camicia e, ancora una volta, pensi a quant'è pesante il corpo umano, senza la sua anima… Sapessi quant'è leggera la mia anima, invece, adesso che è libera da quel corpo. Come galleggia serena, mescolandosi al respiro dei pini, dei gabbiani, dei delfini e degli stambecchi. Sono senza forma, ora, senza colore, senza contorni nè limiti, senza sesso nè desideri, senza sogni nè aspettative. Respiro nel respiro del mondo, insieme a migliaia di altre anime, indistinte e indistinguibili, ma ricolme di gioia, calore e luce. Fernanda Flamigni