Arrivo a Schonefed mentre all`Ausland si svolge un

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Arrivo a Schonefed mentre all`Ausland si svolge un
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A Le Havre sbocciò un ciliegio, ma nascondeva
amarene
di Matteo Forresu
I grandi registi s’inquadrano già dalle prime inquadrature. Per alcuni rappresentano la
soglia del ritorno, il desiderio di spalancare, tramite la prima immagine, la porta del
mondo che si sente proprio ed essere accolti dalla stessa atmosfera di sempre. Per altri sono
il contatto con una realtà aliena, o l’apparire improvviso e bruto del reale: luoghi in cui c’è
chi sente il bisogno di posizionare dei punti di riferimento, almeno quelli personali, e chi
semplicemente di osservare o raccontare per comprendere ciò che non si comprende. Per
registi ancora diversi l’inizio, e la fine, appongono i sigilli che racchiudono e schiudono il
segreto del senso del film. Ma l’incipit può anche essere semplicemente il momento in cui
prendere posizione senza temporeggiare, schierandosi.
Esistono però registi un poco più grandi dei grandi perché le loro prime inquadrature sono
tutte queste cose assieme. Miracoli di sintesi, e uno l’ormai consolidata poetica di
Kaurismaki lo fa avverare a Le Havre.
I lustrascarpe Marcel e Chang attendono immobili, figure (quasi) intere in piano americano
nelle tipiche fissità catatoniche kaurismakiane, di lucidare qualche calzatura di pelle scesa
dal treno indosso ai passeggeri, terzi di gambe inquadrati dal polpaccio alle scarpe,
velocissimi e disinteressati al punto che gli occhi dei due ne seguono a fatica gli
avvicendamenti: Marcel e Chang, l’uno dal decoroso e semplice abbigliamento vintage,
l’altro funzionale e dimesso, sono umili volenterosi fuori posto in un mondo, cui non
tengon dietro, di colorate sneakers modaiole e di scarpe sintetiche da pendolari. Un
portavalori, vestito con eleganza noir anni ’40 e colla faccia di chi stima il mondo un covo di
serpi, è l’unico che si ferma a farsi lustrare le scarpe da Marcel, nonostante sul collo abbia il
fiato di un altro figuro noir incappottato loscamente come un gangster e di cui si aspetta la
velenosità. Quando, uscito fuori campo, viene seccato a rivoltellate, si percepisce che il
gesto rituale di non rinunciare, neanche alla fine, alle proprie abitudini di cura acquisisce,
“officiato” da Marcel, il senso di ultimo brandello di permanenza nel proprio mondo: fra
persone d’altri tempi (in un Cinema d’altri tempi, che condivide il loro quasi esclusivo
straniamento estetico. C’è pure una locandina vecchio stile, dietro a Marcel…),
sopravvissute in un’interezza tutta loro all’alienazione e alle mode del mondo, che
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difendono con serena rassegnazione e onore il loro posto, i loro punti di riferimento (le
posture salde, i contegni pacati, le disposizioni “a schiera”, cifra del regista, sono anche
questo) e sanno a cosa vanno incontro. Fuori campo avviene una morte; ma appunto
perché scorporata, “smaterializzata”, è come se non riguardasse quell’uomo ma qualcosa
che non si vede eppure si sa esserci: quella di “qualcosa” che sta andando a finire male, e
basta leggere qualche intervista ad Aki (o vedere questo film) per sapere che tale destino è
riservato alla nostra civiltà, che sta dimenticando il senso di solidarietà, dignità e umanità.
Quest’iniziale apologo, scorcio minimo sulle inevitabilità tragiche dell’oggi, sembra porre
una premessa disincantata, ma schierata: all’esterno, nel mondo pubblico e sociale (la
stazione), addirittura i “poveri diavoli” (così comenta Chang) non possono evitare di stare
a guardare le sorti infelici dei loro simili. Gli altri, poi, non sono altro che “folla” anonima:
passeggeri frettolosi della vita, perennemente in ritardo.
Tuttavia, questa percezione è destinata a cambiare man mano che Marcel torna, facendo i
suoi tragitti ritirati, nel suo quartiere, nei suoi interni preferiti, insomma nel suo
microcosmo che brulica di colori, relazioni alla mano e “tipi strani”, tutto fuor che anonimi;
ovvero, scenograficamente parlando, nel Cinema di Kaurismaki. Marcel, come altri
“buoni” di quel Cinema, apparirà anche sempre flemmatico, “immobile”, maschera
d’aplomb, ma i sornioni guizzi di tono e le battute mai plateali (le sue conversazioni con i
negozianti di quartiere, con il direttore del centro d’immigrazione, con l’ispettore, con la
moglie, le ramanzine a Idrissa) rivelano una vivacità, una prontezza di spirito che si muove
sotto all’ironia e all’atarassia necessarie a non perdere la pazienza di fronte al mondo.
“Povero diavolo…” immagonisce Chang dopo aver assistito all’omicidio del
portavalori…”Per fortuna aveva pagato!” chiosa sbarazzino Marcel. Egli porge una
prospettiva giocosa, che svia dal compatimento, perché è uno “che ha capito il gioco” ed è
già svicolato dalle realtà più futili, più caduche: Marcel era infatti il protagonista di Vita da
Bohème di Kaurismaki (1992), film in cui lui e i suoi amici artisti, d’arte non ci vivevano,
semmai di stenti, di pasti e spiccioli condivisi; di solidarietà, certo, ma in un mondo in cui il
radicamento armonioso nella realtà non era garantito né dal loro talento (l’espatrio di
Rodolfo) né dall’amore (la morte di Mimì). Forse è per questo che – veniamo a sapere in Le
Havre – dopo la vita da bohème Marcel scelse quella da clochard, finché non venne raccattato
dalla sua donna-angelo Arletty. Arrivato allo stadio terminale della vita intellettuale, dopo
aver pensato e patito così tanto la realtà da aver determinato l’impossibilità di cambiarla e
comprenderla con l’Arte, dapprima rinuncia ad essa “depurandosi” e ritrovando nel reale
– che è la vita bruta, vissuta nel modo spontaneo che è precluso all’uomo civilizzatol’essenzalità delle cose e dei bisogni, e poi, dopo essere stato “salvato”, nella realtà passa
direttamente a fare le cose, come mobilitarsi spontaneamente, immediatamente, con
trasparente purezza morale, per aiutare un ragazzino profugo a raggiungere la madre.
Marcel e i personaggi di Kaurismaki non si commuovono (“Hai pianto?” “No” “Bravo, non
serve a niente”), e così il suo Cinema non commisera – ché può essere un atteggiamento
ricattatorio verso lo spettatore – perché preferiscono mettere in moto la loro sgangherata rete
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sociale da sottobosco per solidarietà verso coloro di cui riconoscono l’umanità indifesa.
Proprio per queste qualità umane la rinuncia di Marcel alle aspirazioni letterarie e il suo
accontentarsi del lavoro più umile che ci sia non sono una degradazione né
un’autocastrazione: Le Havre è sì un porto, quindi un rifugio, e il quartiere di Marcel, con
tutti i suoi colori e il suo modernariato casalingo, è un ripristino della vivibilità, ma non
sono una fuga: Marcel convive con il mondo, con la contemporaneità, lavorando all’aperto;
e ad esso, per la sua esperienza di artista e vagabondo, “appartiene” talmente tanto da
saper passare la notte fuori, dopo essere giunto a Calais con l’ultima corriera, con assoluta
nonchalance su una sedia presa in prestito ad un bar. Tuttavia forse ha capito che calarsi
troppo nel mondo è cancerogeno, perché la realtà, la “vita fuori” è pericolosa: essa in
questo film ha addirittura corrotto Jean Pierre Leàud; o per capirci meglio: Antoine Doinel
adulto. Lui, il protagonista dei 400 Colpi, emblema della purezza infantile, della libertà
d’esprimer la personalità e la voglia di vivere nel mondo (verso le cui sconfinate possibilità
Truffaut lo fece correre con la carrellata finale); il personaggio poi ripreso in Antoine e
Colette, Baci Rubati, Non drammatizziamo…è solo questione di corna e L’Amore Fugge, seguito
sempre come alter-ego del regista ma anche come permanenza, messa alla prova nel corso
della crescita, degli ideali di soggettività, rischio e anticonvenzionalità della Nouvelle Vague.
Lui, ebbene, morto il suo custode di purezza Truffaut e tornato un semplice Jean Pierre
Leàud, a contatto “sregolato” con la realtà dev’essersi abbruttito, dato che è lui che qui a Le
Havre fa la spia intollerante e vile denunciando anonimamente la presenza clandestina di
Idrissa a casa di Marcel.
Anche se Marcel ogni sera torna nel suo “rifugio”, lui sa quello che avviene là fuori. Non
ha bisogno di sposare una cultura della lotta, quella che si documenta minuziosamente per
opporsi alle gabole gabbanti della burocrazia e della legislazione. Grazie al suo sofferto
rinnovamento morale, evento che ogni Grande Cinema non viola, affidandolo all’intimità e
alla privacy del fuori campo (che qui è addirittura fra i due film Vita da Bohème e Le Havre),
Marcel ha capito come va il mondo poiché della vita ha sposato l’essenziale, perciò aiuta
Idrissa con un volontariato “naturale” che gli è comunicato dalla schietta umanità e che per
questo segue un intreccio “avventuroso” talmente diretto ed ingenuo da sembrare assurdo
(le frasi con cui “convince” il direttore del centro immigrati), il quale tuttavia pur essendo
tale vale come “scarto”: Marcel riesce perché ha quello che a noi manca. Ma la sua
ingenuità non è quella del folle, è una distillazione di conoscenza: Marcel di cognome – e al
Cinema, attraverso la citazione, il riferimento intelligenti e non inutilmente pop, un nome
può essere davvero un destino – fa Marx. Come Karl, che servendosi della dialettica ridusse
tutto il minuzioso sistema di spiegazione della complessità del reale al principio della lotta
di classe. Marcel infatti lotta, anche se ha sempre quel fare compassato da “eroe” del
cinema classico; e lo fa per il solo essere in’opposizione dialettica (estetica, lavorativa, morale,
o in quanto ex-barbone, ecc) rispetto al mondo contemporaneo. Anche il quartiere in cui
vive (con case operaie in mattoni; recinzioni di lamiera con lacerti di manifesti; salotti simil
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Bauhaus; bar con muri scalcinati e un po’ sbiaditi, arredo povero e geometrico, stock
d’alcolici ridotto all’osso e di seconda marca; interni di ospedali quasi da dopoguerra,
apparentemente senza macchinari e per nulla riverniciati asetticamente, come fossero
ricavati da appartamenti; ferraiole corriere a gasolio) evoca vagamente tutto un mondo da
Repubblica Socialista (quello dove la spartana autarchia estetica dà un’impressione di
fondo di magazzino e di tarocco tristo) virato però a tinte vivaci, “simpatiche”, da parco
giochi: si percepisce insomma, fra quell’orgoglio estetico “da eterni secondi”, un senso di
omogeneità, compattezza e solidarietà sociale rivestiti però non di rigore, ordine e serietà
ma di vitalità un po’ provata (i colori molto eterogenei ma un po’ sbiaditi), non di ideologia
ma di locandine retrò di spettacoli e di manifesti di concerti rock.
Non c’è però solo Marx in Marcel: egli ha tanti numi tutelari, anche nel nome, ma alcuni
sono nascosti, aleggiano come spiriti di cui ha come colto l’insegnamento. Ciò fa sì che il
suo tratto distintivo – il candore quasi infantile (Arletty lo considera un bambino mai
cresciuto; Idrissa, fatta la conoscenza della donna in ospedale, la prega di guarire presto
perché crede che “il Sig. Marcel non ce la possa fare senza di lei”) – non sia un’utopistica
preservazione di qualità originarie ma sia circonfuso di grandi moralità; che “casualmente”
sono anche quelle dei grandi registi amati da Kaurismaki. Questo aggiunge complessità a
quel tratto di Marcel: se la sua ingenuità non è quella del folle, non è nemmeno solo una
distillazione di conoscenza, ponendosi invece come una riacquisizione di purezza (nel suo
caso dopo l’angelico salvataggio di Arletty, in quello di Kaurismaki dopo la frequentazione
degli Autori prediletti tramite la cui mediazione ha filtrato e rinserrato l’immaginario del
film); il che sfugge al rischio di renderlo un ideale e perfetto feticcio del regista,
trasformandolo al contrario – ed è qui la sua importanza capitale nel Cinema di Aki – in
figura dello spettatore critico: colui che da adulto e non tornando irrealmente bambino,
esposto all’insegnamento di vita di Marcel e a quello morale dei grandi spiriti del Cinema
in lui racchiusi, può almeno rammendare le pezze di un ideale di purezza perduta e
riattivare la sua morale distratta. Il percorso di salvataggio defilato di Idrissa compiuto da
Marcel, insomma, e il presupposto su cui si fonda la solidarietà nel film sono invero ben
poco “marxiani” e assai più memori di Chaplin (il cui spirito riposava già nel titolo del
precedente film di Kaurismaki: Le Luci della Sera): la violazione della legalità per preservare
l’umanità sconfitta, emarginata e innocente. Marcel è un eterno bambino come Charlot,
anche lui è stato vagabondo, e per il loro essere continuamente rigettati dalla Società
(Charlot tormentato dai poliziotti, Marcel cacciato dal proprietario di un negozio di scarpe
che gli sparpaglia la roba all’appellativo di “Terrorista!”) hanno imparato a mantenere
tanto una distanza dalle cose quanto una vicinanza all’Uomo disadattato, che quando è
capace di infondere in loro empatia (il Monello nel caso di Charlot, Idrissa in quello di
Marcel) li abilita alle prove più grandi di generosità (Marcel devolve senza batter ciglio
tutti i suoi risparmi alla causa), di ingegnosità improvvisativa e di elusione delle norme.
Tuttavia il protagonista di Le Havre non ha nulla della sottile perfidia e delle rivalse
affibbia-pedate del primo Charlot, della condizione di vittima dell’ultimo, non gioca al
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ribaltamento non-sense o anticonvenzionale – sempre, però, più polisemico – degli oggetti
(comprese le leggi e le istituzioni, considerate appunto solo “cose”) tipico dello Charlot in
generale. Marcel “vede” e “fa” di più dell’Uomo-della-Società, proprio come Charlot, certo,
ma pur condividendone il candore egli possiede anche una certa saggezza, un controllo,
una regalità popolare che sembrano avvicinarlo di più, anche attorialmente, al Chaplin
maturo, quello di Luci della Ribalta e di Monsieur Verdoux. Ma d’altronde Calvero e Verdoux
erano Charlot, cresciuto e in un certo senso pacificatosi (uno entro la nostalgia, l’altro entro
un cinismo rassegnato) nel corpo adulto di Chaplin. Allo stesso modo Marcel è un eterno
bambino nel corpo di un uomo, e piega le leggi della Società a suo vantaggio in un modo sì
charlotiano, ovvero partendo da reazioni fantasiose o illogiche capaci però di rifondare il
contesto secondo una logica dell’assurdo (il colloquio col direttore del centro immigrati,
che si smuove a favore di Marcel dopo l’assurda gag “Sono l’albino della famiglia!”), ma
come se questo “spirito da comica” si incarnasse e agisse nella figura dell’ultimo Chaplin in
qualche modo “convivente” con la società. Tant’è che se non fosse per il patto temporaneo
con un suo rappresentante (in)formale – il commissiario Monet – e per la bontà ex machina
di costui, tutti gli sforzi di Marcel sarebbero stati vanificati in un attimo.
Kaurismaki, con Marcel Marx, ha concepito un personaggio che può essere descritto da
una sola parola: purezza, lo avrete capito. E il Cinema, come ogni arte che cerca di
accennare col visibile agli invisibili segreti delle cose, ha il dovere morale di ricercarla,
tenerla stretta e farla rilucere. Kaurismaki non si sottrae a questo compito e per rimarcare
l’essenza del suo personaggio – ciò che lo separa, rende indipendente e incontaminabile da
parte delle sozzure del mondo contemporaneo – esprimendo nel contempo il suo rispetto,
la sua ammirazione, simpatia e finanche protezione verso di lui, lascia letteralmente fuori
campo tutto ciò che con lui non si intona, che gli è alieno e d’altronde lo rigetta intollerante
(il tizio che gli grida “Terrorista!” sbaraccandolo a calci esce da un negozio di scarpe di
quelli del centro, dall’aspetto minimalista e la vetrina con due cose in croce in stile
gioielleria: cosa c’è di più contemporaneo del glamour estetico che vuol dare l’illusione di
esclusività?). Il Cinema dei grandi Autori è questione di rigore e di coerenza, e per
l’appunto la recisione che Kaurismaki opera sulla contemporaneità è totale, in ogni
inquadratura, ben più sistematica degli altri suoi film: a parte inevitabili bazzecole come
stralci di file d’auto moderne che scorrono sullo sfondo (ma comunque mascherate
parcheggiandoci davanti una macchina d’epoca, come nella scena del negozio di scarpe) o i
totali su Le Havre dove non si possono mica nascondere tutti gli edifici, la lista del rimosso
è impressionante: gli abiti sono vintage o di quella fatta anonima e senza tempo che si
vende ancora, in provincia, nei negozi per la quasi mezz’età o per i commercianti di
quartiere; gli arredi e le vetture sono pezzi di modernariato; le barche a motore sono quelle
semplici in legno usate dai veri marinai; non compare un solo articolo tecnologico (la tv nel
bar è a tubo con pochi colori, niente cellulari o schermi piatti LCD, in ospedale non si vede
alcunché di computerizzato o digitale); non è inquadrato alcun locale da tempo libero
(Marcel fa la spesa “da bottega” e compra spuntini nei chioschi, i bar o sono bettole o di
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quella normalità funzionale “fuori moda”); al neon si preferiscono le insegne, ai
rivestimenti architettonici “di bellezza” le vernici colorate sui muri; il rock di Little Bob,
oltre che essere suonato da adulti o vecchietti, è revival anni ’50-’60.
Delle cose visibilmente contemporanee, comunque, ci sono; ma che cose: le divise da corpo
speciale con dotazioni d’ordinanza della polizia francese, che approccia il container in cui
sono rinchiusi i clandestini stremati come fossero rapinatori barricati dentro una banca e
che, non fosse stato per Monet, non avrebbe avuto remore ad applicare il protocollo di
sparare su un fuggitivo, anche alla schiena, anche quella di un bambino, con una
tecnobestia di mitragliatore automatico; i casermoni di cemento, con spesse grate a prova
di sfondamento, del centro raccolta immigrati. Non pare neanche il caso di spiegarla, la
visione sociale e politica che sta dietro a questa contrapposizione. Eppure in noi spettatori
del Cinema di Aki è sempre in agguato la tendenza a impoltronirci in un’inerzia incantata
che si diverte e sorride dinnanzi a tutti i suoi esempi retrò e al buon cuore “di una volta” dei
suoi personaggi, come fossero carinerie che agghindano il cinema in base a gusti e valori
nostalgici. Però, al di là delle risate suscitate dalle bizzarre figurine (che comunque sono
individui che non si omologano), dalle singole battute e gag, è ingiusto compiacersi in sé
delle atmosfere vintage e della sequela di sorprese d’altri tempi nei film di Kaurismaki
perché “sono un bel mondo che fa stare bene”, poiché ciò equivarrebbe a trasformare lo
sguardo del regista, che cerca di resistere e farsi permanente proprio creando atmosfere e
sequele, in un tentativo di costruire un museo con parco giochi a tema annesso. In realtà lo
sguardo di Kaurismaki in Le Havre, al fondo, è quello di un uomo talmente stufo della
società attuale che si accanisce sugli indifesi (gli assalti dei corpi speciali), limita e
imprigiona i loro destini (il centro raccolta), da spazzarla via dalle vicinanze di personaggi
che è dovere morale sottrarre alle limitazioni dello stereotipato giudizio altrui e restituire ad
inquadrature che gli cuciono addosso il loro mondo, quello che li riflette degnamente e in
cui il contemporaneo non merita di entrare. Infatti è come se il Cinema di Kaurismaki, per
arrivare più direttamente all’essenza di Marcel Marx, rendendogli così omaggio, si fosse
fatto esso stesso “Marcel Marx”. Da buon “Marx”, quindi, spazza sì via la società che esso
scredita dalle vicinanze dei personaggi, ma non in generale: la fa irrompere fra loro
creando una contrapposizione, e ciò dilegua l’impressione che il mondo rappresentato dal
regista sia un’invenzione o un’impenetrabile bolla ideale. Ad un certo punto, infatti, il
posto delle immagini filmiche è preso da quelle di repertorio televisivo sullo sgombero
della Jungle di Calais, un “villaggio” abusivo installato nei dintorni boscosi della città. E’
raro che il nostro reale entri così direttamente, come appare davvero, nel Cinema di
Kaurismaki; tanto più considerato che tali immagini non sono una simulazione di ripresa
tv (che sarebbe sempre “cinema”) ma sono veri filmati d’archivio riguardanti un vero fatto
di cronaca. Ciò sta a significare che, in ambito circa realista, quanto più in un film
l’immaginario di un regista vuol farsi esteticamente compatto, porsi come estromissione
della realtà e sostituzione ad essa, “obbligando” a immergersi nella sua individualità, tanto
più forte e inducibile, se il regista è davvero grande, dev’essere il suo radicamento nella
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suddetta realtà. Kaurismaki, in Le Havre, con quell’interpolazione giornalistica addirittura
dichiara qual è il nascosto fondamento di realtà del suo film, e lo fa oltretutto in un modo
non solo totalizzante (quelle immagini sono visualizzate a tutto schermo, per dire che la
realtà è tutto ma anche, con piglio militante, che tutta la realtà è così) ma altresì estensivo e
inequivocabile, scegliendo quella tipologia di immagini con cui tutti, anche solo guardando
di sfuggita i tg, tendono a “vedere” i problemi del mondo: ciò che fonda questa realtà è la
demolizione dei diritti, delle speranze, della possibilità di sentirsi “a casa” e in sostanza delle
identità (caso di Chang, quest’ultimo, e non è una coicidenza che sia lui a commentare il
servizio al bar, quando la cinepresa restituisce quelle immagini ad una tv nella diegesi)
proprio presso coloro che di queste cose avrebbero più bisogno. Così è per contrasto che
Aki, ricostruendo atmosfere e pratiche di regia del passato, costruisce un Cinema
esteticamente iperselezionato che nel postmoderno sembra alieno e irreale tanto quanto a
lui pare alieno e governato da logiche irreali il mondo. Questo Cinema “Marcel Marx”,
proprio come il personaggio, è in opposizione dialettica nei confronti della realtà; ma in più,
rispetto ad esso, cerca anche di instaurare una dialettica: sapendo qual è la realtà, che esso
non è la realtà e che questa, per essere compresa, necessita di un termine di paragone
opposto, la pellicola stampa all’inverso il mondo, anche cromaticamente: se la realtà (nelle
immagini tv, ma anche, secondo Kaurismaki, per davvero) è sporca e sbiadita perché non
favorendo la vita la perde, il Cinema, negativi + positivi, ne ricarica il senso e il colore.
E’ proprio per non essere una stampa unicamente a positivi, che Le Havre scongiura il
rischio di essere una candida fiaba, conservando invece l’ambiguità che è propria del
genere. A fianco di quella che può sembrare speranza c’è sempre una sfiducia di fondo.
Una parte di questa ricade quasi addirittura sul Cinema, cui pure è assegnato un così
importante ruolo di riequilibrio: se in Le Havre il “cattivo” è Jean-Pierre Leàud, che fu
emblema di un cinema “puro” – la Nouvelle Vague – ispirato a tutti gli ideali che si
potrebbero desiderare nell’Arte – soggettività, sentimento, sincerità, non costrizione
industriale, anticonformismo, nutrimento dalle esperienze personali – questo ammonisce
che al Cinema d’oggi, a meno che non sia di formazione documentaristica, non è regalata
garanzia di onestà morale, lucidità critica e verità per il suo solo tendere a funzionare come
una macchina dei sentimenti. Nel postmoderno, dopo che di ondate, ognuna con i suoi
intenti, se ne sono sovrapposte tante, sono necessarie delle scelte di campo all’interno del
Cinema stesso. Ecco perché il “citazionismo” di Kaurismaki in Le Havre non è un vezzo, o
un’emersione di gusti, ma possiede un valore politico e morale. Leàud è “diventato
cattivo” perché in fondo i sentimenti, la sincerità ecc, come tutto ciò che è umano, sono
volubili, condizionabili e possono invecchiare male “perdendo pezzi”, ma a ciò si può
ovviare racchiudendoli entro un sistema formalizzato dai valori caratteriali ben definiti e
immutabili. Come il Cinema Classico.
Questo, in effetti, è ciò che fa Kaurismaki richiamandosi agli altri numi tutelari nascosti nel
nome Marcel: Carné, Pagnol, in sostanza il Cinema (pre) Classico francese del Realismo
Poetico (che, tra l’altro, insieme al cinèma du papa era ciò da cui volle scostarsi la Nouvelle
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Vague), cui rimanda anche la moglie di Marcel, Arletty come il nome d’arte di Lèonie
Bathiat, diva del periodo nonché protagonista di Alba Tragica di Carné (1939). La realtà di
Le Havre non è solo punteggiata da tutti i dettagli topici di quel cinema – il quartiere
popolare, il porto (delle Nebbie), la baguette, l’uovo all’occhio di bue per colazione, i bicchieri
di calvados – ma è immaginata e animata secondo procedimenti simili, ognuno dei quali
conserva il valore formale classico ma nel contempo, molto più che essere solo
“kaurismakizzato” (nel senso di “ri-stilizzato” secondo gli inevitabili automatismi delle
preferenze e della personalità), viene decontestualizzato e perciò depurato di tutte le
nascoste connotazioni “maliarde” del cinema dei divi, facendo riacquisire purezza a quelle
visioni e salendo così un altro gradino nel processo di avvicinamento della forma-Le Havre
all’essenza del suo personaggio e del suo mondo.
Kaurismaki non è un regista che spinge in avanti la tecnica cinematografica, né si propone
di forzare la percezione dello spettatore tramite sorprese rutilanti, costruzioni narrative
complicate, estremizzazioni di ogni inquadratura o sequenza. Il “classico”, inteso anche
soltanto come “semplicità” ed “economia narrativa” rispetto agli standard odierni, in lui
rivive in quanto giusta, unica possibile equivalenza alla semplicità di ciò che rappresenta, e
come mezzo per affermare che, in fondo, basta poco (quindi moltissimo, per gli standard
odierni) per vedere e comprendere quella realtà.
Ecco perché Kaurismaki, come principale mezzo di contatto fra il suo sguardo e le cose,
privilegia le inquadrature frontali, a misura di personaggio o di stanza, che nel Cinema
Classico con base realista servivano, uno, a imporre la centralità dell’uomo e delle sue
problematiche all’interno delle “nuove storie” di un cinema non più solo attrazione
stordente con la novità, con vicende fantastiche o avventure rocambolesche; inoltre
affermavano, due, la responsabilità di uno sguardo che si faceva carico di osservare faccia a
faccia quelle problematiche. Nello stesso tempo, però, ribadivano anche l’inavvicinabilità
del loro mondo tramite divi visualizzati, certo, frontalmente per offrire ai loro atti massima
chiarezza e visibilità, ma anche per assicurare alla loro figura tutto il suo splendore e
charme, come fossero statue preziose collocate per essere viste in modo plateale appena si
entra in una stanza di museo, instaurando con ciò un rapporto di devozione contemplativa.
Kaurismaki, da par suo, ha sempre avuto e mantiene interessi umanisti, perché le sue opere
sono popolate di proletari, perdenti, gente semplice che dell’umanesimo non sono né una
forzatura pietista né un teatrino di “soggetti”, caratterizzazione che rischia di trasformare il
Cinema in un recinto reclusivo, doppiamente autoreferenziale; per Aki essi sono un modo
per comprendere la realtà, dovrebbero essere la realtà, e non è un’iperbolica posizione
“contro”, perché è proprio il suo modo di fare cinema ad affermarlo e confermarlo per
tutto il film con le sue “classiche” inquadrature frontali che offrono un rapporto diretto con
le cose, quelle che dovrebbero contare e invece sono puntualmente (non) viste in maniera
mediata dai mezzi d’informazione e dalla nostra percezione contemporanea, la quale, tanto
per chiarire la sua inerzia distorcente, è soppiantata da uno sguardo appunto “non
contemporaneo” che induce lo spettatore a sottostare ad altri ritmi. Il “classicismo” di Le
Havre, però, disinnesca completamente la trappola dell’inavvicinabilità come fonte di
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fascino; il suo umanesimo realista è così radicalizzato che anche i dialoghi, che nel cinema
classico avvenivano spesso in campo/controcampo per illuminare la “mistica singolarità”
del volto del divo, sono frontalizzati e dimensionati sui corpi: osservare faccia a faccia, per
Kaurismaki, implica il farlo con schiettezza, “alla mano” (ripristinando ad esempio le
normali e dimesse posture in luogo delle pose), in modo da portare i personaggi sul nostro
stesso piano di realtà - proprio perché vorrebbe che fossero la nostra stessa realtà. Vis à vis,
inoltre, significa riprendere le azioni e il privato dei personaggi senza coglierli “di lato” o
“alle spalle”, senza prospettive strane, perché sono persone che non hanno niente da
nascondere, che sono quello che fanno. Riprendere tutto ciò in modo statico, poi,
scegliendo di non ridistribuire continuamente i personaggi nella scena, di non farli
muovere con casualità naturalistica, senza frammentare le scene in una miriade di veloci e
diversi punti di vista, equivale ad un rifiuto del contemporaneo con la sua velocità e
molteplicità di dati, di prospettive, ed è un tener fede alla volontà rispettosa di non
scompaginare la saldezza dei personaggi, di non ribaltare le loro relazioni, che sono
schiette, dirette e “lineari” tanto quanto la frontalità con cui li si guarda e quanto la loro
alleanza, che non è un temporaneo intrigo che bilancia incertezze e debolezze, ma è
semplicemente un naturale “atto giusto”. In linea con quella volontà rispettosa, la
macchina da presa di Kaurismaki non si abbandona alle ipercineticità attuali ma rimanda a
quella classica che si muoveva parcamente in funzione narrativa per seguire gli attori:
anche quando partono le carrellate in avanti “da entrata in scena del divo” – l’apparizione
di Mimì, la guarigione di Arletty – questo avviene sempre per sottolineare l’apotheosis –
come il brano di Einojuhani Rautavaara in sottofondo – di un sentimento dei personaggi.
Non vediamo, dunque, la camera immischiarsi sfrontata tra essi o mettersi a gironzolare,
come per non profanare la purezza dei loro spazi e non “muovere polvere” inutilmente
all’interno di un ordine strappato a fatica alla modernità.
Anche un altro “kaurismakismo” – la fissità o compostezza dei personaggi all’interno del
posto loro assegnato dalla messinscena – è conseguenza coerente della vivificazione di uno
spirito compositivo classico: quello che, in media, assegnava ad ogni inquadratura una
porzione definita di spazio da scoprire, un’azione e una posizione significativa ai
personaggi, e quando passava ad un’altra inquadratura evitava i salti bruschi (come dalla
figura intera al primo piano) per fluidificare un’arte narrativa che per la prima volta usava
in modo massiccio la scomposizione spaziale, possibile freno irrealistico. Questa linea
guida “esterna” conviveva con una “interna”, ovvero dei formati compositivi stabili,
ricorrenti in ogni sequenza come rime rinserranti, e tale convivenza assicurava
compattezza estetica: personaggi che occupavano 2/3 dello spazio, oppure 1/3 ciascuno se
erano entrambi presenti, e che in Le Havre sono di frequente scalati, affiancati o
raggruppati, sempre in modi che comunque, uniti alla sopressione di un gesticolare che
invaderebbe lo spazio altrui, sono un riconoscimento della loro vicinanza, mantenendo nel
contempo la loro identità individuale saldamente radicata; campi medi o totali
preferenziali, in cui le figure – intere, mezze o in piano americano – erano disposte centrate
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oppure ai margini del quadro senza troppo spazio né dietro né davanti. Tutto questo
sistema formalizzato aveva perciò buon gioco, grazie al suo ordine, alla sua definitezza e
alla sua coerenza, ad alludere ad un altro sistema, ovvero quello del carattere del
personaggio così com’era concepito dalla sceneggiatura classica: un ruolo preciso, un’entità
costante mossa sempre da alcuni principi riconoscibili, in modo da favorire
l’identificazione o il rifiuto, e di cui ogni gesto, postura, abito, intonazione, ecc, doveva
essere specchio. Aki adatta pienamente a sé questo sistema, a partire dalla foggia dei
personaggi: ben più che costanti e riconoscibili, perché come nei fumetti, Marcel e gli altri
sono vestiti sempre allo stesso modo, sfoderando un’indistruttibilità estetica che è specchio
di quella morale, in un’epoca di mode continue, voltagabbana e volubilità della percezione
delle problematiche sociali. L’abito è il modo più appariscente con cui Kaurismaki
visualizza la purezza di questi personaggi, o il suo contrario: Leàud si riconosce subito
come “cattivo” per il suo aspetto pallido, gobbo, nascosto nell’impermeabile, i movimenti
macchinosi, i capelli color ratto e la voce raspa. E quando l’aspetto pare neutro, come
l’attillato completo nero di Monet, che lo fa sembrare una di quelle sagome di investigatoriombra delle striscie a fumetti che si mimetizzano nello scuro dei lampioni, nero che gli
oscura l’umanità, lo assottiglia in mezzo alla gente (che non stima) e lo mimetizza
nell’Autorità (le divise della polizia, la stanza ombrosa del questore), ecco che spunta fuori
un dettaglio ad accennarne la vera indole vispa (la gag dell’ananas). E’ coerente, perciò, che
quando Marcel e Arletty cambino d’abito (l’unico altro paio presente nell’armadio) ciò
corrisponda ad un sovrappiù di grazia: l’uno per intraprendere il suo viaggio a fin di bene,
e l’altra non appena guarita, indossando il vestito colorato con cui in gioventù incontrò
Marcel e “lo salvò”. Gioventù come il periodo della purezza, come quello in cui s’iniziano a
leggere i fumetti.
Se, poi, il Cinema questa purezza ha il dovere di scovarla, tenerla stretta e farla rilucere, e il
primo di questi doveri è svolto in Le Havre prima di tutto dalle foggie immutabili, a badare
al secondo ci pensa la spazialità: la costruzione degli ambienti, spesso in campo totale o
medio, dove i personaggi non risultano rimpiccioliti e prevalgono sulla totalità dello
sfondo, è come se rispondesse ad un bisogno di contatto, di adesione, ad un dovere di farli
aderire agli sfondi che li rappresentano in modo identitario e non disperderli nella caoticità
figurativa di una realtà che li emargina. Il compito di “farli rilucere”, invece, è assegnato ad
un altro procedimento vecchio stile, ovvero l’illuminazione contrastata dei volti e dei
contorni, a spicchi di luce (controluce classico) o a chiazze (low-key lighting, chiaroscuro
drammatico “da noir”), da cui però Kaurismaki rimuove il “lato oscuro”: l’allusione ai
contrasti del carattere, ai tormenti, alle torbide volubilità, all’erotismo preso tra angelico e
carnale, che il Cinema Classico non accettava fossero espliciti ma relegava ad alcuni
dettagli (le luci, le sigarette, le pistole, i rossetti). Per Aki, invece, che dona ai suoi
personaggi l’amore romantico e un carattere non volubile, la “luce dei divi” (Marcel e
Arletty in macchina verso l’ospedale, o quando guardano il ciliegio, l’apparizione di Mimì)
è casomai un modo per far diva la normalità dei suoi personaggi.
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Il Cinema Classico di Le Havre, in sostanza, che si fa “Marcel” (Carné, Pagnol) in onore del
suo protagonista, in quanto Realismo Poetico è una sorta di retribuzione nei confronti dei
personaggi, una giustizia poetica che li rappresenta adeguatamente e regala loro ciò che il
mondo toglie ogni giorno alle loro controparti reali.
C’è tuttavia un elemento della messinscena – l’andamento compassato, al limite dello
straniamento, di gesti e dialoghi – che Kaurismaki esaspera, in opposizione alla visione
fluida e da macchina dei sogni del Cinema Classico. La sua tipica recitazione antinaturalistica è fatta di piccole attese e ritardi che denunciano una sorta di sospettosità verso
la realtà e di arrugginimento nell’agire in essa, è un’impossibilità di comportarsi con
naturalezza facendo finta che “là fuori (campo)” tutto vada bene; è quasi, in modo
brechtiano, una traccia di consapevolezza da parte dei personaggi di essere tali, di essere
immersi in una metafisica fumettistica (come la locandina che vedete a inizio articolo).
Forse, dunque, è per questa consapevolezza dolorosa, probabilmente la stessa che sta alla
base dell’esilio fuori campo della contemporaneità, che Kaurismaki ha sentito il bisogno di
bilanciare, alleviare certi dettagli irrealistici comprendendoli entro una forma di Realismo
non più solo Poetico ma Magico, come quello di Kafka dei Racconti, letti ad Arletty in
ospedale dalle amiche di quartiere per farla riposare. Per Kafka quel modo di raccontare era
anch’esso una retribuzione, che trasfigurava in una pace fantasiosa la realtà altrimenti
sempre minacciata dal Potere, dall’Autorità che come nel Castello non hanno volto (e anche
in Le Havre, quando Monet entra nel Loro palazzo, contiguo ad una Chiesa davanti a cui
degli ecclesiastici fanno un’esegesi delle quisquilie, chi gli dà ordini non si vede, è solo una
voce) e sono capaci di far sentire vittima colpevole l’uomo per il loro solo esistere.
Probabilmente, allora, è per questo che Aki ha immerso i suoi personaggi in quadri che
paiono vignette della bande dessinée, cioè del fumetto (francese), regno della fantasia.
Se all’orgine e nel sottofondo di Le Havre c’è una consapevolezza dolorosa, anche
l’immagine trionfante della Magia – il ciliegio in fiore – germina con ambiguità: magari,
certo, è il definitivo correlativo oggettivo della purezza di Marcel e Arletty; è anche
possibile che sia un omaggio a Ozu, a Mizoguchi, alla loro capacità di cogliere la grandezza
e piccolezza dell’uomo, osservandolo con saldezza, pazienza e pacatezza in rapporto al fluire
della natura e del reale; oppure possiamo considerarlo il terzo lieto fine, ultimo germoglio
del dovere compensatorio che ha guidato la messinscena: “Tutto lʹaffare dei profughi – dice
Kaurismaki – è qualcosa di veramente deprimente con troppi finali tristi nella vita reale,
così unʹopera di fiction che tratta questo tema ha bisogno di almeno due lieto fine per creare
una sorta di bilanciamento”. Eppure, per il suo essere fuori posto e fuori tempo, può essere
semplicemente l’eccesso favolesco che, proprio per questo, ci ricorda che siamo
semplicemente stati spettatori di una fantasia.
Matteo Forresu
Aki Kaurismaki, Miracolo a Le Havre (titolo originale: Le Havre), Finlandia/Francia/Germania 2011
Voto: 9
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