L`esodo dall`Indocina
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L`esodo dall`Indocina
Flight from Indochina 4 L’esodo dall’Indocina Gli sconvolgimenti seguiti alle vittorie comuniste, nel 1975, nelle ex colonie francesi dell’Indocina – Viet Nam, Cambogia e Laos – causarono la fuga, nei due decenni successivi, di più di tre milioni di persone. Il prolungato esodo di massa dalla regione e l’energica risposta internazionale alla crisi spinsero l’Unhcr in un ruolo di agenzia leader, in un’operazione umanitaria complessa, costosa e di grande impatto mediatico. Quando, nel 1975, i primi rifugiati fuggirono dal Viet Nam, dalla Cambogia e dal Laos, il totale del bilancio annuale dell’Unhcr, a livello mondiale, era inferiore a 80 milioni di dollari l’anno. Nel 1980, tale cifra era passata a oltre 500 milioni di dollari 1. Gli esodi di popolazione provocati dai conflitti dell’Indocina, esacerbati dalla rivalità fra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, come pure con la Cina, misero alla prova, fino al punto di rottura, la capacità degli stati della regione di assorbire i rifugiati. Misero, inoltre, alla prova l’impegno degli stati occidentali per il reinsediamento dei rifugiati che fuggivano dal comunismo. Alla fine, riunirono gli stati interessati nella ricerca di soluzioni. Nel caso del Viet Nam, fu ideato l’Orderly Departure Programme (programma di partenze organizzate), in base al quale le autorità vietnamite accettarono di consentire la partenza pianificata verso i paesi di reinsediamento, per evitare le partenze per mare, clandestine e pericolose. Il programma costituì la prima occasione in cui l’Unhcr partecipò ad iniziative volte a prevenire un problema di rifugiati, anziché limitarsi a far fronte alle sue conseguenze. Altri programmi innovativi comprendevano misure contro la pirateria e per il salvataggio in mare dei boat people vietnamiti. Durante le prime fasi della crisi, il reinsediamento dei rifugiati in paesi esterni alla regione costituì una soluzione che riduceva la pressione sui paesi di primo asilo. Negli anni ’80, tuttavia, col passare del tempo i governi occidentali erano sempre più preoccupati per il gran numero di rifugiati che arrivavano nei loro paesi. Erano divenuti, inoltre, più sospettosi circa le motivazioni della loro partenza, considerandone molti come migranti economici piuttosto che rifugiati. Si sentì sempre più spesso affermare che il reinsediamento a tempo indeterminato perpetuava la necessità dell’asilo. A partire dal 1989, quindi, furono adottate nuove misure, nel quadro di un “Piano d’azione globale”, per regolamentare le partenze e nel contempo incoraggiare e facilitare il rimpatrio dei richiedenti asilo della regione. Si trattò di una vera svolta negli orientamenti occidentali circa il fenomeno dei rifugiati. Come le future crisi degli anni ’80 avrebbero dimostrato fin troppo chiaramente, i paesi occidentali, pur sostenendo il principio dell’asilo, non erano più disposti a prevedere il reinsediamento in massa dei rifugiati. 79 I RIFUGIATI NEL MONDO L’esodo dall’Indocina, 1975–95 Cartina 4.1 REPUBBLICA POPOLARE DEMOCRATICA DI COREA Mar del Giappone REPUBBLICA DI COREA GIAPPONE REPUBBLICA POPOLARE CINESE NEPAL BHUTAN REPUBBLICA DEMOCRATICA DEMOCRATICA POPOLARE DEL LAOS LAOS BANGLADESH INDIA Mar Cinese Orientale HONG KONG VIET NAM MYANMAR MACAO MACAU MACAU OCEANO PACIFICO THAILANDIA CAMBOGIA FILIPPINE Mar Cinese meridionale BRUNEI DARUSSALAM 0 MALAYSIA OCEANO INDIANO 500 1000 Chilometri MALAYSIA SINGAPORE INDONESIA INDONESIA LEGGENDA Mar di Giava Confine di stato Movimento di rifugiati Mar degli Arafura La guerra e l’esodo dal Viet Nam I trent’anni di guerra quasi ininterrotta che tormentarono il Viet Nam, dal 1945 al 1975, furono contrassegnati da terribili sofferenze e massicci esodi di popolazione. A seguito della sconfitta francese di Dien Bien Phu, nel maggio 1954, la prima guerra indocinese si concluse con la creazione di uno stato comunista nel nord (la Repubblica democratica del Viet Nam, chiamata anche Viet Nam del nord) e uno stato separato nel sud (la Repubblica del Viet Nam, nota anche come Viet Nam del sud). Con l’insediamento nel nord di un governo comunista, oltre un milione di persone, fra il 1954 e il 1956, si trasferì a sud. Fra loro erano quasi 800mila i cattolici, i due terzi circa della popolazione cattolica totale del nord. Si ebbe anche un più ridotto trasferimento nella direzione opposta, con circa 130mila sostenitori del movimento comunista del Viet Minh che furono trasportati a nord, a bordo di navi polacche e sovietiche 2. 80 L’esodo dall’Indocina Nel 1960 ripresero i combattimenti nel Viet Nam del sud. Le forze anticomuniste, appoggiate dagli Stati Uniti, che finirono con l’inviare oltre 500mila uomini, cercavano di arrestare la penetrazione nel Sudest asiatico del comunismo, sostenuto da sovietici e cinesi. La guerra del Viet Nam provocò sempre maggiori ondate di esodi, in tutti e tre i paesi dell’Indocina. Questo fu perlopiù interno, ma in alcuni casi debordò dalle frontiere nazionali, come nel caso dei “khmer del delta”, che fuggì in Cambogia in cerca di scampo dai combattimenti nel Viet Nam 3. Alla fine degli anni ’60, nel pieno della guerra, si calcola che la metà dei 20 milioni di abitanti del sud fosse stata costretta all’esodo 4. L’accordo di pace di Parigi, del 27 gennaio 1973, pose temporaneamente fine al conflitto, aprendo la porta a un ruolo maggiore per l’Unhcr, che lanciò un programma da 12 milioni di dollari per assistere gli sfollati nel Viet Nam e nel Laos, con progetti di ricostruzione. Il programma fu rapidamente eclissato, però, dalla ripresa delle ostilità, all’inizio del 1975, e dalla caduta di Saigon nelle mani delle forze rivoluzionarie, il 30 aprile. Lo stesso anno, dei regimi comunisti si insediavano nei due paesi limitrofi, il Laos e la Cambogia. A differenza del movimento ultra-estremista dei khmer rossi, che nell’aprile 1975 prese il controllo della Cambogia, dei dirigenti più convenzionali, filosovietici, conquistarono il potere nel Viet Nam e nel Laos. Grazie al suo precedente intervento nei due paesi, prima dell’aprile 1975, l’Unhcr fu in grado di mantenere i contatti con i governi di Hanoi e Vientiane rispettivamente. L’Alto Commissario Sadruddin Aga Khan visitò nel settembre 1975 entrambi i paesi, ispezionando progetti realizzati dall’Unhcr per aiutare gli sfollati di guerra a far ritorno alle loro case. Nel nord del Viet Nam, l’Unhcr fornì aiuti all’agricoltura, alla sanità e alla ricostruzione, per una parte dei 2,7 milioni di sfollati. Molti di essi erano fuggiti dai combattimenti del sud, mentre altri erano stati strappati alle loro case dai bombardamenti americani sul nord, fra il 1965 e il 1972. Nel sud, l’Unhcr fornì oltre 20mila tonnellate di viveri e altri soccorsi a milioni di sfollati, che cercavano di rifarsi una vita dopo la guerra. La caduta di Saigon Progressivamente l’Unhcr spostò sempre più il centro della propria attività di assistenza agli sfollati nel Viet Nam, all’aiuto a coloro che erano fuggiti dal paese. Negli ultimi giorni che precedettero la caduta di Saigon, nell’aprile 1975, circa 140mila vietnamiti, strettamente legati al precedente governo del Viet Nam del sud, furono evacuati dal paese e reinsediati negli Stati Uniti. L’evacuazione, organizzata dagli stessi americani, fu seguita da un esodo più ridotto di vietnamiti che riuscirono a raggiungere, via mare e con mezzi propri, alcuni paesi vicini del Sudest asiatico. Alla fine del 1975, ne erano arrivati circa 5mila in Thailandia, 4mila a Hong Kong, 1.800 a Singapore e 1.250 nelle Filippine. La prima reazione dell’Unhcr fu di trattare quei movimenti come degli strascichi della guerra, anziché come l’inizio di una nuova crisi di rifugiati. Nel novembre 1975, in un appello per raccogliere finanziamenti, l’Alto Commissario Sadruddin Aga Khan sottolineò che i programmi per i vietnamiti e i laotiani rimasti nel loro paese o che ne erano fuggiti rappresentavano “azioni umanitarie fra loro collegate, destinate ad 81 I RIFUGIATI NEL MONDO assistere coloro che erano stati più gravemente sradicati dalla guerra e dalle sue conseguenze” 5. Col crescere del malcontento nei confronti del nuovo regime comunista, però, aumentava anche il numero di quanti abbandonavano il paese. Nel giugno 1976, il governo di Hanoi privò il governo rivoluzionario provvisorio, costituito nel sud dopo la caduta di Saigon, di ogni residuo di autonomia, unificando il paese col nome di Repubblica socialista del Viet Nam. Varò, inoltre, un programma per il reinsediamento degli abitanti delle città nelle campagne, nelle cosidette “nuove zone economiche”. Oltre un milione di persone fu internato in “campi di rieducazione”; molte vi morirono, mentre altre decine di migliaia vi avrebbero languito sino alla fine degli anni ’80. Col passare del tempo, d’altra parte, apparve chiaro che il predominio della popolazione di origine cinese nel settore privato dell’economia era contrario alla visione socialista delle nuove autorità. All’inizio del 1978, furono formalmente adottate misure per espropriare le imprese appartenenti a privati, in maggioranza cinesi. Tali azioni coincisero con un marcato deterioramento nei rapporti fra il Viet Nam e la Cina, che a sua volta rifletteva i rapporti sempre più tesi del Viet Nam stesso con l’alleato della Cina, la Cambogia. La posizione ufficiale delle autorità nei confronti degli abitanti di origine cinese (noti col nome di “hoa”) divenne sempre più ostile. Nel febbraio 1979, le forze cinesi attaccarono delle zone di frontiera vietnamite, e i rapporti normali ripresero soltanto un decennio dopo. Nel 1977, circa 15 mila vietnamiti chiesero asilo in paesi del Sudest asiatico. Alla fine del 1978, il numero degli esuli fuggiti a bordo di imbarcazioni era quadruplicato e il 70% di loro era costituito da vietnamiti di origine cinese. Molti altri loro connazionali della stessa origine si rifugiarono nella stessa Cina. Provenivano principalmente dal nord del Viet Nam, dove vivevano da decenni ed erano in maggioranza modesti pescatori, artigiani e contadini. In seguito la Cina lanciò un progetto per sistemare i rifugiati in aziende agricole di stato, nel sud del paese. L’Unhcr vi collaborò con una donazione di 8,5 milioni di dollari alle autorità cinesi e con l’apertura di un ufficio a Pechino. Alla fine del 1979, oltre 250mila abitanti del Viet Nam si erano rifugiati in Cina 6. La Cina fu praticamente l’unico paese dell’area del Sudest asiatico che concesse non solo l’asilo, ma anche l’insediamento in loco ai rifugiati fuggiti dal Viet Nam. I boat people Alla fine del 1978, erano quasi 62mila i boat people vietnamiti ospitati in campi profughi, in tutto il Sudest asiatico. Con l’aumentare del loro numero, aumentava anche l’ostilità delle popolazioni. La tensione era accresciuta dal fatto che molte delle imbarcazioni che approdavano sulle rive dei paesi della regione non erano piccoli pescherecci in legno, bensì navi da carico dallo scafo in acciaio, noleggiati dalle mafie regionali attive nel traffico dei clandestini, e che trasportavano oltre 2mila persone alla volta. Nel novembre 1978, per esempio, un cargo da 1.500 tonnellate, lo Hai Hong, approdava a Port Klang, in Malaysia, chiedendo l’autorizzazione per scaricare il suo carico umano, costituito da 2.500 vietnamiti. Quando le autorità della Malaysia esigettero che la nave fosse rimandata al largo, il Delegato dell’Unhcr nel paese sostenne che i 82 L’esodo dall’Indocina Alcuni componenti di un gruppo di 162 vietnamiti, arrivati in Malaysia a bordo di un piccolo peschereccio, naufragato a pochi metri dalla riva. (UNHCR/K. GAUGLER/1978) vietnamiti a bordo erano considerati “di competenza dell’Alto Commissariato” 7. Tale posizione fu ribadita da un telegramma della Sede centrale dell’organizzazione, che indicava che “in futuro, a meno che esistano chiare indicazioni contrarie, coloro che arrivano per via mare dal Viet Nam sono considerati, prima facie, di competenza dell’Unhcr” 8. Per oltre un decennio, ai vietnamiti che giungevano in un campo profughi gestito dall’Unchr fu automaticamente riconosciuto lo status di rifugiato, con la possibilità di un ulteriore reinsediamento in un paese terzo. All’inizio dell’esodo indocinese, nel 1975, nessun paese della regione aveva aderito alla Convenzione Onu del 1951 sui rifugiati o al Protocollo del 1967. Nessuno dei paesi che ricevevano i boat people vietnamiti concedeva loro un permesso di soggiorno a tempo indeterminato, e alcuni non accordavano neppure l’asilo temporaneo. Singapore rifiutava di lasciare sbarcare i rifugiati che non avessero una garanzia di reinsediamento entro 90 giorni. Di frequente, la Malaysia e la Thailandia respingevano le imbarcazioni dalle rispettive coste. Quando, nel 1979, si registrò una spettacolare escalation degli arrivi di vietnamiti via mare – oltre 54mila nel solo giugno – il “respingimento” divenne di ordinaria amministrazione, e probabilmente migliaia di vietnamiti morirono in mare. A fine giugno 1979, gli allora cinque membri dell’Associazione delle nazioni del Sudest asiatico (Asean) – Filippine, Indonesia, Malaysia, Singapore e Thailandia – avvertirono che avevano “raggiunto il limite della sopportazione e deciso di non accettare più nuovi arrivi” 9. Di fronte a tale minaccia diretta al principio dell’asilo, il 83 I RIFUGIATI NEL MONDO Riquadro 4.1 Le conferenze internazionali sui rifugiati indocinesi La conferenza di Ginevra del 1979 A metà del 1979, degli oltre 550mila indocinesi che, a partire dal 1975, avevano cercato asilo nel Sudest asiatico, circa 200mila erano stati reinsediati, mentre gli altri 350mila circa si trovavano ancora nei paesi di primo asilo della regione. Nei sei mesi precedenti, per ogni individuo partito in vista del reinsediamento, ne erano arrivati nei campi profughi altri tre. A fine giugno 1979, gli stati membri dell’Associazione delle nazioni del Sudest asiatico (Asean) annunciarono che non avrebbero più accettato alcun nuovo arrivo. I “respingimenti” erano all’ordine del giorno, e lo stesso istituto dell’asilo era in pericolo. “Il problema”, dichiarò l’Alto Commissario Poul Hartling, “trascende chiaramente le possibilità di soluzione” i. Tra il 20 e il 21 luglio 1979, 65 governi risposero all’invito del Segretario generale delle Nazioni Unite a partecipare ad una conferenza internazionale sui rifugiati indocinesi. Gli impegni assunti in quella sede dalla comunità internazionale furono numerosi e significativi: ad esempio, a livello mondiale le offerte di reinsediamento passarono da 125mila a 260mila. Il Viet Nam s’impegnò a tentare di far cessare le partenze illegali, favorendo al loro posto quelle organizzate e dirette, a partire dal paese stesso. L’Indonesia e le Filippine s’impegnarono a istituire dei centri regionali per l’istruttoria delle domande di reinsediamento, per renderla più rapida, e le nuove promesse di contributi all’Unhcr raggiunsero un totale di circa 160 milioni di dollari, sia in denaro che in beni e servizi, importo più che doppio rispetto alla somma dei quattro anni precedenti. Benché non fosse stato preso alcun impegno formale relativamente all’asilo, la conferenza diede il proprio avallo ai principi generali dell’asilo e del non respingimento (non refoulement). Come aveva affermato, nella sua dichiarazione iniziale, il Segretario generale dell’Onu, i paesi di primo asilo desideravano che i rifugiati non rimanessero nei loro paesi oltre un certo tempo. Fu così formalizzata una sorta di do ut des: asilo temporaneo (“primo asilo”) nella regione, contro un reinsediamento permanente altrove; in altri termini, 84 come qualcuno lo definì, “una spiaggia aperta contro una porta aperta”. Il respingimento delle imbarcazioni vietnamite che cercavano di prendere il largo fu, in linea di massima, sospeso. Il numero degli arrivi nella regione subì un netto calo, quando il Viet Nam cominciò ad infliggere pesanti multe nei casi di partenza clandestina, mentre iniziava un piccolo movimento di partenze dirette dal paese stesso. Nello spazio di 18 mesi, oltre 450mila rifugiati indocinesi furono reinsediati dai campi profughi del Sudest asiatico. Fra il 1980 e il 1986, mentre il reinsediamento superava il ritmo degli arrivi, in diminuzione, i funzionari responsabili dei rifugiati cominciavano a parlare con crescente ottimismo di una soluzione della crisi regionale. Nel periodo 1987-88, tuttavia, si registrò una nuova brusca impennata nel numero degli arrivi dal Viet Nam, e apparve chiaro che il precedente consenso non reggeva più. I paesi occidentali, di fronte alla crescente marea dei richiedenti asilo indocinesi che bussavano alla loro porta, e persuasi che i nuovi arrivati non avessero più diritto automaticamente allo status di rifugiato, avevano gradualmente ridotto le possibilità di reinsediamento e introdotto criteri più selettivi. L’accordo del 1979 – l’asilo temporaneo, che doveva essere seguito dal reinsediamento in un paese terzo – non era più operante. Osservava l’Alto Commissario Jean-Pierre Hocké che: “Col passare del tempo, si è progressivamente eroso il consenso su cui era fondata la nostra impostazione del problema dei rifugiati indocinesi” ii. La Conferenza di Ginevra del 1989 e il Piano d’azione globale Nel giugno 1989, dieci anni dopo la prima conferenza sui rifugiati indocinesi, se ne tenne, sempre a Ginevra, una seconda. I 70 governi partecipanti vi adottarono una nuova strategia regionale, che prese il nome di Piano d’azione globale (Comprehensive Plan of Action – Cpa). Si trattò di un importante tentativo per una soluzione multilaterale del problema dei rifugiati vietnamiti, e uno dei primi casi in cui il paese d’origine svolse un ruolo essenziale, assieme ad altri paesi e ad altri organismi interessati, sia della regione che esterni ad essa, per contribuire alla soluzione di una crisi di rifugiati di vaste proporzioni. Il Cpa si prefiggeva cinque obiettivi principali: primo, ridurre le partenze clandestine attraverso misure ufficiali contro coloro che organizzavano le partenze via mare e mediante massicce campagne d’informazione, e promuovere maggiori possibilità d’emigrazione legale nell’ambito del Programma di partenze organizzate; secondo, dare asilo temporaneo a tutti i richiedenti fino all’accertamento della loro posizione giuridica e in attesa di una soluzione duratura; terzo, determinare l’eventuale status di rifugiato di tutti i richiedenti asilo conformemente alle norme e ai criteri adottati internazionalmente; quarto, reinsediare in paesi terzi i richiedenti riconosciuti come rifugiati, nonché tutti i vietnamiti che si trovavano nei campi profughi anteriormente alle date limite regionali; quinto, riportare e reinserire nel paese d’origine i candidati non considerati rifugiati iii. L’attuazione del Piano fu affidata all’Unhcr, col sostegno finanziario dei paesi donatori. Fu istituito un apposito Comitato direttivo, presieduto dall’organizzazione stessa e composto da rappresentanti di tutti i governi che avevano assunto, nell’ambito del Cpa, impegni in materia di asilo, reinsediamento o rimpatrio. Mentre gli impegni del 1979 per l’asilo erano generici, quelli di dieci anni dopo erano più precisi; prevedevano che: “L’asilo temporaneo sarà accordato a tutti i richiedenti, i quali riceveranno un identico trattamento, indipendentemente dalle modalità dell’arrivo, fino al termine della procedura di determinazione del loro status”. In quasi tutta la regione tali impegni furono onorati, seppure con qualche eccezione. La Thailandia, in particolare, interruppe il respingimento delle imbarcazioni, mentre Singapore non permise più lo sbarco delle persone salvate in mare né degli arrivi diretti. In Malaysia, per buona parte degli anni 1989-90, le autorità locali avevano l’ordine di dirottare verso le acque internazionali le imbarcazioni in arrivo. L’esodo dall’Indocina All’epoca della conferenza del 1989 sul Cpa, nei campi profughi del Sudest asiatico erano presenti in totale 50.670 rifugiati vietnamiti, arrivati entro il termine massimo. Di questi, quasi un quarto erano già stati respinti da almeno un paese di reinsediamento e un altro quarto non erano prioritari, secondo criteri di reinsediamento sempre più restrittivi. Alla fine del 1991, erano stati quasi tutti reinsediati. Dei richiedenti asilo giunti dopo il termine ultimo, in totale 32.300 furono riconosciuti come rifugiati e reinsediati, mentre altri 83.300 rimpatriarono dopo che la loro domanda era stata respinta. In totale, durante gli otto anni del Cpa, oltre 530mila vietnamiti e laotiani furono trasferiti in paesi terzi per un reinsediamento. Nessuno dei paesi che s’impegnarono a mettere in atto le procedure per la determinazione dello status di rifugiato, tranne le Filippine, aveva aderito alla Convenzione Onu del 1951, e nessuno aveva una precedente esperienza legislativa o amministrativa in materia. Nondimeno, i cinque principali paesi di primo asilo – Filippine, Hong Kong, Indonesia, Malaysia e Thailandia – adottarono procedure che accordassero ai richiedenti asilo la possibilità di contattare l’Unhcr, un’intervista completa per la determinazione dello status di rifugiato, l’assistenza di un interprete, nonché una possibilità di revisione della decisione da parte di una seconda autorità. A Hong Kong, inoltre, i richiedenti potevano anche ricorrere in tribunale. Complessivamente, circa il 28 % dei richiedenti asilo vietnamiti che avevano chiesto lo status di rifugiato, con le procedure introdotte dal Cpa, lo ottenne. A Hong Kong, dove fu intervistato il maggior numero di richiedenti (60.275), si registrò anche il più basso tasso d’accettazione (18,8 %). La facoltà di cui disponeva l’Unhcr di riconoscere, in virtù del suo mandato, i rifugiati costituì un’importante rete di sicurezza, per garantire che nessun candidato rispondente ai requisiti fosse rifiutato e rinviato nel Viet Nam. Per raggiungere un consenso sul rimpatrio in tale paese, i governi partecipanti al Cpa avevano concordato, nel 1989, che “in prima istanza, si farà ogni sforzo per incoraggiare il rimpatrio volontario [di coloro la cui domanda è respinta]… Se, trascorso un ragionevole lasso di tempo, apparisse chiaro che il rimpatrio volontario non procede al ritmo desiderato, si prenderebbero in esame delle alternative riconosciute accettabili, nel quadro delle prassi internazionali” iv. Anche se nessuno l’avrebbe detto apertamente, molti riconobbero allora che ciò significava ritorno non volontario. Hong Kong aveva cominciato a selezionare gli arrivi un anno prima degli altri paesi della regione e, nel marzo 1989, aveva già organizzato il primo rimpatrio volontario nel Viet Nam in oltre un decennio. Nei mesi successivi, tuttavia, il governo ritenne insufficiente il numero dei rimpatri volontari e passò a misure più drastiche. Il 12 dicembre 1989, approfittando dell’oscurità, oltre un centinaio di poliziotti scortarono un gruppo di 51 vietnamiti – uomini, donne e bambini – fino a un aereo in attesa, che li riportò ad Hanoi. Le proteste internazionali persuasero le autorità della colonia britannica a soprassedere ad altri rimpatri non volontari ma, con un nuovo sviluppo della situazione, il Regno Unito, Hong Kong e il Viet Nam conclusero, nell’ottobre 1991, un accordo per l’attuazione di un “Programma di rientri organizzati”. In ultimo, anche i paesi dell’Asean firmarono i rispettivi accordi per un Programma di rientri organizzati, nell’ambito dei quali l’Unhcr s’impegnava a coprire le spese di trasporto ed a fornire un supporto logistico, ribadendo però che non avrebbe partecipato a movimenti che implicassero l’uso della forza. Alla fine, tuttavia, la distinzione fra ritorno volontario e non volontario diventò meno netta, a causa della crescente tensione che regnava nei campi dei profughi vietnamiti e dei frequenti scoppi di violenza che avvenivano in quelli di Hong Kong. A partire dal 1992, il ritmo dei rimpatri si accelerò e l’Unhcr ebbe l’incarico di coordinare l’assistenza al reinserimento e di vigilare sugli oltre 109mila vietnamiti che, in definitiva, tornarono nel loro paese nel quadro del Cpa. Indocina: reinsediamento e rimpatrio, 1975–97* Figura 4.1 900 800 700 600 500 400 300 Migliaia Grazie all’effetto combinato dei disincentivi nei campi profughi (fra cui la fine dell’assistenza al rimpatrio, per i rifugiati arrivati dopo il settembre 1991) e delle campagne svolte dall’Unhcr attraverso i media nel Viet Nam, il Cpa riuscì finalmente ad arrestare l’esodo dei richiedenti asilo originari di tale paese. Mentre, nel 1989, avevano chiesto asilo nell’area del Sudest asiatico circa 70mila vietnamiti, nel 1992 furono solo in 41 a farlo, e da allora le cifre sono rimaste trascurabili. 200 100 0 Vietnamiti Cambogiani Reinsediamento Laotiani Rimpatrio ** * La tabella si riferisce al reinsediamento o rimpatrio dai paesi o territori di primo asilo. ** Compresi 367.040 cambogiani non contanti come arrivi nei campi profughi dell’Unhcr in Thailandia, ma rimpatriati sotto l’egida dell’organizzazione nel 1992-93, come anche i richiedenti asilo vietnamiti esclusi a seguito della selezione. 85 I RIFUGIATI NEL MONDO Segretario generale dell’Onu convocò a Ginevra, in luglio, una conferenza internazionale sui “rifugiati e sfollati nel Sudest asiatico” [cfr. riquadro 4.1] 10. “Una grave crisi è in atto nel Sudest asiatico”, affermò l’Alto Commissario Poul Hartling in una nota d’informazione preparata per la conferenza; “per centinaia di migliaia di rifugiati e sfollati... è in pericolo il diritto fondamentale alla vita e alla sicurezza” 11. La conferenza del 1979 permise di scongiurare una crisi immediata. Con quello che era di fatto un accordo tripartito fra i paesi d’origine, quelli di primo asilo e quelli di reinsediamento, i paesi dell’Asean si impegnarono a continuare a concedere l’asilo temporaneo, a condizione che il Viet Nam si sforzasse di prevenire le partenze illegali e di promuovere delle partenze organizzate, e che i paesi terzi accelerassero il ritmo del reinsediamento. L’Indonesia e le Filippine si impegnarono, inoltre, a creare dei centri regionali per l’esame delle candidature, per contribuire a un più rapido reinsediamento dei rifugiati e, salvo alcune vistose eccezioni, cessò il “respingimento” delle imbarcazioni in mare. I reinsediamenti nei paesi terzi, che avevano avuto luogo al ritmo di circa 9mila al mese nel primo semestre del 1979, passarono a circa 25mila al mese nella seconda metà dell’anno. Fra il luglio 1979 e il luglio 1982, oltre 20 paesi – con alla testa gli Stati Uniti, l’Australia, la Francia e il Canada – assorbirono in complesso 623.800 rifugiati indocinesi 12. Da parte sua, il Viet Nam si impegnò a compiere ogni sforzo per far cessare le partenze illegali e attuare un protocollo d’accordo firmato, nel maggio 1979, con l’Unhcr per il lancio del Programma di partenze organizzate 13. In base a tale accordo, le autorità vietnamite avrebbero autorizzato l’uscita dei cittadini che desideravano abbandonare il paese, per il ricongiungimento familiare o per altri motivi umanitari, mentre l’Unhcr avrebbe curato il coordinamento con i paesi di reinsediamento per ottenere i visti d’ingresso. Malgrado un avvio lento, il programma accelerò gradualmente il ritmo e, nel 1984, le partenze annuali erano ormai aumentate a 29.100, superando gli arrivi via mare nella regione, che erano 24.865. Per buona parte degli anni ’80, malgrado una diminuzione degli arrivi nell’area e malgrado il rispetto degli impegni per il reinsediamento, continuò l’esodo dei vietnamiti per mare, con un enorme costo in vite umane. Uno studioso ha valutato nel 10% il numero dei boat people dispersi in mare, aggrediti dai pirati, annegati o morti per disidratazione 14. Il programma anti-pirateria e le iniziative per il salvataggio in mare [cfr. riquadro 4.2] ebbero il loro successo, ma ogni insuccesso era una tragedia. Un’imbarcazione arrivata nelle Filippine nel luglio 1984 riferì che, durante i 32 giorni trascorsi in mare, una quarantina di navi erano passate nelle sue vicinanze, senza fornire alcun aiuto. Nel novembre 1983, il direttore della Divisione protezione internazionale dell’Unhcr, Michel Moussalli, parlava di “scene al di là di ogni immaginazione... Diciotto persone partono in una piccola imbarcazione e, nella traversata del golfo di Thailandia, sono attaccate dai pirati; una ragazza che resiste allo stupro è uccisa e un’altra ragazzina di 15 anni è rapita. L’imbarcazione viene poi ripetutamente speronata e gli altri 16 passeggeri, che non sono di alcuna utilità per i pirati, muoiono tutti in mare” 15. Col passare degli anni, nei paesi occidentali cresceva la stanchezza nei confronti dei boat people vietnamiti e aumentavano i sospetti circa le motivazioni della partenza di alcuni di loro. Toccò all’Unhcr garantire il rispetto degli impegni dei governi per il reinsediamento, sia per tutelare il principio stesso dell’asilo, sia per evitare che persone particolarmente vulnerabili fossero abbandonate nei campi profughi del Sudest 86 L’esodo dall’Indocina Riquadro 4.2 La pirateria nel Mar Cinese meridionale La pirateria nel Sudest asiatico è antica quanto la stessa navigazione nella regione. Per i boat people indocinesi fu una ulteriore fonte di angoscia e, per quanti cercavano di proteggerli, un arduo problema. Nel solo 1981, quando in Thailandia arrivarono 452 imbarcazioni, trasportando 15.479 rifugiati, le statistiche dell’Unhcr erano agghiaccianti: ben 349 imbarcazioni erano state abbordate, in media tre volte ciascuna; 578 donne erano state stuprate e 228 rapite, mentre 881 persone erano morte o disperse. Il programma antipirateria In risposta a una generale ondata di sdegno su scala mondiale e alle voci che chiedevano di agire, alla fine del 1981 l’Unhcr lanciò un appello per la raccolta di fondi e, nel giugno 1982, fu varato ufficialmente un programma contro la pirateria, con una dotazione di 3,6 milioni di dollari, messi a disposizione da 12 paesi. In un primo tempo, in Thailandia le iniziative antipirateria consistettero soprattutto in un pattugliamento marittimo e aereo, che si tradusse in una graduale diminuzione del numero degli attacchi. Tuttavia, come osservò all’epoca l’Alto Commissario Poul Hartling: “Anche se la quantità è diminuita, la qualità degli attacchi, se posso così esprimermi, è in aumento... Quello che ascoltiamo fa inorridire ancor più che in passato”. I rapporti “parlano di crudeltà, brutalità e barbarie al di là di ogni immaginazione. I rifugiati sono accoltellati e bastonati. Si commettono omicidi, rapine e stupri, cose dell’altro mondo” v. A partire dal 1984, il programma antipirateria dell’Unhcr si orientò sempre più su operazioni a terra. In Thailandia, la polizia e la capitaneria di porto registravano i pescherecci, fotografavano gli equipaggi e realizzavano campagne d’informazione sulle ammende inflitte ai pirati. L’Unhcr aiutava le vittime degli attacchi a contattare la polizia e l’autorità giudiziaria, seguiva i procedimenti in tribunale, organizzava il viaggio di testimoni dall’estero, e forniva servizi d’interpretariato per le indagini, gli arresti e i processi. Nel 1987, solo l’8% delle imbarcazioni che giungevano in Thailandia furono attaccate. Ci furono rapimenti e stupri, ma non furono segnalati decessi dovuti alla pirateria. Nel 1988, però, la violenza degli attacchi riprese ad aumentare in modo allarmante, con oltre 500 morti o dispersi; nel 1989, la cifra superò le 750 unità. Nell’agosto 1989, un funzionario dell’Unhcr che aveva intervistato i superstiti di un’aggressione, riferì che i pirati avevano fatto salire gli uomini ad uno ad uno dalla stiva, li avevano bastonati e poi uccisi a colpi d’accetta. I vietnamiti che si erano buttati in acqua erano stati colpiti dall’imbarcazione stessa, affogati e uccisi, con un totale di 71 morti, fra cui 15 donne e 11 bambini. L’aumento della violenza in mare, secondo gli esperti, era anche dovuto al successo degli interventi a terra. Le indagini più sofisticate facevano aumentare il numero degli arresti e delle condanne, il che da un lato scoraggiava gli opportunisti occasionali, ma dall’altro faceva sussistere un nucleo duro di criminali professionisti che non volevano lasciare testimoni. Infine, sembra che anche i professionisti si stancassero della caccia che veniva loro data. Dopo la metà del 1990, non furono più riferiti casi di attacchi di pirati ai danni di imbarcazioni vietnamite e, nel dicembre 1991, ebbe termine il programma antipirateria dell’Unhcr. “La guerra ai pirati non è finita”, affermava il rapporto di valutazione finale, “ma ha raggiunto uno stadio in cui può essere efficacemente condotta” dalle autorità nazionali. I salvataggi in mare Dal 1975 alla fine del 1978, arrivarono nei paesi di primo asilo 110mila boat people vietnamiti. All’inizio, i comandanti delle navi sembravano desiderosi di aiutare le imbarcazioni in difficoltà e, in quei tre anni, navi di 31 paesi diversi salvarono i rifugiati che si trovavano a bordo di un totale di 186 imbarcazioni. Nei primi sette mesi del 1979, invece, quando gli arrivi dei vietnamiti nella regione balzarono a 177mila e il “respingimento” delle imbarcazioni era al culmine, ne furono salvate solo 47. La metà dei salvataggi, per di più, fu effettuata da navi appartenenti a tre soli paesi. Nell’agosto 1979, l’Unhcr convocò a Ginevra una conferenza sul tema dei salvataggi in mare, da cui emerse un programma noto con la sigla Disero (Disembarkation Resettlement Offers – Offerte di reinsediamento per gli sbarchi). Otto paesi occidentali, fra cui gli Stati Uniti, s’impegnavano congiuntamente a garantire il reinsediamento a tutti i profughi vietnamiti salvati in mare da navi commerciali battenti bandiera di stati che non accoglievano i rifugiati in vista del reinsediamento. Il nuovo impegno sembrò avere un effetto immediato: negli ultimi cinque mesi del 1979, infatti, furono soccorse in mare 81 imbarcazioni con 4.031 persone a bordo. Nel maggio 1980, l’Unhcr donò al governo thailandese una motovedetta veloce, non armata, come gesto simbolico per potenziare la sorveglianza in mare. Nel frattempo, alcune navi appartenenti a organizzazioni umanitarie private, e in particolare la Kap Anamur e l’Ile de lumière, cambiarono attività, passando dall’approvvigionamento dei campi profughi situati nelle varie isole al salvataggio delle imbarcazioni. In totale, fra il 1975 e il 1990 furono salvati in mare 67mila vietnamiti. Il problema di questo programma era che la garanzia di reinsediare entro 90 giorni tutti i vietnamiti salvati in mare non quadrava con le linee guida del Piano d’azione globale del 1989, le quali richiedevano che ogni nuovo arrivato fosse oggetto di una selezione per la determinazione del suo status. Sia il Disero, sia un altro programma similare che gli succedette, noto con la sigla Rasro (Rescue at Sea Resettlement Offers – Offerte di reinsediamento per i salvataggi in mare), finirono con l’essere interrotti, poiché i paesi della regione non si mostravano disposti a lasciare sbarcare i boat people salvati. 87 I RIFUGIATI NEL MONDO asiatico. Non era, beninteso, di competenza dell’Unhcr concedere o rifiutare l’ammissione permanente in un altro paese, in quanto tale potere spettava ai governi. Alla fine degli anni ’80, tuttavia, declinava la disponibilità della comunità internazionale al reinsediamento di tutti i richiedenti asilo vietnamiti, e il numero dei reinsediamenti stentava a tenere il passo col ritmo degli arrivi nei paesi di primo asilo. Poi, a metà del 1987, gli arrivi dei vietnamiti ripresero ad aumentare. Incoraggiati da un allentamento delle restrizioni agli spostamenti interni e dalla prospettiva del reinsediamento in paesi occidentali, migliaia di vietnamiti del sud avevano scoperto un nuovo itinerario, che li portava attraverso la Cambogia e poi, con una breve traversata, sulla costa orientale della Thailandia. A fine anno, le autorità thailandesi cominciarono a intercettare le imbarcazioni e a rimandarle in alto mare. Decine di migliaia di vietnamiti del nord seguivano, invece, un altro nuovo itinerario, attraverso la Cina meridionale verso Hong Kong. Nel 1988, nel territorio britannico si riversarono oltre 18mila boat people. Si trattava di gran lunga del numero più alto dopo la crisi del 1979. Originari in maggioranza del nord del Viet Nam, erano una popolazione che si era dimostrata di scarso interesse per la maggioranza dei paesi di reinsediamento. Di conseguenza, il 15 giugno 1988, l’amministrazione di Hong Kong annunciò che i vietnamiti arrivati a partire da tale data sarebbero stati ospitati in appositi centri d’internamento, in attesa di un colloquio di “selezione” per l’accertamento del loro status giuridico. Nel maggio 1989, le autorità della Malaysia ricominciarono a dirottare verso l’Indonesia le imbarcazioni in arrivo, come già avevano fatto un decennio prima. Una nuova formula Alla fine degli anni ’80, era ormai chiaro per praticamente tutti gli interessati alla crisi dei rifugiati indocinesi che era venuto meno il consenso raggiunto, nel 1979, a livello regionale e internazionale. Era necessaria una nuova formula, che tutelasse l’asilo ma scindendolo dalla garanzia del reinsediamento. Nel giugno 1989, si tenne quindi a Ginevra una seconda conferenza internazionale sui rifugiati indocinesi e fu raggiunto un nuovo consenso. Il Piano d’azione globale, come fu battezzato, ribadiva alcuni elementi dell’accordo del 1979: in particolare, l’impegno a preservare il primo asilo, a ridurre le partenze clandestine e a promuovere l’emigrazione legale, come pure a reinsediare i rifugiati in paesi terzi. Conteneva, inoltre, alcuni elementi nuovi, fra cui in particolare l’impegno a porre in atto procedure regionali per la determinazione dello status di rifugiato e a rimandare nei paesi d’origine coloro la cui domanda fosse respinta [cfr. riquadro 4.1]. I nuovi impegni per l’asilo riuscirono a far cessare, in Thailandia, il respingimento in mare, ma la Malaysia non abbandonò la propria politica, consistente nell’allontanare le imbarcazioni dalle proprie acque territoriali. Ad eccezione di Singapore, tutti i paesi di primo asilo rinunciarono alla garanzia di reinsediamento. I 50mila vietnamiti arrivati nei campi profughi entro il termine ultimo (nella maggioranza dei paesi, il 14 marzo 1989) furono reinsediati in paesi terzi. Quelli giunti dopo tale data dovevano essere oggetto di una selezione per l’accertamento del loro status giuridico. Il Viet Nam applicò sanzioni contro le partenze clandestine, e l’Unhcr lanciò una campagna 88 L’esodo dall’Indocina nei media, destinata a familiarizzare i potenziali richiedenti asilo col nuovo dispositivo regionale, che prevedeva ormai il ritorno in patria di quelli fra loro la cui domanda fosse respinta. Al Piano d’azione globale è stato generalmente attribuito il merito di aver ripristinato nella regione il principio dell’asilo.Alcuni studiosi, però, hanno giudicato tali misure contrarie al diritto di lasciare il proprio paese, chiedendosi se l’Unhcr avrebbe dovuto – anche tacitamente – tollerare di fatto tali azioni ad opera del Viet Nam 16. Il Piano d’azione globale costituì, per di più, il primo esempio di introduzione di una data limite. Coloro che erano fuggiti prima di essa erano automaticamente accettati per il reinsediamento nei paesi terzi, mentre quelli arrivati dopo dovevano innanzitutto subire una selezione, per la determinazione del loro status giuridico. Se il successo della conferenza del 1979 era legato agli impegni assunti dai paesi di reinsediamento, quello del Piano d’azione globale dipendeva dagli impegni assunti dai paesi di primo asilo e da quelli d’origine. Nel dicembre 1988, sette mesi prima della conferenza di Ginevra, l’Unhcr e il Viet Nam avevano firmato un protocollo d’accordo, in base al quale il Viet Nam avrebbe consentito il rimpatrio volontario dei propri cittadini senza penalizzarli per la fuga, avrebbe ampliato e accelerato il Programma di partenze organizzate, e avrebbe consentito all’Unhcr di vigilare sui rimpatriati e di facilitarne il reinserimento. Si è sostenuto che il Programma di partenze organizzate rappresentò un “fattore d’attrazione” che, di fatto, incoraggiò a partire. Se in molti casi ciò può esser stato vero, esso consentì però a coloro che volevano andar via di farlo con mezzi legali, anziché in modo illegale e pericoloso. Anche se costituì effettivamente un fattore di Arrivi di boat people vietnamiti, secondo il paese/ territorio di primo asilo, 1975–95 Fig. 4.2 Macao Altri Giappone0.9% 0.6% 1.4% Singapore 4.1% Filippine 6.5% Malaysia 32.0% Thailandia 14.7% Indonesia 15.3% Hong Kong 24.6% Totale = 796.310 89 I RIFUGIATI NEL MONDO Riquadro 4.3 I rifugiati vietnamiti negli Stati Uniti A partire dal 1975, gli Stati Uniti aprirono le porte ad oltre un milione di vietnamiti. Benché attualmente il contingente più numeroso viva in California, si sono stabiliti in tutti gli stati americani e in quasi tutte le principali città. I vietnamiti sono arrivati in numerose ondate. Oltre 175mila si rifugiarono negli Stati Uniti nei primi due anni dopo la caduta di Saigon, avvenuta nel 1975. Nella gran maggioranza arrivarono nel giro di alcune settimane, e furono ospitati in quattro campi profughi, allestiti alla bell’e meglio su delle basi militari. Una decina di organizzazioni private, perlopiù religiose, furono incaricate del loro reinsediamento, in località grandi e piccole di tutto il paese. Si occuparono degli alloggi e organizzarono corsi d’inglese, inserirono nelle scuole i bambini ed i ragazzi e aiutarono gli adulti a trovare lavoro. Gli americani reagirono positivamente a quella prima ondata. Molti di loro provavano un senso di colpa per l’intervento degli Stati Uniti nel Viet Nam, ed erano contenti di poter aiutare i rifugiati. Organizzazioni confessionali e della società civile patrocinarono i nuovi arrivati, aiutandoli ad orientarsi nelle nuove località di residenza. Per questo primo gruppo, le cose andarono straordinariamente bene: in maggioranza, provenivano dalla borghesia cittadina del Viet Nam meridionale; oltre un quarto dei capifamiglia aveva un’istruzione universitaria, e più del 40% aveva frequentato la scuola secondaria. Nell’insieme, si trattava di un gruppo relativamente qualificato, urbanizzato e flessibile vi. Pur essendo arrivati negli Stati Uniti in un momento di grave recessione economica, nel 1982 il loro tasso di occupazione era superiore a quello dell’intera popolazione americana. In California, in Texas e a Washington sorsero vere e proprie colonie vietnamite e, ben presto, 90 imprese appartenenti a connazionali erano in grado di soddisfare i bisogni delle nuove comunità. Una seconda ondata di rifugiati vietnamiti cominciò ad arrivare negli Stati Uniti nel 1978. Si trattava dei cosiddetti boat people, fuggiti davanti alla sempre più dura repressione politica in corso nel loro paese, specialmente contro gli abitanti di etnia cinese. Benché sia difficile una stima esatta, si ritiene che in totale, fra il 1978 e il 1997, entrarono negli Usa oltre 400mila boat people vietnamiti vii. I boat people erano meno ben preparati per vivere negli Stati Uniti: in generale, erano meno istruiti e piuttosto di origine rurale, rispetto ai connazionali arrivati nel 1975, e pochi conoscevano già l’inglese. Molti di loro erano stati perseguitati nel Viet Nam, traumatizzati in alto mare e avevano dovuto sopportare le dure condizioni di vita nei campi profughi dei paesi del Sudest asiatico che solo con riluttanza accettavano la loro presenza temporanea. Inoltre, a differenza della prima ondata di vietnamiti, molti dei quali fuggiti con le famiglie, un gran numero di boat people erano uomini, arrivati da soli. Quando giunse questo secondo gruppo, molti americani avevano cominciato a stancarsi dei rifugiati. L’ostilità nei confronti degli immigrati, alimentata dalla recessione economica, si tradusse in varie località in aggressioni contro i vietnamiti, mentre andava anche calando il sostegno del governo americano al programma per i rifugiati. Nel 1982 fu ridotta la durata dell’assistenza ai nuovi arrivati e, benché la situazione economica fosse ancora peggiore che nel 1975, fu adottata una serie di provvedimenti per inserire quanto più rapidamente possibile i rifugiati sul mercato del lavoro. Molti boat people finirono in lavori mal retribuiti, spesso senza aver potuto imparare l’inglese né ambientarsi nel paese. Ciò malgrado, secondo una ricerca commissionata dal governo nel 1985 sull’autosufficienza dei rifugiati del Sudest asiatico, la loro condizione economica era paragonabile a quella di altre minoranze. Il Programma di partenze organizzate, varato nel 1979, offrì ai vietnamiti la possibilità di emigrare direttamente dal Viet Nam negli Stati Uniti. Inizialmente mirato ai familiari dei rifugiati vietnamiti già immigrati e ai sud-vietnamiti che avevano avuto legami con il governo americano, fu in seguito esteso ai cosiddetti amerasiatici (figli vietnamiti di militari americani), nonché agli ex prigionieri politici e agli ex internati nei campi di rieducazione. Nell’ambito del programma, fra il 1979 e il 1999 entrarono negli Stati Uniti oltre 500mila vietnamiti. Molti di loro incontrarono particolari difficoltà per rifarsi una vita negli Stati Uniti. Gli ex prigionieri politici e gli ex internati nei campi di rieducazione arrivavano traumatizzati dalle esperienze vissute nel Viet Nam. Avevano, inoltre, un’età superiore a quella della maggior parte dei boat people o dei rifugiati arrivati nel 1975. Per loro fu più difficile trovare lavoro, e le occupazioni che riuscirono a trovare spesso non erano all’altezza della loro precedo inserimento sul piano sia economico sia psichico. Nell’insieme, tuttavia, la maggioranza del milione e più di vietnamiti che si sono reinsediati negli Stati Uniti – e soprattutto la seconda generazione di vietnamitiamericani – si sono adattati bene e oggi fanno parte integrante della società statunitense. L’esodo dall’Indocina attrazione, fu solo uno dei molti fattori che incoraggiarono a partire. Anzi, è stato sostenuto da alcuni commentatori che, sin dal 1975, gli Stati Uniti e altri paesi occidentali avevano dimostrato interesse ad incoraggiare le partenze, anche per dimostrare al mondo che gli abitanti della metà meridionale del Viet Nam “votavano con i piedi”, abbandonando il paese a seguito della vittoria comunista 17. Il 30 luglio 1989, il governo americano e quello vietnamita pubblicarono una dichiarazione congiunta, secondo cui avevano raggiunto un accordo sull’emigrazione degli ex prigionieri politici e dei loro familiari. Con tale accordo, si ebbe un enorme aumento delle partenze nel quadro del Programma di partenze organizzate, che nel 1991 raggiunsero un massimo di 86.451. La cifra comprendeva 21.500 ex internati nei campi di rieducazione con i loro familiari, e poco meno di 18mila minori amerasiatici, figli di militari americani dislocati nel Viet Nam. In totale, gli Stati Uniti reinsediarono oltre un milione di vietnamiti [cfr. riquadro 4.3]. Durante gli otto anni del Piano d’azione globale, oltre 109mila vietnamiti rimpatriarono. Per aiutarli a reinserirsi, l’Unhcr versò a ognuno di loro un’indennità in contanti compresa fra 240 e 360 dollari, che fu corrisposta in più rate dal ministero del Lavoro, degli Invalidi di guerra e degli Affari sociali. Inoltre, l’organizzazione spese oltre 6 milioni di dollari in 300 microprogetti, realizzati in tutto il paese per l’approvvigionamento idrico, l’istruzione e le infrastrutture collettive. Nel settore dell’occupazione e della creazione di posti di lavoro, l’Unhcr partecipò al Programma internazionale della Comunità europea, che concesse oltre 56mila prestiti, di importi compresi fra 300 e 20mila dollari, ai rimpatriati come agli altri abitanti del paese.Tali prestiti facilitarono notevolmente lo sviluppo delle piccole imprese e furono rimborsati all’88%. Sebbene l’80% dei rimpatriati fosse concentrato soprattutto nelle otto province costiere, ve ne furono che ritornarono in tutte le 53 province del Viet Nam, da nord a sud. Per rendere ancora più impegnativo il compito di monitoraggio dell’Unhcr, il 25% circa dei rimpatriati cambiò residenza almeno una volta dopo il ritorno dai campi profughi, trasferendosi nelle aree urbane, in cerca di lavoro. I funzionari dell’Unhcr che vigilavano sulla reintegrazione dei rimpatriati riferirono che la grande maggioranza delle loro richieste riguardava questioni di assistenza economica, e che “il monitoraggio non aveva rivelato alcun indizio di persecuzioni a danno dei rimpatriati” 18. I rifugiati cambogiani in Thailandia Fra i paesi d’asilo del Sudest asiatico, la Thailandia fu l’unico a sopportare il peso di tutte e tre le popolazioni rifugiate indocinesi, di cui la più numerosa era quella cambogiana. La Thailandia non aveva aderito alla Convenzione Onu del 1951 sui rifugiati, ma accettò di firmare, nel luglio 1975, un accordo con l’Unhcr, impegnandosi a collaborare per fornire aiuti umanitari temporanei alle persone costrette con la forza ad abbandonare le loro case, nonché a cercare soluzioni durature, compreso il rimpatrio volontario o il reinsediamento in paesi terzi. Un mese prima, una decisione del governo thailandese aveva stabilito che i nuovi arrivati sarebbero stati ospitati in campi gestiti dal ministero dell’Interno. Tale decisione rivelava un atteggiamento ambiguo e perfino contraddittorio, che si sarebbe ritrovato in buona parte delle successive poli91 I RIFUGIATI NEL MONDO tiche del paese nei confronti della popolazione esule in territorio thailandese. Essa dichiarava: “Qualora dei profughi tentino di entrare nel Regno, saranno prese misure per allontanarli con la massima rapidità possibile. Se fosse impossibile respingerle, tali persone saranno internate in appositi campi” 19. Il 17 aprile 1975, i comunisti rivoluzionari che da anni conducevano in Cambogia la loro lotta armata, entravano trionfalmente nella capitale, Phnom Penh, e cominciavano a svuotarla sistematicamente dei suoi abitanti. Sebbene il nuovo regime dei khmer rossi di quella che era stata ribattezzata la Kampuchea democratica non si rivelasse mai pienamente al mondo, e neppure al popolo cambogiano, il suo misterioso leader, Pol Pot, diresse una brutale campagna per liberare il paese dalle influenze straniere e istituire un’autarchia agraria 20. Durante i quattro anni di dominio dei khmer rossi in Cambogia, il regime fece evacuare le principali città, abolì i mercati e la moneta, impedì ai monaci buddisti di praticare la loro religione, espulse i residenti stranieri e creò in tutto il paese dei campi di lavoro collettivizzati 21.All’epoca dell’invasione vietnamita, all’inizio del 1979, oltre un milione di cambogiani era stato giustiziato o era morto di fame, di malattia o di sfinimento per il lavoro, mentre altre centinaia di migliaia di abitanti erano sfollate. Anche se un numero rilevante di cambogiani riuscì ad abbandonare il paese, fu ben poca cosa rispetto al volume dell’esodo interno che interessò la popolazione sotto il brutale regime dei Khmer rossi. L’Unhcr ritiene che, fra il 1975 e il 1978, solo 34mila cambogiani fossero riusciti a riparare in Thailandia, mentre altri 20mila si rifugiarono nel Laos e 170mila nel Viet Nam 22. Quando, all’inizio del 1979, esplose l’esodo dei rifugiati indocinesi, la Thailandia accolse un afflusso relativamente modesto di esuli vietnamiti, ma a metà dell’anno ospitava con riluttanza, in campi gestiti dall’Unhcr, 164mila rifugiati cambogiani e laotiani. A seguito dell’invasione vietnamita che rovesciò il regime dei khmer rossi, altre decine di migliaia di cambogiani fuggirono verso la frontiera orientale della Thailandia. Questa invasione insediò al potere un altro regime comunista, in quella che fu allora ribattezzata Repubblica popolare della Kampuchea. Nel giugno 1979, i soldati thailandesi raggrupparono oltre 42mila rifugiati cambogiani ospitati nei campi profughi vicino alla frontiera e li spinsero giù per le pendici scoscese di Preah Vihear, in Cambogia. Almeno diverse centinaia di persone, e probabilmente varie migliaia, rimasero uccise nei campi minati sottostanti. Un giorno dopo l’inizio dei respingimenti, il rappresentante del Comitato internazionale della Croce rossa lanciò un appello urgente per farli cessare; gli fu ordinato di lasciare la Thailandia. Nel timore di una reazione negativa del governo, di fatto l’Unhcr tacque, sebbene si trattasse del più rilevante caso di respingimento forzato (refoulement) che l’organizzazione avesse conosciuto dalla sua creazione. Come osservò in seguito un alto funzionario, responsabile della protezione, “il fatto clamoroso che l’Unhcr non protestasse, formalmente o pubblicamente, contro l’espulsione in massa dei cambogiani dalla Thailandia nel 1979, va visto come uno dei momenti meno gloriosi del suo operato nel campo della protezione” 23. In questo scenario, la conferenza di Ginevra del luglio 1979 chiese ai paesi terzi degli impegni per il reinsediamento, per alleggerire la pressione sulla Thailandia. Dei 452mila indocinesi reinsediati nel 1979–80, quasi 195mila venivano dai campi profughi thailandesi. Nell’ottobre 1979, questo paese aveva annunciato una politica di “porte aperte”, nei confronti dei cambogiani che avevano continuato a concentrarsi alla frontiera, in cerca di viveri e di sicurezza. Per i nuovi arrivati, l’Unhcr fu invitato a creare appositi “centri d’ac92 L’esodo dall’Indocina coglienza”, che sarebbero stati sorvegliati non dal ministero dell’Interno ma dalle forze armate. Il motivo, sosteneva il governo thailandese, era che “un certo numero dei cambogiani che fuggono in Thailandia sono guerriglieri. Quindi, per tenerli sotto controllo in zone sicure, devono essere coinvolti i militari thailandesi” 24. L’Unhcr impegnò poco meno di 60 milioni di dollari per rispondere alle necessità di un numero massimo di 300mila rifugiati cambogiani, e creò un’apposita Unità Kampuchea presso l’Ufficio regionale di Bangkok, per coordinare la realizzazione e l’amministrazione dei centri d’accoglienza. Mai prima l’Unhcr era stato così coinvolto nella costruzione e nella gestione dei campi profughi. Fra i molti risultati del suo intervento operativo alla frontiera cambogiana vi fu la creazione, in seno all’organizzazione, di una Unità emergenze, che da allora ha svolto un ruolo essenziale in ogni grande crisi di rifugiati. All’inizio del 1980, il principale centro d’accoglienza, Khao-I-Dang, ospitava già oltre 100mila cambogiani. Fra questi si trovavano molti minori non accompagnati, fonte di particolare preoccupazione per l’Unhcr e altre agenzie [cfr. riquadro 4.4]. Godendo di una straordinaria pubblicità nei media – vantaggio a volte dubbio – Khao-I-Dang divenne, almeno per qualche tempo, quello che un osservatore definì “probabilmente... il campo profughi con i servizi più completi al mondo” 25. In quel periodo, era più popolato di qualunque città della Cambogia. Nel marzo 1980, quando si raggiunse una punta con 140mila ospiti, a Khao-I-Dang lavoravano ben 37 organizzazioni non governative (Ong): ciò rifletteva la proliferazione, allora in atto a livello mondiale, delle attività delle Ong. Per i cambogiani, tuttavia, le porte della Thailandia non sarebbero rimaste aperte a lungo. Nel gennaio 1980, solo tre mesi dopo aver annunciato la politica di “porte aperte”, il governo thailandese faceva marcia indietro, annunciando che i centri d’accoglienza erano ormai chiusi per i nuovi arrivati. Da allora in poi, dichiarò, questi sarebbero stati ospitati in accampamenti alla frontiera, e non avrebbero potuto aspirare al reinsediamento in un paese terzo. I campi di frontiera Fra il 1979 e il 1981, gli aiuti umanitari ai campi alla frontiera cambogiana furono coordinati da una missione congiunta, capeggiata dal Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef) e dal Comitato nazionale della Croce Rossa. Alla fine del 1981, l’Unicef si ritirò ufficialmente come agenzia leader Onu per il programma di soccorsi umanitari alla frontiera: da un lato, per concentrarsi sull’assistenza allo sviluppo nella stessa Cambogia e, dall’altro, per protestare contro la crescente militarizzazione dei campi frontalieri, soprattutto da parte delle redivive forze dei khmer rossi. A partire dal 1979, l’Unhcr era stato responsabile di Khao-I-Dang e di altri “centri d’accoglienza” per i rifugiati cambogiani, ma aveva evitato di assumere un proprio ruolo nei campi alla frontiera. A un dato momento, alla fine del 1979, l’Unhcr si era offerto di fungere da agenzia agenzia leader dell’Onu nella zona di confine. Tuttavia, le condizioni che impose – fra cui l’allontanamento di tutti i soldati e di tutte le armi dai campi e il trasferimento dei campi stessi lontano dalla frontiera – furono allora considerate irrealistiche. Inoltre, almeno alcuni donatori internazionali ritennero che l’Unhcr non fosse qualificato per gestire un’emergenza così rilevante e complessa. 93 I RIFUGIATI NEL MONDO Riquadro 4.4 I minori indocinesi non accompagnati Quando, nel 1979, i rifugiati cambogiani cominciarono ad affluire attraverso la frontiera thailandese, fra di loro si trovava un gran numero di bambini e adolescenti sotto i 18 anni, apparentemente privi di parenti, che furono definiti “minori non accompagnati”, o “separati”. Sin dall’inizio furono lanciati urgenti appelli alla comunità internazionale per reinsediarli all’estero, ma la loro situazione era complessa e la ricerca di soluzioni idonee si rivelò assai problematica. Molti adolescenti erano stati reclutati con la forza, vari anni prima, nelle brigate giovanili dei khmer rossi. Alcuni avevano perduto la famiglia, mentre altri ne erano rimasti separati a causa degli sconvolgimenti seguiti all’invasione vietnamita della Cambogia, nel 1978. Altri ancora erano orfani, avendo perduto entrambi i genitori. Con un’indagine più approfondita, tuttavia, si accertò che molti minori avevano familiari che vivevano in Cambogia, in vicinanza del confine, se non addirittura nello stesso campo profughi. Era questo il punto cruciale della controversia. Nel dicembre 1979, pertanto, l’Unhcr raccomandò cautela rispetto a qualunque iniziativa precipitata per il reinsediamento in paesi terzi e l’adozione permanente, finché fosse compiuto ogni tentativo per far ricongiungere i minori non accompagnati o separati con i parenti superstiti, in Cambogia o nei campi presso la frontiera. L’anno seguente, una ricerca promossa da un’organizzazione non governativa norvegese, Redd Barna (“Salvate i bambini”), e da altre Ong, acquisì la certezza dell’esistenza in vita di molti genitori. Dopo aver esaminato oltre 2mila pratiche, Redd Barna giunse alla conclusione che più della metà dei giovani ospiti dei campi era stata separata dai genitori dalle circostanze, e non dalla morte di questi. In alcuni casi, li credevano morti a causa della lunga separazione o di voci infondate; altri dichiaravano falsamente che i genitori erano morti, pensando che la condizione di “non accompagnati” avrebbe facilitato il reinsediamento in un paese terzo. “Dalle indicazioni raccolte risulta”, concludeva il rapporto di Redd Barna, “che la 94 maggioranza dei genitori dei minori non accompagnati sono ancora vivi e si trovano in Kampuchea, e pertanto le possibilità di ricongiungimento sono considerevoli” viii. Il rapporto si dimostrò esatto sul primo punto, ma errato sul secondo. Per tutto il decennio successivo, la politica della guerra fredda ebbe ragione di ogni iniziativa mirante al ricongiungimento delle famiglie cambogiane. Se è vero che, in fin dei conti, centinaia di minori non accompagnati o separati ritrovarono dei familiari nei campi presso il confine, la grande maggioranza di loro furono, invece, reinsediati in paesi terzi, sia che vi avessero parenti o no. Il “superiore interesse del minore” La normativa generale relativa al benessere della famiglia e del bambino, sulla quale si basa la prassi in materia di minori non accompagnati o separati, accorda ai genitori il diritto-dovere di prendersi cura dei figli fino al raggiungimento della maggiore età. Se i genitori sono deceduti o irreperibili, il principio universalmente applicato a livello internazionale è quello della tutela del “superiore interesse del minore”, fornendogli temporaneamente sicurezza e assistenza, mentre si cerca di rintracciare un familiare o di affidarlo a un altro adulto responsabile. Il problema sorge quando il principio dell’“unità familiare” si scontra con quello del “superiore interesse del minore”, come è così spesso avvenuto in Indocina. Circa il 7% dei vietnamiti arrivati nei paesi di primo asilo erano minori non accompagnati. Alcuni erano stati separati dai familiari durante i caotici anni della guerra o avevano perduto i genitori in mare durante la fuga. Per molti bambini e ragazzi, tuttavia, la separazione dai genitori era voluta: non meno di un terzo di loro fuggivano non tanto dall’oppressione politica, quanto da famiglie che non funzionavano. In altri casi, i genitori mandavano via i figli nella speranza di garantire loro l’istruzione e una vita migliore in Occidente. Negli anni ’70 e ’80, quando lo status di rifugiato era concesso immediatamente a quasi tutti i boat people vietnamiti, il dibattito sui minori non accompagnati era incentrato sul miglior modo di proteggerli nei campi di primo asilo, e poi di reinsediarli con buone prospettive di successo. Con l’istituzione, tuttavia, di procedure regionali per la determinazione dello status, nell’ambito del Piano d’azione globale dell’Unhcr, il problema del rimpatrio dei minori, per tornare nelle loro famiglie nel Viet Nam, assunse enorme importanza Nel 1989 l’Unhcr istituì in ogni paese di primo asilo un apposito comitato, composto da rappresentanti del governo, dell’Unhcr e di organismi competenti nel settore dell’assistenza all’infanzia, che era chiamato a pronunciarsi caso per caso sulla soluzione più rispondente al “superiore interesse” del minore. L’Unhcr insisteva sull’esigenza della rapidità, perché un soggiorno prolungato nei campi profughi era potenzialmente dannoso per i minori non accompagnati, ancor più che per gli adulti o i bambini accompagnati da familiari. Nel novembre 1990, nella regione rimanevano 5mila minori non accompagnati in attesa di decisione, e la procedura straordinaria era oggetto di dure critiche. Più di una Ong accusò l’Unhcr di propendere per il rimpatrio e di creare, per raggiungere tale obiettivo, ritardi ingiustificati per un eventuale reinsediamento. I minori non accompagnati per i quali, al termine della procedura, fu raccomandato il reinsediamento – quasi un terzo degli interessati – partirono per cominciare una nuova vita. Quelli, invece, per cui fu proposto il rimpatrio rimasero in genere nei campi profughi. In realtà, la procedura straordinaria significò che molti minori furono tenuti in sospeso più a lungo degli altri candidati all’asilo. Alla fine del 1993, oltre 2.600 minori, arrivati nei campi quando avevano meno di 16 anni, erano ormai usciti da tale fascia d’età e rientravano dunque nella normale procedura applicata agli adulti. L’esodo dall’Indocina Nel gennaio 1982, la United Nations Border Relief Operation, Unbro (l’Operazione delle Nazioni Unite di soccorso) assunse alla frontiera il coordinamento dell’operazione umanitaria. La sua missione era chiara: fornire la prima assistenza a coloro che erano fuggiti nella “terra di nessuno” lungo la frontiera fra la Thailandia e la Cambogia; non aveva, però, un esplicito mandato di protezione, né era incaricata di cercare soluzioni durature per la popolazione affidata alle sue cure. Nel giugno 1982, le due fazioni non comuniste della resistenza cambogiana, che combattevano contro l’occupazione vietnamita del paese, si unirono alle forze dei khmer rossi, che erano pure rifugiate nei campi frontalieri, costituendo a livello tripartito il “Governo di coalizione della Kampuchea democratica” (Gckd). Mantenendo un seggio nell’Assemblea generale dell’Onu e una serie di campi base lungo la frontiera thailandese, il Gckd esercitò per tutto il decennio una costante pressione politica e militare su Phnom Penh, e la guerra civile che seguì provocò nuove ondate di violenze nei campi. Fra il 1982 e il 1985, il personale dell’Unbro partecipò a oltre 95 evacuazioni di campi profughi dalla zona frontaliera, di cui 65 sotto il fuoco dell’artiglieria 26. Nel 1984-85, un’offensiva vietnamita durante la stagione secca riuscì a spostare dalla frontiera verso l’interno del territorio thailandese la maggioranza dei campi di fortuna, ma essi rimasero affidati alle cure dell’Unbro, sotto la gestione del Gckd e senza accesso al reinsediamento. A seguito della chiusura ufficiale ai nuovi arrivati, nel 1980, della frontiera e dei centri d’accoglienza, Khao-I-Dang divenne per molti cambogiani delle zone frontaliere una sorta di “terra promessa”, un’oasi al riparo dai tiri d’artiglieria e dal reclutamento forzato, che offriva la possibilità, per quanto remota, della fuga. Ma anche Khao-I-Dang aveva i suoi specifici problemi in materia di protezione. Coloro che aspiravano ad entrarvi dovevano fare i conti con la corruzione e gli abusi dei trafficanti di clandestini e degli addetti alla sicurezza, solo per entrare nel campo e, una volta dentro, spesso gli “illegali” dovevano per anni subire intimidazioni, sfruttamento e correndo il rischio di essere scoperti, prima di essere registrati e di avere l’intervista per un possibile reinsediamento. Mentre l’Unhcr continuava ad amministrare Khao-I-Dang, continuava anche gli sforzi, in larga misura infruttuosi, per negoziare un rimpatrio volontario e organizzato in Cambogia. Con la crescita dei gruppi di resistenza e con l’intensificarsi del conflitto, i movimenti dalla zona frontaliera verso la Cambogia divennero sempre più difficili. Un osservatore spiegava: Non solo il governo vietnamita e quello della Rpk [Repubblica popolare di Kampuchea] hanno minato il lato cambogiano della frontiera, ma anche, dare punto di vista della Rpk, gli ospiti dei campi profughi sono ormai inevitabilmente legati ai gruppi di resistenza. Questi temono quindi di essere considerati traditori e di rischiare persecuzioni in caso di rimpatrio. Ciò fa cambiare il loro status giuridico da sfollati a rifugiati sur place... Allo stesso tempo, i gruppi politico–militari hanno sempre più preso il controllo della popolazione dei campi e dei valichi d’ingresso alla frontiera con la Kampuchea, rendendo molto difficile il ritorno nel paese a coloro che lo desiderino 27. Nel settembre 1980, l’Unhcr aveva aperto a Phnom Penh un piccolo ufficio, composto da due persone, e aveva annunciato il varo di un programma di aiuti umanitari per i rimpatriati cambogiani, allora valutati in 300mila (compresi 175mila rientrati dalla Thailandia). Il programma doveva fornire gli aiuti alimentari essenziali, sementi, attrezzi agricoli e generi per la casa ai rimpatriati, in cinque province di frontiera. L’iniziativa 95 I RIFUGIATI NEL MONDO si rivelò prematura di circa un decennio. Malgrado consultazioni protrattesi per anni, l’Unhcr non riuscì a trovare un terreno di intesa fra Bangkok e Phnom Penh, e i rientri organizzati dai campi alla frontiera thailandese non ebbero luogo. Fra il 1981 e il 1988, ufficialmente solo un rifugiato cambogiano rimpatriò da un campo dell’Unhcr 28. In incontri svoltisi a Parigi nell’agosto 1989, le quattro fazioni rivali di quello che era stato intanto ribattezzato “Stato della Cambogia”, non riuscirono a compiere alcun progresso fondamentale nella ricerca di una soluzione globale 29. Su una cosa, però, riuscirono a mettersi d’accordo: ai rifugiati cambogiani in Thailandia e a quelli sfollati alla frontiera thailandese, per un totale approssimativo di 306mila persone, doveva esser consentito, alla conclusione di un accordo di pace, di far ritorno alle loro case volontariamente e in condizioni di sicurezza. Il fallimento della conferenza di Parigi rese, tuttavia, tale prospettiva decisamente ipotetica e, nel settembre 1989, il ritiro dei rimanenti 26mila militari vietnamiti, precipitò la Cambogia in una nuova guerra civile. Nelle regioni di frontiera ebbe inizio un nuovo ciclo di esodo forzato. Nell’ottobre 1991, a Parigi fu finalmente firmato, sotto l’egida delle Nazioni Unite, un accordo in base al quale queste avrebbero istituito un’amministrazione transitoria. La Cambogia fu dunque posta sotto il controllo di un’Autorità transitoria delle Nazioni Unite (Untac) in attesa di elezioni su scala Queste bambine del campo di Aranyaprathet, in nazionale [cfr. capitolo 4.1]. Il piano preveThailandia, erano fra le decine di migliaia di cambogiani fuggiti sotto la minaccia delle armi dei khmer deva, inoltre, i seguenti impegni da parte rossi, che svuotarono città e villaggi dei loro abitanti. delle varie fazioni: disarmare e smobilitare il (UNHCR/Y. HARDY/1978) 70% delle loro forze, liberare i prigionieri politici, aprire le rispettive “zone” alle ispezioni internazionali e alla registrazione degli elettori, nonché permettere a tutti i rifugiati cambogiani esuli in Thailandia di rimpatriare in tempo per iscriversi nelle liste elettorali e partecipare alle elezioni. Al momento della conclusione dell’accordo, i campi frontalieri dell’Unbro in Thailandia ospitavano oltre 353mila rifugiati, mentre altri 180mila cambogiani erano sfollati all’interno del proprio paese. Nel quadro dell’accordo di pace, l’Unbro trasferì, a partire dal novembre 1991, la gestione dei campi frontalieri all’Unhcr, che mise in moto i programmi di rimpatrio. 96 L’esodo dall’Indocina Dal marzo 1992 al maggio 1993, l’Unhcr coordinò un programma di rimpatrio che ebbe come risultato la chiusura dei campi frontalieri e il trasferimento, in condizioni di sicurezza, di oltre 360mila persone in Cambogia, in tempo per partecipare alle elezioni. Il 3 marzo 1993, l’ultimo convoglio con 199 rimpatriati partì da Khao-I-Dang e il campo – che era stato aperto il 21 novembre 1979 – fu ufficialmente chiuso. Nel suo intervento alla cerimonia di chiusura, l’Inviato speciale dell’Unhcr, Sérgio Vieira de Mello, definì Khao-IDang “un simbolo potente e tragico” dell’esodo cambogiano e della risposta umanitaria internazionale. Per l’Unhcr, aggiunse, “l’obiettivo principale e il risultato finale era stato di creare un campo neutrale, in cui persone di qualunque affiliazione politica potessero trovare riparo”. Nel contempo, osservò Vieira de Mello, “Khao-I-Dang era anche divenuto un trampolino per il reinsediamento nei paesi terzi” 30. Dal 1975 al 1992, oltre 235mila rifugiati cambogiani in Thailandia furono reinsediati all’estero, di cui 150mila negli Stati Uniti. La maggioranza di loro passarono dai cancelli di Khao-I-Dang. I rifugiati laotiani in Thailandia Nel maggio 1975, quando la vittoria comunista nel Laos era tutt’altro che certa, gli aerei da trasporto americani trasferirono in Thailandia circa 2.500 laotiani di etnia hmong dalla loro roccaforte montana. I hmong, un gruppo minoritario degli altopiani, che aveva aiutato gli Stati Uniti nella guerra del Laos, avevano perduto nei combattimenti 20mila soldati; 50mila civili erano stati uccisi o feriti, e altri 120mila erano stati strappati alle loro case. 31 Molti preferirono non aspettare un nuovo regime politico, ma fuggirono attraversando il fiume Mekong. Nel dicembre 1975, quando fu formalmente istituita la Repubblica democratica popolare del Laos, i rifugiati laotiani in Thailandia erano già 54mila, tutti, salvo 10mila, di etnia hmong. Un funzionario dell’Unhcr nel Laos e in Thailandia diede questa analisi della fuga dei hmong dal Laos: “Non v’è dubbio che la grande maggioranza dei rifugiati hmong siano fuggiti a causa di un reale timore di rappresaglie o persecuzioni da parte del nuovo regime... [ma] vi sono state ulteriori ragioni economiche per la partenza dei hmong dal Laos, e per il momento scelto”. Non solo la guerra aveva distrutto vaste aree coltivate, con i bombardamenti o con i defolianti chimici, ma per di più, come spiegava: Un gran numero di famiglie hmong si sono abituate a contare sempre più sui viveri lanciati dagli aerei, sugli aiuti distribuiti nei centri sociali, o sulla paga di soldato, portata a casa dai maschi adulti... Quando, nel 1975, questi mezzi di sussistenza alternativi sono bruscamente venuti a mancare, decine di migliaia di hmong si sono trovati improvvisamente non solo col timore della vendetta nemica, ma anche davanti a una scarsezza cronica di risorse... Se fossero rimasti nel Laos, è difficile immaginare come avrebbero potuto evitare una carestia su larga scala 32. Nel corso di una visita nel Laos, nel settembre 1975, l’Alto Commissario concluse un accordo col governo “per collaborare ad assistere i rifugiati laotiani che vogliano rientrare al più presto nel loro paese d’origine” 33. L’anno dopo, il Laos raggiunse un accordo col governo thailandese per il rimpatrio dei rifugiati, ma benché l’Unhcr si fosse impegnato a fornire il trasporto e un aiuto al reinserimento, nessun rimpatrio ebbe luogo fino al 1980, quando 193 laotiani delle pianure tornarono alle loro case. 97 I RIFUGIATI NEL MONDO Nell’ottobre 1974, l’Unhcr aveva aperto nella capitale,Vientiane, un proprio Ufficio, che fino a tutto il 1977, aiutò al rientro migliaia di persone, fornendo loro aiuti alimentari e attrezzi agricoli 34. A seguito di una visita, nel settembre 1978, dell’Alto Commissario Poul Hartling, l’Unhcr sospese ogni ulteriore attività in favore degli sfollati all’interno del Laos.Annunciò invece un “riorientamento delle attività dell’Unhcr verso le province alla frontiera thailandese, in particolare nel sud del paese... al fine di prevenire l’esodo di coloro che potrebbero essere indotti ad abbandonare il Laos a causa delle difficoltà economiche e della penuria cronica di generi alimentari in alcune zone” 35. Arrivi di indocinesi, secondo il paese/territorio di primo asilo, 1975–95 Paese/territorio 1975–79 1980–84 Fig. 4.3 1985–89 1990–95 di primo asilo Totale 1975–95 Boat people vietnamiti Hong Kong 79.906 28.975 59.518 27.434 195.833 Indonesia 51.156 36.208 19.070 15.274 121.708 Giappone 3.073 4.635 1.834 1.529 11.071 409 318 621 0 1.348 4.333 2.777 17 1 7.128 Malaysia 124.103 76.205 52.860 1.327 254.495 Filippine 12.299 20.201 17.829 1.393 51.722 Singapore 7.858 19.868 4.578 153 32.457 Thailandia 25.723 52.468 29.850 9.280 117.321 2.566 340 321 0 3.227 Totale parziale (boat people) 311.426 241.995 186.498 56.391 796.310 Thailandia (via terra) 397.943 155.325 66.073 20.905 640.246 Cambogiani 171.933 47.984 12.811 4.670 237.398 Laotiani 211.344 96.224 42.795 9.567 359.930 14.666 11.117 10.467 6.668 42.918 709.369 397.320 252.571 77.296 Corea. Rep. di Macao Altri Vietnamiti Totale (via mare e via terra) *Da segnalare, inoltre, 2.163 cambogiani, arrivati in Indonesia, in Malaysia e nelle Filippine dopo il 1995. 98 1.436.556* L’esodo dall’Indocina Malgrado l’esodo dei laotiani delle pianure fosse cominciato lentamente, nel 1978 i registri dei campi profughi indicavano già oltre 48mila arrivi in Thailandia. Alcuni laotiani erano fuggiti per il timore di essere imprigionati nei campi di rieducazione. Altri erano partiti a seguito della perdita della libertà politica, economica e religiosa. Da parte sua, l’Unhcr temeva – e i suoi timori erano condivisi dai funzionari thailandesi – che la fuga degli abitanti delle pianure fosse provocata in gran parte dai problemi economici del Laos e dalla prospettiva di un rapido reinsediamento in un paese terzo, una volta accolti nei campi profughi situati sull’altra riva del Mekong. Nel gennaio 1981, la Thailandia aprì un nuovo campo, Na Pho, per i profughi delle pianure, sistemandovi tutti i nuovi arrivati; il campo offriva solo limitate infrastrutture, razioni alimentari a livello di sopravvivenza e nessuna possibilità di reinsediamento 36. La politica, definita dalla Thailandia come un “deterrente umanitario” – mantenere aperte le frontiere, chiudendo al tempo stesso la porta al reinsediamento e limitando le infrastrutture dei campi profughi – sembrò avere effetto sull’esodo degli abitanti delle pia- Reinsediamento dei rifugiati indocinesi, secondo la destinazione, 1975–95 Paese di Cambogiani Fig. 4.4 Laotiani Vietnamiti Totale reinsediamento Australia 1975–95 16.308 10.239 110.996 137.543 Belgio 745 989 2.051 3.785 Canada 16.818 17.274 103.053 137.145 Danimarca 31 12 4.682 4.725 Finlandia 37 6 1.859 1.902 34.364 34.236 27.071 95.671 874 1.706 16.848 19.428 Giappone 1.061 1.273 6.469 8.803 Norvegia 128 2 6.064 6.194 4.421 1.286 4.921 10.628 Paesi Bassi 465 33 7.565 8.063 Regno Unito 273 346 19.355 19.974 Stati Uniti * 150.240 248.147 424.590 822.977 Francia Germania. Rep. fed. di Nuova Zelanda Svezia 19 26 6.009 6.054 Svizzera 1.638 593 6.239 8.470 Altri 8.063 4.688 7.070 19.821 235.485 320.856 754.842 1.311.183 Totale *Esclusi gli arrivi nel quadro del Programma di partenze organizzate. 99 I RIFUGIATI NEL MONDO Campi assistiti dall’Unhcr per i rifugiati cambogiani, laotiani e vietnamiti in Thailandia, negli anni ’80 e ’90 Cartina 4.2 REPUBBLICA POPOLARE CINESE VIET NAM MYANMAR HANOI REPUBBLICA DEMOCRATICA POPOLARE DEL LAOS VIENTIANE Ban Vinai Ban Na Pho THAILANDIA Khao-I-Dang BANGKOK Mar delle Andamane Mar Cinese meridionale CAMBOGIA PHNOM PENH Golfo di Thailandia LEGGENDA Capitale di stato Confine di stato 0 150 Chilometri 300 Campi per i rifugiati indocinesi Cambogiani Laotiani degli altopiani Laotiani delle pianure Vietnamiti MALAYSIA Centri di selezione nure. Il reinsediamento dei laotiani calò da oltre 75mila nel 1980 a circa 9mila nel 1982. Nello stesso periodo, gli arrivi di rifugiati dalle pianure scesero da 29mila a 3.200. Quando, nel 1983-1984, gli arrivi dei laotiani ripresero ad aumentare, la Thailandia decise di sperimentare un’altra strategia. Il 1° luglio 1985, il governo annunciò l’istituzione di una procedura di selezione alla frontiera. I profughi in arrivo dovevano presentarsi agli uffici del comitato di selezione, in una qualunque delle 100 L’esodo dall’Indocina nove province frontaliere, per un colloquio con i funzionari dell’Immigrazione, al quale i responsabili della protezione dell’Unhcr avevano la facoltà di assistere come osservatori. Quelli considerati rifugiati erano mandati a Ban Vinai, il campo per i hmong, oppure a Na Pho, quello destinato ai laotiani delle pianure. Per coloro la cui domanda era respinta, l’Unhcr aveva la possibilità di fare ricorso, prima che fossero internati in attesa del rimpatrio nel Laos. Alla fine del 1986, l’Unhcr riferiva che il 66% dei circa 7mila laotiani intervistati erano stati riconosciuti come rifugiati. Sebbene superiori alle previsioni iniziali, le cifre rivelavano che quasi nessuno dei richiedenti apparteneva all’etnia hmong. Le notizie che giungevano dalla frontiera indicavano che, in realtà, nel corso dell’anno parecchie centinaia di hmong erano stati rimandati indietro. All’inizio del 1988, la posizione del governo thailandese nei loro confronti si era in una certa misura ammorbidita, probabilmente per effetto dell’impegno degli Stati Uniti ad aumentare le possibilità di reinsediamento per i hmong. Dal 1985 al 1989, i funzionari thailandesi intervistarono circa 31mila laotiani, dei quali il 90% ricevette lo status di rifugiato. Il Piano d’azione globale invitava i governi della Thailandia e del Laos, d’intesa con l’Unhcr, ad accelerare i negoziati volti “a garantire la sicurezza degli arrivi e l’accesso al processo di selezione dei laotiani; nonché ad accelerare e snellire le procedure sia per il rimpatrio degli esclusi che per il rimpatrio volontario... in condizioni sicure, dignitose e controllate dall’Unhcr” 37. Alla fine del 1990, l’Unhcr e il ministero thailandese dell’Interno avevano elaborato nuove procedure, conformi a quelle applicate su scala regionale ai richiedenti asilo vietnamiti. All’Unhcr era consentito assistere alle interviste, interrogare gli stessi richiedenti, e ricorrere contro le decisioni del comitato thailandese responsabile dell’istruttoria delle domande. In totale, dall’ottobre 1989 alla fine del 1996, furono intervistati circa 10mila laotiani, di cui il 49% ricevettero lo status di rifugiato e il 45% furono respinti, con la rimanenza dei casi in sospeso o comunque chiusi. Il calo della percentuale di riconoscimento era anche dovuto al fatto che, di norma, i funzionari thailandesi dell’Immigrazione non consideravano più la presenza di familiari in un paese di reinsediamento come un motivo sufficiente per l’approvazione. Alla fine del 1993, tutti i campi per i profughi laotiani erano stati chiusi, ad eccezione di Na Pho. Il compito principale dell’Unhcr, dal lato thailandese della frontiera, fu allora di persuadere gli esuli a rimpatriare e, dal lato laotiano, di aiutarli a reinserirsi dopo il rimpatrio. Sebbene si ponesse principalmente l’accento sul rimpatrio volontario, a metà del 1991 il governo laotiano e quello thailandese concordarono sul fatto che “le persone respinte nel processo di selezione saranno mandate indietro senza ricorrere alla forza, in condizioni di sicurezza e dignità” 38. Alla fine del 1995, i rimpatriati dalla Thailandia nel Laos erano poco più di 24mila: di essi, oltre l’80% beneficiavano dello status di rifugiato in Thailandia e, dunque, non erano obbligati a rimpatriare se non di loro spontanea volontà. Nel caso di 4.400 rimpatriati (in maggioranza di etnia hmong), la domanda d’asilo era stata respinta. A partire dal 1980, si calcola che fra 12 e 20mila laotiani ritornarono spontaneamente dai campi profughi thailandesi. Tutti i rimpatriati ricevevano lo stesso “pacco assistenza” standard, che comprendeva un’indennità in contanti equivalente a 120 dollari e una provvista di riso per un anno e mezzo. Gli altri aiuti standard, forniti prima della partenza dalla Thailandia, 101 I RIFUGIATI NEL MONDO consistevano in attrezzi agricoli e di falegnameria, sementi per ortaggi e zanzariere. Oltre a ciò, ogni famiglia che rimpatriava in un insediamento rurale riceveva un appezzamento di terreno per la casa, uno–due ettari di terra coltivabile e materiali da costruzione. La maggior parte degli insediamenti rurali finanziati dall’Unhcr erano, inoltre, dotati di rete idrica, strade e scuole elementari. Nel 1996, gli osservatori dell’organizzazione riferivano che “nel Laos, i rimpatriati non corrono rischi per la loro incolumità fisica. In generale, i rimpatriati si preoccupano di rifarsi una vita e di nutrire la famiglia” 39. L’Indocina segna una svolta In quasi un quarto di secolo di esodi all’interno e all’esterno della regione, oltre tre milioni di persone fuggirono dai paesi d’origine, di cui circa 2,5 milioni trovarono una nuova patria altrove e mezzo milione rimpatriarono. Nel corso di tali esodi, si ricavarono molti insegnamenti in merito ai soccorsi internazionali e alla soluzione dei problemi di rifugiati. Dal lato positivo, si può segnalare, a livello mondiale, lo straordinario impegno dei paesi di reinsediamento, e il fatto che la Cambogia, il Laos e il Viet Nam finirono con l’accettare dei programmi di rimpatrio o di reinserimento. Si trovarono, inoltre, soluzioni innovative con il Programma di partenze organizzate e le misure contro la pirateria e per i salvataggi in mare. Prima della crisi, la maggioranza dei paesi della regione non aveva sottoscritto la Convenzione Onu del 1951 sui rifugiati; in seguito, vi hanno aderito la Cambogia, la Cina, la Corea del sud, le Filippine, il Giappone e la Papuasia-Nuova Guinea. Dal lato negativo, ci sono le innumerevoli persone annegate, o che persero la vita o comunque soffrirono a causa di attacchi di pirati, stupri, bombardamenti o respingimenti, o di lunghi internamenti in condizioni disumane. Troppo spesso, come osservò nel 1989 l’Alto Commissario Jean-Pierre Hocké, la vigilanza non fu costante e la solidarietà internazionale vacillò o venne meno: Siamo tutti dolorosamente consci del fatto che quanto è stato raggiunto in questo spirito di solidarietà internazionale ha richiesto una costante vigilanza e sforzi sempre rinnovati davanti alle spaventevoli tragedie e alle miserie umane, meno visibili, che hanno accompagnato l’esodo dei rifugiati indocinesi. In certe occasioni, la volontà politica di dare asilo e di trovare soluzioni durature ha vacillato o è addirittura venuta meno, dando luogo al completo rifiuto dell’asilo, con i tragici respingimenti di imbarcazioni di rifugiati, a restrizioni all’accesso dell’Alto Commissariato ai richiedenti asilo, o al prolungato internamento di persone che rientrano nelle nostre competenze, in condizioni disagiate, al di sotto delle norme minime comunemente accettate 40. La conferenza sui rifugiati indocinesi del 1979 vide grandi esternazioni circa le preoccupazioni della comunità internazionale e l’impegno alla protezione dei rifugiati, ma diede anche origine al concetto di “primo asilo”, in base al quale la promessa di protezione di un paese è ottenuta grazie all’offerta di reinsediamento di un altro. Come osservò un ex funzionario dell’Unhcr, i due concetti ereditati dall’esperienza indocinese – la ripartizione internazionale dell’onere e l’asilo temporaneo – “si sono 102 L’esodo dall’Indocina rivelati un’eredità di dubbio valore, suscettibile di essere applicata sia con grande vantaggio per la causa umanitaria, sia come comodo pretesto per scaricare una responsabilità ed evitare il biasimo” 41. È stato osservato che la conferenza del 1989, che avallò il Piano d’azione globale, rappresentò non solo un grosso cambiamento della politica seguita nei confronti dei richiedenti asilo vietnamiti, ma anche una svolta nella posizione occidentale sul fenomeno dei rifugiati. Come avrebbero chiaramente dimostrato le crisi degli anni ’90, i paesi occidentali non erano più disposti ad assumere impegni a tempo indeterminato per il reinsediamento come soluzione permanente. Anche in seno all’Unhcr, in un rapporto di valutazione del 1994 si osservava che “il disincanto nei confronti del reinsediamento”, provocato dall’esperienza indocinese, “ha inciso negativamente sulla capacità dell’Unhcr di svolgere efficacemente tale funzione” 42. Nella prospettiva di un nuovo secolo, si può guardare indietro all’esperienza dell’Unhcr con i rifugiati indocinesi, rendendosi conto che il problema non era il reinsediamento, che comunque da solo non costituiva la soluzione. L’eredità del programma per i rifugiati indocinesi sta nel fatto che la comunità internazionale e l’Unhcr furono impegnati, per un periodo lungo e difficile, nella ricerca di un insieme di soluzioni che alla fine diede alla crisi una conclusione relativamente dignitosa. 103