Il bambino straniero adottato

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Il bambino straniero adottato
Percorsi e strategie di inserimento familiare
fra trauma migratorio e trauma da abuso
Marco Chistolini - psicoterapeuta, esperto di adozione internazionale, consulente del CIAI
1. Chi sono i bambini che vengono
adottati internazionalmente
C’è un generale consenso nel
ritenere che i figli adottivi abbiano
maggiori problemi, psicologici e
comportamentali, dei loro coetanei
non adottati. La letteratura nazionale ed internazionale è unanime
su questo aspetto. Hjern, Lindblad,
Vinnerljung (2002) hanno effettuato qualche anno fa in Svezia una
ricerca, forse una delle più estese
mai realizzate, nella quale, grazie
alle informazioni provenienti dallo
Swedish Register Population, è stato
possibile confrontare tra loro: un
gruppo di adottivi composto da
11.320 soggetti (8700 di origine
asiatica e 2620 di origine latinoamericana); un gruppo di 2343 fratelli biologici degli adottivi, un
gruppo di 4006 immigrati e la popolazione generale pari a 853.419
persone. I risultati hanno mostrato
che gli adottivi hanno, rispetto alla
popolazione non adottata, sei volte
di più la probabilità di commettere
suicidio, da 3 a 4 volte maggiore
possibilità di avere disturbi mentali; 5 volte più probabilità di fare uso
di droghe, da 2 a 3 volte di abusare
di alcol o commettere dei crimini.
Nella stessa ricerca, però, si evidenzia come l’82% dei maschi e il 92%
delle femmine si sono bene adattati, presentando un livello di “funzionamento” psichico e sociale nella norma.
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La letteratura indica che nel
determinare l’esito dell’adozione
sono in gioco numerose variabili,
generalmente indicate con il termine di fattori di rischio e fattori protettivi. Uno dei più importanti è sicuramente quello dell’età del bambino al momento dell’adozione. Vi
è generale consenso nel ritenere
che al suo crescere aumentino le
probabilità di insuccesso o che vi
sia maggiore probabilità che si verifichino difficoltà importanti nell’adottato (di adattamento, di apprendimento o nel senso di comportamenti devianti). Va però detto
che non tutti gli studi confermano
tale assunto, attribuendo un peso
meno rilevante a questa variabile.
Altro aspetto concordemente ritenuto importante nel determinare il
rischio di insuccesso adottivo è
quello delle istituzionalizzazioni
che hanno preceduto l’inserimento
in famiglia. E.W. Ames (1997) ha
confrontato un gruppo di bambini
adottati dalla Romania, precedentemente istituzionalizzati per almeno 8 mesi, un gruppo ugualmente
adottato dalla Romania senza previa istituzionalizzazione e bambini
nati in Canada non adottati. Il confronto tra i tre gruppi mostra, tra
l’altro, che il gruppo precedentemente istituzionalizzato aveva un
più basso livello cognitivo, tanto
più deficitario quanto maggiore era
stata la permanenza nell’istituto. Vi
sono poi le conseguenze che possoN. 63/08
no derivare allo sviluppo neurobiologico del bambino a causa delle condizioni svantaggiate in cui si
sono realizzate la gravidanza, il
parto e i primi anni di vita (sappiamo bene come l’assunzione di droga o alcol durante la gravidanza, la
malnutrizione, il parto prematuro
possano influire negativamente
sullo sviluppo neurologico del
bambino).
Da ultimo, non certo per frequenza né per importanza, vanno
ricordati gli effetti a breve, medio e
lungo termine dell’aver esperito situazioni di violenza e/o grave deprivazione. È ormai nota, anche se
ancora spesso sottovalutata, la
complessa e articolata costellazione
di reazioni, psichiche, comportamentali, neurologiche, di tipo posttraumatico che possono far seguito
a tali esperienze. Un’altra conseguenza particolarmente grave e pericolosa è quella della possibilità di
successive vittimizzazioni del bambino adottato. Può accadere, infatti, che egli possa mettere in atto
comportamenti violenti, oppositivi, provocatori, che possono suscitare reazioni aggressive e/o denigranti nei genitori adottivi o in altri adulti di riferimento, non in
grado di gestirle correttamente.
Stesso rischio si può verificare
quando il bambino presenta un atteggiamento seduttivo e la presenza
di condotte sessualizzate, comportamenti tipici di chi è stato vittima
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di abuso sessuale, esponendolo al
rischio di sperimentare nuovamente questo tipo di trauma.
Altri recenti studi hanno, inoltre, evidenziato che le differenze tra
soggetti adottati e non adottati, pur
presenti, hanno una rilevanza meno significativa di quanto comunemente si pensa. M. H. van IJzendoorn and F. Juffer (2006), hanno realizzato un imponente lavoro di meta-analisi esaminando numerose
ricerche realizzate in diversi paesi
sull’andamento delle adozioni.
Questo lavoro ha preso in esame un
totale di 265 studi, relativi a 30.000
soggetti adottati e 155.000 non
adottati considerati come gruppo
di controllo. I risultati sono, per
molti aspetti, sorprendenti. Gli autori, infatti, affermano che: “Abbiamo trovato solo piccole differenze tra
i bambini adottati e quelli nonadottati… Gli adottati, paragonati
ai non adottati, mostrano complessivamente maggiori problemi di comportamento, più sintomi esternalizzanti e internalizzanti ma in quantità contenute”. Valutazioni simili sono espresse da Palacios nel libro
“Psychological Issues in adoption”
(2005). L’autore propone che, per
valutare la efficacia dello “strumento” adozione, sia più corretto comparare le performance dei bambini
adottati con quelle di coloro che,
partiti dalla stessa condizione di
abbandono, sono rimasti in istituto. Quando questa comparazione
viene effettuata i risultati sono clamorosamente a vantaggio dei bambini adottati.
Riportando questi dati non si
vuol certo minimizzare la portata
delle difficoltà che caratterizzano
tanti bambini adottati nei diversi
contesti di vita, quanto piuttosto
porre l’attenzione sul fatto che
l’adozione, contrariamente a come
spesso viene considerata, è una
condizione esistenziale che non definisce caratteristiche omogenee e
generalizzabili a tutti coloro che vi
appartengono. È frequente, infatti,
riferirsi ai bambini adottati come
se l’essere tali li rendesse portatori
tutti delle medesime peculiarità,
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equiparando l’adozione ad una
condizione “morbosa” che comporta un quadro di problematicità
omogeneo. Pare più corretto e rispondente alla realtà, considerare
l’adozione come una condizione
esistenziale, uno “scenario”, che
può presentare situazioni estremamente diversificate in quantità e
qualità. Sappiamo, infatti, che ci
sono bambini adottati che hanno
avuto storie costellate da esperienze
traumatiche e bambini con un percorso di vita certamente difficile,
ma non particolarmente penalizzante. Ciò ci spiega perché alcune
adozioni vanno male e altre, la stragrande maggioranza, funzionano
bene. Questa varietà di situazioni,
come vedremo più avanti, si registrano anche relativamente alle
prestazioni scolastiche. In altre parole si tratta di attribuire alle esperienze dolorose vissute dal bambino, che costituiscono degli indubbi
fattori di rischio, un significato non
deterministico che lascia spazio a
percorsi di vita soddisfacenti. Purtroppo, non di rado, coloro che lavorano con le persone in difficoltà
sono portate ad avere una specifica
e selettiva attenzione sugli aspetti
di problematicità trascurando il
potenziale di risorse e competenze
che ogni persona, in misura ovviamente diversa, porta con sé. A questo proposito è istruttivo un esempio riportato da Elena Malaguti nel
suo libro “Costruire la resilienza”
(2005). In una ricerca condotta da
J. Kaufman e E. Zigler (1987), del
dipartimento di psicologia di Yale,
è emerso che in un gruppo di 282
genitori 49 di essi erano stati maltrattati durante l’infanzia. Tra i figli
del gruppo complessivo di genitori
sono stati rilevati 10 bambini maltrattati che in 9 casi erano figli dei
genitori a loro volta maltrattati da
piccoli. È facile dedurne che il 90%
dei bambini maltrattati, considerati nella ricerca, ha avuto almeno un
genitore che ha subito maltrattamento infantile. Se ci fermassimo
qui l’informazione ricavata sarebbe
imponente: chi è stato maltrattato
diventa genitore maltrattante in
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una altissima percentuale di casi!
In realtà se esaminiamo i numeri in
un modo diverso le indicazioni che
emergono sono assai più rassicuranti. Basta notare, infatti, che dei
49 genitori che hanno subito maltrattamento solo 9 (circa il 20%)
sono diventati maltrattanti, mentre
nell’80% dei casi le cose sono andate diversamente! Indicazioni sulla
possibilità di un recupero positivo
anche quando si è avuto un infanzia particolarmente difficile, ci vengono anche dal lavoro svolto da
Rutter e Rutter (1993).
Naturalmente assumere un atteggiamento attento alle risorse e
fiducioso di un possibile recupero
della svantaggio iniziale, non deve
significare negare o sottovalutare le
numerose difficoltà che possono
caratterizzare la frequenza scolastica dei bambini adottati. Si tratta
piuttosto di assumere un approccio
che coniughi l’attenzione alle problematiche del bambino e dei genitori con la capacità di valorizzare le
competenze di cui gli stessi sono
portatori.
Sintetizzando quanto fin qui
esposto possiamo affermare che:
1. L’adozione costituisce una
condizione esistenziale delicata, caratterizzata da alcuni “temi sensibili” che comportano
significative criticità, che si
presentano estremamente diverse, caso per caso, in quantità e qualità. Andando da un
estremo di gravi patologie intra-psichiche e/o del comportamento, a condizioni di funzionamento psicologico ampiamente nella norma.
2. La crescita del soggetto adottato e il compito dei suoi genitori, si presentano complessi e richiedono accompagnamento e
sostegno adeguati.
3. L’esito dell’adozione, che è nella
maggioranza dei casi positivo,
dipende da numerosi fattori che
interagiscono tra loro durante il
percorso, rinforzandosi o compensandosi reciprocamente.
4. In un certo numero limitato di
casi (tra il 10 ed il 20% nelle
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adozioni difficili e tra l’1 ed il
3% nelle altre), la relazione tra
genitori e bambino non ha l’effetto “riparativo” sperato e il legame si rompe definitivamente
dando luogo al fenomeno del
fallimento adottivo (disruption).
2. La dimensione etnica
In modo simile al minore immigrato anche il bambino adottato
internazionalmente deve affrontare
il compito di integrare due duplici
appartenenze: quella alla propria
etnia originaria e quella al nuovo
contesto di vita. Generalmente, dopo l’adozione e con il trascorrere
degli anni, si realizza un inevitabile
processo di distanziamento dalla
cultura di origine. Tale fenomeno è
attribuibile a diverse ragioni, sia di
carattere cognitivo (l’inevitabile
oblio di abitudini, suoni, significati, ecc.), sia di carattere psicologico
(la necessità di “voltare pagina” e
assimilarsi alla nuova famiglia. Tipico, in questo senso, è il fenomeno
della lingua madre “dimenticata”
nello spazio di poche settimane.
Ritengo che questo processo di
“italianizzazione” sia inevitabile ed
opportuno. Infatti, giorno dopo
giorno, il bambino, impara e fa sue
le componenti tipiche della cultura
italiana (lingua, alimentazione,
abitudini, fiabe, tradizioni, storia,
ecc.) sia nell’interazione con i familiari, sia con l’ambiente (scuola,
coetanei, ecc.) e costruisce la sua
appartenenza al nuovo contesto
culturale, che gradualmente diventa suo. Non va dimenticato che
l’adozione comporta anche questo
aspetto: consentire al minore di costruire una appartenenza completa
e sostanziale al contesto che lo accoglie, non solo di tipo affettivo,
ma anche “culturale” nel senso più
esteso del termine.
Ciò premesso si pone il problema di come coniugare la costruzione di questo nuovo senso di appartenenza con quello precedentemente costruito con l’etnia origi-
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naria. Chiaramente non si può
pensare che il bambino cancelli il
bagaglio culturale che ha maturato
nel suo Paese di origine. Ciò non
sarebbe giusto né possibile. Soprattutto quando egli ha vissuto un
tempo piuttosto lungo nel suo Paese di origine e/o è portatore di caratteristiche somatiche che lo identificano come appartenente ad
un’altra etnia, indipendentemente
dal tempo vissuto in Italia. Ne consegue che si debba lavorare per far
si che il bambino prima e l’adulto
poi, possano avere una identità
composita e ben integrata, che consenta di tenere assieme, in modo
coerente, tanto la sua parte etnica
originaria quanto quella, successiva, italiana.
È evidente che il raggiungimento di questo obiettivo richiede
uno sforzo di attivazione su più
piani che dovrebbe avere per protagonisti soprattutto i genitori, ma
che potrebbe e dovrebbe giovarsi
dell’aiuto di altre agenzie educative
come la scuola. La questione non è
semplice né banale e rappresenta
una sfida per tutti noi. Si tratta di
chiedersi
chi
sono
questi
bambini/ragazzi/adulti adottati
provenienti da altri luoghi. Essi sono per molti aspetti italiani (cittadini italiani, figli di italiani, nipoti
di italiani, ecc.) e per altri stranieri
(nati e vissuti in un altro Paese, di
diversa madre lingua, somaticamente differenti, ecc.). È frequente
che questi soggetti, che crescono
incrociando dentro di loro due
mondi diversi, si trovino collocati
da una parte o dall’altra di queste
due appartenenze, senza che vi sia
possibilità di integrazione e di riconoscimento della loro originale
specificità. Con gradazioni diverse
caso per caso, infatti, si deve riconoscere che questi bambini/adolescenti/adulti rappresentano una
categoria di cittadini un po’ speciale, portatori di una pluralità di appartenenze (geografiche, affettive,
biografiche, esperenziali, ecc.) che è
importante riconoscere, rispettare
e valorizzare. Se non si parte da
questo dato di fatto, dal riconosciN. 63/08
mento della peculiarità rappresentata dall’essere provenienti da un
altro Paese e figli biologici di persone di altra etnia ma, contemporaneamente, figli di genitori italiani e
dell’Italia cittadini, non sarà mai
possibile acquisire un approccio
adeguato nel relazionarsi a figli
adottivi. Credo che tutto ciò comporti la necessità di riconsiderare la
nostra idea di “italianità”. Dobbiamo chiederci cosa significhi essere
italiani oggi, quali caratteristiche
precisino appropriatamente questa
appartenenza, per muoverci verso
la definizione di un nuovo costrutto di italianità che sappia includere
storie e caratteristiche diverse a cominciare da quelle somatiche (può
sembrare banale dirlo, ma dobbiamo considerare che ormai essere
italiani non significa più necessariamente avere la pelle chiara).
3. Il compito dei genitori adottivi e il ruolo dei servizi
Da quanto affermato dovrebbe
essere chiara la delicatezza e la
complessità del compito che spetta
ai genitori adottivi. Essi dovranno,
innanzitutto, costruire una relazione nutriente e riparativa con il
bambino. Parallelamente dovranno
accompagnarlo e sostenerlo nell’affrontare, oltre che le consuete sfide
della crescita, le specifiche questioni che caratterizzano l’adozione e
che possiamo denominare temi
sensibili dell’adozione (TSA), quali:
1. L’informazione sull’essere stati
adottati.
2. La rottura del legame con i genitori naturali (l’abbandono)
ed il confronto con il passato.
3. La costruzione di una positiva
identità di genitori adottivi.
4. La costruzione di una equilibrata identità etnica.
5. La costruzione di una buona relazione di attaccamento bambino-genitori.
6. L’inserimento a scuola e nel
contesto sociale.
7. La presenza di traumi specifici.
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In questo difficile compito assume una fondamentale importanza che i genitori adottivi possano
contare sull’accompagnamento ed
il sostegno, adeguato e competente,
degli operatori psico-sociali. Appare, quindi, importante che gli enti
locali e le aziende sanitarie, sotto il
coordinamento delle regioni, costruiscano progetti di intervento articolati ed efficaci di “post-adozione”, ricorrendo anche alla competenza e all’esperienza degli enti autorizzati. Purtroppo non sono pochi i casi in cui le famiglie adottive
sono lasciate sostanzialmente sole e
gli interventi di aiuto e cura sono
attivati tardivamente, quando la situazione è ormai gravemente compromessa. Altro aspetto importante
è quello relativo alla continuità del
sostegno nel tempo. L’adozione, infatti, costituisce una condizione esistenziale che non si esaurisce negli
anni, ma permane definitivamente,
proponendo e ri-proponendo tematiche tipiche che vanno affrontate e risolte nelle diverse tappe della
vita (basti pensare all’adolescenza o
all’assunzione del ruolo genitoriale). In questa ottica appare opportuna l’offerta di interventi di sostegno specifici per le diverse tappe del
ciclo di vita familiare.
Chiaramente considerando
che, come sottolineato in precedenza, le problematiche ed i bisogni del bambino possono essere assai diversificati, è importante che il
sostegno sia organizzato in modo
da essere flessibile e saper calibrare,
in qualità e quantità, gli interventi
sulla base delle specifiche esigenze
di ciascun nucleo familiare. In particolare pare utile distinguere due
differenti livelli di lavoro:
Il primo è quello che possiamo
definire “sostegno standard”, che
trova la sua motivazione nel fatto
che tutte le famiglie adottive, a prescindere dalle loro caratteristiche,
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si trovano ad affrontare alcuni temi
impegnativi, per i quali è necessario che siano seguite e sostenute.
Il secondo è quello che deve essere attivato sulla base di specifiche
esigenze presentate dal nucleo
adottivo. Questa altra dimensione
risponde ad una logica “sartoriale”
che costruisce il suo prodotto sulla
base dei bisogni specifici del cliente
(Chistolini, in corso di pubblicazione). Chiaramente per stimare
quali siano i bisogni che caratterizzano la famiglia adottiva, dovrà essere effettuata una valutazione accurata della situazione della stessa
finalizzata a definire quali interventi è necessario attivare in suo favore. Si dovranno pertanto raccogliere informazioni esplorando diverse aree quali:
• composizione della famiglia e
anamnesi del bambino e della
coppia,
• informazioni sanitarie,
• profilo di personalità dei coniugi,
• composizione e ruolo delle famiglie estese,
• scelte organizzative in merito alla
gestione del bambino,
• atteggiamento relativamente ai
TSA (temi sensibili dell’adozione),
• aspetti psicologici e comportamentali del bambino,
• capacità cognitive del bambino,
• rete istituzionale.
Da questa valutazione dovrà
scaturire un progetto di intervento
articolato, rispondente agli specifici bisogni del nucleo familiare.
Vorrei concludere sottolineando la enorme delicatezza e potenzialità del percorso adottivo: un
incontro magico di storie, bisogni
e risorse diverse che può generare
recuperi sorprendenti o dare luogo a vicende cariche di delusione e
sofferenza infinita. Sta a noi fare
del nostro meglio, con umiltà ed
impegno, perché siano sempre più
numerose le storie con esito positivo.
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