IL TEMA PUBBLICO E PRIVATO Un confine che si sfuma Paolo
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IL TEMA PUBBLICO E PRIVATO Un confine che si sfuma Paolo
IL TEMA PUBBLICO E PRIVATO Un confine che si sfuma Paolo Ferrari Il privato è pubblico, il pubblico è privato. Sembra essere questa la sintesi della gossip-story che la politica italiana ci ha messo sotto gli occhi in questi ultimi tempi: la vicenda di un premier che tanto ha portato in pubblico la sua vita privata in un processo di personalizzazione politica estrema, che il suo (secondo) divorzio non ha potuto che finire in piazza, almeno quella virtuale della televisione. Quest’ennesimo caso di sovrapposizione dimostra quanto il confine tra pubblico e privato nel nostro paese si sia sfumato e quanto le due sfere tendano talvolta a identificarsi. Un processo che non va letto esclusivamente in negativo, soprattutto pensando a quanti conflitti sociali si sono combattuti in nome della loro contrapposizione, quando pubblico e privato stavano agli estremi opposti di un asse ideale. Il progressivo avvicinamento delle due categorie ha portato, infatti, anche a positive contaminazioni, che oggi chiamiamo, per esempio, privato sociale. O all’idea che pubblico non debba coincidere per forza di cose con statale. Oppure che ci possano essere servizi pubblici resi anche da soggetti privati, come nel campo della scuola o del terzo settore (cooperative, associazioni, volontariato…), nel nome della sussidiarietà (si veda l’articolo di Mario Falanga e l’analisi critica di Ennio Pasinetti). Una riserva di “capitale sociale” che ci induce alla speranza per il futuro anche quando verrebbe la tentazione di cedere il passo alla sfiducia. E che rappresenta il lato buono di quell’Italia che, soprattutto quando sembra sulle gambe, piegata dalle avversità, come abbiamo visto dal caso del terremoto d’Abruzzo, tira fuori il meglio di sé in termini di solidarietà. Una riserva che, tuttavia, potrebbe non bastare, quando l’avvicinamento tra la sfera del pubblico e quella del privato diventa confusione senza distinzione. È qui che sorgono problemi e ambiguità. Come quella paradossale per cui, mentre aumenta la domanda di riservatezza sulle nostre vite, fino alle esasperazioni contenute nel concetto di privacy, ci sono stuoli di persone, e non solo giovani, disposti a mettersi in piazza nei vari Facebook, i cosiddetti social network di Internet, o addirittura, grazie a webcam e blog, a mettere la propria intimità in pasto alla rete o alle telecamere dei vari grandi fratelli e dei reality (rimandiamo agli articoli di Angelo Onger e Luciano Zanardini). Ma le cronache sono piene anche di archivi di dati personali violati (ricordiamo il caso Telecom) o di compravendita di dati sensibili delle nostre vite e dei nostri gusti nel santo nome del marketing, con la scusa di aiutarti a fare la spesa o di costruire prodotti “tutti intorno a te”. Insieme a questa dimensione che ci avvicina, ma anche ci allontana, dal resto dell’Europa, emergono i vizi storici dell’Italia, un paese in cui il capitale sociale e l’etica pubblica, fondamenti del pubblico e del bene comune, sono diventati risorse scarse: il paese dove sembra vincere sempre la logica del più furbo e del «fesso chi paga le tasse»; dove conta di più la raccomandazione del merito; dove se non è “la casta” a comandare, sono i “soliti noti”; il paese del «lei non sa chi sono io». L’Italia dei garantiti a scapito delle nuove generazioni, della riforma pensionistica scaricata sui giovani di oggi e di domani, dello scarso senso della legalità, dove la legge si applica per i nemici, si interpreta per gli amici o addirittura si scrive ad personam per se stessi. Il paese dove se devi farti largo con una nuova impresa economica o commerciale, «siamo tutti per il mercato e la concorrenza»; ma una volta che hai fatto successo e arrivi a occupare una posizione dominante, meglio il monopolio o i cartelli tra produttori, a scapito del bene di tutti e delle tasche dei consumatori. Un’Italia, profondamente cattolica, in cui se il cristianesimo è fede, è meglio resti un fatto privato insieme alle sue parole di amore e di accoglienza. Ma può diventare un fatto pubblico se si fa religione civile, cioè se diventa funzionale a difendere l’identità del popolo italiano e farsi baluardo contro ogni forma di dialogo interculturale e interreligioso. Finendo così per divenire la stampella di una nuova ideologia dello stato e sostenere le pretese di chi vorrebbe archiviare le conquiste che, dopo secoli di guerre di religione, il Concilio aveva portato in termini di libertà religiosa per tutti (come non ricordare Paolo VI e la Humanae Dignitatis del 1965!). Non vogliamo sembrare disfattisti, anche se talvolta di fronte a questi vizi viene da dire, citando Povera patria di Battiato, che «non cambierà». C’è un notissimo detto degli Indiani d’America che ci guida nella riflessione di questo numero di ACI Notizie, e suona così: «La terra non l’abbiamo ereditata dai nostri padri, ma l’abbiamo in prestito dai nostri figli». È questo l’atteggiamento che dovrebbe animare il rapporto tra pubblico e privato oggi e la relazione con la polis. Dobbiamo trattare il pubblico come una cosa da restituire e non come se fosse una proprietà privata. Un discorso che si può applicare a molti ambiti. Dalla politica, che altrimenti rischia di non essere più un servizio per la collettività, ma solo uno strumento per rafforzare il proprio potere e le proprie clientele, all’economia, che potrebbe diventare fine a se stessa, asservendosi alla finanza e dimenticando la destinazione universale dei beni, come chiede, inascoltata, la Dottrina sociale della Chiesa (si veda l’articolo di Beppe Mattei); dall’ambiente, per non scordare che le risorse della Terra sono limitate e ci sono affidate in gestione e non in proprietà (l’articolo di Andrea Re), alla pubblica amministrazione; dal rispetto dei beni che si possono godere solo insieme, come le strade, i parchi, l’aria, l’acqua, la mobilità, ecc, alla gestione responsabile delle risorse. Solo così la distinzione tra pubblico e privato ha un senso e un valore. E ci aiuta a fare per scelta libera quello che non possiamo fare per costrizione, come pretendevano le ideologie del passato cercando di imporre una società più giusta: condividere quello che ci appartiene perché tutti abbiano l’essenziale. Altrimenti si fa solo confusione e, insieme al triste spettacolo di un matrimonio finito male e in piazza, pubblico e privato rischiano di diventare la stessa cosa. Ovviamente a beneficio di pochi.