Concorso Letterario Ritratto di Famiglia – “Fumo e

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Concorso Letterario Ritratto di Famiglia – “Fumo e
Concorso Letterario Ritratto di Famiglia – “Fumo e Cenere” di M. Moretti
Quel pomeriggio dopo la settimana di Pasqua del 2013, ero nella cantina della
mia vecchia casa a riordinare e buttare cose; sapevo che dopo aver fatto spazio, in
fondo, contro la parete più lontana, avrei trovato gli oggetti di mio padre. Erano
accumulati in cartoni bianchi con scritta in un chiaro stampatello su due lati:
“BUTTARE”, riportava l'imperativa epigrafe. Riconobbi la scrittura, era il Times
New Roman di mia moglie; lei avrebbe voluto liberarsi di quegli oggetti tanti anni
fa ed io li avevo salvati prendendo tempo: “Fammi almeno controllare se posso
recuperare qualcosa” avevo provato a dire senza convinzione. Mi sorpresi della
sua risposta magnanima: “Va bene Andrea, ma non fare come al solito, entro la
settimana prossima questi cartoni devono essere in un cassonetto”. In realtà anche
a lei pesava buttare tutti quegli oggetti. Sapevamo entrambi quanti ricordi c'erano
in quelle scatole, ma non avevamo più spazio in casa. Io da parte mia, feci come
al solito, la settimana passò e non buttai nulla.
Ma quel pomeriggio, quel pomeriggio dopo la settimana di Pasqua del 2013,
non avevo più scuse. Dovevo vendere la casa ed in cantina non si riusciva
neanche più ad entrare. Le prime quattro ore di pulizia servirono solo ad aprirmi
dei varchi, strette vie di comunicazione, a tratti, in galleria, fra le macerie di
trenta anni di accumulo seriale compulsivo. Ma io avevo una meta, la parete più
lontana, e ci arrivai ancora carico di energia. Presi la scatola più in alto. Era
ancora sana e quasi senza polvere. L'avevo già in mano, ma non sapevo dove
appoggiarla per toglierne il coperchio. Spinsi una pila di mensili “Arreda la tua
Casa”, che, cadendo ed accumulandosi a caso in terra, mi offrirono anche un
comodo e non umido posto a sedere. Sedendomi, sentivo quegli spessi giornalacci
muoversi e far attrito tra loro sotto il mio peso: mi sembrò che facessero di tutto
per farmi stare comodo. Poggiai la prima scatola sulle ginocchia e strappai
l'adesivo che teneva il coperchio e lo sollevai con cura, come se la scatola potesse
contenere nitroglicerina con innesco. Una scatola come quella dei film d'azione, in
cui il protagonista, madido di sudore, deve decidere in pochi secondi quale filo
tagliare per disinnescare la bomba: era il filo rosso! O era il verde? No, no era il
giallo... BOOOOOOOOM!!!! Scherzavo sempre quando ero alle prese con qualcosa
che toccava il mio intimo, le mie emozioni più profonde. Quella scatola richiedeva
qualche battuta idiota prima di poterne guardare il contenuto. Il coperchio
sollevato lasciava intravedere il contenuto: una delusione! Solo documenti.
Bollette, multe, ricevute, ecc... Stizzito, richiusi la scatola e la portai fuori (dal
tunnel). Presi un'altra scatola, la aprì più velocemente dell'altra e mi riaccomodai
nella postazione offerta dai mensili sparsi in terra.
Conteneva solo oggetti di mio padre. Li aveva conservati gelosamente mia
madre dopo la sua morte. Quanto aveva sofferto povero papà. La vita era stata
proprio ingiusta con lui. Tutta una esistenza spesa a lavorare per mantenere la
sua famiglia con moglie e quattro figli ed una malattia se lo era portato via
proprio alla soglia della pensione e del suo meritato riposo. C'erano centinaia di
foto in bianco e nero; quelle molto vecchie, con i bordi merlettati avevano sul retro
una data, ed una singola frase romantica. Erano le foto che mio padre mandava a
mia madre quando lavorava fuori. Un MMS degli anni '50: foto e testo così
intimamente inscindibili ed affascinanti. Le foto ritraevano lui elegante in una
qualche via del centro città. I testi contenevano frasi così intime e commoventi
che dovetti smettere subito di leggerle. Troppo personali per il mio pudore e per
giunta scambiate fra le uniche due persone che potevano apprezzarle; pensai che
qualsiasi altro lettore sarebbe stato troppo poco attento e coinvolto per catturarne
l'essenza.
C'era anche un profumo. Svitai il tappo di plastica e mi investì l'odore di mio
padre: che sensazione! Credo che mia madre avesse conservato quella bottiglia di
profumo per provare saltuariamente la medesima sensazione. Mi ritornarono in
mente le lunghe passeggiate in cerca di funghi, le corse a perdifiato sulla
spiaggia, i nostri passaggi e tiri in porta nella villa al mare.
C'era quel foglietto con grafia incerta e tremolante. Lo aveva scritto per il mio
compleanno. Era già molto malato e non più in grado di scrivere e forse neanche
di pensare. C'erano un paio di frasi sconnesse che facevo fatica a comprendere. Si
capivano solo le parole “la felicità” e “quando entri col tuo sorriso”. Non credo di
aver mai avuto regalo più grande di queste poche frasi quasi incomprensibili.
Pensai alla rabbia di quell'ultimo giorno passato con lui. Ai miei pugni nel muro e
a quella litania di due parole che gli ripetei per un tempo che non so definire
mentre gli ero accanto dopo che morì: “povero papà”. Per fortuna arrivarono dei
gentili becchini ad interrompermi.
Da piccolo avrei voluto essere come lui. A partire dalla adolescenza e fino alla
maturità rifiutai la sua autorità ed il suo volermi bene senza dirmelo. Ma quel
pomeriggio, quel pomeriggio dopo la settimana di Pasqua del 2013, seduto in
terra in fondo a quell'umido scantinato, mi vidi di nuovo così simile a lui. Tutto
dedito al lavoro, le responsabilità, il buon senso. Avevo speso tutta una vita a
fuggire dalla sua figura ed ero lui.
Come quella sigaretta domenicale lasciata nel posacenere sul suo tavolo di lavoro:
si consumava, piano, piano, terribilmente sola e senza dare vero piacere a
nessuno...
Sentì le lacrime calde bagnarmi il volto e per quel giorno non riuscì più a fare
pulizie. Non presi l'ascensore, e feci piano le scale tornando su da mia moglie
nella speranza di eliminare quell'insopportabile groppo alla gola. Suonai il
campanello e lei mi aprì la porta sorridendo, ma nel vedermi, subito mi chiese
preoccupata: “Che accade Andrea? Hai gli occhi rossi!”. Le sorrisi e le risposi: “E'
la polvere di quel maledetto scantinato!”. Ed aggiunsi subito: “Ti ho mai raccontato
la storiella del cowboy e del cactus?”. “No” rispose lei gentile. Sapeva come ero
fatto e sapeva che amavo scherzare quando non riuscivo più a sopportare le mie
intime emozioni.
Massimo Moretti