L`opera d`arte di un uomo è una visione del

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L`opera d`arte di un uomo è una visione del
L’opera d’arte di un uomo è una visione del mondo
L’opera d’arte di una donna è quel mondo
di Viana Conti
Vai dalle donne? Non dimenticare la frusta!
F. Nietzsche, Cosí parlò Zarathustra
Longanesi, Milano, 1979, pagg. 109-111
…La donna è già l’effetto della frusta!
T. W. Adorno, Minima Moralia,
Torino, Einaudi 1954, pagg. 105, 106
Gli uomini, storicamente, dimostrano una radicata attitudine nello scoprire la donna degli abiti per ricoprirla
di stereotipi sociali, sessuali, produttivi o riproduttivi,
culturali o sottoculturali, per farne schermo di proiezioni, desideri, pulsioni egocentriche o sociocentriche, occultandone così o sospendendone l’inconscio, i volti cangianti dell’immaginario. È di pubblico dominio il fatto che il diritto
all’arte della donna, come soggetto creativo, si pratica in modo paritario
solo a partire dal Novecento e non ovunque. Quella di una donna artista
è una storia intima e collettiva, in ombra e sulla scena, al tempo stesso,
quando non è anche una storia duale1. Una storia la sua che vuole ricercare, indagare ed esprimere, con un suo linguaggio, simbolico, l’origine
del desiderio e del dolore come esperienza individuale e collettiva, affettiva
e cognitiva, psichica e socio-culturale. Una storia in cui si registra la reciproca pulsione del bisogno dell’altro e della domanda da parte dell’altro
dell’alterità, al di fuori di sé, alla luce di quel senso, inconscio, di mancanza
ad essere originaria, che Lacan chiama béance, come reiterata ricerca
di quella parte (a partire dalla nascita, sostitutiva del corpo materno?)
1
Sono entrate nel racconto e nel mito
le storie congiunte di Gabriele Münter e
Wassily Kandinskij, Sonia e Robert Delaunay,
Marianne Werefkin e Alexej Jawlensky,
Benedetta Cappa e Tommaso Marinetti,
Georgia O’Keeffe e il fotografo Alfred Stieglitz,
Antonietta Raphael e Mario Mafai, Natalija
Gontcharova e Michail Larionov; le storie
tragiche o tormentate che accompagnano
Jeanne Hébuterne a Modigliani, Camille
Claudel a Auguste Rodin, Meret Oppenheim
a Max Ernst, Frida Kahlo a Diego Rivera,
Jackson Pollock a Lee Krasner, fino alla
collaborazione di Marina Abramovic e Ulay,
di Manon e Urs Lüthi, di Laurie Anderson e
Lou Reed, di Yoko Ono e John Lennon. Queste
sono soltanto alcune di un interminabile
elenco, in parte ancora sconosciuto.
che può restituire al soggetto desiderante il senso di
compiutezza, di interezza. Le parole mancano o abbondano, nella sua biografia. Sono passati gli anni storici
del Femminismo, della Simone de Beauvoir de Il Secondo Sesso, del 1961, della scrittrice outsider e irregolare, nella letteratura e nella sessualità, Virginia Woolf,
non rispondente alla figura epica del femminismo, ma,
nonostante fama e onori, irriducibile alla società fino
al suicidio, avvenuto nel 1941, di Dacia Maraini non
solo scrittrice brillante e tradotta in tutto il mondo, ma
anche femminista impegnata nella difesa dei diritti
civili, della pace, della giustizia, della libertà. Gli anni
Settanta sono anche quelli della critica d’arte, fortemente anti-ideologica, Carla Lonzi, prima femminista
dell’autocoscienza, impegnata nel Movimento, presente
e attiva presso la Galleria Notizie di Torino per un periodo decennale, nonché collaboratrice della rivista “Marcatrè”, sono gli anni della filosofa e psicoanalista belga
Luce Irigaray, autrice di Speculum de l’autre femme del
1974, che con la sua Etica della differenza sessuale, del
1985, provoca la rottura con il Lacan di Le stade du
miroir del 1937, dando una svolta al pensiero femminista europeo ed anglo-statunitense. Nel 1974 esce, per
i tipi di Prearo, Il Corpo come Linguaggio di Lea Vergine,
la critica d’arte che nel 1980 cura la mostra L’altra
metà dell’avanguardia 1910-1940, presentando, tra gli
anni Settanta e Ottanta all’attenzione internazionale
- proprio quando il femminismo rivendica con più determinazione pari diritti e dignità tra donne e uomini
e analizza le dinamiche di oppressione di genere - il
talento di oltre cento artiste europee, russe, americane,
sistematicamente discriminate o ignorate. Il corpo
femminile, più di quello maschile, ha portato e sopportato i segni della propria storia, di un’appartenenza,
di una religione, di un’ideologia, di una repressione. È
il momento di rileggere l’immaginario della donna per
riscrivere nuove narrazioni, per inaugurare interpretazioni altre, per ricercare una ridefinizione del femminile
che ne colga la specificità, alla luce della sua intelligen-
za emotiva, della sua pratica ideativo-cognitiva, delle
sue scelte etiche, politiche, relazionali. Nella cultura
in genere e nell’arte in particolare gli uomini tendono,
come non ha mancato di osservare il massmediologo
e sociologo dell’arte digitale, belga-canadese, Derrick
de Kerckhove, a considerare il linguaggio in modo strumentale, mentre le donne tendono a usarlo in modo
più relazionale; l’uomo tende a pensare il significato,
le donne a sentirlo, l’uomo tende a organizzare le sue
riflessioni in pensieri più che azioni, in concetti più che
in metafore, mentre la donna tende a organizzare le
sue intuizioni, le sue esperienze, le sue conoscenze,
più in sensazioni, emozioni, ritmi, performance. I primi
tendono a selezionare il significato nel linguaggio, le
seconde, più aperte sul piano sensoriale, ne ricevono
i segnali contestuali. Se è pensabile, sul piano della
Weltanschauung, della Visione del mondo, che dietro al
nome di ogni oggetto, come ci ha detto Jean Baudrillard, sia scomparso un soggetto, che dietro a ogni immagine, sia scomparso il suo referente, che dietro a
ogni rappresentazione del mondo, sia scomparsa la
realtà di quel mondo, diventa indecidibile, nelle lande
del virtuale odierno, se è al reale che si tributa un culto, anche nel campo dell’arte, o alla sua sparizione. In
un contesto epocale in cui il culto dell’immagine sta
trasformandosi in una patologia collettiva, sempre più
riferita a un’istanza visiva e sempre meno a un valore
umano, il corpo sensoriale ed emozionale della donna,
incessantemente veicolato nella pubblicità, nel cinema,
grande riserva dell’immaginario collettivo, nella letteratura, nel teatro, nei massmedia, nelle reti elettroniche,
di una società di massa, per non essere ridotto in segno
e significato intercambiabile, riproducibile serialmente
e trasmissibile globalmente, per non rischiare il disagio
contemporaneo delle anoressie, bulimie, tossicomanie,
depressioni, isolamenti, apatie e caduta del desiderio,
che inibiscono lo scambio simbolico con l’Altro, deve
mantenere la sua centralità di soggetto creativo primario nell’arte e nella vita.
Mostra: “Bad Girls”
Anni Quaranta-Settanta Dare appuntamento in galleria alle cosiddette Bad Girls della storia dell’arte, non
intende ricalcare la formula glamour di una compilation
musicale, di un film di richiamo erotico, di un serial
televisivo, del disinibito affondo letterario, con intenti
scandalistici, nel libro autobiografico di una libertina,
ad esempio, come quello di una critica d’arte del milieu
culturale parigino2, già esponente della rivoluzione sessuale degli anni Sessanta e Settanta, ma intende dare
immagine a una provocazione autoironica, storicamente
e visivamente ben architettata dalle galleriste Caterina
Gualco, attiva dagli anni Settanta, e Clelia Belgrado,
di una generazione successiva, interessata alla storia
e alla contemporaneità del linguaggio fotografico. La
donna, tendenzialmente oggetto di rappresentazione,
qui è finalmente soggetto; prendendosi ora la libertà di
volgersi verso qualsiasi interesse, si dispone alla ricerca
di un’autorappresentazione di ordine ontologico, in cui
la propria immagine non cessi di illuminare gradualmente una realtà interiore ancora oscura: la propria.
Questa rassegna multimediale al femminile, un po’ anarcoide, un po’ canzonatoria, senz’altro politicamente
scorretta, muove dagli anni Quaranta per arrivare fino
ad oggi, a partire dalla trasgressiva artista torinese
Carol Rama, anticipatrice, in un tempo in cui la figura
di riferimento a Torino era quella di Felice Casorati, di
un discorso sull’identità femminile legata alla sessualità, autrice di provocatori e inquietanti assemblage di
corpi amputati, di protesi ortopediche e di dentiere,
di copertoni d’auto e di bicicletta, di fogli millimetrati
e mappe catastali, di donne nude e sbeffeggianti; nel
giugno 2003 l’artista viene insignita meritatamente del
Leone d’oro alla carriera, in occasione della Cinquantesima Biennale di Venezia. Non manca in mostra quella
2 Catherine Millet, La vita sessuale di Catherine M., Mondadori, 2002.
Meret Oppenheim, seducente musa del Surrealismo,
amica di Alberto Giacometti e Hans Arp, modella di
Man Ray, per cui posa nuda già dal 1934, che, in una
memorabile conferenza del 1975 a Basilea, dichiara
che La libertà non bisogna aspettarla, ma prendersela, e
che L’arte scaturisce da uno spirito androgino. Esponente del Nouveau Réalisme, l’affascinate Niki de Saint
Phalle è presente con un fotogramma tratto dai suoi
Tiri, ciclo di azioni in cui spara su rilievi di gesso ricoperti da sacchetti di colore che, colpiti, esplodono. In
area Fluxus, un movimento storico su cui UnimediaModern scrive un attento capitolo di storia dal passato
al presente, non possono mancare Charlotte Moorman (collaboratrice di Nam June Paik, John Cage, Joseph Beuys, Jim McWilliams), che nel 1967 durante
la performance di Paik Opera Sextronique, riceve una
denuncia di oscenità per essersi spogliata seminuda,
l’artista-performer, di segno Fluxus/Concettuale, Yoko
Ono, icona Fluxus e concettuale, sposata a John Lennon (Four Spoons, 1967-1988) le body artist Carolee
Schneemann (Senza Titolo, 1972-1988), Gina Pane
(foto con il volto ricoperto di vermi), Marina Abramovic, che ha esplorato radicalmente i limiti del corpo
(Dragon Heads, 1990), Orlan, ripresa da un video in
una delle sue reincarnazioni estreme. Ecco Manon, nella
sequenza fotografica La Dame au crâne rasé, artista inquieta ed inquietante, che può essere la protagonista
di un film di Marguerite Duras, a sua volta scrittrice
e sceneggiatrice inquieta ed inquietante. Manon la cui
carica erotica esercita una provocazione ambigua, in
cui la sessualità è tanto più forte quanto più è sospesa,
ha scritto un’intensa pagina di storia del femminismo
con il linguaggio del femminile, in cui il corpo, il sesso,
l’identità, l’abito, sono diventati look, fantasmagoria di
specchi, vertigine del senso e dei sensi. Genova la ricorda nella mostra Fin de Siècle-Vissuti d’immagine, 1996,
con Franco Vaccari, dove, nella sua installazione Das
Damenzimmer, rende omaggio a quelle diciotto donneartiste che la fama non ha gratificato alla pari dell’altro
sesso. Ecco Federica Marangoni, artista storica della
video-scultura in vetro e neon che, a partire dalle sue
denunce di inquinamenti ecologici degli anni Settanta, mette in scena Il corpo ricostruito, 1975, in calchi
di poliestere massiccio, portandolo sulle spalle come
un venditore ambulante dentro un armadietto di formica nera, che, con un cumulo di frammenti di vetro,
riesce a dare immagine alle incrinature del reale nel
suo confronto con l’integrità utopica del sogno; artista
la cui estetica formale, materica, luministica, quanto
più è seducente, tanto più risulta impegnata in un forte
e profetico messaggio socio-umanitario. Mary Ellen
Mark insignita, tra gli altri riconoscimenti, del premio
di fotogiornalismo Robert F. Kennedy Awards, avendo accesso ai più celebri backstage della storia del cinema,
ha realizzato una galleria di intensi ritratti in bianco e
nero e colore, di un’estetica inquietante, in cui sfilano
attori come Marlon Brando, Catherine Deneuve, Jack
Nicholson, Cate Blanchett, Johnny Depp e registi come
Francis Ford Coppola, Tim Burton, Federico Fellini, da
cui è tratta la fotografia ai sali d’argento, in mostra,
scattata sul set di Satirycon. Anna Oberto, presente in
mostra con l’immagine fotografica di Scritture d’Amore/
di Luce. La Seduzione, 1985 è un’artista storica, già
esponente della rivista di anafilosofia e linguaggio Ana
etcetera, che opera nella scrittura visuale e nella performance, ricercando nell’autobiografia, nella grafia del
segno e nella gestualità del corpo le radici di un’identità
femminile.
Anni Settanta-Novanta. A una generazione di mezzo si
ascrivono artiste come Silvia Levenson che, per una
strategia della fuga o della sparizione volontaria/involontaria, pratica un esercizio di glasnost, ricorre alla
materia del trasparire/sparire: il vetro, nella sua cristallina purezza oppure opacizzato nella pasta o ancora di
colore rosa come in Something Wrong, 2005, la coppa
di offerta di bombe a mano di un umorismo tagliente e
8
amaro, nato – come annota Freud nel Motto di spirito –
dalla scarica in effetto comico di un eccesso di emozione, con funzione liberatoria da contenuti socialmente
repressi, da rimozioni di ferite infantili, di adulte violenze; Gretta Sarfaty Marchant, presente in mostra con
la sequenza Transformations, 1976, attiva anche come,
gallerista, curatrice di mostre, co-editrice di The Rebel
magazine; nata ad Atene, attualmente a Londra, nota
anche per aver collaborato con Arthur Penn nel film
Portrait con Laureen Bacall e Gregory Peck, estende il
suo campo di espressione dalla performance al DVD,
all’arte digitale, al collage e fotografia fino a linguaggi
più tradizionali come pittura e disegno; è autrice di due
nuove serie di video intitolati The Myth of Woomanhood e
Myth & Youth, in cui critica l’uso e l’abuso di certi clichet
del discorso femminista, mentre in Youth versus Gravity,
come donna matura si confronta con il mondo e i mutamenti sociali dei pronipoti; Sandy Skoglund, singolare
artista americana, nota per realizzare e poi fotografare
set visionari, di segno surreale, dove interagiscono oggetti, attori, ambienti e animali, spesso in argilla, come
nell’opera in mostra Squirrels at drive in, 1996. L’artista
ricorre a contrasti cromatici timbrici di grande effetto
ottico, per attivare il senso critico dell’osservatore nei
confronti dell’attendibilità del vero, quando la realtà si
confronta con l’artificio. Berty Skuber, assecondando
la sua attitudine associativa di accostamenti per contiguità di messaggi espliciti e impliciti, di immagini e
scelte ufficiali e personali, compone una mappa geografica di volti femminili, nella forma del francobollo,
richiamando alla visibilità figure appartenenti a contesti e linguaggi diversi come Frida Kahlo e Maria Callas,
Marilyn Monroe e Wonder Woman. Laura Zicari, la cui
originaria formazione artistica, corredata dalla rara
specializzazione in disegno anatomo-chirurgico, a destinazione scientifica, le consente di operare, in chiave
ironico-sarcastica, una sorta di classificazione tassonomica di reperti del corpo umano, di esseri viventi a lei
prossimi, di tipologie fisiognomiche, conferisce ai suoi
corrosivi ritratti, un’espressività fortemente sintomatica di tic, maníe, diffidenze, del bestiario umano. Il riferimento all’autoritratto dell’artista messicana Le due
Frida (1939), la cui espressione riflette le pulsazioni di
due cuori aperti, è presente nella sua tecnica mista, in
mostra, Frida Kahlo, 2009, dove la compagna, tradita,
di Diego Rivera, dalle folte sopracciglia e dallo sguardo intenso, viene vestita di delicato pizzo valenciennes
bianco.
A una generazione Ottanta/Duemila appartengono
artiste come Vanessa Beecroft, che attivando le sfere
dello sguardo, del desiderio e del disagio, orchestra
performance di seducenti modelle, accomunate da un
particolare identico dell’abbigliamento o dell’acconciatura dei capelli (come nella cibachrome in mostra
di VB08 Lotte im Kampf mit den Bergen, 1994) sovente
nude, o di uomini vestiti o in divisa che, come tessere di
un mosaico immaginario ricompongono esteticamente
e luministicamente, in silenzio e con i micromovimenti
prescritti dal copione, un quadro rinascimentale o manierista; Connie Bellantonio, presente in mostra con
Ritratti (fotografia analogica e collage, 2008) attua una
ricerca sulla dualità dell’io, sulla percezione del reale
e dell’artificio da parte di un soggetto della società di
massa; Stefania Beretta, che nella fotografia in b/n
ai sali d’argento intitolata Solitude, 2005, presenta,
nell’intima penombra di una stanza privata, un corpo
steso sul parquet, diviso e geometricamente riquadrato
da gelatine rosse e blu, riconducendo a luoghi di memoria, a tempi congelati nel ricordo, a un universo di
emozioni, archetipi, simboli che riattivano particolarmente la sensibilità inconscia di chi guarda; Daniela
Carati presenta la stampa lambda In un modo o in un
altro, 2009, una scena metropolitana in cui l’artista
coglie, con un linguaggio immediato, un taglio netto
dell’inquadratura, un primo piano, ragazze di passaggio, in gruppo o isolate, riflettendo il suo modo di fare
esperienza della realtà attraverso lo sguardo; Sandra
Chiesa, artista sensibile a livello ideativo e nella scelta
di colori e materiali spesso presi dal mondo vegetale
e floreale, è presente con Sarò bella, 2008, un trittico
a tecnica mista il cui spirito poetico si colora di un’inventiva surreale, non priva di ironia; Tracey Emin, che
come Autoritratto presenta il suo busto in reggiseno di
pizzo nero, è l’icona della Bad Girl della giovane arte inglese, dedita a ogni vizio ed eccesso, una volta si sarebbe detto sesso-droga-rock & roll, conditi da un linguaggio irriverente e sboccato, venuta sulla scena quando il
collezionista Charles Saatchi le ha comprato un certo
letto molto vissuto per 150 mila sterline, come pure lo
spregiudicato lavoro, Everyone I Have Ever Slept With, la
tenda dove aveva cucito i nomi di tutti coloro con cui
aveva dormito; Limbania Fieschi con Self Portrait with a
lipstick, 2010, delinea un’immagine della donna come
proiezione del desiderio del maschio, aggiungendo una
significativa icona tridimensionale al suo universo di
sexy bambole gonfiabili: autoritratto ironico vestito e
calzato di rosso, con tanto di boa sulle spalle, occhiali
da sole sulla parrucca bionda, occhioni blu sgranati,
posa da adescatrice; Nan Goldin, i cui Diari in pubblico danno immagine alla vita segreta e trasgressiva di
una condizione del malessere in una metropoli odierna; Carla Iacono fotografa di segno concettuale, particolarmente sensibile nel cogliere le terre di mezzo tra
realtà e sogno, seduzione e magia, presenta la stampa
Passionate toast n.2, 2009, tratta dalla serie Toys Lust,
in cui lavora alla seduzione magnetica dello sguardo
del soggetto femminile di un’adolescente; Noris Lazzarini, in mostra con Non aver paura – Omaggio a Mae
West , è attiva a livello europeo, extraeuropeo e nel Sud
del monto, avvalendosi di un laboratorio fotografico
mobile; dal 1993 ha scelto di lavorare alla ricerca, in
era digitale, sull’area della fotografia stenopeica; Malena Mazza, già aiuto regista di Antonioni e dei Fratelli
Taviani, presentando una stampa su tela, tratta dalla
serie La donna cane, 2009, riflette, nelle sue seducenti donne-oggetto, nell’accuratezza degli ambienti e dei
dettagli, la condizione di solitudine del mondo glaciale
della moda e del design, dove tutto è asservito al dominio dell’immagine; L’artista iraniana, residente a New
York, Shirin Neshat è presente con Mahdokht, una magica e impressionante stampa dal video Women without
Men, percorso da accenti altamente poetici, in cui una
donna sola, ossessionata da un lavoro a maglia, seduta in un bosco di anime morte, lacerata dalle paure
archetipiche di perdere la verginità o di non procreare, ripara nella follia di divenire albero per mantenere
la purezza, dando frutti. La storia, tratta dall’omonimo romanzo che costò alla scrittrice Shahrnush Parsipur la prigione e l’esilio, è ambientata nella Teheran
degli anni Cinquanta, dove cinque donne, sognando
l’evasione dai loro disagi fisici e psichici, si incontrano nel fatale giardino dei sogni infranti, dove, andando incontro alla morte, risolveranno il loro conflitto;
Alessandra Pedonesi espone il trittico fotografico
SetTrans, 2008, in cui convivono il soggetto maschile di spalle, come ombra e fantasma, e l’esuberante
e vistosa icona del travestimento femminile; Elettra
Ranno propone con il suo dittico fotografico Senza
Titolo, 2007, le sue fluttuanti e immateriali presenze
di corpi femminili danzanti nello spazio, accarezzati
da riflessi e ridisegnati da filamenti di luce; Bettina
Rheims, presente in mostra con la foto Maison close,
è una versatile artista francese che si esprime nella
fotografia di moda, in copertine di dischi, locandine
di film, campagne pubblicitarie, reportage, videoclip,
ritratti di noti personaggi, perfino di Jacques Chirac,
ma anche di animali imbalsamati; che scandalizza
con il libro Female Trouble, con i suoi ritratti di adolescenti androgini, con una retrospettiva sulla vita di
Gesù, riportata ai giorni nostri, che riscuote successo con la serie Chambre Close, realizzata tra il 1990
e il 1992 in collaborazione con Serge Bramly, che incrina gli stereotipi della bellezza femminile, facendo
delle dive vulnerabili eroine di un vissuto quotidiano.
Kiki Smith, che riflette, nei suoi sensibili disegni a
inchiostro e matita e nelle sue sculture, l’immaginario maschile riferito al corpo femminile come oggetto
erotico e che, dopo l’esperienza nel movimento femminista, affonda la sua ricerca nel mito, nella favola,
nel sacro; Alessandra Vinotto collaboratrice come
Art director del regista Francesco Rotunno, fotografa
di teatro, videoartista, figura in mostra con la stampa su plexiglass fotosensibile Let’s party, 2008: un’
intensa un’indagine sul corpo femminile ripreso nel
quotidiano, senza compiacimento, senza filtri, attraverso una sensibile declinazione di luce e ombra.
Generazione artiste emergenti Silvia Camporesi nei
suoi set lavora a una geografia delle sensazioni, a una
mappa della sensorialità, al cui centro entra in scena
la donna come apparizione, sul bordo della sparizione, sempre seducente e sedotta dalla sua stessa fragilità, leggibile come metafora di un sogno presente
e inafferrabile, dove i soggetti abitano una condizione
ipnagogica; in Untitled, 2008, le labbra di una giovane donna sono sigillate da una grande Sfinge testa di
morto, elemento simbolico inquietante presente nella
letteratura e nel cinema; Alessia De Montis, in mostra con Sirene/Onde, 2000/2004, attiva sull’area
della fotografia, della videoinstallazione, delle campagne pubblicitarie per note firme della musica e del
cinema, è particolarmente interessata a un’indagine
sul versante simbolico e psichico del femminile; Ivana
Falconi (installazione Sweet Victim, 2009)artista svizzera dotata di grande ironia e spirito critico, trae le sue
suggestioni dal mondo di oggetti e informazioni che la
circondano con frequenti incursioni nella favola, nella
storia dell’arte, nell’adolescenza; innovativi, nella sua
concezione dell’opera, non sono i mezzi, ma le idee e
il modo di utilizzarle; Francesca Galliani, in mostra
con Je suis superb! (stampa virata a mano al selenio e
color seppia, 2003) lavora a un linguaggio fotografico
espressionista, in cui la donna viene declinata in tutte
le sue realtà ed ambiguità, espresse e inespresse, riuscendo a costruire un’aura ai suoi personaggi attraverso la decostruzione di uno stereotipo e realizzando, con
segni gestuali, scritture, colature casuali, un lavoro
unico e irriproducibile; Zoè Gruni partecipa con Copricorpo, (stampa lambda su alluminio, 2007) immagine con chiari riferimenti al mondo contadino,
dove, su un contenitore grezzo di canapa si apre,
con un tocco di rosso, l’organo sessuale femminile di un corpo che, mosso da stimoli sensoriali, da
un respiro all’unisono con la natura, sta cercando
nel suo ammasso ancora indistinto, non senza sofferenza, la sua forma; Dorothy Hong (in mostra con
Sway Girls, 2007), collabora alla rivista “The Fader”,
diretta da Phil Bicker, per cui costruisce racconti sulla vita degli adolescenti di Brooklyn, sulle abitudini
di alcuni hipsters di New York, habitués dello stesso
club di Manhattan, con uno stile tra il ritratto e il reportage; nel 2009 viene invitata a Genova dalla galleria Vision Quest Contemporary Photography per la sua
prima personale, intitolata Introductions, in cui si può
apprezzare la sua ricerca sulla luce-ambiente, sul
piano americano, sulla postura e sguardo dei soggetti fotografati; Mirta Kokalj, artista che presenta
il suo corpo come icona della donna ingenua o perversa, pura o violata, bambola o seduttrice, figura in
mostra con Santa Flora (stampa lambda, 2009) dove,
nuda e circondata da corone di fiori che la vogliono
santa, esprime un’idea sessuale di maternità con i
tiralatte al seno; Paola Mongelli in Senza titolo, 2009,
coppia di soggetti incongrui, abbassando e sfumando la luce sui personaggi ne esaspera l’intimità, la
complicità, rivelando il suo particolare interesse, nel
bianco e nero, al topos della penombra, all’ambiguità
o alla sacralità della scena.