L`opera d`arte di un uomo è una visione del
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L`opera d`arte di un uomo è una visione del
L’opera d’arte di un uomo è una visione del mondo L’opera d’arte di una donna è quel mondo di Viana Conti Vai dalle donne? Non dimenticare la frusta! F. Nietzsche, Cosí parlò Zarathustra Longanesi, Milano, 1979, pagg. 109-111 …La donna è già l’effetto della frusta! T. W. Adorno, Minima Moralia, Torino, Einaudi 1954, pagg. 105, 106 Gli uomini, storicamente, dimostrano una radicata attitudine nello scoprire la donna degli abiti per ricoprirla di stereotipi sociali, sessuali, produttivi o riproduttivi, culturali o sottoculturali, per farne schermo di proiezioni, desideri, pulsioni egocentriche o sociocentriche, occultandone così o sospendendone l’inconscio, i volti cangianti dell’immaginario. È di pubblico dominio il fatto che il diritto all’arte della donna, come soggetto creativo, si pratica in modo paritario solo a partire dal Novecento e non ovunque. Quella di una donna artista è una storia intima e collettiva, in ombra e sulla scena, al tempo stesso, quando non è anche una storia duale1. Una storia la sua che vuole ricercare, indagare ed esprimere, con un suo linguaggio, simbolico, l’origine del desiderio e del dolore come esperienza individuale e collettiva, affettiva e cognitiva, psichica e socio-culturale. Una storia in cui si registra la reciproca pulsione del bisogno dell’altro e della domanda da parte dell’altro dell’alterità, al di fuori di sé, alla luce di quel senso, inconscio, di mancanza ad essere originaria, che Lacan chiama béance, come reiterata ricerca di quella parte (a partire dalla nascita, sostitutiva del corpo materno?) 1 Sono entrate nel racconto e nel mito le storie congiunte di Gabriele Münter e Wassily Kandinskij, Sonia e Robert Delaunay, Marianne Werefkin e Alexej Jawlensky, Benedetta Cappa e Tommaso Marinetti, Georgia O’Keeffe e il fotografo Alfred Stieglitz, Antonietta Raphael e Mario Mafai, Natalija Gontcharova e Michail Larionov; le storie tragiche o tormentate che accompagnano Jeanne Hébuterne a Modigliani, Camille Claudel a Auguste Rodin, Meret Oppenheim a Max Ernst, Frida Kahlo a Diego Rivera, Jackson Pollock a Lee Krasner, fino alla collaborazione di Marina Abramovic e Ulay, di Manon e Urs Lüthi, di Laurie Anderson e Lou Reed, di Yoko Ono e John Lennon. Queste sono soltanto alcune di un interminabile elenco, in parte ancora sconosciuto. che può restituire al soggetto desiderante il senso di compiutezza, di interezza. Le parole mancano o abbondano, nella sua biografia. Sono passati gli anni storici del Femminismo, della Simone de Beauvoir de Il Secondo Sesso, del 1961, della scrittrice outsider e irregolare, nella letteratura e nella sessualità, Virginia Woolf, non rispondente alla figura epica del femminismo, ma, nonostante fama e onori, irriducibile alla società fino al suicidio, avvenuto nel 1941, di Dacia Maraini non solo scrittrice brillante e tradotta in tutto il mondo, ma anche femminista impegnata nella difesa dei diritti civili, della pace, della giustizia, della libertà. Gli anni Settanta sono anche quelli della critica d’arte, fortemente anti-ideologica, Carla Lonzi, prima femminista dell’autocoscienza, impegnata nel Movimento, presente e attiva presso la Galleria Notizie di Torino per un periodo decennale, nonché collaboratrice della rivista “Marcatrè”, sono gli anni della filosofa e psicoanalista belga Luce Irigaray, autrice di Speculum de l’autre femme del 1974, che con la sua Etica della differenza sessuale, del 1985, provoca la rottura con il Lacan di Le stade du miroir del 1937, dando una svolta al pensiero femminista europeo ed anglo-statunitense. Nel 1974 esce, per i tipi di Prearo, Il Corpo come Linguaggio di Lea Vergine, la critica d’arte che nel 1980 cura la mostra L’altra metà dell’avanguardia 1910-1940, presentando, tra gli anni Settanta e Ottanta all’attenzione internazionale - proprio quando il femminismo rivendica con più determinazione pari diritti e dignità tra donne e uomini e analizza le dinamiche di oppressione di genere - il talento di oltre cento artiste europee, russe, americane, sistematicamente discriminate o ignorate. Il corpo femminile, più di quello maschile, ha portato e sopportato i segni della propria storia, di un’appartenenza, di una religione, di un’ideologia, di una repressione. È il momento di rileggere l’immaginario della donna per riscrivere nuove narrazioni, per inaugurare interpretazioni altre, per ricercare una ridefinizione del femminile che ne colga la specificità, alla luce della sua intelligen- za emotiva, della sua pratica ideativo-cognitiva, delle sue scelte etiche, politiche, relazionali. Nella cultura in genere e nell’arte in particolare gli uomini tendono, come non ha mancato di osservare il massmediologo e sociologo dell’arte digitale, belga-canadese, Derrick de Kerckhove, a considerare il linguaggio in modo strumentale, mentre le donne tendono a usarlo in modo più relazionale; l’uomo tende a pensare il significato, le donne a sentirlo, l’uomo tende a organizzare le sue riflessioni in pensieri più che azioni, in concetti più che in metafore, mentre la donna tende a organizzare le sue intuizioni, le sue esperienze, le sue conoscenze, più in sensazioni, emozioni, ritmi, performance. I primi tendono a selezionare il significato nel linguaggio, le seconde, più aperte sul piano sensoriale, ne ricevono i segnali contestuali. Se è pensabile, sul piano della Weltanschauung, della Visione del mondo, che dietro al nome di ogni oggetto, come ci ha detto Jean Baudrillard, sia scomparso un soggetto, che dietro a ogni immagine, sia scomparso il suo referente, che dietro a ogni rappresentazione del mondo, sia scomparsa la realtà di quel mondo, diventa indecidibile, nelle lande del virtuale odierno, se è al reale che si tributa un culto, anche nel campo dell’arte, o alla sua sparizione. In un contesto epocale in cui il culto dell’immagine sta trasformandosi in una patologia collettiva, sempre più riferita a un’istanza visiva e sempre meno a un valore umano, il corpo sensoriale ed emozionale della donna, incessantemente veicolato nella pubblicità, nel cinema, grande riserva dell’immaginario collettivo, nella letteratura, nel teatro, nei massmedia, nelle reti elettroniche, di una società di massa, per non essere ridotto in segno e significato intercambiabile, riproducibile serialmente e trasmissibile globalmente, per non rischiare il disagio contemporaneo delle anoressie, bulimie, tossicomanie, depressioni, isolamenti, apatie e caduta del desiderio, che inibiscono lo scambio simbolico con l’Altro, deve mantenere la sua centralità di soggetto creativo primario nell’arte e nella vita. Mostra: “Bad Girls” Anni Quaranta-Settanta Dare appuntamento in galleria alle cosiddette Bad Girls della storia dell’arte, non intende ricalcare la formula glamour di una compilation musicale, di un film di richiamo erotico, di un serial televisivo, del disinibito affondo letterario, con intenti scandalistici, nel libro autobiografico di una libertina, ad esempio, come quello di una critica d’arte del milieu culturale parigino2, già esponente della rivoluzione sessuale degli anni Sessanta e Settanta, ma intende dare immagine a una provocazione autoironica, storicamente e visivamente ben architettata dalle galleriste Caterina Gualco, attiva dagli anni Settanta, e Clelia Belgrado, di una generazione successiva, interessata alla storia e alla contemporaneità del linguaggio fotografico. La donna, tendenzialmente oggetto di rappresentazione, qui è finalmente soggetto; prendendosi ora la libertà di volgersi verso qualsiasi interesse, si dispone alla ricerca di un’autorappresentazione di ordine ontologico, in cui la propria immagine non cessi di illuminare gradualmente una realtà interiore ancora oscura: la propria. Questa rassegna multimediale al femminile, un po’ anarcoide, un po’ canzonatoria, senz’altro politicamente scorretta, muove dagli anni Quaranta per arrivare fino ad oggi, a partire dalla trasgressiva artista torinese Carol Rama, anticipatrice, in un tempo in cui la figura di riferimento a Torino era quella di Felice Casorati, di un discorso sull’identità femminile legata alla sessualità, autrice di provocatori e inquietanti assemblage di corpi amputati, di protesi ortopediche e di dentiere, di copertoni d’auto e di bicicletta, di fogli millimetrati e mappe catastali, di donne nude e sbeffeggianti; nel giugno 2003 l’artista viene insignita meritatamente del Leone d’oro alla carriera, in occasione della Cinquantesima Biennale di Venezia. Non manca in mostra quella 2 Catherine Millet, La vita sessuale di Catherine M., Mondadori, 2002. Meret Oppenheim, seducente musa del Surrealismo, amica di Alberto Giacometti e Hans Arp, modella di Man Ray, per cui posa nuda già dal 1934, che, in una memorabile conferenza del 1975 a Basilea, dichiara che La libertà non bisogna aspettarla, ma prendersela, e che L’arte scaturisce da uno spirito androgino. Esponente del Nouveau Réalisme, l’affascinate Niki de Saint Phalle è presente con un fotogramma tratto dai suoi Tiri, ciclo di azioni in cui spara su rilievi di gesso ricoperti da sacchetti di colore che, colpiti, esplodono. In area Fluxus, un movimento storico su cui UnimediaModern scrive un attento capitolo di storia dal passato al presente, non possono mancare Charlotte Moorman (collaboratrice di Nam June Paik, John Cage, Joseph Beuys, Jim McWilliams), che nel 1967 durante la performance di Paik Opera Sextronique, riceve una denuncia di oscenità per essersi spogliata seminuda, l’artista-performer, di segno Fluxus/Concettuale, Yoko Ono, icona Fluxus e concettuale, sposata a John Lennon (Four Spoons, 1967-1988) le body artist Carolee Schneemann (Senza Titolo, 1972-1988), Gina Pane (foto con il volto ricoperto di vermi), Marina Abramovic, che ha esplorato radicalmente i limiti del corpo (Dragon Heads, 1990), Orlan, ripresa da un video in una delle sue reincarnazioni estreme. Ecco Manon, nella sequenza fotografica La Dame au crâne rasé, artista inquieta ed inquietante, che può essere la protagonista di un film di Marguerite Duras, a sua volta scrittrice e sceneggiatrice inquieta ed inquietante. Manon la cui carica erotica esercita una provocazione ambigua, in cui la sessualità è tanto più forte quanto più è sospesa, ha scritto un’intensa pagina di storia del femminismo con il linguaggio del femminile, in cui il corpo, il sesso, l’identità, l’abito, sono diventati look, fantasmagoria di specchi, vertigine del senso e dei sensi. Genova la ricorda nella mostra Fin de Siècle-Vissuti d’immagine, 1996, con Franco Vaccari, dove, nella sua installazione Das Damenzimmer, rende omaggio a quelle diciotto donneartiste che la fama non ha gratificato alla pari dell’altro sesso. Ecco Federica Marangoni, artista storica della video-scultura in vetro e neon che, a partire dalle sue denunce di inquinamenti ecologici degli anni Settanta, mette in scena Il corpo ricostruito, 1975, in calchi di poliestere massiccio, portandolo sulle spalle come un venditore ambulante dentro un armadietto di formica nera, che, con un cumulo di frammenti di vetro, riesce a dare immagine alle incrinature del reale nel suo confronto con l’integrità utopica del sogno; artista la cui estetica formale, materica, luministica, quanto più è seducente, tanto più risulta impegnata in un forte e profetico messaggio socio-umanitario. Mary Ellen Mark insignita, tra gli altri riconoscimenti, del premio di fotogiornalismo Robert F. Kennedy Awards, avendo accesso ai più celebri backstage della storia del cinema, ha realizzato una galleria di intensi ritratti in bianco e nero e colore, di un’estetica inquietante, in cui sfilano attori come Marlon Brando, Catherine Deneuve, Jack Nicholson, Cate Blanchett, Johnny Depp e registi come Francis Ford Coppola, Tim Burton, Federico Fellini, da cui è tratta la fotografia ai sali d’argento, in mostra, scattata sul set di Satirycon. Anna Oberto, presente in mostra con l’immagine fotografica di Scritture d’Amore/ di Luce. La Seduzione, 1985 è un’artista storica, già esponente della rivista di anafilosofia e linguaggio Ana etcetera, che opera nella scrittura visuale e nella performance, ricercando nell’autobiografia, nella grafia del segno e nella gestualità del corpo le radici di un’identità femminile. Anni Settanta-Novanta. A una generazione di mezzo si ascrivono artiste come Silvia Levenson che, per una strategia della fuga o della sparizione volontaria/involontaria, pratica un esercizio di glasnost, ricorre alla materia del trasparire/sparire: il vetro, nella sua cristallina purezza oppure opacizzato nella pasta o ancora di colore rosa come in Something Wrong, 2005, la coppa di offerta di bombe a mano di un umorismo tagliente e 8 amaro, nato – come annota Freud nel Motto di spirito – dalla scarica in effetto comico di un eccesso di emozione, con funzione liberatoria da contenuti socialmente repressi, da rimozioni di ferite infantili, di adulte violenze; Gretta Sarfaty Marchant, presente in mostra con la sequenza Transformations, 1976, attiva anche come, gallerista, curatrice di mostre, co-editrice di The Rebel magazine; nata ad Atene, attualmente a Londra, nota anche per aver collaborato con Arthur Penn nel film Portrait con Laureen Bacall e Gregory Peck, estende il suo campo di espressione dalla performance al DVD, all’arte digitale, al collage e fotografia fino a linguaggi più tradizionali come pittura e disegno; è autrice di due nuove serie di video intitolati The Myth of Woomanhood e Myth & Youth, in cui critica l’uso e l’abuso di certi clichet del discorso femminista, mentre in Youth versus Gravity, come donna matura si confronta con il mondo e i mutamenti sociali dei pronipoti; Sandy Skoglund, singolare artista americana, nota per realizzare e poi fotografare set visionari, di segno surreale, dove interagiscono oggetti, attori, ambienti e animali, spesso in argilla, come nell’opera in mostra Squirrels at drive in, 1996. L’artista ricorre a contrasti cromatici timbrici di grande effetto ottico, per attivare il senso critico dell’osservatore nei confronti dell’attendibilità del vero, quando la realtà si confronta con l’artificio. Berty Skuber, assecondando la sua attitudine associativa di accostamenti per contiguità di messaggi espliciti e impliciti, di immagini e scelte ufficiali e personali, compone una mappa geografica di volti femminili, nella forma del francobollo, richiamando alla visibilità figure appartenenti a contesti e linguaggi diversi come Frida Kahlo e Maria Callas, Marilyn Monroe e Wonder Woman. Laura Zicari, la cui originaria formazione artistica, corredata dalla rara specializzazione in disegno anatomo-chirurgico, a destinazione scientifica, le consente di operare, in chiave ironico-sarcastica, una sorta di classificazione tassonomica di reperti del corpo umano, di esseri viventi a lei prossimi, di tipologie fisiognomiche, conferisce ai suoi corrosivi ritratti, un’espressività fortemente sintomatica di tic, maníe, diffidenze, del bestiario umano. Il riferimento all’autoritratto dell’artista messicana Le due Frida (1939), la cui espressione riflette le pulsazioni di due cuori aperti, è presente nella sua tecnica mista, in mostra, Frida Kahlo, 2009, dove la compagna, tradita, di Diego Rivera, dalle folte sopracciglia e dallo sguardo intenso, viene vestita di delicato pizzo valenciennes bianco. A una generazione Ottanta/Duemila appartengono artiste come Vanessa Beecroft, che attivando le sfere dello sguardo, del desiderio e del disagio, orchestra performance di seducenti modelle, accomunate da un particolare identico dell’abbigliamento o dell’acconciatura dei capelli (come nella cibachrome in mostra di VB08 Lotte im Kampf mit den Bergen, 1994) sovente nude, o di uomini vestiti o in divisa che, come tessere di un mosaico immaginario ricompongono esteticamente e luministicamente, in silenzio e con i micromovimenti prescritti dal copione, un quadro rinascimentale o manierista; Connie Bellantonio, presente in mostra con Ritratti (fotografia analogica e collage, 2008) attua una ricerca sulla dualità dell’io, sulla percezione del reale e dell’artificio da parte di un soggetto della società di massa; Stefania Beretta, che nella fotografia in b/n ai sali d’argento intitolata Solitude, 2005, presenta, nell’intima penombra di una stanza privata, un corpo steso sul parquet, diviso e geometricamente riquadrato da gelatine rosse e blu, riconducendo a luoghi di memoria, a tempi congelati nel ricordo, a un universo di emozioni, archetipi, simboli che riattivano particolarmente la sensibilità inconscia di chi guarda; Daniela Carati presenta la stampa lambda In un modo o in un altro, 2009, una scena metropolitana in cui l’artista coglie, con un linguaggio immediato, un taglio netto dell’inquadratura, un primo piano, ragazze di passaggio, in gruppo o isolate, riflettendo il suo modo di fare esperienza della realtà attraverso lo sguardo; Sandra Chiesa, artista sensibile a livello ideativo e nella scelta di colori e materiali spesso presi dal mondo vegetale e floreale, è presente con Sarò bella, 2008, un trittico a tecnica mista il cui spirito poetico si colora di un’inventiva surreale, non priva di ironia; Tracey Emin, che come Autoritratto presenta il suo busto in reggiseno di pizzo nero, è l’icona della Bad Girl della giovane arte inglese, dedita a ogni vizio ed eccesso, una volta si sarebbe detto sesso-droga-rock & roll, conditi da un linguaggio irriverente e sboccato, venuta sulla scena quando il collezionista Charles Saatchi le ha comprato un certo letto molto vissuto per 150 mila sterline, come pure lo spregiudicato lavoro, Everyone I Have Ever Slept With, la tenda dove aveva cucito i nomi di tutti coloro con cui aveva dormito; Limbania Fieschi con Self Portrait with a lipstick, 2010, delinea un’immagine della donna come proiezione del desiderio del maschio, aggiungendo una significativa icona tridimensionale al suo universo di sexy bambole gonfiabili: autoritratto ironico vestito e calzato di rosso, con tanto di boa sulle spalle, occhiali da sole sulla parrucca bionda, occhioni blu sgranati, posa da adescatrice; Nan Goldin, i cui Diari in pubblico danno immagine alla vita segreta e trasgressiva di una condizione del malessere in una metropoli odierna; Carla Iacono fotografa di segno concettuale, particolarmente sensibile nel cogliere le terre di mezzo tra realtà e sogno, seduzione e magia, presenta la stampa Passionate toast n.2, 2009, tratta dalla serie Toys Lust, in cui lavora alla seduzione magnetica dello sguardo del soggetto femminile di un’adolescente; Noris Lazzarini, in mostra con Non aver paura – Omaggio a Mae West , è attiva a livello europeo, extraeuropeo e nel Sud del monto, avvalendosi di un laboratorio fotografico mobile; dal 1993 ha scelto di lavorare alla ricerca, in era digitale, sull’area della fotografia stenopeica; Malena Mazza, già aiuto regista di Antonioni e dei Fratelli Taviani, presentando una stampa su tela, tratta dalla serie La donna cane, 2009, riflette, nelle sue seducenti donne-oggetto, nell’accuratezza degli ambienti e dei dettagli, la condizione di solitudine del mondo glaciale della moda e del design, dove tutto è asservito al dominio dell’immagine; L’artista iraniana, residente a New York, Shirin Neshat è presente con Mahdokht, una magica e impressionante stampa dal video Women without Men, percorso da accenti altamente poetici, in cui una donna sola, ossessionata da un lavoro a maglia, seduta in un bosco di anime morte, lacerata dalle paure archetipiche di perdere la verginità o di non procreare, ripara nella follia di divenire albero per mantenere la purezza, dando frutti. La storia, tratta dall’omonimo romanzo che costò alla scrittrice Shahrnush Parsipur la prigione e l’esilio, è ambientata nella Teheran degli anni Cinquanta, dove cinque donne, sognando l’evasione dai loro disagi fisici e psichici, si incontrano nel fatale giardino dei sogni infranti, dove, andando incontro alla morte, risolveranno il loro conflitto; Alessandra Pedonesi espone il trittico fotografico SetTrans, 2008, in cui convivono il soggetto maschile di spalle, come ombra e fantasma, e l’esuberante e vistosa icona del travestimento femminile; Elettra Ranno propone con il suo dittico fotografico Senza Titolo, 2007, le sue fluttuanti e immateriali presenze di corpi femminili danzanti nello spazio, accarezzati da riflessi e ridisegnati da filamenti di luce; Bettina Rheims, presente in mostra con la foto Maison close, è una versatile artista francese che si esprime nella fotografia di moda, in copertine di dischi, locandine di film, campagne pubblicitarie, reportage, videoclip, ritratti di noti personaggi, perfino di Jacques Chirac, ma anche di animali imbalsamati; che scandalizza con il libro Female Trouble, con i suoi ritratti di adolescenti androgini, con una retrospettiva sulla vita di Gesù, riportata ai giorni nostri, che riscuote successo con la serie Chambre Close, realizzata tra il 1990 e il 1992 in collaborazione con Serge Bramly, che incrina gli stereotipi della bellezza femminile, facendo delle dive vulnerabili eroine di un vissuto quotidiano. Kiki Smith, che riflette, nei suoi sensibili disegni a inchiostro e matita e nelle sue sculture, l’immaginario maschile riferito al corpo femminile come oggetto erotico e che, dopo l’esperienza nel movimento femminista, affonda la sua ricerca nel mito, nella favola, nel sacro; Alessandra Vinotto collaboratrice come Art director del regista Francesco Rotunno, fotografa di teatro, videoartista, figura in mostra con la stampa su plexiglass fotosensibile Let’s party, 2008: un’ intensa un’indagine sul corpo femminile ripreso nel quotidiano, senza compiacimento, senza filtri, attraverso una sensibile declinazione di luce e ombra. Generazione artiste emergenti Silvia Camporesi nei suoi set lavora a una geografia delle sensazioni, a una mappa della sensorialità, al cui centro entra in scena la donna come apparizione, sul bordo della sparizione, sempre seducente e sedotta dalla sua stessa fragilità, leggibile come metafora di un sogno presente e inafferrabile, dove i soggetti abitano una condizione ipnagogica; in Untitled, 2008, le labbra di una giovane donna sono sigillate da una grande Sfinge testa di morto, elemento simbolico inquietante presente nella letteratura e nel cinema; Alessia De Montis, in mostra con Sirene/Onde, 2000/2004, attiva sull’area della fotografia, della videoinstallazione, delle campagne pubblicitarie per note firme della musica e del cinema, è particolarmente interessata a un’indagine sul versante simbolico e psichico del femminile; Ivana Falconi (installazione Sweet Victim, 2009)artista svizzera dotata di grande ironia e spirito critico, trae le sue suggestioni dal mondo di oggetti e informazioni che la circondano con frequenti incursioni nella favola, nella storia dell’arte, nell’adolescenza; innovativi, nella sua concezione dell’opera, non sono i mezzi, ma le idee e il modo di utilizzarle; Francesca Galliani, in mostra con Je suis superb! (stampa virata a mano al selenio e color seppia, 2003) lavora a un linguaggio fotografico espressionista, in cui la donna viene declinata in tutte le sue realtà ed ambiguità, espresse e inespresse, riuscendo a costruire un’aura ai suoi personaggi attraverso la decostruzione di uno stereotipo e realizzando, con segni gestuali, scritture, colature casuali, un lavoro unico e irriproducibile; Zoè Gruni partecipa con Copricorpo, (stampa lambda su alluminio, 2007) immagine con chiari riferimenti al mondo contadino, dove, su un contenitore grezzo di canapa si apre, con un tocco di rosso, l’organo sessuale femminile di un corpo che, mosso da stimoli sensoriali, da un respiro all’unisono con la natura, sta cercando nel suo ammasso ancora indistinto, non senza sofferenza, la sua forma; Dorothy Hong (in mostra con Sway Girls, 2007), collabora alla rivista “The Fader”, diretta da Phil Bicker, per cui costruisce racconti sulla vita degli adolescenti di Brooklyn, sulle abitudini di alcuni hipsters di New York, habitués dello stesso club di Manhattan, con uno stile tra il ritratto e il reportage; nel 2009 viene invitata a Genova dalla galleria Vision Quest Contemporary Photography per la sua prima personale, intitolata Introductions, in cui si può apprezzare la sua ricerca sulla luce-ambiente, sul piano americano, sulla postura e sguardo dei soggetti fotografati; Mirta Kokalj, artista che presenta il suo corpo come icona della donna ingenua o perversa, pura o violata, bambola o seduttrice, figura in mostra con Santa Flora (stampa lambda, 2009) dove, nuda e circondata da corone di fiori che la vogliono santa, esprime un’idea sessuale di maternità con i tiralatte al seno; Paola Mongelli in Senza titolo, 2009, coppia di soggetti incongrui, abbassando e sfumando la luce sui personaggi ne esaspera l’intimità, la complicità, rivelando il suo particolare interesse, nel bianco e nero, al topos della penombra, all’ambiguità o alla sacralità della scena.