Quando cadono le torri

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Quando cadono le torri
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«Quando cadono le torri»
Invocazioni di Domenico Farias sul mondo incendiato
dell’11 settembre
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MI VERGOGNO
DEL VANGELO
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li amici
di Reggio Calabria – tra i quali è la carissima Maria
Mariotti – mi hanno chiamato a presentare un volume nel quale hanno
appena raccolto 125 articoli di Domenico Farias (1927-2002) pubblicati sull’Avvenire di Calabria nell’arco di 55 anni. Sono stato in contatto con questo prete coltissimo e
creativo a partire dal 1969 e in morte avevo qui rievocato le ultime telefonate nelle quali negava appassionatamente che dopo papa Wojtyla si sarebbe tornati a un papa italiano che «riprendesse in mano l’ordinaria amministrazione» come allora
si diceva. Dolorante per il tumore
che lo stava portando via mi sollecitava a guardare alla tumultuosa scena del pianeta per intendere il domani della Chiesa che non sarebbe
stato «certamente» dominato dalla
gestione degli affari correnti. «Ha
mostrato quanto mondo si potesse
vedere da Reggio Calabria» fu il titolo del mio ricordo di lui (Regnoatt. 16,2002,575).
La lettura del volume Mietendo e
seminando. Articoli per l’Avvenire di
Calabria 1947-2002 (Laruffa Editore, Reggio Calabria 2010, pp. 348) è
stata per me una fonte di scoperte
perché non conoscevo quasi nulla
di quella collaborazione al settimanale diocesano che si era fatta più
intensa nell’ultimo periodo. Ho ammirato la meditazione biblica sul
«mondo incendiato» che egli svolge
a partire dall’11 settembre 2001,
lungo gli ultimi dieci mesi di vita e
che ha i suoi fuochi nella considerazione del pianeta unificato dai media – «non è possibile separare ciò
che il video unisce» – e nella conseguente percezione di un «coinvolgimento» e di una «corresponsabilità» umanamente «insopportabili».
POSSO SOLO GUARDARE
IL TELEVISORE
Mi applico qui a ricostruire questa meditazione, che si risolve infine
in una serie di invocazioni bibliche,
ma che si svolge anche attraverso
una nuova comprensione del ruolo
dei media nel «grande teatro del
mondo» che essi vanno unificando
e nel quale alimentano una «partecipazione globale di straordinaria
intensità emotiva dove tutto si mescola». Nessuno, a mia notizia, ha
sofferto altrettanto il riverbero dei
fuochi dell’11 settembre come
«grande simbolo del mondo di oggi» e «faro traditore».
L’avvio della meditazione è diaristico ma subito coinvolgente: «Un
amico mi telefona dicendomi di accendere il televisore. Così vedo una
delle due Torri gemelle che si spezza e cade giù (…). La televisione
ora passa da New York a Gerusalemme. Il cronista parla di dolci distribuiti per le strade e di esultanza nella striscia di Gaza. Sarà vero, sarà falso? (…) Mentre sono sotto il peso di
una montagna di ricordi che quasi
mi cade addosso, il televisore è ancora acceso e una voce ripete sempre lo stesso aggettivo: scena apoca-
littica, attacco apocalittico, momento apocalittico... Mi vengono in
mente le parole del Vangelo (Lc
21,28): «Quando cominceranno ad
accadere queste cose, alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina» (15.9.2001).
Fin da questa prima stazione si
avverte la percezione di un ruolo
maggiorato della televisione, quasi
una sua funzione da «lembo del
mantello di Cristo» secondo l’intuizione del card. Martini: «Sono a tanti, tantissimi chilometri, troppi per
poter intervenire. Posso solo guardare il televisore e assistere muto e
impotente, posso solo venire a sapere. Ma il Signore mi viene in aiuto,
come se mi svegliasse nel sonno. Come Pietro nell’orto degli ulivi. E
chissà quanti altri miei fratelli avrà
svegliato questo pomeriggio dell’undici settembre» (ivi).
L’ODIO DI CAINO
E LA DISPERAZIONE DI GIUDA
Dopo la prima impressione a caldo ne arriva una più pacata, ma non
placata, intitolata – e i titoli sono
suoi – L’11 settembre e l’infinito: «In
eventi come quelli dell’11 settembre gli orizzonti della storia collettiva, ormai estesi quanto quelli del
pianeta, diventano e si mostrano infiniti quasi quanto quelli dell’anima». Da lettore della Bibbia egli vede nel crollo delle torri «una violenza perpetrata contro l’umanità con i
caratteri dell’omicidio e del suicidio, l’odio di Caino e la disperazione di Giuda». Qualcosa dunque di
«infinito» e di «enorme» nel segno
del «rifiuto» che fu di Caino e di
Giuda. Qualcosa che ci ha fatto
«toccare con mano» lo «spessore
negativo della storia», perché «ciò
che abbiamo vissuto l’11 settembre
è stato veramente smisurato, è stato
troppo». Quel giorno ci ha raggiun-
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ti «un disvelamento a tutto campo:
un segno dei tempi eloquente per
tutti» (29.9.2001).
La lettura apocalittica dell’11
settembre si approfondisce, a oltre
un mese dall’evento, con un richiamo a Isaia 30,25-26 («Nel giorno
della grande strage, quando cadranno le torri. La luce della luna
sarà come la luce del sole e la luce
del sole sarà sette volte di più»), in
un pezzo intitolato Quando cadono
le torri: «Ciò che è successo quel
giorno è stato ed è troppo grande.
Non voglio dire che il male del
mondo e il peccato del mondo quel
giorno è cresciuto al di là di quanto
sia concepibile. Questi giudizi spettano al Signore. Ma voglio dire che
quel giorno ogni uomo e in particolare ogni credente (e tutti spero
che in qualche minimo grado lo
siamo) ha avuto la rivelazione inequivocabile, quasi accecante, della
propria vita come esperienza di
coinvolgimento e di corresponsabilità umanamente insopportabili».
Ne viene una «prova di fede» per il
cui superamento ci è chiesto di
«non cessare di guardare in alto,
mentre le torri crollano in terra,
verso il cielo e sopra i cieli da dove
viene il Signore» (27.10.2001).
L’IMMAGINAZIONE SURRISCALDATA
DELL’UMANITÀ DOLORANTE
Seguono domande aperte e invocazioni della misericordia del Signore in più articoli che descrivono
«l’indignazione e la rabbia che crescono tanto a Est quanto a Ovest» e
la crescente difficoltà a «tenersi
fuori da questo mondo incendiato»
(10.11.2001). La necessità di «fare i
conti con l’intelligenza e l’immaginazione surriscaldata dell’umanità
dolorante che appena sopravvive e
assiste dagli ultimi posti a questo
spettacolo del grande teatro del
mondo» divenuto «oggi accessibile
anche all’ultimo degli uomini che
abita in una catapecchia priva di
tutto ma provvista di televisore.
Non è possibile separare ciò che il
video unisce, fonde e confonde. Bisognerebbe prima distruggere tutti
i televisori. Il grande teatro del
mondo è aperto giorno e notte per
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tutte le case e alimenta una grande
passione del mondo, una partecipazione globale di straordinaria intensità emotiva dove tutto si mescola» (17.11.2001).
Il ruolo rimescolante della televisione è così descritto in un altro
testo: «Mentre sei a tavola con la
tua famiglia e, come spesso avviene
in molte case, guardi la televisione,
improvvisamente bussano alla porta del tuo cuore senza essere invitati malati di AIDS dell’Africa, campi
profughi del Pakistan, autoambulanze a sirene lancinanti di
Manhattan.
Poveri lontani anzi lontanissimi
si fanno momentaneamente vicini
e con loro i ricchi corrispettivi, anch’essi di tipi molto diversi, ricchi
di soldi, ricchi di potere, ricchi di
intelligenza, ricchi di bellezza, che
abitano a New York o a Hollywood,
in Arabia Saudita o ricevono il premio Nobel in Svezia. Tutto questo ti
appare in un solo rapido telegiornale mentre sei seduto a tavola con
i tuoi. Altro che giro del mondo in
ottanta giorni. Qui avviene il giro
del mondo in otto minuti!». Egli
qualifica il telegiornale come
«esperienza del buio a mezzogiorno» e afferma che essa si propone
al credente come «una prova di fede» e a tutti come un «vero travaglio del parto» che può preludere a
immani distruzioni ma anche alla
nascita di «un mondo nuovo»
(24.11.2001).
Sul rimescolamento dell’immaginario mondiale a opera dei media e sulla conseguente relativizzazione della cristianità, Farias veniva
meditando da tempo. Già aveva
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scritto il 22 ottobre 1994: «La stessa
televisione, gli stessi giornali che riportano sfilate di moda o stadi stracolmi di tifosi la domenica, riportano anche moschee e piazze piene
di gente prostrata in adorazione,
donne velate e frotte di bambini
ora vispi ora denutriti o macilenti.
Molti si chiedono: di chi sarà il
mondo di domani? C’è un futuro
per l’Occidente? E quale? Ma il cristiano si domanda, e domanda al
Signore: perché la nostra fede si è
fatta così piccola?».
PUÒ DARSI CHE VERRANNO
GIORNI BRUTTI
Nell’ultimo degli articoli scritti
per il settimanale, Farias arriva a vedere accomunati noi e i poveri del
pianeta in una deprivazione della
speranza che può ricevere redenzione solo da Dio: «Extracomunitari
senza futuro perché senza pane e
disperati di poterlo avere, fino a
soccombere nel terrorismo dei kamikaze, dando morte e dandosi la
morte in una insensatezza nichilista
totale, e comunitari senza futuro
perché non sanno se e come prolungare negli anni avvenire uno
standard di vita quale non si era
avuto mai nella storia dell’umanità»
(29.6.2002). «Può darsi che verranno giorni brutti. Per gli americani
sono già venuti e anche per gli afghani, talebani e non. E per noi?»:
così si era interrogato il 3 novembre
2001. Poco dopo aveva invitato i lettori ad «accettare la storia» e a «non
temere le sue peripezie, rimanendo
come Gesù ben fermi nell’intimità
dell’amore del Padre» (8.12.2001).
Ho trovato straordinaria l’intensità dell’interrogazione e dell’invocazione svolte da questo raro uomo
e prete che ho avuto la fortuna di
conoscere. Suggerisco a qualche
giovane di Reggio Calabria che sia
in cerca di un argomento per una
tesi in Scienze della comunicazione
questo tema: «Non è possibile separare ciò che il video unisce, fonde e
confonde»: televisione e globalizzazione negli scritti giornalistici di Domenico Farias.
Luigi Accattoli
www.luigiaccattoli.it