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Interrogato sui sei anni trascorsi alla scrittura del suo romanzo “In Cold Blood”, Trunan Capote così disse:
“L’expérience a servi à rehausser le sentiment que j’ai du tragique de la vie”.
Truman CAPOTE.
“ La mia opinione è che perché il genere di romanzo-verità abbia interamente successo l’autore dovrebbe
non apparire nell’opera (...) io penso che l’unica cosa più difficile nel mio libro dal punto di vista tecnico sia
stato scriverlo senza mai apparire e tuttavia, allo stesso tempo, creare l’assoluta credibilità”.
Truman CAPOTE in George PLIMPTON, The Story Behind a Nonfiction Novel, “The New
York Times”, 16 gennaio 1966.
In Cold Blood di Truman CAPOTE, da un caso
di sordida cronaca nera al romanzo sociologico.
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In Cold Blood. Quadro sinottico.
Nella notte tra il 14 e il 15 novembre 1959 nello Stato del Kansas,
a Holcomb, una tranquilla zona periferica della cittadina di Garden
City, “un confuso agglomerato di costruzioni diviso al centro dai
binari della Ferrovia Santa Fe, un borgo qualsiasi delimitato a sud
da un tratto del fiume Arkansas, a nord da un’autostrada, la Route
50, a est e a ovest da praterie e campi di grano”1, quattro membri
della famiglia Clutter sono uccisi a sangue freddo e il movente
resta a lungo sconosciuto. I due assassini rapinatori dichiararono di
essersi introdotti nella dimora dei Clutter certi di trovare una cassaforte contenente migliaia di
dollari ma era a tutti noto che Herbert W. Clutter, benché socialmente benestante, non aveva
l’abitudine di custodire dentro casa somme di denaro consistenti e difatti i due giovani assassini,
Perry Smith e Dick Hickock, ricercati come principali sospettati e arrestati il 30 dicembre a Las
Vegas dalla polizia locale assistita da agenti dell’ufficio investigativo del Kansas (K.B.I. Kansas
Bureau of Investigation), subito dopo l’arresto, interrogati confermarono che il bottino della rapina
consisteva in un’esigua somma di denaro tra i quaranta e i cinquanta dollari, in una radiolina a
transistor Zenith grigia e in un binocolo trovato sul tavolo di lavoro dell’Ufficio di Herbert W.
Clutter. Questi ultimi due oggetti di cui i due assassini si erano disfatti in Messico furono poi
rintracciati in un banco di pegno dall’agente del K.B.I. Harold Nye, mentre gli altri arnesi che erano
serviti durante la rapina, e cioè una pila elettrica, un rotolo di corda bianca di nailon “robusta come
filo di ferro e non molto spessa”(T. Capote, A sangue freddo, p.51) di circa 90 metri, e quel che
restava del nastro adesivo impiegato per legare e ridurre al silenzio le vittime, furono rinvenuti e
recuperati con l’aiuto di Virgil Pietz, impiegato alle autostrade della contea, non molto lontano
dall’autostrada in direzione est, sepolti in una fossa poco profonda con all’interno anche le cartucce
vuote., Invece il fucile, usato nel massacro e di proprietà di Dick “un Savage calibro 12 modello
300; il calcio era adorno di uno stormo di fagiani in volo, delicatamente incisi”(Ibidem, p.197),
ripulito del sangue, fu ritrovato a casa dei genitori di Dick così come, “tranquillamente appoggiato
al muro di cucina” (Ibid., p.295) e il coltello da caccia di Dick nascosto in una scatola di attrezzi per
la pesca fu rinvenuto dall’agente investigatore Harold Nye e dagli altri agenti del KBI che avevano
fatto visita ai genitori Hickock per sapere come e dove il loro figlio aveva trascorso la giornata di
domenica 15 novembre. I guanti di pelle che i due balordi assassini avevano usato e la camicia
1
Truman Capote, A sangue freddo, Garzanti editore, Milano, decima ristampa: settembre 2004, p.13
1
macchiata di sangue di Dick erano stati bruciati in un’area abitualmente utilizzata per parcheggiare
e per farei picnic quando i due complici avevano deciso di dirigersi a est, verso Kansas City e
Olathe.
I due autori dell’orrendo crimine, rei confessi, furono condannati alla pena di morte. Di ricorso in
ricorso l’esecuzione della pena capitale avvenne il 14 aprile 1965, in una notte buia e piovosa, con
un cane lontano che non smetteva di abbaiare.
All’epoca del grave fatto di sangue Truman CAPOTE, pseudonimo di Truman
Streckfus Persons (New Orleans, 30 settembre 1924-Bel Air, 25 agosto 1984),
svolgeva la professione di giornalista-cronista al New Yorker, tempio della
letteratura americana. A vent’anni, nel 1944, Capote era stato assunto all’ufficio
grafico del giornale come fattorino con il compito di temperare le matite e di
correre “con la sua mantella” in giro a consegnare copie di libri, manoscritti e
bozze di articoli a più di trenta redattori impegnati a leggere ogni cosa che
scrivevano i giornalisti.
Lo scrittore Brendan Gill lo ricorda nel suo libro sul “New Yorker” “svolazzava su e giù per i corridoi
del giornale, quando, con grande stupore di coloro i quali frequentavano il giornale, si scoprì che Capote
era un vero scrittore, fece sentire a disagio molti” (Brendan GILL, in George PLIMPTON, Truman
Capote, Ed. Garzanti, Milano, 2004, p.44).
Nei ritagli di tempo Truman scriveva racconti che sottoponeva alla lettura di direttori e redattori che
lavoravano al giornale e che restavano affascinati dal suo talento e dalla sua professionalità. A sole
diciannove anni Truman non appariva un dilettante e non aveva bisogno di tutor. Intanto cominciò a
frequentare la casa di Leo LERMAN, redattore al giornale, che di domenica sera soleva
organizzare delle feste frequentate da ballerini, gente del mondo letterario e artistico in genere.
C’erano Marcel Duchamp, Maria Callas, William Faulkner, Rudy Nureyev ed altri che non
andavano per bere o per mangiare ma
per vedersi e per parlarsi e poi si
usciva a cena. New York all’epoca
era davvero un posto eccitante ed era
affascinato coloro che ricoprivano
funzioni di alta responsabilità
all’interno delle riviste più seguite
quali Harper’s Bazaar e cioè George
Davis, Leo Lerman e Mary Louise
Aswell, direttrice della redazione
narrativa anche se quando fece il suo
ingresso in quella cinica realtà a
passo di danza nutriva a tratti un
sentimento di paura.
La pubblicazione nel gennaio del
1948 del suo primo romanzo, Altre
voci e altre stanze, edito dall’editore
Random House, fece andare in estasi
il ventitreenne Truman. E nonostante alcune recensioni non del tutto entusiastiche, il giovane
scrittore si convinse che avrebbe continuato a scrivere. Sulla quarta di copertina, Truman,
mollemente abbandonato su un divano provenzale francese, sembrava un elfo sperduto. Harold
Halma scattò quella fotografia raffigurante Truman disteso “terribilmente giovane e vulnerabile” e
non pensò che potesse provocare tanto clamore, uno scandalo. Fu un colpo di genio. Truman
diventò così uno scrittore famoso e di successo. Quando uscì il libro c’era chi come Walcott Gibbs
andava su e giù per i corridoi del giornale dicendo: “Quel ragazzino sa scrivere! Quel ragazzino sa
scrivere!”. Gibbs era impressionato dal fatto che quella persona per la quale non aveva provato altro
che disprezzo, un fattorino-garzone addetto a temperare le matite dei redattori nei corridoi del
prestigioso New Yorker, in realtà fosse un genio.
Una reazione positiva venne da Diana Trilling, critico di narrativa che scrisse un articolo apparso il
31 gennaio 1948 sul giornale The Nation “ le capacità di Truman descrittive ed evocative, la sua
abilità nel piegare la lingua alle atmosfere poetiche, il suo orecchio per il dialetto e per i vari ritmi
del parlato sarebbero comunque straordinarie e che in un autore così giovane tale perizia
rappresenta una forma di genialità”.
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Nell’intervista che Truman fece al “The Paris Review” nel 1957 lo scrittore statunitense non
condivide, il parere di numerosi critici sulle influenze letterarie che Faulkner, Welty e McCullers
avrebbero esercitato sulle sue prime opere. Pur ritenendosi un grande ammiratore di tutti e tre, non
crede che abbiano molto in comune gli uni con gli altri, o con lui, a parte il fatto di essere nati tutti
nel Sud e ribadisce la sua passione per Flaubert, Jane Austen, Henry James, Maupassant, Rilke,
Proust, Shaw e James Agee.
Per anni Truman aveva avuto un’attrazione per il palcoscenico e avrebbe voluto essere un ballerino
di tip-tap. Poi gli venne anche il desiderio di suonare la chitarra e cantare nei locali s’interessava
anche alla pittura ma alla fine si convinse di non avere il talento per queste forme artistiche. La
prima persona che l’aveva davvero aiutato fu, stranamente, un’insegnante, una professoressa di
inglese, Catherine Wood, che sostenne le sue ambizioni in tutti i modi e alla quale sarà sempre
grato. Ma sulla sua carriera Capote aveva le idee chiare da quando aveva otto anni pensava che il
suo futuro era nella scrittura. Marie Rudisill, sua zia, aveva intuito che il nipote avrebbe fatto lo
scrittore. Truman stesso nell’intervista di Gloria Steinem, “McCall’s”, novembre 1967, confessò
che “scrivere è sempre stata la mia ossessione, era semplicemente una cosa che dovevo fare, e non capisco
neanche io esattamente perché dovesse essere così. Era come se fossi un’ostrica e qualcuno mi avesse
infilato a forza un granello di sabbia nella conchiglia; un granello di sabbia di cui non ero al corrente..”.
Anche il cugino Jennings Faulk Carter confermò che Truman voleva scrivere. “Aveva un quaderno
tascabile in cui annotava delle piccole scene. Vedeva passeggiando nei boschi una scena particolarmente
bella di un albero che allungava i rami sopra un ruscello e lui si fermava proprio per scrivere la
descrizione. In un vecchio baule che teneva sotto il letto della zia Sook ci metteva le sue carte, aveva una
piccola chiave e chiudeva il coperchio del baule dopo avercele messe dentro” (Jennings Faulk Carter, in
George Plimpton, Truman Capote, ibid., pp.21-22). Nel 1958 Truman pubblicò il delizioso
Colazione da Tiffany che lo consacrò scrittore di prima grandezza e che gli valse
l’incoraggiamento di Margarita Smith, redattrice della sezione narrativa di “Mademoiselle”, di
Mary Louise Aswell di Harper’s Bazaar e di Robert Linscott della Randon House.
Era quindi uno scrittore di successo e re dei salotti newyorchesi. Apprezzato confidente, allegro e
sagace, lo scrittore statunitense costruì molto della sua fortuna letteraria e
della sua leggenda sulla vanità e la mondanità. Non mancava mai nei salotti
e sugli yacht più esclusivi. Era molto ambizioso e, come sua mamma Lillie
Mae Fault, detta Nina, ci teneva a essere accettato in società. Voleva come
lei appartenere alla café society e perseguiva questo scopo con
determinazione. Dava molti ricevimenti e amava organizzare cocktail party
fin da tenera età come racconta suo cugino Jennings Faulk Carter: “mentre
era in seconda elementare, Truman apprese che avrebbe dovuto lasciare
Monroeville per andare su al Nord con la madre. Disse che voleva dare una festa
così grandiosa che tutti si sarebbero ricordati di lui. Decise di fare una festa di venerdì sera, cosa inaudita,
perché i bambini non partecipavano a feste serali. Truman riuscì a fare a modo suo. Ci si buttò a tutto
vapore. Inventò decine di giochi. Truman era una pentola in ebollizione..” (Jennings Faulk Carter, in
George Plimpton, ibid., p.25).
A New York dove si era trasferito con la mamma, Truman diventa ben presto il beniamino dei
ricconi. Uno di loro, il banchiere Kenneth Guinness, disse di lui a sua moglie Slim Keith:
“Teniamolo qua, possiamo metterlo sulla mensola del caminetto”. Era un ninnolo e Truman ne era
consapevole: “Sono un fenomeno da baraccone. Le persone non mi vogliono bene. Sono affascinate da me,
ma non mi vogliono bene”. L’anno in cui Truman Capote raggiunge il punto più alto di vanità e di
fama é il 1966 quando decise di dare il suo ballo in maschera in bianco e nero. Affitta la più bella
sala da ballo del Plaza di New York per la notte tra il 28 e il 29 novembre, il posto che per lui aveva
sufficiente classe ed eleganza. Il ballo fu uno dei suoi capolavori e passò tutta l’estate a progettarlo.
Quella fu la festa più bella della storia, la festa del secolo. Tutta New York ne parlava e c’era il
mondo intero e nessuno voleva essere lasciato fuori. Per la giornalista mondana Aileen Mehle “fu la
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festa più abbagliante in cui fosse mai stata, quasi tutti i costumi erano stupendi e la trovata delle maschere
fu brillante e molto divertente” (Aileen Mahle, in George Plimpton, ibid., p.245). Truman era
praticamente radioso, lusingato ed emozionato per la presenza delle donne dal collo di cigno
davvero incantevoli, Marella Agnelli, Babe Paley e Gloria Guinness, a vederle si rimaneva quasi
storditi dal loro fascino e dall’eccitazione. Per Aileen Mehle “c’era una meravigliosa, frenetica
allegria in quel party. Truman era il direttore del circo. Era davvero irrefrenabile. Saltellava e rimbalzava
da un tavolo all’altro dicendo: “Non è splendido? Non ci stiamo divertendo da pazzi? Adoro questa festa”
(Aileen Mehle, in G. Plimpton, ibid., p.255).
Per Joel Schumacher, regista cinematografico, il ballo faceva pensare alla Fiera
della Vanità di Thackeray, “persone ricche e inconsapevoli che si vestono eleganti e
danzano sull’orlo dell’abisso con gli scheletri. È stato come il barbecue dai Wilkes
all’inizio di Via col vento, tutta quella gente intenta a celebrare un rito sociale mentre
sotto il loro naso divampava la guerra civile. Ecco cosa rappresenta il ballo di Truman. A
quella festa non succedeva nulla tranne questo: gente che fingeva di baciarsi sulle guance
perché non voleva rovinarsi il trucco o doversi raddrizzare la maschera” (Joel
Schumacher in George Plimpton, ibid., p.259). Per lui ogni artista con una propria
dignità dovrebbe mantenere il rispetto di se stesso e quando si parlava di Truman Capote si parlava
di un grande scrittore americano e non di una persona col talento di divertire, trattato come un
pechinese, seduto sui cuscini ricamati perché tutti potessero dire ma che carino, ma che birichino! Il
ballo delle celebrità non poteva avere la precedenza rispetto alla sua arte. Il critico e saggista
Norman Podhoretz non solo rimase stupito ma esterrefatto per come il mondo reagì a quel ballo.
Era il primo party del genere a essere pubblicizzato con tanta enfasi e non ricordava nessuna festa,
prima o dopo, trattata a quel modo dal Times. Chiunque percepì che quella festa rappresentava un
punto di svolta nella storia culturale e sociale di New York o persino degli Stati Uniti nel senso che
la lista degli invitati incarnava la confluenza dell’ambiente alla moda, del mondo letterario e del
mondo politico. Per Jane Gunther “Truman, all’inizio, desiderava ardentemente far parte del mondo del
denaro e del potere. Il suo modo di accedervi fu accattivarsi le donne di quell’ambiente. Non credo che
volesse entrare in quel mondo per poterne scrivere. Credo fosse piuttosto un modo per colmare qualche
terribile mancanza che avvertiva dentro di sé” (Jane Gunther, in G.Plimpton, ibidem, p.276). Joe
Petrocik ricorda che “l’anno prima di morire, Truman iniziò a parlare di un altro ballo che voleva
organizzare. Era uno dei suoi piccoli sogni irrangiungibili, ma ne parlava frequentemente. Aveva intenzione
di tenerlo ad Assunciòn, in Paraguay. Era assolutamente convinto che tutti quelli che voleva invitare non ci
fossero mai stati, e che sarebbero venuti. Il ballo in maschera richiedeva dai convitati un abito da
aristocrazia paraguayana attorno al 1860 e le maschere fino a mezzanotte” (Joe Petrocik, in G. Plimpton,
Ibid., pp.261-2). La verità è che Truman amava il successo, il potere e il prestigio. Per John Barry
Ryan “Truman ha avuto un ruolo nel processo di trasformazione dell’alta società nello jet set e come lo jet
set si è trasformato in quella spaventosa accozzaglia che oggi ritroviamo sulle copertine di People. Era un
momento in cui la buona società tradizionale era intollerabilmente chiusa e noiosa. La maggior parte della
gente di teatro e di cinema era noiosa. Truman non era noioso. Era eloquente, brillante, buon osservatore,
spiritoso, incredibilmente socievole” (John Barry Ryan in G. Plimpton, ibidem, pp.277-8). Per lo
scrittore Dotson Rader “a New York e in misura minore, a Londra, Parigi e nelle altre capitali, il
prestigio si fonda in gran parte sulla promozione degli artisti. Una volta che hai tanto denaro devi comprare
il prestigio sociale. L’unico modo di farlo è comprare il gusto, spendere cinquanta, cento milioni di dollari
in arte. È volgare ma è quello che ti dà tono. Poi c’è la questione dei party. Alla tua festa non puoi avere
soltanto gente con i soldi; sono tutti noiosi. Devi avere Truman o Tennessee o un regista o qualcuno che
sappia parlare di qualcos’altro che non sia il problema della servitù e il prezzo degli immobili. In questo
modo vengono coltivati gli artisti. E poiché l’arte americana è largamente il prodotto di omosessuali ed
ebrei, a prescindere da quanto tu possa essere antisemita o antigay, lo devi nascondere almeno finché non
esci dalla stanza. Senza di loro sei socialmente morto. Gli artisti forniscono l’imprimatur, convalidano il tuo
gusto. Perciò anche se Truman era ostentatamente un gay, era un artista che in termini di conferma sociale
aveva troppa influenza. In effetti, dopo il ballo in bianco e nero, in questo paese divenne un arbitro della
società” (Dotson Rader in G. Plimpton, Ibid., pp.279-80). Norman Podhoretz scrisse nella sua
autobiografia Making it di aver conosciuto persone che con suo grande stupore erano infatuate dei
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ricchi e dei nobili. “Quell’attrazione per l’alta società era alquanto comune fra gli omosessuali. Truman
evidentemente aveva intenzione di trarne qualcosa come scrittore, ma non credo che fosse un intento molto
profondo o serio. Era, per lui, come per gli altri, una forma di piccolo snobismo contagioso per chi, venendo
da piccole città o da origini di cui non era troppo fiero non riusciva proprio a liberarsi dall’idea che le
persone migliori fossero quelle ricche, alla moda, con un titolo” (Norman Podhoretz in G. Plimpton,
ibidem, p.281).
Ora se “la celebrità era per Truman essenziale” come diceva John Knowles e “averlo nella
propria cerchia era cosa ambita in società, un’onorificenza” secondo Kenneth Jay Lane, Truman
stesso sapeva un’altra cosa e cioè che certe persone uccidono con la spada e certe altre con le
parole. Secondo alcuni Capote frequentò il bel mondo per vendicarsi di come quel mondo aveva
trattato sua madre che ne era stata sempre attratta. E così per anni Capote raccolse appunti per il
romanzo proustiano che doveva mettere alla berlina la jet society, Preghiere esaudite, il libro che
metteva in piazza tutti i loro segreti, le cose che gli avevano confessato anche quelle più intime e
personali.
Quel libro non fu mai completato e la pubblicazione di alcuni brani sulla rivista Esquire bastarono
a isolarlo e a bandirlo. I personaggi, scrittori, artisti e i suoi cigni, così Capote chiamava le sue
amiche dai lunghi colli modiglianeschi, le preziose Babe Paley, Marella Agnelli, Gloria Vanderbilt
e Lee Radziwill, la sorella di Jacqueline Kennedy, si sentirono traditi, gli voltarono le spalle. Sono
gli anni in cui Truman precipita in un abisso di polemiche e di abbandoni. C’era chi come Marella
Agnelli, a qual punto aveva paura di Truman, temeva che potesse ancora ferirla. Truman era
distrutto, si sentiva solo, era entrato in una depressione colossale. Kate Harrington raccontò che
“Truman passò molte, molte settimane in una specie di letargo. Non voleva alzarsi dal suo letto, non apriva
mai le tende. Era così sconvolto che piangeva, entrava e usciva da quello stato in cui si trova una persona
dopo aver fatto una cosa tremenda, che le causa rimorso..Sprofondò nel bere e nella droga. Gli erano
rimaste alcune persone fedeli tra le quali Joanne Carson” (Kate Harrington in G. Plimpton, Ibidem,
p.334).
Truman Capote diventò un relitto umano. Ingrassato, paranoico, cocainomane, beveva martini sin
dalla mattina presto, rubava vodka dai frigoriferi dei pochi amici rimasti e bagnava il letto, era
trasandato e c’era chi lo vedeva in giro con una tremenda giacca del pigiama. Truman che era
sempre stato un amante del ben vestire era diventato scoordinato e trascurato. Per Peal Kazim Bell
“il declino di Truman ebbe inizio perché, dopo aver finito il suo vero e unico capolavoro In Cold Blood,
sentiva di non poter più scrivere nulla di simile” (Peal Kazim Bell in G. Plimpton, Ibidem, p.376).
L’artista Don Bachardy pensò che fosse assolutamente impossibile la voce secondo la quale
Truman era diventato alcolizzato. “Era così disciplinato, così rigoroso di natura che non avrebbe mai
permesso a una dipendenza di soverchiarlo” (Don Bachardy in G. Plimpton, Ibidem, p.377). Robert
Fizdale nel vedere Truman restò di sasso, l’incontro con lo scrittore fu abbastanza traumatico.
“Aveva la lingua come quella di un vecchio che tendeva a penzolare fuori dalla bocca. Sembrava proprio
malmesso. Era curioso di tutto e raccontava storie maliziose, ma c’era in lui qualcosa di proustianamente
triste” (Robert Fizdale in G. Plimpton, Ibidem, p.380). Succedeva che di tanto in tanto Truman
svenisse all’improvviso e John Knowles capì che l’amico trovava difficoltà ad orientarsi. Ospite da
lui, “quella notte Truman cadde dal letto almeno quindici volte, il suo respiro diventò terribilmente sottile e
affannoso al punto da temere che morisse…Era tormentato. Soffriva di depressione e di allucinazioni.
Vedeva delle cose, ladri nell’appartamento che prendevano gioielli e tutti i contanti che aveva con sé…Era
fuori di testa e si provocava delle crisi epilettiche facendo uso di droghe e alcol. Perse i sensi diverse volte
nell’atrio del Plaza, per strada e lo trovarono disteso sulla via pubblica” (John Knowles in G. Plimpton,
Ibidem, pp.380-1). Col passare del tempo Truman perdeva quasi del tutto il controllo di sé,
insultava le persone e si faceva cacciare fuori dai bar. Creava scandalo ovunque e le poche persone
che gli stavano attorno cominciavano ad aver paura di lui. Kenneth Jay Lane notò che “era
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ingrassato e stava diventando un po’ sgradevole, sembrava non piacesse più neanche a se stesso. Aveva
esaurito i pettegolezzi” (Kenneth Jay Lane in G. Plimpton, Ibidem, p.382).
Per l’amico-nemico Norman Mailer “le compagnie che Truman frequentava contribuivano alla sua
distruzione. Forse la sua vita con quelle sue esperienze è stata un trionfo. All’inizio aveva un meraviglioso
senso di ironia riguardo a se stesso. Si rendeva conto di essere un piccolo Truman e gli piaceva. Era
contento di quello che era riuscito a combinare e di quello che sapeva fare. Ma come a tutte le cose accadde
che non era più in grado di controllarle ed è allora che ciò che gli mancava rafforzò le sue intime incertezze.
Dalla pubblicazione del suo racconto La côte Basque sulla rivista Esquire in poi, Truman non si riprese
mai dagli affronti che subì” (Norman Mailer in G. Plimpton, ibidem, p.383). Non avendo più niente
da dire, Truman Capote cercava un modo per smentire la frase di Scott Fitzgerald secondo la quale
non c’è una seconda possibilità nella vita di uno scrittore americano
Il 25 agosto 1984 Truman Capote muore a casa di Joanna Carson presso cui si era trasferito per
rimettersi in forma.
I suoi primi libri Altre voci e altre stanze e Colazione da Tiffany avevano dato a Truman Capote
notorietà e apprezzamenti dal mondo letterario americano e non solo ma il bestseller cui ambiva
tardava, il grande appuntamento con il suo capolavoro era stato fissato ad una data precisa: il 15
novembre 1959 quando in un posto remoto del Kansas un’intera famiglia di agricoltori, padre,
madre e due figli adolescenti, fu brutalmente sterminata senza apparente motivo.
Capote aveva sviluppato una teoria sulla “non-fiction novel” che possiamo chiamare anche il ”
romanzo documento”, e cioè che “si potesse forzare il giornalismo, il reportage, a produrre una nuova
forma d’arte: il romanzo documento”, supportato dal fatto che parecchi bravissimi giornalisti, Rebecca
West, per esempio, Joseph Mitchell e Lillian Ross, avevano dimostrato la possibilità del reportage
letterario” (Intervista di George Plimpton, “The New York Times Book Review”, 16 gennaio 1966).
In sostanza Truman cercava un soggetto che gli permettesse d’illustrare questa teoria, qualcosa che
scaturisse da un servizio giornalistico o da un’inchiesta radiotelevisiva con cui realizzare il suo
capolavoro. Un giorno apprende della terrificante notizia del massacro della famiglia Clutter
leggendo un breve articolo del New York Times del 16 novembre 1959. Truman vede l’occasione
per un servizio giornalistico approfondito e originale e pensa subito di scrivere sull’accaduto un
romanzo-verità, si rende subito conto che lo studio di un fatto simile poteva fornire l’ampio
orizzonte di cui aveva bisogno per scrivere il libro che valeva. “In più l’omicidio era un tema che
difficilmente si sarebbe sbiadito e avvizzito con il tempo” (Intervista di G. Plimpton, 16 gennaio 1966).
A Shawn, redattore capo del New Yorker non interessavano i numerosi crimini perpetrati nello stato
del Kansas. Gli interessava vedere l’effetto di un omicidio, la storia di come una cittadina del
Midwesr reagisce a una catastrofe senza precedente; così il massacro a scapito dell’intera famiglia
Clutter a Holcomb di cui avevano letto il resoconto sulle pagine del New York Times del 16
novembre 1959 apparve subito come l’occasione da prendere al volo per fare un’indagine com’era
nelle intenzioni del giornale. Ottenuta l’autorizzazione della direzione del giornale a scrivere un
articolo sulla strage di Holcomb, Truman Capote parte per il Kansas accompagnato dalla sua amica
e scrittrice Nelle Harper Lee con uno stato d’animo tra la curiosità e un forte senso di paura dal
momento che era noto che la situazione laggiù era molto tesa. La popolazione di quella pacifica e
operosa comunità aveva reagito incredula e smarrita, non poteva pensare che una tragedia così
incredibile e spaventosa si fosse abbattuta su Herbert W. CLUTTER, un ricco coltivatore di grano
che gestiva la sua proprietà con passione e amore, un vero gentiluomo, “non l’avevano mai visto
atteggiarsi a signorotto o approfittarsi di qualcosa o venir meno a una promessa “ ( T. Capote, A sangue
freddo, ibid., p.50) e sulla sua famiglia amata, rispettata da tutti e profondamente umana, aperta ai
problemi di quanti erano socialmente sfavoriti. Uno stupore che scivolava nello sgomento e che
faceva sentire ognuno dei duecentosettanta abitanti insicuro, nessuno riusciva a dormire e molti
avevano provveduto a cambiare le serrature ai portoni. Tutti avevano terribilmente paura ed era
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condivisa da molti l’ipotesi che gli assassini fossero due e che non appartenessero alla Contea
Finney.
Ma la paura che Truman provava trattandosi di un luogo sconosciuto, del tutto estraneo
geograficamente e umanamente, sotto la pressione di una strage irrisolta, lo fecero ritornare indietro
sulle sue decisioni, anzi tutto ciò rendeva la sfida ancora più interessante e intrigante.
Dopo qualche breve riflessione Truman Capote decide quindi di andare in Kansas per vedere
direttamente che cosa stava succedendo. Partì con Nelle Harper Lee, sua amica d’infanzia, “una
donna di talento, coraggiosa e con un calore che si comunica istantaneamente alla magiior parte delle
persone, per quanto siano sospettose o scostanti. Di recente aveva finito di scrivere il suo primo romanzo,
To Kill a mockingbird( nelle versione italiana Il buio oltre la siepe) e, sentendosi inoperosa, disse che
l’avrebbe accompagnato nel ruolo di assistente ricercatrice” (Intervista di G. Plimpton, ibidem, 16
gennaio 1966).
Dopo qualche iniziale difficoltà di sistemazione e d’integrazione nella cittadina di Holcomb i due
amici entrano in contatto con la popolazione del piccolo villaggio, simpatizzano con la gente e per
due o tre volte sono a cena dai Dewey, dove si parlò di tutto tranne che dell’indagine. L’incontro di
Capote al Palazzo di giustizia a Garden City con Alvin Dewey, lo sceriffo incaricato di fare luce
sugli
autori
dell’efferato,
agghiacciante e multiplo delitto, fu
negativo perché le notizie sulle
inclinazioni di Truman l’avevano
preceduto. Alvin Dewey ricorda che
in quell’occasione Truman “portava
un cappellino, un ampio cappotto di
stretta che strascicava sul pavimento e
montone e una lunga sciarpa piuttosto
poi una specie di mocassini” (Alvin
Dewey in G. Plimpton, Ibid.,
altri tre agenti del KBI andarono a
p.162). Anche Harold Nye e gli
conoscere Truman che “era arrivato
in paese per scrivere un libro. Si presentò in una specie di giacca da camera rosa, di seta con il pizzo, e
passeggiava con le mani sui fianchi mentre ci spiegava come avrebbe scritto quel libro. C’era anche Nelle
Harper Lee, una persona assolutamente fantastica, molto simpatica. Invece Truman non gli fece
un’impressione granché buona” (Harold Ney, G. Plimpton, Ibidem, p.163).
Da subito Truman CAPOTE si mette al lavoro cercando di condurre un’inchiesta minuziosa
quanto oggettiva sull’affaire Clutter in tutti i suoi possibili sviluppi. Nelle Harper Lee fu di grande
aiuto a Truman nei due mesi circa che restò accanto a lui. “Venne a parecchi colloqui; lei batteva a
macchina i suoi appunti ed io li tenevo per consultarli. Quando la gente del posto era molto diffidente, lei fu
estremamente utile stringendo amicizia con le mogli dei personaggi che volevo intervistare. Stabilì rapporti
amichevoli con le signore che andavano in chiesa” (Intervista di G. Plimpton, ibidem, p.190). Dopo
circa un mese il gelo dell’accoglienza si attenuò. La maggior parte delle persone si mostrò meno
stanca e meno spaventata. L’atteggiamento della popolazione di quella piccola comunità cambiò
anche in coincidenza del fatto che i due presunti assassini Dick Hickock e Perry Smith furono
arrestati. Fu allora che Capote fece la maggior parte delle prime interviste. In questo periodo Capote
per mesi fece ricerche comparative su omicidi e psicologia criminale. “E poi non sapevo nulla sui
delitti e criminali quando iniziai il libro” (Intervista di G. Plimpton, ibidem, p.191). In verità aveva
cominciato da piccolo ad allenarsi a trascrivere conversazioni senza l’uso del registratore. ” Lo
facevo chiedendo a un amico di leggermi dei passi di un libro che più tardi avrei trascritto per vedere
quanto riuscivo ad avvicinarmi all’originale. Mi veniva naturalmente facile, ma dopo questi esercizi per un
anno e mezzo, un paio di ore al giorno, ero in grado di arrivare al 95 per cento di precisione” (Intervista di
G. Plimpton, Ibidem, p.192). All’inizio la collaborazione con Alvin Dewey andò a rilento. Truman
iniziò a chiamarlo Foxy, perfido, perché Alvin non collaborava. Truman gli puntualizzò che era
venuto fin lì a fare un servizio sui Clutter e che non gli importava davvero se il caso era risolto o no.
Per Alvin la soluzione del caso era assolutamente importante e per conoscere meglio lo scrittore Al
Dewey iniziò a leggere i libri di Truman e così diventarono buoni amici Dobbiamo riconoscere che
Capote non ha mai lesinato i suoi sforzi. Per quattro anni s’impegnò alacremente e con continuità a
7
raccogliere parole, discorsi, testimonianze, a incontrare vicini e amici dei Clutter, ogni persona che
conosceva le vittime e che poteva contribuire a ben riassumere il contesto all’epoca dell’efferato
massacro. Ascoltò testimoni e inquirenti, lesse e studiò con attenzione i verbali, le relazioni della
polizia e la Deposizione, un corposo documento di settantotto pagine, dove erano riportate le
ammissioni di responsabilità che i due incriminati, ascoltati separatamente e a voce avevano fatto ad
Alvin Dewey e Clarence Duntz con le loro diverse ricostruzioni dei fatti che poi erano state
trascritte dallo stenografo del tribunale della Contea Finney. Dopo l’arresto dei presunti assassini,
Capote poté far loro visita in carcere interrogando anche le loro famiglie e stabilì con uno dei due,
Perry Smith, considerato la mente del fatto criminoso, una lunga e ambigua relazione troppo intima
che lo porterà a sentirsi in colpa per quello che si apprestava a fare: raccontare una tragica storia per
essere apprezzato e aspettare un’esecuzione per aumentarne il successo. L’incontro con Perry
l’aveva particolarmente colpito avendo visto in questo giovane delinquente quello che lui stesso
sarebbe potuto diventare senza la letteratura.
Ora, tutti quelli che lo conoscevano
pensavano che Capote, piccolo di statura,
omosessuale con la voce di falsetto e i suoi
modi pungenti e senza scrupoli avrebbe
desistito dal suo intento ma, invece,
noncurante delle sensazioni e delle
reazioni che poteva suscitare al suo arrivo
in Kansas tra i bianchi reazionari del sud
degli Stati Uniti il suo look particolare e
stravagante (indossava, infatti, una sciarpa
azzurrina da donna), decise di legare la sua
popolarità a quell’incredibile storia con la
scrittura del suo libro più famoso e affascinante In Cold Blood.
Lo scrittore condusse un intenso e prezioso lavoro investigativo. Ci vollero sei anni per finire quel
capolavoro. Alvin DEWEY, uno dei detective, dice che “ Truman vedeva se stesso in Perry Smith. La
loro infanzia era stata molto simile ed erano più o meno della stessa altezza e corporatura”. Perry Smith
era uno dei due assassini, l’altro era Dick Hickock. Capote diventò loro amico e in particolare di
Perry di cui diceva che era “ come se fossero stati allevati insieme nella stessa casa e che io ne ero uscito
dalla porta davanti, e lui, dalla porta di dietro”, e dopo queste esperienze secondo i suoi colleghi di
lavoro Truman non era più lo stesso. In Cold Blood è generalmente considerato il suo capolavoro
ma è anche il suo canto del cigno perché dopo la pubblicazione del suo libro, non scrisse più testi
altrettanto validi. Truman CAPOTE scivolerà nella depressione, nell’alcol e nella droga.
CAPOTE si proponeva di scrivere, seguendo l’esempio di G. Flaubert, un libro obiettivo e
impersonale, dove l’autore è ovunque e da nessuna parte, escludeva di apparire come personaggio o
persino come narratore. Per lo scrittore Emmanuel CARRERE, Capote ha potuto conseguire
quest’obiettivo solo al prezzo di uno sbalorditivo imbroglio. Gli omicidi, le vite degli assassini e
delle vittime fino a quando le loro strade s’incrociano, poi la fuga degli assassini fino al loro arresto,
tutto ciò poteva essere raccontato senza problemi, senza una sua implicazione personale, ma tra il
momento del loro arresto e quello della loro impiccagione, trascorsero cinque anni raccontati nel
libro e Capote sempre più trovava difficoltà a tenersi da parte, nascondersi. Nel corso delle sue
continue visite egli era diventato l’amico di Dick e soprattutto di Perry la cui vita gli era molto cara
perciò, era umanamente difficile per Truman Capote continuare a tenere la cronaca in modo
asettico, specialmente negli ultimi due anni quando i due giovani omicidi furono giudicati
responsabili dello sterminio della famiglia Cutter e condannati a morte. Per i diversi ricorsi
presentati l’esecuzione della sentenza era stata rinviata e Capote assicurava loro che avrebbe fatto
tutto il possibile per salvare le loro vite e cercato i migliori avvocati disponibili nella regione. In
verità, nonostante il vero affetto e attrazione che provava per Perry, Capote sapeva che la loro
condanna a morte era la migliore conclusione possibile per il suo libro, che In Cold Blood era il
suo capolavoro e nella speranza di porre fine alla sua attesa era giunto persino ad accendere ceri in
chiesa perché infine fossero impiccati (pare che quando fu certa la notizia dell’esecuzione lo
scrittore inscenò un balletto).
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Dick e Perry sono giustiziati e Capote che assiste all’impiccagione del solo
Dick, è stata l’ultima persona che hanno abbracciato prima di salire sul
patibolo. Il suo libro in cui è descritta questa scena fu pubblicato alcuni
mesi più tardi ed ebbe grandissimo successo. Truman CAPOTE aveva
ottenuto quello che voleva: scrivere un capolavoro, essere apprezzato come
uno dei più grandi scrittori della letteratura mondiale. Ed è ugualmente così
che Capote ha svelato la parte nascosta della sua personalità mondana: la manipolazione
machiavellica. Capote è un dandy, il classico intellettuale cinico, distaccato, edonista, raffinato e,
quel che più conta è un assoluto esibizionista. È il classico personaggio da party della New York
classista, da invitare sempre e comunque: dirà sicuramente qualcosa di interessante, irriverente e
provocatorio. Quasi fosse un soprammobile chic, un tocco di arredamento pop in mezzo ad un
mondo fondamentalmente depresso. E depresso, ovviamente, lo è anche lui in apparenza, forse
anche in realtà, un personaggio odioso e rinchiuso nella corazza della maschera da lui stesso cucita
per permettergli di stare al mondo. Più realisticamente, una persona incapace di stare al mondo in
modo normale, e un voyeur, un baudelairiano flaneur.
Lo scrittore americano divide la sua storia in quattro parti. Nella prima parte dal titolo “Gli ultimi a
vederli vivi”, Truman CAPOTE racconta gli ultimi giorni della famiglia Clutter soffermandosi in
modo particolare su Nancy, la figlia diciassettenne dei Clutter, “la beniamina del villaggio” (A
Sangue freddo, op. cit., p.17), “una ragazzina intelligente, che adorava gli animali, a cui piaceva leggere,
cucinare, cucire, ballare, andare a cavallo, una ragazza benvoluta da tutti, graziosa e virginale, che riteneva
divertente civettare ma era nondimeno innamorata veramente e sinceramente solo di Bobby” (Ibidem,
p.102). La comunità diceva di lei: “Di certo il suo tratto più spiccato: la capacità che sorreggeva tutte le
altre, le veniva dal padre: un acuto senso dell’organizzazione. Ogni momento era predisposto; sapeva
sempre, esattamente, cosa doveva fare a ogni ora, e per quanto sarebbe stata impegnata” (A sangue
freddo, op. cit. pp. 29-30). Quel tragico sabato tutta la famiglia era indaffarata e occupata in una
moltitudine di attività. L’autore descrive così la dimora dei Clutter “situata in fondo a un lungo viale
ombreggiato da due file di olmi cinesi, quella bellissima casa bianca, solida e spaziosa(quattordici stanze
distribuite su due piani), circondata da un ampio prato ben curato di erba Bermuda, era molto ammirata a
Holcomb: una casa che la gente additava ad esempio” (Ibidem, p. 19).
Parallelamente si seguono i movimenti dei due giovani assassini. I due teppistelli malviventi e
nullafacenti Perry Smith e Dick (Richard) Hickock sono appena usciti dalla prigione con l’obbligo
di non far ritorno nello Stato del Kansas e s’incontrano invece nelle strette vicinanze di Holcomb
per meglio definire gli ultimi dettagli dell’imminente colpo e organizzare dopo la rapina la loro fuga
verso il Messico.
Nella seconda parte l’interesse di Capote è tutto rivolto ai personaggi di Perry Smith e di Dick
Hickock le cui vite non furono che una successione d’insuccessi anche se i due erano convinti di
avere le capacità giuste per riuscire nonostante non avessero ricevuto dal loro “entourage” familiare
e dai loro genitori alcun appoggio e sostegno né materiale né psicologico.
Nel descrivere la vita errante di Perry e di Dick il racconto comincia a somigliare a un Polar.
Capote nella sua attenta e scrupolosa inchiesta interroga i due presunti assassini come le rispettive
famiglie alla ricerca del “perché” del crimine a loro attribuito e arriva a dare qualche ”risposta”
nella terza parte del libro. Dick vede l’ingiustizia dilagante in ogni cosa e dappertutto, si ritiene una
vittima sociale e del sogno americano, vuole la parte che gli spetta di diritto.
La personalità di Perry sembra più complessa. Nel suo caso si tratta di un profondo stato depressivo
e di delusione nei confronti di una realtà che sente come ingiusta e penalizzante perché non
riconosce il suo talento, le sue capacità e qualità e i suoi presunti meriti. Si ritiene la vera mente
dell’azione criminale commessa e non nega la sua responsabilità di due dei quattro omicidi su
istigazione però del suo complice. Se Perry agisce e poi si pente per il crimine commesso, Dick
vuole agire ma non vuole essere implicato. Contrariamente a Dick, Perry non si sente a suo agio e a
9
volte si trova nella situazione di spettatore di se stesso, quando, per esempio, mette sotto sopra la
stanza di Nancy e trova “una borsettina, quasi una borsetta da bambola e dentro c’era un dollaro
d’argento che gli sfuggì di mano e rotolò sul pavimento”2. S’inginocchiò per raccoglierlo sotto una sedia e in
quel momento Perry dice: ”Mi vedevo in un film balordo. Ciò mi disgustava. Ero semplicemente nauseato.
Dick parlava della cassaforte di un ricco ed ero lì a strisciare per terra per rubare un dollaro. Ed io
2
strisciavo per prenderlo” .
L’ultima e quarta parte del libro termina con la messa a morte per impiccagione dei due criminali
psicopatici in un granaio che chiamavano” l’angolo buio”. La loro vita quotidiana in prigione dove
fra l’altro incontrano Lowell Lee Andrew, un brillante giovane di corporatura robusta e imponente
che ha ucciso tutta la sua famiglia senza alcun apparente motivo, fa luce sulle motivazioni che
hanno spinto agli atti criminali. Quanto a Dick passa gran parte del suo tempo a sfogliare libri di
diritto cercando un mezzo di difesa e ragioni per rinviare il processo con una serie di ricorsi che si
riveleranno inefficaci.
Il racconto alterna spiegazioni sugli ingranaggi della giustizia americana nella delicata scelta dei
giurati popolari fino al processo vero e proprio raccontato con una certa suspense, e la vita
quotidiana dei prigionieri sostenuti in modo inatteso dalla loro famiglia o da amici persi di vista.
L’esecuzione capitale con le sue considerazioni sulla pena estrema, descritta in modo clinico, è un
capolavoro d’orrore realistico confermato dalle ultime parole e pentimenti dei condannati. Dick dice
che egli va ”verso un mondo migliore” poi, col suo affascinante sorriso, come per sottolineare la cosa,
stringe la mano ai quattro agenti del K.B.I. Roy Church, Clarence Duntz, Harold Nye e lo stesso Alvin
Dewey. Era come se salutasse gli intervenuti al suo stesso funerale” 3 mentre Perry si confonde in scuse.
Contrariamente all’esecuzione di Dick Hickock che considerava sicuramente meritata (la condanna
a morte dei due giovani criminali era vista come una sorta di freno alla criminalità violenta che in
quell’epoca storica si stava affermando e allargando in gran parte del territorio americano, Alvin
Dewey giudicava Dick “un piccolo truffatore(…). Un essere vuoto e senza un minimo valore”)4, quella
successiva di Perry Smith turbò molto l’investigatore Dewey che uscì dalla sala adibita
all’impiccagione alquanto scosso e umanamente commosso. L’esecuzione dei condannati aveva
provocato in lui una diversa reazione perché Perry “aveva qualcosa in sé, un’aura di un animale
scacciato, l’andatura di una creatura ferita”5. Alvin Dewey riusciva a guardarlo ”con una certa misura
di comprensione, perché la vita di Perry Smith non era stato un letto di rose, ma una misera, laida, solitaria
corsa verso un miraggio dopo l’altro” (Ibidem, p.283). Alvin Dewey non poté non ricordare il suo
primo incontro con Perry nella stanza degli interrogatori alla Sede Centrale della Polizia di Las
Vegas: “Quell’uomo-bambino, quasi un nanerottolo, seduto sulla sedia metallica, i piccoli piedi negli
stivaletti che non sfioravano neppure il pavimento. E ora, quando Dewey riaprì gli occhi, furono quegli
stessi piedi da bambino che pendevano, oscillanti” (Ibidem).
“Ma la comprensione di Dewey non era abbastanza profonda da accogliere perdono o clemenza. Sperava di
vedere Perry e il suo complice impiccati—impiccati schiena contro schiena” (Ibidem, p. 283).
2
Ibidem, p.276.
Ibidem, p. 386
4
Ibidem, p.388
3
10
“ Uno scrittore dovrebbe avere tutti i suoi colori, tutte le sue capacità a disposizione sulla medesima
tavolozza per poterli mescolare (e nei casi opportuni applicarli simultaneamente”).
Truman CAPOTE, Music for Chameleons, Penguin Classics, 2000, p. XVIII. (Musica per
camaleonti, traduzione di Mariapaola Dettore, Ed. Garzanti, Milano, 2004, p. 15.
In Cold Blood, vero romanzo sociologico: un approccio molto originale.
Truman CAPOTE con il suo In Cold Blood, testo ben documentato e nel contempo romanzo di
costume, Polar e meticoloso reportage letterario, inventa un nuovo genere letterario, il romanzo di
non-fiction. Servendosi di un’enorme mole di dettagli, di testimonianze e di osservazioni, lo
scrittore ricostruisce ciò che era successo. Vero romanzo sociologico, In Cold Blood ci fa
penetrare nel Kansas degli anni sessanta e nella vita quotidiana dell’operosa e
tranquilla famiglia Clutter, una famiglia di proprietari terrieri tra le più benestanti
della regione amata, semplice e generosa. Herbert Clutter, la mattina di sabato, mentre
era intento a fare il consueto giro nella sua proprietà posta “vicino all’argine del fiume
dove sorgeva un boschetto di alberi da frutta, peschi, peri, ciliegi e meli” (Ibidem, p.23), una
sorta di vero paradiso sulla terra aveva permesso a numerosi cacciatori di fagiani
venuti dall’Oklaoma di andare in tutta tranquillità sul suo terreno e di prendere tutta la
selvaggina che volevano senza pretendere i diritti di caccia.
Il capo-famiglia Clutter non aveva nemici, era assai stimato dai suoi amici e vicini che ne
apprezzavano l’equanimità, l’onestà e la sincera attenzione che mostrava verso le persone che non
avevano un lavoro, come quando assunse senza battere ciglio, nell’autunno del 1949, Floyd Wells,
allora diciannovenne senza un’occupazione, che gli si era proposto come bracciante alla Fattoria
River Valley. Per tutto un anno in cui restò alle sue dipendenze, Wells non ebbe mai nulla da ridire.
Il nuovo assunto era molto contento di com’era trattato da tutta la famiglia, in particolare modo dal
signor Clutter : “mi trattava benissimo. Come trattava tutti quelli che lavoravano per lui; per esempio se si
era un po’ a corto prima del giorno della paga, ti dava sempre un cinque o dieci dollari. Pagava dei buoni
salari e se te lo meritavi era pronto a darti una gratifica…Il signor Clutter e tutta la sua famiglia mi
piacevano molto e ricordo che a Natale mi aveva regalato un portamonete nero con dentro cinquanta
dollari” (A Sangue Freddo, op., cit., pp. 186, 189). Herbert Clutter era come si diceva un buon datore di
lavoro conosciuto tra l’altro perché pagava bene i braccianti apprendisti agricoli che assumeva per
aiutarlo nella tenuta della sua proprietà che era orgoglioso di gestire pur con tutta una serie di
difficoltà di natura ambientale e climatica. In quella zona si alternavano frequenti e improvvisi
rovesci temporaleschi a inverni freddi e nevosi e a lunghi periodi di siccità che producevano gravi
danni in particolare alle colture di grano e causavano la perdita di diverse centinaia di capi di
bestiame. Insomma stagioni magre si alternavano a periodi floridi.
La grande forza del libro di Capote con il suo enorme successo di pubblico e di
vendita ancora oggi indiscusso (In Cold Blood figura tra i cinquanta libri che
bisogna assolutamente aver letto) si spiega non solo e non tanto per l’estrema
fedeltà alla veridicità dei fatti riferiti ma anche e soprattutto per il modo con cui lo
scrittore americano li racconta senza mai prendere una posizione né giudicare, in una
narrazione quasi di stile giornalistico (e non sarebbe potuto essere altrimenti data la
professione di Capote che malgrado i suoi successi in ambito letterario si
considerava innanzitutto un cronista-giornalista). Truman CAPOTE cerca di
evitare così due scogli: quello della spiegazione psicologica dei comportamenti da un lato e quello
della discussione sulla pena di morte, dall’altro. Restando imparzialmente distante dal racconto,
l’autore vuole presentare i fatti lasciando al lettore la possibilità di elaborare le conclusioni,
d’estrapolare il “perché” dal “come” al fine di tentare di spiegare quanto di orrendo e drammatico
era accaduto nella Fattoria dei Clutter. La sua scrittura limitata ai fatti e quindi descrittiva, il suo
stile attento ai particolari, la sua meticolosità e precisione riguardo al contesto e ai fatti riproposti
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nella loro brutale integrità, senza mescolarvi né morale né metafisica, non lascia libero il lettore di
provare simpatia o antipatia verso i protagonisti di questo terribile fatto di cronaca che all’epoca
fece tanto scalpore in America e non solo. La malvagità e la sofferenza sono presentate senza
compiacimento, ma in modo lucido e distaccato “ Era mezzogiorno nel cuore del deserto di Mojave.
Seduto su di una valigia di vimini, Perry suonava un’armonica a bocca. Dick era in piedi sul ciglio di
un’autostrada buia, la Strada 66, gli occhi fissi sul vuoto assoluto come se l’intensità e il fervore del suo
sguardo potessero costringere gli automobilisti a fermarsi. Pochi lo esaudivano e nessuno si fermava per
accogliere i due autostoppisti(…)Aspettavano un viaggiatore solitario con una macchina decente e del
denaro nel portamonete: uno sconosciuto da derubare, strangolare e abbandonare nel deserto” (Ibidem,
pp.181-182).
Tutti i personaggi dei libri di Capote sono improntati a una profonda sensibilità ma anche a una
certa fragilità che non lascia indifferenti i lettori. I suoi personaggi, Dick e Perry inclusi, sono
individui che sono spesso feriti intimamente e che cercano di vivere la loro vita con il timore di
essere relegati ai margini della società.
In realtà Truman CAPOTE è interessato fortemente alla psicologia dei due
giovani omicidi e parla del loro passato tracciando un ritratto dei due compagni
di sventura nello stesso tempo terrificante e tenero . È attratto dal personaggio di
Perry e la sua particolare simpatia diventa “passione” man mano che ha la
possibilità di fargli visita e di ascoltare le sue risposte a una serie incessante di
domande sulla sua vita passata. Capote finisce per “reumanizzare” i due presunti
colpevoli che in verità sono dei “mostri”. I due giovani criminali hanno
caratteristiche inquietanti ma anche una vivacità di spirito e d’intelligenza che li
rende interessanti. Lo scrittore, grazie al suo modo di raccontare la storia, è riuscito a suscitare in
molti lettori emozioni contraddittorie che vanno al di là del buon senso.
La storia raccontata da Truman CAPOTE non è costruita su di un’inchiesta poliziesca il cui
intreccio e mistero della conclusione ci spingono ai confini del thrilling. Il comune lettore non gira
le pagine del libro nell’attesa di scoprire l’identità dei colpevoli, di poter infine capire ciò che è
accaduto. No. C’è certamente la volontà di ricostruire ciò che è esattamente successo nella dimora
dei Clutter quella tragica notte tra 14 e 15 novembre 1959, ma questa non è la cosa più importante,
giacché nello sfogliare le pagine del romanzo, molti lettori sperano che questa inchiesta resti
insoluta, in parte perché si sa che nulla di tutto ciò che sarà fatto potrà riparare la drammatica fine
delle quattro persone massacrate a bruciapelo e senza un chiaro movente, ma soprattutto perché è
difficile detestare i due personaggi delinquenti, i “cattivi” della storia. Perry e Dick, i due spavaldi e
indifferenti assassini sono da criticare per il loro modo di voltare le spalle alle loro malefatte senza
apparente pentimento, ma possiamo veramente odiarli? Essi certo ci turbano per molti aspetti e ci
riesce molto difficile accettare i loro comportamenti ambigui e le loro terribili decisioni, anche
perché in alcune situazioni sembrano persone quasi normali.
Dick ha un viso irregolare che pareva formato da parti in disaccordo, ” i
suoi lineamenti non perfettamente allineati erano la conseguenza di un
incidente d’auto, avvenuto nel 1950, lasciandogli il lato sinistro del viso
sensibilmente più basso del destro” (Ibidem, p.44) e le gambe di Perry sono
atrofizzate a causa di un vecchio incidente in motocicletta avvenuto nel
1952 che lo aveva reso claudicante con le gambe tozze e rigide al punto
che quando restava seduto in macchina o sulla sedia per più tempo aveva bisogno di ben
massaggiarle e strofinare le ginocchia per non sentire più male e per muoversi più agevolmente ed
era costretto a fare spesso uso di aspirine. Salvo le loro deformità fisiche, i due malviventi
potrebbero essere confusi nella folla della gente comune.
Truman CAPOTE ce li fa conoscere per certi versi come persone normali, con sogni, desideri,
talento e qualità, con famiglia e amici, che hanno vissuto esperienze dolorose ma anche momenti di
felicità (assai pochi, in verità), con ricordi, con azioni di cui vergognarsi e con segreti. Ciò che
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manca assolutamente loro sono i rimorsi, i pentimenti, e soprattutto non pensano in termini di bene
e di male. Queste valutazioni sono inserite nelle precise conclusioni dell’indagine legale sui due
autori del delitto, affidata prima al dottor V. Mitchell JONES, medico specializzato nel campo
della psichiatria e per due anni direttore del Padiglione Dillon, reparto riservato ai pazzi criminali
presso l’Ospedale di Stato di Larned e poi confermata dallo stimato dottor Joseph SATTEN,
esperto di psichiatria legale presso la clinica Menninger di Topeka (Kansas) e autore dell’acuto
articolo dal titolo “Delitto senza motivo apparente—Studio sulla disgregazione della personalità”,
apparso sull’American Journal of Psychiatry (Luglio 1960).
Il dottor SATTEN sostiene che per quanto riguarda Dick Hickock “egli ha scarsa stima di sé e
segretamente si sente inferiore agli altri e sessualmente inadeguato. Tali sensazioni appaiono compensate
da sogni di ricchezza e di potenza, con la tendenza a gloriarsi delle proprie gesta, scatenandosi in eccessi
quando dispone di denaro(…)È a disagio nei rapporti con gli altri e ha una capacità patologica di crearsi e
mantenere affetti personali. Riassumendo, quest’uomo presenta caratteristiche tipiche di quello che
psichiatricamente verrebbe definito un grave disordine della personalità (…)Si tratta, comunque, di un
individuo impulsivo, che tende ad agire senza pensare alle conseguenze per sé o per gli altri” (Ibid., p. 337).
Per quanto riguarda Perry Smith, il dottor SATTEN concorda col suo collega dott. Jones nel
riconoscere che “l’infanzia di Perry fu caratterizzata dalla brutalità e dalla mancanza di cure da parte di
entrambi i genitori e che è cresciuto senza un orientamento, senza affetto e senza mai assimilare un preciso
senso dei valori morali(…). Nella strutturazione della sua personalità spiccano -a suo parere - due
caratteristiche particolarmente patologiche. La prima è il suo atteggiamento paranoico verso il mondo
esterno. È sospettoso, diffida degli altri, tende a pensare che gli altri facciano delle discriminazioni a suo
svantaggio(…); la seconda è un’ira scarsamente controllata, accesa dalla minima impressione di essere
ingannato, disprezzato o ritenuto inferiore. Per lo più le sue collere, nel passato, si sono dirette contro i
simboli dell’autorità: il padre, il fratello, il sergente dell’esercito, il funzionario addetto ai rilasci sulla
parola, e in varie occasioni l’hanno spinto ad assumere un atteggiamento violento e aggressivo(…) Rivolta
contro se stesso quest’ira precipita nell’idea del suicidio. Ha scarsa capacità di organizzare il
ragionamento, non appare in grado di riassumere i suoi pensieri(…)inoltre alcuni dei suoi ragionamenti
riflettono un atteggiamento magico che trascura la realtà(…) Il suo distacco emotivo e la sua indifferenza in
certi campi sono un’altra prova della sua anormalità mentale” (Ibid., p.340).
Circa la domanda sulla capacità di intendere e di volere dei due al momento del reato, i tre medici
specialisti sono concordi nell’affermare senza il minimo dubbio che sia Dick Eugene Hickock sia
Perry Edward Smith erano consapevoli delle loro azioni al momento dell’esecuzione del delitto loro
ascritto. Quest’ultima e netta conclusione fu quella decisiva e pesò molto sullo svolgimento del
processo e sul verdetto di colpevolezza e condanna a morte dei due giovani criminali perché, di
fatto, toglieva ai due avvocati difensori, il signor Arthur Fleming e il signor Harrison Smith, la
possibilità di poter fare riferimento al regolamento M’Naghten, “quell’antica importazione britannica
secondo la quale se l’accusato conosce la natura della sua azione, e sa che è deplorevole, allora egli è
mentalmente capace e responsabile delle proprie azioni”(Ibid., p.307)
Dei due criminali, Perry è certamente quello che maggiormente stupisce e dunque il più pericoloso.
Nella prima parte del capolavoro di Truman CAPOTE leggiamo che”Dick si convinse che Perry era
uno di quegli esseri rari, un assassino nato, perfettamente sano, ma privo di coscienza, capace, con o senza
un motivo, di ammazzare con il massimo sangue freddo”( Ibid., p.71) ma ci presenta ugualmente i suoi
sogni, la parte sensibile e artistica del suo essere: “il giovanotto era un instancabile ideatore di viaggi,
ne aveva fatto un numero considerevole: in Alaska, alle Hawaii, in Giappone, a Hong-Kong. Adesso, grazie
ad una lettera, a un invito a prendere parte a un colpo, Egli(Perry) si trovava lì con tutto ciò che aveva con
sé: una valigia di cartone, una chitarra e due scatoloni di libri e di cartine geografiche, fogli di canzoni,
poemi e vecchie lettere che pesavano un quarto di tonnellata” (Ibid., p.25).
Ci si sente particolarmente colpiti da questo personaggio doppio e spaventoso per molti aspetti ma
che porta con sé nei suoi faticosi spostamenti tonnellate di ricordi. “ Maniaco di dizionari, amante dei
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vocaboli difficili, si era dedicato a migliorare la grammatica e ad ampliare il lessico del suo compagno fin
da quando erano stati chiusi nella stessa cella al Penitenziario di Stato del Kansas” (Ibidem, p.34); amava la
musica e il canto e sognava di trovarsi in un locale notturno di Las Vegas, tra l’altro sua città natale, davanti
a un vasto pubblico. Perry sapeva suonare parecchi strumenti ma non poteva mai staccarsi dalla sua vecchia
chitarra Gibson, “il suo bene più prezioso” (Ibidem, p.127), “la si lucida, ci si adatta la propria voce, la si
tratta come fosse una ragazza che ci interessi sul serio…bé, diventa una cosa sacra”(Ibidem, p.148).
Per quanto riguarda Dick egli non aveva sensibilità per la musica, per la poesia, ma “la sua
prosaicità, il suo dogmatismo su ogni argomento erano i motivi principali che attiravano Perry perché gli
facevano apparire Dick così diverso da lui, così intensamente solido, invulnerabile, assolutamente
mascolino” (Ibidem, p.28). Dick è prevedibile giacché è essenzialmente motivato dal denaro mentre
Perry è un sognatore che coltivava fin dall’infanzia il sogno di viaggiare, “ di scendere in profondità
attraverso acque sconosciute, di tuffarsi verso una verde oscurità marina, sgusciando oltre le squamose
sentinelle dagli occhi voraci di uno scafo che si profilava più avanti, un galeone spagnolo, un carico
affondato di brillanti e perle, di traboccanti casse d’oro” (Ibidem.). E anche se Perry è certamente il più
pericoloso dei due, il più astuto e inaffidabile è proprio Dick che si è legato d’amicizia con Perry
unicamente per calcolo: “Dick era giunto alla conclusione che valesse la pena legarsi d’amicizia con
Perry, aveva cominciato a stare dietro al suo amico, ad adularlo, a fingere di credere a tutte quelle storie di
tesori sepolti e di condividere la sua brama di spiagge e di porti cose che non attiravano per nulla Dick che
desiderava una vita tranquilla, con un’azienda sua, una casa, un cavallo su cui galoppare, un’auto nuova e
un mucchio di pollastrelle bionde” e soprattutto dal giorno in cui Perry gli parlò di un omicidio”
raccontando come semplicemente per il piacere di farlo, aveva ucciso un negro a Las Vegas con una catena
di bicicletta”( Ibid., p.71). Dick pensa al denaro e alle donne.
La crudezza e la bellicosità con cui Dick annunciava il suo parere su ogni cosa attraevano,
comunque Perry e lo affascinavano “quasi aveva fatto rinascere la sua fede in Dick, il duro,
assolutamente mascolino, dogmatico, deciso, a cui un tempo Perry aveva concesso di essere il capo”
(Ibidem, p. 147).
L’uno e l’altro erano stati precedentemente in prigione per un’infelice e fortuita concatenazione di
avvenimenti vittime nel contempo della loro eccentrica personalità e delle loro istintive e folli
scelte. Perry amava millantare di aver ucciso un uomo perché così pensava di essere rispettato dagli
altri reclusi, di salvare la pelle. Questa sua falsa attribuzione di un delitto aveva spinto Dick a
sceglierlo come complice per il colpo alla Fattoria dei Clutter che riteneva essere senza problemi di
sorta perché aveva ben costruito il piano.
In Cold Blood non è un romanzo giallo, è un racconto di fatti reali, di personaggi
che sono realmente esistiti e che sono morti come Capote ce li ha raccontati. È una
storia che suscita molti interrogativi ancora oggi a più di mezzo secolo di distanza,
una storia che coinvolge e sconvolge. È un romanzo sull’animo umano in tutta la sua
complessità, con gli orrori di cui esso è capace. É una saggia mescolanza
d’impressioni dello scrittore statunitense, di ritrasmissione fedele dei pensieri dei
due assassini con stile romanzato.
Truman CAPOTE analizza il fatto di cronaca nera, l’affaire Clutter, inserendolo all’interno di una
realtà fatta di paesaggi aridi, di estese pianure pianeggiate a grano, con un cielo azzurro intenso e un
clima fresco e puro tipicamente autunnale delle montagne che incombono sul villaggio di Holcomb
e di un’America profonda radicata nei suoi convincimenti e sicura dei suoi valori fondamentali.
Partendo da uno dei tanti fatti atroci e strazianti che trovano quotidianamente posto nelle pagine dei
giornali americani di provincia e nelle testate nazionali più importanti, Truman CAPOTE ha
saputo creare un vero capolavoro portando il lettore a chiedersi cosa significa essere uomo e
tracciando un ritratto di sé ossessionato dalla ricerca di risposte che non avrà mai e che lo spingono
anche a manipolare alcuni elementi del fatto, (Capote non avrebbe mai potuto sapere esattamente
ciò che pensavano Dick e Perry segnatamente durante la loro fuga verso l’America del sud). Lo
scrittore dallo stile brillante ha l’animo oscuro come quello dei due protagonisti del libro. Ma sono
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nel contempo queste cose che fanno de In Cold Blood l’opera più importante di Truman CAPOTE,
quella che eclissa il leggero suo Breakfast at Tiffany’s (Colazione da Tiffany, nella versione
tradotta italiana) o ancora l’incompiuto Answered Prayers: The Unfinished Novel (Preghiere
esaudite, nella versione italiana).
Malgrado le poche scene frutto dell’immaginazione dell’autore la storia resta affascinante e
sconvolgente. A questo proposito ci preme riportare lo stupore che seguì la lettura di Harold Nye
delle bozze di alcune pagine del libro In Cold Blood riguardanti il viaggio che il detective del KBI
fece a Las Vegas per cercare prove sugli assassini. “Quello che Truman aveva scritto era inesatto. Era
tutto romanzato ed io, essendo un giovane agente, mi offesi per il fatto che non aveva detto la verità. Così
rifiutai di approvare il testo del libro che mi aveva mandato. Truman ed io discutemmo
animatamente..Quello che aveva fatto era prendere la signora che gestiva la piccola casa di appartamenti di
Las Vegas e svilupparla come un personaggio diverso. Il suo scopo non era la precisione. Stava cambiando i
fatti. Non stava più scrivendo della nostra indagine. Scriveva di questi due tipi che viaggiavano per il paese,
che uscivano di prigione e ammazzavano quattro persone sulla base di una falsa pista. Di ciò che avevo fatto
a Las Vegas, le persone con cui avevo parlato là, niente di tutto questo era riferito in modo veritiero…Io
avevo creduto che sarebbe stato un libro sui fatti, e non lo era. Era un libro di finzione” (Harold Nye in G.
Plimpton, ibidem, p.168). Anche Duane West, pubblico ministero al processo Clutter, é risentita
per il fatto che nel suo libro Truman descrive il suo ruolo in modo ingannevole. “Il libro lascia
intendere che non avessi poi tanto a che fare con il caso. In realtà ho condotto tutta l’indagine, ho lavorato
con gli investigatori e preparato il materiale per il processo. Io pronunciai la dichiarazione d’apertura alla
giuria. Truman prese una parte di ciò che dissi e la attribuì al signor Green” (Duane West in G.
Plimpton, ibidem, p.210). Circa il fatto che Truman faccia apparire il signor Dewey come un eroe,
Duane West ci tiene ad affermare che Dewey non fu assolutamente un eroe della situazione. “Al era
una brava persona, un bravo sceriffo, un bravo rappresentante delle forze dell’ordine, ma è fastidioso
quando uno che ha fatto il lavoro vero viene quasi ignorato. Quando da quel carcere arrivarono le
informazioni su Hickock e Smith, Dewey tendeva a scartare l’idea. Avrebbe dovuto andare lui a controllare,
invece rimase qui e mandammo Nye e Roy Ben Church a verificare la cosa. Fu Rich Rohleder, il vice capo
della polizia di qui, a fare le prime indagini al momento del delitto” (Duane West in G. Plimpton, ibidem,
p.212). Un’altra inesattezza anche se di poco conto ma comunque importante riguarda il
comportamento assunto da Alvin Dewey durante l’esecuzione capitale di Dick e Perry nel
capannone del penitenziario. Lo stesso Alvin Dewey ci tiene a precisare che “sul libro Truman scrisse
che io, durante l’esecuzione, avevo chiuso gli occhi, ma non era vero. Avevo visto tutto. Dopo aver visto
come era ridotta la figlia dei Clutter, sarei stato capace di tirare la leva io stesso” (Al Dewey, G.
Plimpton, ibidem, p.179).
Certo il lavoro letterario in sé è sbalorditivo ma l’argomento raggela e mette a disagio chiunque,
Truman in primis, è turbato e nel contempo attratto da questo vile e ripugnante fatto di cronaca
criminale. Questa incredibile storia ha profondamente e durevolmente scosso lo scrittore che
cercava di trovare risposte sulla vita, sulla morte, sul destino dei protagonisti. Capote non ci dà le
risposte che il lettore attendeva, resta al di fuori della storia per porsi da osservatore di fronte
all’avvenimento sì da dare al lettore l’immagine di un paese, l’America, alle prese con il recupero
dei valori umani fondamentali in crisi.
Nei due film sullo scrittore realizzati quasi in contemporanea, “Truman Capote” (2005) e
“Infamous” (2006) non ci sorprende vedere che lo scrittore americano non sia presente nelle scene.
Questo perché i due registi hanno voluto asserire l’assoluta e sincera volontà dell’autore de In Cold
Blood di non lasciarsi compromettere non solo nel tracciare un profilo fisico e morale dei
protagonisti dell’affaire per quanto possibile veritiero ma anche nell’esprimere valutazioni personali
sulla delicata questione della pena di morte in America o sulle scelte religiose degli abitanti di
Holcomb.
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L’autore non giudica, infatti, gli assassini del massacro della famiglia Clutter che sono presentati in
qualche modo come vittime del loro destino, si concentra essenzialmente sui protagonisti, li
descrive con estrema minuzia di particolari lasciando al lettore il compito di fare collegamenti tra di
essi e lo svolgimento dei fatti.
Modificando i codici d’investigazione propri della polizia, frastornato da nuovi sviluppi e da
personaggi poco conosciuti, Capote, con la sua disarmante semplicità, decide di portare avanti
un’analisi più di natura psicanalitica che strettamente legata ai fatti. Tutti i pensieri dei due omicidi
sono decrittati, le loro storie personali passate al vaglio per meglio comprendere il perché
dell’azione criminale. Alla fine lo scrittore non traccia alcun ritratto tipo degli assassini: ciascuno di
loro due ha agito dietro un improvviso impulso e con questa considerazione Capote vuole dirci che
l’uomo in sé è un puro predatore e che non c’è alcuna vera spiegazione per gli atti di un criminale
assassino; le risposte sono da ricercare nell’essenza stessa dell’uomo.
C’è da rilevare altresì che questo visione pessimistica e per certi aspetti fatalistica si manifesta pure
attraverso la linearità dell’azione, la banalità di certe scene e immagini e la disumanità ostentata dei
criminali. Un po’ come in No Country For Old Men, gli uomini ”giusti” sono più testimoni
passivi dell’intreccio e dello svolgimento dell’inchiesta che reali motori nella progressione delle
investigazioni dando una spiacevole sensazione d’inutilità del bene mentre il male prospera e in
nessun momento è messo in difficoltà. Questo inesorabile progresso di un mondo assurdo termina
con l’esecuzione della pena capitale per l’omicida. Molto probabilmente il grande scrittore
americano, Truman CAPOTE si è interessato al caso di Perry e di Dick per esprimere una severa
critica alla società capitalistica e cinica del secondo dopoguerra caratterizzata dal lusso sontuoso e
da una disuguaglianza sociale considerevole che emarginava una larga parte di giovani esclusi dal
benessere e desiderosi di cambiamento, di rinnovamento. Forse i due loschi assassini Perry e Dick
erano da catalogare tra quelli che si consideravano vittime di uno sfavorevole destino e di una
società profondamente ingiusta che non dava ai suoi figli uguali possibilità di affermarsi.
C’è da aggiungere che la sensazione di abbandono e di esclusione riguarda anche le relazioni che i
due hanno con la famiglia e gli amici.
A differenza dei genitori di Dick che fanno visita al loro figlio in carcere nel Penitenziario di Stato
della Contea Finney in attesa che il processo contro i responsabili dell’omicidio plurimo dei Clutter
fosse istruito, né il padre di Perry né la sorella unici parenti in vita andavano a trovarlo in carcere. Il
padre Tex John SMITH presumibilmente era alla ricerca dell’oro da qualche parte dell’Alaska e la
sorella non ne voleva sapere perché aveva paura del fratello e agli investigatori che si erano fatti
vivi per informarla della strage della famiglia Clutter a Holcomb per la quale Perry era fortemente
indiziato, aveva chiesto espressamente di non voler comunicare al fratello il suo attuale indirizzo.
Perry Smith era praticamente solo, “come un individuo coperto di piaghe. Uno con cui solo un pazzo
vorrebbe avere qualcosa a che fare” (Ibid., p. 299), e sentiva la mancanza di Dick poiché dal momento
dell’arresto non aveva potuto comunicare con lui. Il suo desiderio era di parlare con Dick, essere
con lui. “Dick non era più la dura roccia che un tempo gli era parso, dogmatico, virile, un vero uomo
d’acciaio; si era rivelato parecchio debole e vuoto, un vigliacco. Pure, di tutte le persone al mondo, era
quello a cui si sentiva più vicino in quel momento perché almeno erano della stessa specie, fratelli della
razza di Caino” (Ibidem).
D’altronde, la vita per i familiari di Perry non era stata un “letto di rose” (Ibid., p.214) : “Sua madre,
un’alcolizzata morta soffocata dal suo stesso vomito. Fern-Joy, sua sorella, si era buttata dalla finestra di un
albergo a San Francisco, dal quindicesimo piano, Una carissima ragazza, piena di talento, una magnifica
ballerina che sapeva anche cantare. Jemmy, il primo dei fratelli che un giorno, dominato dal convincimento
del continuo tradimento aveva spinto sua moglie al suicidio e il giorno dopo si era ammazzato” (Ibid.,
p.132). “ Solo la minore delle sorelle, Barbara-Bobo aveva avuto un’esistenza normale, si era sposata, aveva
cominciato a farsi una famiglia” (Ibidem).
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Un giorno di metà febbraio, però, Perry riceve una lettera inaspettata da parte di Don Cullivan, un
giovane militare conosciuto sotto le armi quando entrambi erano stati assegnati alla 761°
Compagnia Genieri a Fort Lewis, Washington. Nella lettera erano ricordati atti di cui Perry era stato
protagonista e venivano esaltate le sue capacità creative, era altresì riconosciuto il fatto che Perry
svolgeva bene i suoi compiti e che teneva ad andare d’accordo con tutti. Don Cullivan asseriva di
essere rimasto di sasso quando aveva letto che il suo amico si trovava in guai grossi e che era stato
arrestato perché riconosciuto autore dell’omicidio dell’intera famiglia dei Clutter e incredulo,
offriva la sua disponibilità a testimoniare a suo favore.
Il colpo fallito tragicamente, non fa che aumentare le riflessioni amare di Perry Smith, le sue
incertezze e paure tanto che dopo pochi giorni dall’eccidio chiede al suo amico e complice Dick in
modo insistente se c’era “qualcosa di sbagliato in loro due. Per fare quel che avevano fatto(…) dentro di
me—prosegue Perry—giù giù in fondo non avrei mai creduto di poterla fare. Una cosa simile”( Ibid.,
p.129). Poi aggiunge:” Sai cos’è che mi sta veramente nello stomaco. Per quell’altra faccenda? È che non
riesco a crederci(…) che uno possa cavarsela dopo un fatto del genere. Non vedo come sia possibile. Fare
quel che abbiamo fatto. E avere la sicurezza al cento per cento di passarla liscia” (Ibid., p.131).
Si finisce per provare una certa compassione per questi due terribili personaggi, soprattutto per
Perry che attraversava “momenti di debolezza, attimi in cui ricordava certe cose” (Ibid., p. 132). Voci e
ansie che Dick subito soffocava sbottando: “Ora basta, chiudi il becco” (Ibid., p.131).
Vedere due uomini che uccidono senza un’apparente ragione, senza capire il loro delittuoso gesto,
mette i brividi lungo la schiena, ma suscita anche un sentimento di pietà. Hanno fallito nella
realizzazione di se stessi e nel rapporto con la loro famiglia rimasta indifferente alla loro richiesta di
aiuto e di sostegno. Il loro destino é irrimediabilmente segnato. Già dall’inizio la loro più grande
sfortuna era stata quella d’incontrarsi, chiusi nella stessa cella del Penitenziario di Stato a Lansing,
erano diventati amici e insieme avevano organizzato, una volta usciti di prigione la rapina presso la
dimora della famiglia Clutter che avrà quell’epilogo tragico e atroce del massacro di tutti i membri
presenti nella Fattoria River Walley. Per Dick, il colpo perfetto, che aveva preparato nei minimi
particolari (aveva una piantina della casa dei Clutter), era “una robetta sicura come l’oro” (Ibid., p.268)
e insisteva che non ci dovevano essere testimoni. Dick diceva, infatti : ”Entreremo là dentro e li
spappoleremo tutti contro i muri” (Ibid., p. 51). “Niente testimoni-- rammentò sorridente e con vanità a
Perry per il quale” poteva accadere l’imprevedibile, le cose possono mettersi in un modo diverso” (Ibid.,
p.51) “niente può andare storto. No. Perché il piano era di Dick, dal primo passo al silenzio finale,
congegnato senza una grinza”(Ibidem).
È pura follia pensare che per quaranta o cinquanta dollari un’intera famiglia laboriosa, onesta,
generosa, moralmente e socialmente sensibile ai problemi della propria tranquilla comunità come
era unanimemente considerata la famiglia dei Clutter, sia stata barbaramente decimata mentre si
apprestava a celebrare il Santo Natale. La follia umana non conosce limiti e non può avere
attenuanti. Essa è da studiare attentamente e in ogni momento bisogna condannare ogni azione
delittuosa dell’uomo e la sua malvagità senza “ma” e senza “se”. Truman CAPOTE, però, nel suo
romanzo parte da un fatto realmente accaduto racconta l’orrore senza mai esprimere giudizi o
condanne. Si era trasferito a Holcomb, luogo della strage, e per diversi anni si era impegnato a
seguire l’inchiesta da vicino, a porre domande e a raccontare l’affaire Clutter da freddo e scrupoloso
“inviato speciale” del giornale per il quale lavorava. È forse nel modo come racconta l’avvenimento
delittuoso che risiede la forza e l’interesse del suo libro. Mai si vede Truman CAPOTE, mai si
sente, mai esprime direttamente i suoi convincimenti, s’intuiscono, non fa che dare un taglio da
romanzo al massacro della famiglia Clutter, agli interrogatori, ai processi, alla forca. Il lettore si
ritrova così completamente coinvolto da spettatore impotente nella storia, nel cuore di tutto, nel
punto di vista dei due giovani assassini, il tutto condotto con rigore, freddezza e suspense.
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Lo scrittore é nello stesso tempo distante dal dramma e a volte familiare, con uno sguardo sull’altro
sorprendentemente vicino e lontano. Insomma, il lettore legge nella ricostruzione del fatto criminale
una certa ambiguità.
Truman CAPOTE è a metà strada tra l’attività del romanziere e quella del
giornalista. Del romanziere per la qualità della scrittura, la linearità del racconto,
del giornalista per il lavoro d’indagine e di ricostruzione cronologicamente esatto.
Dopo il loro arresto, il processo e la lunga carcerazione nel “viale della Morte”, i
due criminali sono rigorosamente osservati e anche le loro più piccole malefatte
sono prese interamente in considerazione. Sappiamo così che la loro fine è
imminente e percepiamo anche che l’autore del libro non lo speri, li fa esistere
minuto dopo minuto, riga dopo riga, dando loro più visibilità che alle vittime. Egli ha difficoltà nel
giudicare un uomo non importa di quale crimine si sia macchiato, ancor più
quando questo giudizio porta alla morte e fa riflettere sulla responsabilità, la
libertà dell’uomo.
Il suo atteggiamento di fronte al fatto in sé è di neutralità assoluta giacché ha
scelto la funzione di testimone, sforzandosi di essere un “observateur
invisible” anche se leggiamo tra le righe che anche il più orrendo dei delitti
merita di essere considerato con uno sguardo più umano. La scelta adottata
dallo scrittore d’inquadrare l’argomento da un’ottica lontana e distaccata gli
permette di seguire meglio la struttura del romanzo autorizza una grande
flessibilità spazio-temporale e non incoraggia la manifestazione di un giudizio.
L’eccentrico scrittore cede il posto al reporter
quando seduto sui banchi del
tribunale ascolta misurato, rattristato e pensoso il
pronunciamento
della
sentenza di condanna. Il reporter Capote assiste
all’impiccagione di Dick con
la stessa tensione emotiva manifestata dai poliziotti,
ma non sopporta quella di
Perry Smith ed è costretto a lasciare il
“capannone”. Ora se da un
lato la presenza di Capote al provvedimento di
condanna di Dick sottolinea
la solennità dell’istante presentando la sentenza
come
necessaria
e
sostanzialmente giusta sul piano strettamente
procedurale e normativo,
dall’altro, quando si tratta della cerimonia dell’impiccagione di Perry, il suo viso distrutto è il segno
più evidente di un legame che va al di là di un sentimento di affetto che si ha verso una persona cara
e amica. A questo riguardo c’è da osservare che mentre nel romanzo In Cold Blood le tracce della
presenza dell’autore sono minime, nei due film biografici esse hanno più ampiezza permettendo
alla soggettività di avere più rilievo, soprattutto per quanto attiene alle scene in carcere. In questo
modo i due “biopics” tentano di riempire i vuoti narrativi e di sviluppare alcune sequenze
arricchendo così la storia del quadruplo assassinio dei membri della famiglia Clutter e della scrittura
del capolavoro di Capote.
Sguardi incrociati: In Cold
Capote che ispira tre film:
Miller (2005); 2. Infamous di
Cold Blood di Richard Brooks
Blood, il libro cult di Truman
1)Truman Capote, di Bennett
Douglas McGrath (2006); 3. In
(1967).
Con il libro di Truman CAPOTE nasce
il romanzo non-fictionnel. Il lettore
contemporaneo non è quello del 1965
e il testo di Capote non è più il solo a
illustrare i tragici avvenimenti di
Holcomb. Nel 1967, In Cold Blood è
adattato per il cinema dal regista e sceneggiatore Richard Brooks. Il film molto fedele al testo fu in
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parte girato nei luoghi del dramma. Nel 1988, quattro anni dopo la morte di Capote, Gerald Clarke
pubblica la biografia ufficiale dell’autore dal titolo Capote. Nel 1996, In Cold Blood è adattato per
la televisione e due anni più tardi, lo scrittore e attore George Plimpton pubblica un’altra biografia
più incisiva di quella di Clarke. Le due biografie servono da base a due film biografici: Capote,
diretto da Bennett MILLER nel 2005 e Infamous di Douglas McGRATH nel 2006. Questi
differenti testi, narrativi e cinematografici, offrono parecchi spunti di riflessione su quel periodo
storico. Comunque è una strana coincidenza che nello stesso periodo siano stati girati e consegnati a
un pubblico vasto quanto curioso e interessato due film quasi del tutto identici su Truman Capote e
sul suo indiscusso capolavoro letterario In Cold Blood.
Entrambi i film cominciano la produzione nello stesso periodo e sono pronti nel 2005 ma il primo a
uscire nelle sale cinematografiche sarà Truman Capote che vede come protagonista il brillante e
compianto Philip Seymour Hoffman, trionfatore agli Oscar del 2005.
Il film, fratello gemello del precedente, dal titolo Infamous del regista e sceneggiatore Douglas
McGRATH è certamente più originale e lezioso. Se Truman Capote di Bennett MILLER tende a
esaltare il dramma interiore dello scrittore, il processo creativo e il confronto tra pietà e dovere
giornalistico, Infamous, adattamento cinematografico del libro di George Plimpton intitolato
“Truman Capote: In Which Various Friends, Enemies, Acquaintances and Detractors Recall His
Turbulent Career”(1997), si concentra sulla perdita di prestigio e sul crollo psicologico dello
scrittore che seguirono alla pubblicazione di In Cold Blood, il romanzo chiave della carriera di
Truman Capote.
Douglas McGRATH mette in scena le interviste ai personaggi che hanno popolato la vita dello
scrittore e, attraverso le loro testimonianze, propone un Truman più intimo, pettegolo, a tratti
invidioso, con i suoi modi raffinati da dandy e la sua eccentricità che tanto contrastava con
l’America del profondo Sud.
La prima parte descrive Truman Capote prima di conoscere la tragedia dei Clutter. È uno scrittore
apprezzato, allegro, che denota acume e perspicacia e che, al culmine della carriera, aspira a vincere
il premio Pulitzer. La seconda parte, certamente tragica, si concentra sul rapporto con i due assassini
e sulla descrizione della tragedia. Perry Smith, certamente la mente del massacro, diventa
un’ossessione per lo scrittore. Cercando di ricostruire l’avvenimento, Truman s’identifica con lui, se
ne innamora perdutamente. Entrambi non hanno conosciuto il padre, hanno visto la madre uccidersi
e sono omosessuali. Se Truman è accettato grazie al suo talento, Perry si nasconde dietro la
violenza. Infamous descrive quel momento di passaggio che cambierà Truman Capote per sempre e
lo porterà alla depressione: il momento in cui riscopre i suoi fantasmi e si rende conto di
appartenere a un mondo sfavillante e civettuolo che tanto lo attira ma che non sa nulla di lui.
Più che la biografia di un uomo In Cold Blood/Infamous è la testimonianza di come tutti noi
abbiamo dentro una parte oscura, espressione di ciò che abbiamo sofferto e di ciò che non vogliamo
ammettere. Il regista Douglas McGRATH invidia Bennett Miller per la scelta dell’attore Hoffman
ma il suo protagonista non è da meno, Toby Jones offre un’eccellente interpretazione come del resto
tutti i colleghi del cast e cioè Isabella Rossellini, Sigourney Weaver, Sandra
Bullock, Jeff Daniels e Daniel Craig .
L’anno successivo alla pubblicazione del libro In Cold Blood, Richard
BROOKS aveva firmato in qualità di regista e di sceneggiatore
l’adattamento cinematografico del romanzo eponimo di T. Capote, una delle
opere letterarie americane tra le più importanti del XX secolo, con le
eccellenti interpretazioni di Robert BLAKE e di Scott WILSON. Un film
impegnato che denunciava intelligentemente ciò che esisteva da sempre negli Stati Uniti, la pena
capitale. Il successo del libro era stato folgorante e i produttori hollywoodiani avevano acquistato
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immediatamente i diritti sul testo poiché pensavano di realizzare un prodotto commerciale lucroso,
a colori, con attori noti e apprezzati come Paul Newman e Steve Mc Queen. Truman CAPOTE
impose, però, le sue volontà e scelse di affidare a Richard Brooks, regista ampiamente stimato per i
suoi film seri e impegnati, la regia del lungometraggio. I due uomini si capivano perfettamente e
concordavano che il film fosse girato in bianco e nero con attori sconosciuti al fine di sottolineare
l’aspetto veritiero dell’intreccio a scapito dei teatri di posa. Nonostante le pressioni, il film fu
realizzato facendo ricorso a un budget contenuto.
Richard Brooks ritrovò con il suo film una seconda giovinezza e sperimentò nuove tecniche
narrative. Affidò la responsabilità della fotografia a Conrad HALL che riuscì a fare miracoli
giocando sul chiaroscuro, rafforzando così l’aspetto raggelante e tenebroso del racconto. L’originale
musica del grande Quincy JONES evocava l’angoscia e il turbamento dei personaggi principali la
cui interpretazione risultava magnifica e profondamente inquietante.
Fedele al libro di Capote, R. Brooks lancia una riflessione convincente sulla barbarie umana e sulla
relatività dell’atto criminale e oppone il crimine assurdo di una violenza privata inaudita e che fa
venire i brividi lungo la schiena al crimine di Stato, implacabile nella sua logica amministrativa.
È chiaramente impossibile restituire tutta la ricchezza del libro in un film di due ore, ma c’è da dire
che R. Brooks è riuscito a esprimere l’essenziale, ponendo l’accento sulla dimensione assurda e
vana della pena di morte, condividendo con Truman l’approccio profondamente umano che lo
scrittore aveva manifestato nei confronti di quei due giovani scioperati che si erano macchiati di
un’azione delittuosa e insensata senza capire il perché e, in modo particolare, di Perry Smith che,
benché autore di quattro assassini, è dei due il più sensibile e il più sconcertante. Blake rende
perfettamente conto della personalità ambigua e complessa di questo personaggio che incarna a
meraviglia un ” assassin de circonstances”, un uomo sognatore dal passato tortuoso che commette
l’irreparabile senza capire perché.
Due sono i sogni ricorrenti che accompagnano la vita di Perry fin da ragazzino: sogna di trovarsi in
Africa mentre cammina in una giungla, a un tratto si ferma davanti ad un albero bellissimo, ”dalle
foglie azzurre ed è tutto coperto di brillanti grossi come arance”(A Sangue Freddo, ibidem, p.112). È là
per raccoglierli ma sa che appena cercherà di prenderne, appena allungherà la mano, un serpente gli
piomberà addosso e lo stritolerà per poi inghiottirlo cominciando dai piedi. Perry sogna anche
mentre é chiuso in carcere, “un enorme uccello giallo, dalla testa di pappagallo, angelo vendicatore, che
aggrediva i suoi nemici. Era venuto a soccorrerlo in momenti di pericolo mortale: Mi sollevò in alto e
andammo su, su, vedevo la piazza sotto di me, gli uomini che correvano, gridavano, lo sceriffo che ci
sparava, tutti furibondi, perché ero libero, stavo volando, stavo meglio di tutti loro” (A Sangue Freddo,
ibidem, p.306).
Nel raccontare questi e altri sogni-visioni al suo amico e complice Dick, Perry non poteva non
rendersi conto del disinteresse del suo compare che lo giudicava un”bravo ragazzo” anche se un po’
“maniaco di sé”, un “sentimentale” e troppo “sognatore”. Non poteva però tollerare che qualcuno lo
irridesse rendendo ridicolo “quel pappagallo che aveva cominciato a volare nei suoi sogni quando lui
aveva sette anni, un ragazzino mezzo sangue, detestato e pieno di rancore, ospite di un orfanotrofio in
California diretto da suore: istitutrici velate che lo frustavano quando bagnava il letto e lo picchiavano con
una pila elettrica”.(A sangue freddo, ibidem., p.112). “Quel pappagallo, un uccello più alto di Gesù, giallo
come un girasole, una sorta di angelo guerriero che con il becco aveva accecato prima quelle suore e poi,
avvolgendolo nelle sue ali, lo aveva portato via verso il paradiso” (A Sangue Freddo, Ibidem, p.113 ).
Richard BROOKS ha paura di questo mondo senz’anima ed è convinto che l’incoscienza e
l’egoismo dell’America capitalistica abbiano creato questa nuova razza di mostri, capaci, come
Perry Smith, di dichiarare a proposito di Herbert W. Clutter, sua vittima, con una disarmante
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sincerità: “Trovo il tipo molto simpatico, cortese, fino a quando gli tagliai la gola” (A Sangue Freddo,
ibidem, p.280).
Dietro la macchina da presa di questo vecchio umanista di sinistra, la storia di Perry Smith e di
Douglas Hickock che massacrano un’innocente famiglia del Kansas per quaranta dollari, un
transistor e un binocolo diventa un noir angosciante che penetra lentamente ma inesorabilmente nel
tessuto più intimo di una Nazione che si vuole pura e radiosa. Sembra di vivere in piena crisi degli
anni ’30; in modo particolare quando Perry e Dick accolgono nella loro macchina, una Chevrolet
modello 56 rubata, due autostoppisti diretti a Sweetwater nel Texas, un ragazzo di nome Bill che
sopravvive insieme a suo nonno molto malato di nome Johnny raccogliendo lungo le strade lattine e
bottiglie di Coca-Cola vuote e abbandonate per poi rivenderle a tre centesimi l’una.
“L’autore, nel suo libro, deve essere come Dio nell’universo, presente ovunque, e visibile in nessuna parte”.
Gustave FLAUBERT, Correspondance, Lettera del 2 dicembre 1852, Tome 2, Ed. Gall., Parigi,
1980.
In Cold Blood, il romanzo capolavoro di Truman CAPOTE che oscilla tra reportage
e opera di fiction.
Truman CAPOTE non è il solo scrittore che si è ispirato a un fatto di cronaca. Un buon numero di
letterati ha rielaborato un avvenimento di cronaca realmente successo in forma di romanzo
facendone un testo a carattere letterario. Tra i tanti ricordiamo James ELLROY con il romanzo
Dalhia nera 1, Gustave FLAUBERT con Madame Bovary, 2, Henri Beyle, detto STENDHAL con
Le Rouge et Le Noir, 3, Emmanuel CARRERE con L’adversaire, 4, Jacques CHESSEX con il suo
Un ebreo come esempio 5, e non ultimo Truman CAPOTE con In Cold Blood in cui lo scrittore
statunitense procede a una vera inchiesta, interrogando tutti i protagonisti dell’atroce fatto ci sangue
che ha visto soccombere i quattro membri della famiglia Clutter (il padre Herbert, la madre Bonnie,
il figlio Kenyon e la figlia Nancy), gli amici delle vittime, gli abitanti del tranquillo villaggio di
Holcomb, inquirenti e colpevoli, spulciando così tutte le fonti d’informazione.
____________________
1.
Il romanzo è tratto da un fatto realmente accaduto a Los Angeles nel 1947. Il famoso omicidio della Dalia Nera,
un caso tuttora irrisolto. Lee e Dwight sono due giovani poliziotti con un recente passato nel pugilato. Noti per le
loro gesta sono usati anche dalla politica locale per la loro “medianicità”. I due sono sinceri amici, nonostante
siano innamorati della stessa donna di nome Kay.
Elisabeth è una ragazza di provincia con il sogno di diventare un’attrice di successo. Pur di entrare nel mondo
fatato del cinema, comincia a frequentare locali equivoci, persone equivoche. Sarà trovata morta in un terreno alla
periferia della città. Il suo corpo è in uno stato orribile, la gente capisce che non è uno dei tanti fatti di cronaca. I
due amici poliziotti si buttano a capofitto sul caso più inquietante della storia californiana e risolvere il caso
diventa un’ossessione. I due giovani poliziotti rischiano di perdersi nel labirinto delle menzogne e malvagità. Los
Angeles degli anni ’40 appare una metropoli corrotta e perversa.
L’autore scrive questa storia con uno stile tagliente, ironico e coinvolgente, un’atmosfera cupa e ricca di suspense.
2.
Gustave FLAUBERT con il romanzo Madame BOVARY (1857) si ispira a un fatto di cronaca apparso sulle
pagine di un giornale. Eugène Delamare, di professione medico, sposa in seconde nozze Delphine Couturier, una
donna più giovane di lui che lo tradisce, fa debiti e muore lasciandogli una bambina.
In seguito a questo fatto, Flaubert inventa il personaggio di Emma Bovary, una donna sognatrice,
dall’immaginazione romantica fino al ridicolo, influenzata dalle cattive letture fatte in gioventù in collegio. Emma
sposa il medico Charles Bovary che è al suo secondo matrimonio. La mediocrità di quest’uomo a livello
professionale e personale e della vita provinciale monotona e meschina, spinge la donna a evadere e a cercare
altrove nuove sensazioni, nuovi amori corrispondenti al suo universo stupidamente libresco. Dapprima si lega al
giovane apprendista notaio Léon Dupuis, i cui modi romantici la seducono e poi inizia con Rodolphe Boulanger,
un signorotto dai modi dandy una sfrenata passione. Ma anche quest’ultimo come il precedente, impressionato per
gli eccessi passionali di Emma rompe brutalmente con lei dopo alcuni mesi un legame eccessivamente passionale
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e esaltato. Finisce così per distruggersi e rovinare suo marito sul piano finanziario nonostante la nascita di una
bambina che lei abbandona molto presto alla cura di una balia di sua conoscenza. La storia termina con il suicidio
di Emma sopraffatta dai debiti e dai sensi di colpa lasciando il “povero” Charles in una tremenda solitudine.
3.
Le Rouge et le Noir è pubblicato nell’autunno del 1830. Questo romanzo ha come sottotitolo significativo
“cronache del 1830) ma in realtà i fatti si svolgono sotto il regno di Charles X (1824-1830). Stendhal si è ispirato
a due fatti di cronaca, l’affaire Lafargue, un uomo che ha ucciso la sua amante e l’affaire Berthet, un ex
seminarista diventato l’amante poi l’assassino di una donna di cui è stato precettore. È la prima volta che uno
scrittore del XIX secolo riprende un fatto d’attualità di cui Stendhal aveva letto nel 1827 il resoconto sulla
“Gazette des Tribunaux”. In Le Rouge et le Noir lo scrittore ripropone una situazione che corrisponde
perfettamente a quella che è ricostruita nel processo, a partire dalle condizioni sociali dei personaggi, dei rapporti
che l’inchiesta aveva messo in evidenza tra il protagonista, i suoi precettori e le donne della sua vita fino allo
svolgimento preciso dei fatti.
La storia è centrata su Julien SOREL, figlio di un contadino, che si è arricchito e che possiede una falegnameria a
Verrières, “l’une des plus jolies de la Franche-Comté”. Il giovane Sorel è troppo delicato e troppo intellettuale per
vivere nel suo modesto ambito di origine. Sognatore non accetta il suo stato, Julien non si sente apprezzato da un
padre villano e brutale, le sue letture preferite sono il Mémorial de Sainte-Hélène e les Confessions de J.J.
Rousseau e aspira alla gloria. Se avesse vissuto sotto Napoleone di cui venera il mito, avrebbe tentato la carriera
militare ma egli vive sotto la Restaurazione e allora conta sulla carriera ecclesiastica: “Aujourd’hui on voit des
prêtres de quarante ans avoir cent mille francs d’appointements (stipendio), c’est-à-dire trois fois autant que les
fameux généraux de division de Napoléon”. Julien diventa così precettore dei figli del sindaco di Verrières e
l’amante della moglie, Madame de Rênal. Per evitare lo scandalo, Julien è obbligato a entrare nel seminario di
Besançon. Il Direttore, l’abbate Pirard, nel momento in cui è costretto a lasciare la direzione del seminario,
raccomanda Julien presso il marchese de la Mole affinché gli offra il posto di segretario a Parigi. Julien entra, di
fatto, nell’alta società parigina vicino alla corte di Charles X, durante l’ultimo periodo della Restaurazione.
Stendhal descrive la noia e la monotonia che regnano nei salotti parigini dell’epoca e che riproducono i riti de
l’Ancien Régime: è un’atmosfera che favorisce il tumultuoso rapporto d’amore tra Julien e la figlia del marchese,
Mathilde de la Mole. Vincendo l’orgoglio della ragazza, Julien è a un passo dal successo tanto agognato: il
marchese deve accettare il matrimonio anche perché Mathilde è in attesa di un bambino e organizza la
nobilitazione e il successo nel “rouge” di Julien che è nominato tenente degli ussari.
Una lettera di Madame de Rênal al marchese de la Mole, nella quale Julien è denunciato come un “miserabile
seduttore” distrugge il sogno e suscita sconvolgenti reazioni. Julien compra una pistola, si reca a Verrières e spara
su Madame de Rênal in chiesa. Julien è arrestato, processato e poi condannato a morte.
Nella sua tensione tra l’orgoglio e l’ipocrisia, il personaggio stendhaliano incarna il malessere del mondo postnapoleonico e la consapevolezza di non trovarvi posto. Tutti questi elementi sono messi in risalto durante il
processo contro Julien, quando questi finisce per provocare la sua condanna definitiva. Invece di pentirsi del suo
gesto Julien provoca i giudici accusando la società di averlo destinato all’ipocrisia.
Dopo l’esecuzione Mathilde recupera la testa di Julien e la fa seppellire in una grotta che fa ornare con marmi
italiani; quanto a Madame de Rênal, lei muore tre giorni più tardi “abbracciando i suoi figli”.
Con Le Rouge et le Noir Stendhal intende offrire un quadro realista della società francese della sua epoca. Per
essere fedele alla verità egli s’ispira a fatti di cronaca tratti da articoli giornalistici, introduce nei suoi romanzi una
serie di ”petits faits vrais” che danno l’idea di autenticità: precisioni storiche e topografiche, orari, costumi,
dettagli tratti dalla vita di tutti i giorni. Sull’interesse per la realtà concreta e per i rapporti tra l’individuo e la
società, Stendhal e Honoré de Balzac sono molto vicini e possono essere definiti come i “secrétaires de la
société française”. Per entrambi la missione dello scrittore non è di “copiare la natura ma di esprimerla” nel
senso di rendere più comprensibile la realtà di cui si definiscono attenti testimoni.
4.
Il 9 gennaio 1993, nella regione di Gex, in territorio francese ma di fatto appartenente alla periferia residenziale di
Ginevra, succede una tragedia familiare. Il personaggio centrale della vicenda, Jean-Claude Romand che viveva
sotto falsa identità, uccide sua moglie, i suoi due figli e i genitori. Diceva di essere medico e di lavorare presso
l’OMS (mentiva da diciotto anni), tutti credevano che fosse veramente un medico invece trascorreva le sue
giornate nei caffè o passeggiava nei boschi dei monti Jura, Questo fatto di cronaca vera scuote talmente lo scrittore
Emmanuel CARRERE che lo spinge a raccogliere notizie e atti processuali per capirne le motivazioni di fondo.
Emmanuel CARRERE cerca di farci capire ciò che avrebbe spinto quest’uomo, Jean-Claude Romand, a
commettere molteplici atti delittuosi tragici e irreparabili. Scrive un testo “L’adversaire” nel quale segue il
processo di Romand scambiando con lui regolarmente una serie di lettere ed entrando così nella vita più intima e
personale del falso medico che a forza di menzogne e di viltà aveva finito per perdere la sua vita e la sua anima.
CARRERE ci descrive un giovane ordinario, intelligente che ha costruito la sua vita sulle menzogne su
un’escalation di falsità e di messe in scena che lo faranno diventare un mostro insensibile e spietato. Sul punto di
essere scoperto Jean-Claude Romand preferisce sopprimere coloro di cui non poteva sopportare lo sguardo e il
giudizio.
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La scrittura è essenziale senza considerazioni moralistiche né personali, ne risulta un testo molto sconcertante,
atroce e luciferino. Un mondo di bugie costruito con lucida follia. Come il libro anche l’omonimo film con la regia
di Nicole Garcia riprende le atmosfere cupe e strazianti del romanzo e un che di agghiacciante paralizza lo
spettatore.
5.
La storia è vera, succede a Payerne, in Svizzera, nell’aprile del 1942. Payerne è un grosso borgo, rurale che prima
della guerra era prospero, ma ora la gente, ridotta in miseria, è malcontenta, povera, alle prese con atti di stupro,
ubriachezza. La colpa di tutto ciò è attribuita agli ebrei parassiti che si arricchiscono a spese di chi li ospita. Il
pastore Philippe Lugrin, antisemita convinto, tiene comizi tra i disoccupati, i piccoli contadini rovinati nei caffè.
La delegazione tedesca lo finanzia. Joseph Bloch, l’ebreo retto, onesto, buon padre di famiglia diventa il “capro
espiatorio” perfetto: se la sua “esecuzione” è accettata dalla gente, si potranno fare fuori tutti quei luridi porci. La
polizia indaga sulla scomparsa di Bloch molto probabilmente eliminato. Alcuni abitanti del Cantone di Vaud
confessano l’omicidio, Lugrin, più astuto, ripara in Germania con il rimpianto di non aver segnalato altri ebrei ai
suoi “amici”.
Gli autori succitati hanno in comune uno sguardo attento e affascinato sulla tragedia umana, sulla
svolta assurda che a volte prende la vita di un individuo. L’impossibilità totale di comprendere un
atto, un’azione, di entrare nell’animo dell’altro, ha portato questi e altri scrittori in diverse epoche
storiche verso la Letteratura al fine di svolgere di nuovo il filo della vita ricreandola con la penna e
cercando un senso.
Truman CAPOTE costruisce la sua storia sui fatti, sulle testimonianze pazientemente raccolte,
cercando di restare fedele a ciò che era successo nella notte tra il 14 e il 15 novembre del 1959
nella fattoria di Herbert Clutter a Holcomb, ascoltando le parole dei personaggi, dei testimoni e di
quanti amici e conoscenti avevano avuto rapporti di lavoro con i Clutter. Per avere dell’accaduto un
quadro quanto più possibile vero, l’autore prende il tempo che gli serve per studiare tutti i
protagonisti, il loro ambito familiare e sociale e per riflettere dettagliatamente sulle conseguenze
che il crimine ha determinato in quella comunità di cittadini che tranquilla non lo è più dopo
l’insensato e criminale massacro. Occorrerà attendere l’esecuzione capitale dei due ritenuti
colpevoli perché gli abitanti della regione ritornino a vivere pacificamente e a superare le loro ansie
e accresciute paure.
Quando Capote si lancia nella scrittura di questo docu-fiction, sa tutti gli antecedenti dei due
giovani criminali, sa tutto delle loro irragionevoli e illogiche spiegazioni e dei vari momenti della
loro folle fuga.
In Cold Blood è certamente un libro innovatore poiché lo scrittore americano
inserisce un fatto di cronaca nel quadro e nello stile del romanzo. Con questa
tecnica chiamata “roman non-roman” Truman Capote mescola abilmente il
senso di distacco proprio del giornalista e uno stile narrativo tipico del
romanzo. E così operando Capote realizza un capolavoro costruito sulla
preziosa raccolta di testimonianze, permettendoci nello stesso tempo di
conoscere il mondo e l’intimità di quanti gravitano attorno all’affaire Clutter.
All’inizio (prima parte del libro) l’autore ci fa condividere l’intimità delle
vittime, i Clutter, onesti proprietari terrieri di Garden City, ci svela la vita, le
aspirazioni, i segreti di quest’ordinaria e operosa famiglia del Kansas e ce la rende familiare. Ma,
attenzione, l’atmosfera è lontana dall’essere rassicurante poiché simultaneamente ci mostra la
macchina di Dick e di Perry, una berlina nera Chevrolet del 1949 che si avvicina facendo temere il
peggio. Questo esempio dimostra assai bene che In Cold Blood è più che una relazione obiettiva
sui fatti. Truman CAPOTE ha saputo creare una tensione drammatica propria del romanzo,
l’incontro tra la ricca famiglia Clutter e i due ex pregiudicati ridotti al verde si annuncia tragico.
L’autore alterna continuamente i punti di vista dei vari personaggi e dà al libro un aspetto molto
dinamico. Si passa facilmente dalla diffidenza degli abitanti di Garden City all’indifferenza dei due
assassini lanciati in una folle corsa attraverso gli Stati Uniti e il Messico. E paradossalmente le
scene in cui appaiono i due assassini hanno spesso un tono alquanto leggero. Sono due teppistelli
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che vivono di vagabondaggi, alla giornata e Perry Smith rincorre i suoi sogni di viaggi esotici e di
cacce ai tesori nascosti del mare.
Nel leggere il racconto del massacro perpetrato a danno della famiglia Clutter (terza parte del libro)
si provano gli stessi sentimenti degli abitanti di Holcomb: incredulità davanti a questo gratuito
crimine, repulsione, orrore. Ci si rende rapidamente conto che il caso Clutter non era isolato e che
altri massacri o atti delittuosi avevano avuto luogo nello stesso paese, nella Contea Finney. I più
anziani ricordavano quando lo sceriffo Orlie Hefner fu centrato dritto al cuore da Walter Tunif.
Quest’ultimo lavorava nell’azienda agricola di Finnup. Fu visto fuggire a cavallo e dirigersi a est
lungo il fiume, ma la fuga durò poco perché la mattina dopo il tragico assassinio Walter Tunif fu
acciuffato e ucciso. L’agente di polizia Alvin Dewey, incaricato di trovare i responsabili della
strage dei Clutter, aveva già in passato avuto contatto con il crimine nella Contea Finney e
segnatamente nel 1947 si era occupato dell’omicidio di Mary Kay Finley, una donna bianca di
quarant’anni, di professione cameriera, colpita a morte con il collo di una bottiglia di birra rotta in
una stanza dell’albergo Copeland di Garden City, da un indiano Creek di trentadue anni di nome
John Carlyle Polk; in data 1.11.1952 due operai delle ferrovie avevano rapinato e ucciso un vecchio
agricoltore; il 17.6.1956 un marito ubriaco aveva picchiato e preso a calci la moglie fino a
ucciderla; un ultimo episodio si era verificato a Stevens Park quando il signor Mooney di passaggio
in città, era andato in un gabinetto per uomini e Wilmer Lee Stebbins, un ragazzo di vent’anni del
posto, dopo averlo rapinato, lo aveva buttato a terra facendogli battere violentemente la testa contro
il pavimento in cemento. Il giovane sosteneva che il signor Mooney gli aveva fatto una proposta
indecente e amorale, il successivo comportamento del giovane che seppellisce e diseppellisce il
cadavere del forestiero è particolarmente scioccante. Grazie al suo lungo e scrupoloso lavoro di
raccolta d’informazioni Truman CAPOTE descrive nei minimi particolari ogni città, casa e luogo
e il lettore é realmente dentro l’azione, la segue e la contempla come se anche lui fosse presente: si
vede il Kansas, si sentono gli odori della fattoria, si resta abbagliati dal sorgere del sole dell’alba.
Il romanzo è come un puzzle in cui ogni personaggio anche quello poco rilevante aiuta a definire
meglio la situazione raccontata che è complessa e il lettore passa dall’odio alla pietà, dal dubbio
alla comprensione del vissuto dei due giovani assassini per poi tornare a dubitare.
Molti hanno criticato la volontà dell’autore di apparire distante e distaccato dal tema affrontato.
Nuovi e inediti documenti recentemente divulgati relativi all’inchiesta riguardante il massacro della
famiglia Clutter e i metodi usati da Truman CAPOTE nel ricostruirlo nel suo In Cold Blood,
hanno rilevato la presenza d’incongruenze e di contraddizioni ancor prima che manipolazioni. Da
questi documenti inediti e aggiornati dal KBI, sembrerebbe che lo scrittore Capote abbia abusato di
qualche libertà rispetto allo svolgimento reale dei fatti raccontati nel suo romanzo capolavoro, al
fine di dare una buona immagine delle persone a lui care, in modo particolare dello sceriffo del
KBI, il signor Alvin DEWEY, uno dei personaggi chiave del libro. Nella versione di Capote
Dewey è uno sceriffo brillante e il KBI, una squadra di polizia esemplare. Durante la scrittura del
libro Capote ha avuto accesso ai documenti e al fascicolo del KBI e lo stesso Alvin ha collaborato
attivamente con lo scrittore fornendogli tra l’altro il diario della diciassettenne Nancy Clutter, “ una
giovane acqua, vitale, gioiosa” (Ibid., p.236), sul quale erano scritte le ultime parole della ragazza
prima dell’irruzione inattesa quanto brutale dei due balordi criminali nella Fattoria River Valley.
Ora i documenti pubblicati dal Wall Street Journal (13 settembre 2012) indicano che l’Ufficio del
KBI è stato meno reattivo rispetto a com’è detto e scritto nel libro In Cold Blood. E cioè risulta
che un informatore aveva fornito a Dewey la notizia circa l’identità degli autori della strage a
Holcomb ma che lo stesso capo-inchiesta Alvin Dewey aveva atteso ben cinque giorni prima di
arrestare i presunti assassini, poiché riteneva in modo erroneo che Richard Hickock e Perry Smith
non potevano aver commesso il quadruplo massacro che era dovuto, secondo lui, a una disputa
particolarmente accesa tra vicini e perciò voleva indagare meglio in quella direzione. Sia il KBI e
Dewey hanno sempre sostenuto la versione di Capote, considerata la migliore prova dell’esattezza
24
del racconto. D’altronde l’autore in un’intervista nel 1966 aveva giurato che non aveva fatto che
raccontare la realtà e che tutto era “perfettamente fattuale”.
C’è da aggiungere altresì che Ron Nye, figlio di Edward Nye, uno dei quattro agenti del KBI che
avevano indagato sull’affaire Clutter ha ritrovato nell’ottobre 2012 interessanti documenti
sull’affaire Clutter che suo padre custodiva in casa. Ron che spesso accompagnava il padre nei
viaggi alla sede centrale del KBI negli anni successivi alla chiusura del fascicolo Clutter, aveva
osservato che suo padre esaminava minuziosamente casi già chiusi e lasciava istruzioni ai segretari
sui documenti-files che voleva fossero fotocopiati. Il sogno di Harold Nye era di scrivere una
memoria verità sui molti casi che aveva investigato, compresi la strage dei Clutter. In particolare
Edward Nye voleva correggere quelle che riteneva inesattezze nel libro di Truman Capote. Harold
Nye morì nel 2003 senza aver mai scritto il suo resoconto. Tra i documenti ritrovati in casa da Ron
figurano diverse fotografie della scena del crimine, lettere, appunti e soprattutto una copia de In
Cold Blood che Capote aveva dedicato a Harold e una pagina che porta l’autografo di Nelle
Harper Lee, autrice del romanzo “To Kill a Mockingbird”, nella versione italiana Il buio oltre la
siepe, e grande amica d’infanzia che aveva accompagnato Truman in Kansas. Il testo letteralmente
recita: “Per Harold Nye, con affettuosa ammirazione, Nelle Harper Lee” (15 gennaio 1960). Quando
Ron Nye scoprì questi elementi inediti stava attraversando un periodo molto difficile dal punto di
vista finanziario e decise di vendere l’integralità dei documenti tramite la società Vintage
Memorabilia di Gary McAvoy.
Il procuratore generale del Kansas intervenne prontamente sulla delicata questione e invitò il
direttore dell’agenzia a togliere dal commercio i documenti che appartenevano allo Stato del
Kansas. Vintage era in disaccordo poiché i documenti in possesso dell’agenzia erano stati
consegnati a McAvoy dallo stesso Ron e quindi rappresentavano una proprietà personale. L’Ufficio
del procuratore generale era particolarmente interessato ai taccuini stenografati e richiese
espressamente la pagina con l’autografo della scrittrice Harper Lee. Il direttore dell’agenzia capì
subito la natura incendiaria dei documenti suddetti, ma rinunciò alla vendita all’asta degli stessi
dopo aver tolto volontariamente dal mercato le foto della scena del crimine consegnandole al KBI.
Sulla questione dei documenti inediti ritrovati intervengono anche le due figlie sopravvissute dei
Clutter Evianna e Beverly, che all’epoca della strage della loro famiglia non abitavano già più con
i loro genitori (Evianna, la figlia maggiore, all’epoca dell’eccidio, era sposata e madre di un bimbo
di dieci mesi e abitava nell’Illinois del nord, Beverly, la secondogenita non stava più alla Fattoria
River Valley; viveva a Kansas City, dove seguiva dei corsi d’infermiera in attesa di sposarsi),
rompendo una linea di silenzio che durava da più di cinquant’anni, e dicendo che avrebbero fatto
causa se Vintage avesse venduto le fotografie della scena del crimine. È ampiamente nota la presa
di posizione delle due figlie nei confronti di Capote e del suo romanzo. Difatti subito dopo la
pubblicazione del libro rilasciarono una dichiarazione assai ferma e risentita definendo Truman
Capote disonesto e il suo libro che grossolanamente aveva messo in falsa luce la loro famiglia “un
romanzo a sensazione che gli aveva dato profitti”.
La discussione è parzialmente finita con il ritiro dalla vendita di alcuni documenti tra i quali la
confessione di uno degli assassini mentre la disputa giuridica che vede Vintage contro la giustizia
del Kansas è destinata a continuare al fine di stabilire in modo definitivo se i succitati documenti
possono essere venduti all’asta o se appartenenti al KBI devono essere classificati parte integrante
del fascicolo “Affaire CLUTTER”.
È facile prevedere che sul libro di Capote e sull’affaire Clutter ci saranno altre occasioni di
approfondimento e di polemiche. Il direttore di Vintage il signor Gary McAvoy dichiara, infatti,
che nei mesi o anni che verranno, ci si occuperà ancora di In Cold Blood e informa che di recente
è stato destinatario di un pacco contenente i diari di prigione di Perry Smith inviato dalla famiglia
di un personaggio che era stato all’epoca del fatto criminale al servizio dell’ordine pubblico del
Kansas e che aveva fatto amicizia con Perry dietro le sbarre.
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Senza aver approfondito la cosa, McAvoy dice che il diario offre nuovi spunti di riflessione sulla
questione ancora irrisolta e cioè se Dick Hickock sparò quella notte e a chi o se fu Perry Smith a
uccidere a sangue freddo due o tutti i quattro residenti della Fattoria River Valley a Holcomb.
Secondo altri è proprio questa “démarche narrative” che assicura al libro di Capote grande e
duraturo successo. Non solo l’autore statunitense applica lo stesso metodo alle vittime e ai
colpevoli ma è facile vedere nel libro di Capote una sorta di catarsi, un processo di liberazione da
esperienze traumatizzanti e assurde. Anche perché gli
assassini non hanno altra finalità che la rapina, impossessarsi
dell’ingente somma di denaro che i due delinquenti credono
sia custodita nell’ufficio di Herbert Clutter. Il loro non è altro
che un atto brutale attraverso il quale trasferiscono tutte le
loro frustrazioni e le loro paure verso vittime totalmente
estranee al loro profondo disagio. Nel tracciare il contorto
percorso di vita di Dick e di Perry, due giovani nullafacenti
che aspirano a trovare una via d’uscita che sia favorevole e
definitiva alla loro banale e avvilente esistenza, Dick appare un individuo risoluto con l’idea fissa
di compiere il ”colpo” perfetto che gli permetterà di affrancarsi dai suoi miseri inganni e truffe
come gli assegni senza alcuna copertura. Quando incontra Perry che si vanta di aver ucciso un
uomo di colore intravede la possibilità di architettare un “colpo” formidabile a rischio zero
servendosi di Perry che è in grado di premere il grilletto del suo fucile nel momento opportuno.
Perry Smith, dal canto suo, è un giovane istruito, dalla personalità complessa. Maltrattato dai suoi
genitori durante la sua difficile giovinezza, con un fisico sgraziato, “i piedi piccoli, chiusi in corti
stivaletti neri con borchie di acciaio, si sarebbero agevolmente infilati nelle scarpine da ballo di una fragile
damigella; quando si alzò non era più alto di un bambino di dodici anni su quelle gambette misere che
apparivano grottescamente inadeguate al torso massiccio che sostenevano, sembrò non più un robusto
camionista ma un fantino a riposo…” (Ibid., pp. 26-27), sogna di fuggire da una società alla quale
rimprovera di non avergli dato le opportunità di affermarsi. Questi due personaggi a parte i tatuaggi
(Dick aveva “il muso tatuato di un gatto, blu e sogghignante, che copriva la sua mano destra; una rosa
azzurra sulla spalla; sulle braccia e il torso, la testa di un drago con un teschio umano tra le mascelle
spalancate; donnine nude dal seno ricolmo; un demoni etto che brandiva un forcone;,,,un mazzo di fiori
dedicato a Papà-Mamma, un cuore che commemorava l’idillio tra Dick e Carol, la ragazza che aveva
sposato a diciannove anni e dalla quale si era separata sei anni dopo..” (Ibidem, pp. 43-44), Perry si era
fatti riprodurre “sull’avambraccio sinistro il disegno di un serpente e un pugnale” (Ibid., p.158) e la
cura quasi ossessiva per l’igiene del proprio corpo avevano caratteri così diversi al punto che
spesso sembrano l’uno contro l’altro. La loro netta diversità di vedute si manifesta fin da quando si
fermano a Emporia per comprare delle calze da donna occorrenti per la rapina. Per Dick le calze
bianche o nere che fossero non erano necessarie, anzi superflue perché nella rapina che aveva in
mente e il cui piano era stato da lui a lungo preparato nei minimi particolari, non ci sarebbero stati
sopravvissuti per testimoniare. Perry non è d’accordo perché teme che possa essere riconosciuto.
Quando poi si trattò, durante la fuga verso il Messico, di decidere se far salire sulla loro macchina
due autostoppisti: un giovane ragazzo di nome Bill e suo nonno Johnny in precarie condizioni di
salute che erano diretti verso il Texas per ricongiungersi con Jackson la sorella del nonno, Perry è
dell’opinione di dar loro un passaggio, “il suo grande cuore lo tormentava continuamente perché
prendesse su gli individui più malconci” (Ibidem, p.239) mentre Dick “era riluttante; non era contrario
alla collaborazione con gli autostoppisti sempre che avessero l’aria di potersi pagare il passaggio”
(Ibidem). Infine Dick acconsentì e li fece salire in macchina con l’intento di farli scendere quanto
prima perché temeva per la sua incolumità. In quest’occasione i due compari alterano i toni della
voce e volano parole e frasi offensive dirette principalmente a Dick che si era fermato e aveva
deciso di sbattere fuori il nonno molto malato. Perry dopo aver guardato il vecchio, ancora
sonnolento, stordito, sordo e il ragazzino che ricambiò l’occhiata, calmo, senza supplicare, senza
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chiedere nulla, rammentò se stesso a quell’età e i suoi vagabondaggi con un vecchio, e intervenne
pesantemente e in malo modo apostrofando il suo compagno di sventure con questa frase: ”Sei
proprio uno schifoso bastardo. Buttali fuori se vuoi, ma scendo anch’io” (Ibidem, p.241). Pur
tuttavia i due assassini convivono all’interno di una logica distruttrice e che trova la sua
realizzazione nel massacro dei membri della famiglia Clutter. Mai l’autore prova a dare
spiegazione ai fatti raccontati. Capote non condanna né giustifica niente. Si limita a raccontare
questo crudele fatto di cronaca optando per l’assunzione dello stesso distacco che il medico legale
mette in atto quando è incaricato di eseguire l’autopsia di un cadavere. Forse per non dover soffrire
o per paura di scoprire di avere punti di convergenza con gli assassini che lo rimanderebbero verso
i suoi “fantômes”.
“ La mia opinione è che perché il genere di romanzo-verità abbia interamente successo l’autore dovrebbe
non apparire nell’opera..io penso che l’unica cosa più difficile nel mio libro dal punto di vista tecnico sia
stato scriverlo senza mai apparire e tuttavia, allo stesso tempo, creare l’assoluta credibilità”.
Truman CAPOTE in George PLIMPTON, The Story Behind a Nonfiction Novel, “The New
York Times”, 16 gennaio 1966.
In Cold Blood o la ricerca di un nuovo genere di romanzo.
“In Cold Blood: A True Account of a Multiple Murder and its consequences” apparve
in quattro puntate sul New Yorker nel 1965 prima di essere pubblicato in volume nel 1966.
Truman CAPOTE voleva associare il rigoroso quanto esclusivo attaccamento ai fatti
proprio del giornalista alle strategie narrative del romanziere al fine di dare luogo a un
genere nuovo, il romanzo “non-fictionnel”. Il successo fulmineo quanto inatteso del suo
libro non impedì un’accoglienza critica contrastata. Per l’amico e scrittore Norman
MAILER il testo di Capote segnava il fallimento dell’immaginazione. A suo parere In
Cold Blood, di cui non fu un grande ammiratore, “è un libro maledettamente buono, scritto
splendidamente ma con dei limiti. Quando l’ho letto sono rimasto insoddisfatto. Non sopportavo
quel maledetto New Yorker, sempre pronto a imporre la sua visione rigida a qualsiasi cosa. Era
troppo scarno. Alla fine non arrivai a sapere abbastanza di quei due assassini. Era troppo
influenzato con il comportamentismo. Penso che In Cold Blood sia la descrizione di un delitto
dall’esterno e che Truman abbia deciso troppo in fretta che tutto era ereditario, che gli assassini
erano geneticamente condizionati e determinati ad agire in quel modo” (Norman Mailer in G.
Plimpton, ibidem, p.204).
Per Douane West “il libro non ha alcun valore di riscatto sociale. La faccenda di una nuova
forma d’arte- il romanzo documento- è un cumulo di spazzatura. Penso lo stesso anche del film.
Ritengo che fosse venuto qui semplicemente per fare soldi. Non credo che il libro sia stato un
importante contributo alla grande letteratura americana” (Douane West in G. Plimpton, Ibidem,
p.210).
Ci fu anche qualcuno che gridò allo sciacallaggio di Capote nei confronti dei due assassini e
fomentò un’aspra polemica quando, all’indomani della decisione dell’imminente
impiccagione dei due giovani assassini Dick e Perry, Kenneth Tynan incontrò a una festa
di Jean Stein Truman che saltava su e giù per la contentezza, battendo le mani e dicendo:
Non sto più nella pelle! Non sto più nella pelle dalla gioia! Ken nella sua recensione sul
libro di Truman apparsa sull’Observer inglese rese conto di questo strano e irresponsabile
comportamento e precisò che “per la prima volta un influente scrittore è arrivato ad avere un
ruolo privilegiato di confidente di due criminali in procinto di morire e che, secondo lo scrivente, ha
fatto meno di quanto avrebbe potuto per salvarli concludendo che nessuna prosa, per quanto
immortale, vale una vita umana” (Kathleen Tynan in G. Plimpton, ibidem, p.205).
Immediatamente dopo la pubblicazione della recensione la polemica divampò. Il critico
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letterario Diana Trilling recensì positivamente In Cold Blood per la Partisan Review.
L’intera storia l’aveva affascinata. Truman aveva fatto un buon lavoro di reportage. Precisò
tra l’altro che Kenneth Tynan che aveva attaccato ferocemente Truman perché colpevole, a
suo parere, di non essersi impegnato per salvare Perry e Dick dalla pena capitale aveva
scritto un bel po’ di cattiverie su Truman ed era rimasta nauseata quando aveva letto
l’accusa a Truman di fare soldi alle spalle di quei poveri delinquenti. “Se a Truman Capote
capitava di scrivere un libro di grande successo e guadagnava molto denaro da quella storia, per lei
andava bene: è una ricompensa per il suo talento e la sua capacità di fare un lavoro eccellente.
L’obbligo morale che Truman doveva avere era quello di essere attento a come trattava i fatti”
(Diana Trilling in G. Plimpton, Ibidem, pp. 207/8). Diana Trilling concludeva la sua
recensione dicendo che, pur non essendo d’accordo sull’uso della pena capitale, in questo
caso, considerava giustificata la pena di morte: “erano assassini perversi, brutali e non provava
la minima solidarietà nei loro confronti, che era ciò che invece Truman cercava di suscitare”
(Diana Trilling, ibidem, p.208). Lo scrittore e premio Nobel per la letteratura, J. M.
Gustave Le Clézio vedeva nel romanzo di Capote il segno di un possibile rinnovamento
della letteratura moderna. Nel 1966 Le Clézio così scriveva sullo scrittore americano:
“Occorre allo scrittore un pretesto, quasi un alibi, per osare scrivere un libro che parli degli uomini
e non più di uno sconosciuto individuo che gli somigli. Egli ha bisogno di giustificarsi per scrivere
un libro dove sono presenti tutti gli elementi della vita sociale, le passioni, il denaro, il crimine,
l’amore, la politica, la morte” (L’articolo dal titolo “Une Révolution de la conscience” è
riprodotto sulla rivista Magazine Littéraire di Gennaio 2007, N°460, con il titolo “Truman
CAPOTE, une icône américaine”).
Questo pretesto Truman CAPOTE l’aveva trovato in un breve articolo del New York
Times nel quale era raccontato il quadruplo omicidio perpetrato a
Holcomb nel Kansas.
Il primo abbozzo narrativo di In Cold Blood si trova in un articolo del
New York Times apparso il 16 novembre 1959 quando vi si leggeva che
le informazioni inerenti al fatto criminale erano abbondanti ma che non
erano utili a comprendere appieno le responsabilità dei colpevoli rei
confessi. La polizia non spiegava né gli avvenimenti né i legami che
potevano esserci tra gli assassini e le vittime. Quest’assenza di
comprensione dei fatti si coglie perfettamente nel film di Richard Brooks quando l’ispettore
Alvin Dewey così dice: “The murders are no mystery, only the motive”( Sugli assassini non c’è
alcun dubbio, il problema è di avere chiaro il movente).
La ricerca di Capote ha origine da questo vuoto. Lo scrittore statunitense si dedica alla
scrittura del suo unico capolavoro non tanto per scoprire gli autori dell’orrendo crimine
quanto per comprendere e descrivere l’accaduto nella sua totalità.
Secondo il filosofo Paul RICOEUR questa “pre-comprensione del mondo dell’azione” è un
indispensabile preliminare alla composizione poetica. Paul Ricoeur chiama “mimèsis 1” la
capacità di identificare l’azione in generale attraverso tratti strutturali e “mimèsis 2” la
configurazione narrativa dell’azione. Il passaggio dal primo stadio al secondo permette di
trasformare le varie tappe degli avvenimenti in una storia. La storia, così configurata dopo i
passaggi di “mimèsis1” e di “mimèsis2”, diventa un testo narrativo solo dopo la ricezione
del lettore che assume con il suo fare(azione del leggere) l’unità del percorso creativo. Paul
Ricoeur è convinto che “ci debba essere un’intersezione tra il mondo del testo e il mondo del
lettore”(Cfr. Paul RICOEUR, Temps et récit, tome 1, Éd. Du Seuil, Paris, 1983).
Ricoeur non fa distinzione tra il racconto storico e il racconto di fiction e sembra
condividere la teoria dei “mondi testuali” elaborata da Peter STOCKWELL nel 2002 in
Cognitive Poetics, an Introduction, secondo la quale gli elementi del mondo reale hanno
una loro contropartita nel mondo testuale. Il principio che regola la costruzione della
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contropartita nel mondo testuale è quello della distanza tra il mondo reale e quello testuale.
Come per Ricoeur, l’adeguamento tra il mondo testuale e quello referenziale non sembra
essere un elemento pertinente al processo di rappresentazione.
Anche il semiologo Roland BARTHES s’interroga sull’esistenza di una formale dicotomia
tra il racconto “fictionnel” e il racconto storico. Ne “Le Discours de l’histoire”, Le
Bruissement de la langue, Essais Critique IV, Éd. du Seuil, Paris, 1967, tenuto conto
dell’esistenza di un tratto specifico o di un’indubbia pertinenza, l’illustre critico francese,
morto prematuramente nel 1980 in seguito ad un banale incidente d’auto, si chiede in che
cosa consista la differenza della narrazione di avvenimenti passati dalla narrazione fantastica
e in quale luogo del sistema discorsivo e a quale livello dell’enunciazione porre questo
elemento. Gérard GENETTE si mantiene prudente nell’affrontare la questione. In Cold
Blood, la familiarità di Truman Capote con il tema trattato, (passò sei anni a raccogliere una
valanga di testimonianze e di documenti, e con gli attori del massacro assassini, amici e
famiglia delle vittime) gli permette di svelare parecchi dettagli che si potrebbero credere
frutto dell’immaginazione di un romanziere, ciò che rende la distinzione tra i due tipi di
racconto difficile e complessa. Genette, però, ammette che i numerosi dialoghi riportati con
grande precisione, i verbi utilizzati per illustrare i processi mentali in numero congruo e lo
stile indiretto libero evocano la completezza dell’informazione (si leggano, per esempio, le
conversazioni tra Dick e Perry nel capitolo 2).
Davanti alla difficoltà di trovare segnali oggettivi, Genette formula l’ipotesi di una
fertilizzazione/contaminazione mutua tra i due tipi di racconti che sfociano in un processo
d’ibridazione. Indizi di finzione si troverebbero nel romanzo giornalistico. A questo
riguardo Genette concorda con la tesi di Searle quando sostiene che “ogni fiction é una
simulazione non seria di asserzioni di non-fiction”, riconoscendo l’esistenza di un continuum tra
i due tipi di racconti. Per effetto dell’esistenza di un minimo scarto tra i due tipi di racconto
troviamo una serie di termini che vanno dal “factual”, combinazione di “fiction” e di
“actual”, a “faction”, termine poco appropriato in ragione della sua polisemia.
In In Cold Blood la quasi assenza di soggettività e la totale assenza di centro
empatico danno così luogo a un nuovo rapporto con il Testo. Jean MOUTON
nel suo saggio dal titolo “Littérature et sang-froid” del 1967 precisa che “noi
lettori siamo introdotti all’interno del libro di Capote non come operai la cui
collaborazione è sollecitata dal suo autore ma come personaggi che
partecipano essi stessi all’azione o la subiscono”.
S’inaugura dunque un nuovo patto di lettura che condivide con la biografia il tentativo di
cogliere la realtà. Secondo Elena ORTELLS MONTON, autrice di un interessantissimo
saggio dal titolo Ficciòn y no-ficcion: la unidad literaria en la obra de Truman Capote,
Cuadernos de Filologia N°XXXII, 1999, sono possibili differenti letture del capolavoro di
Capote: “In una lettura superficiale, In Cold Blood si presenta come una storia di assassini in cui
l’apprensione è suscitata dal “come” e dal “perché” e non dal “chi”. A un livello più
profondo, si affrontano molti temi di cui si è discusso in altri testi di finzione: la morte, la
malinconia, la perdita dell’innocenza e che assumono in questo romanzo le dimensioni di
una grande tragedia, quella che vede le due Americhe del Nord e del Sud l’una contro l’altra
opposte. Il romanzo prende tutto il suo senso solo quando il lettore se ne appropria ed entra
in sintonia con l’insieme dell’opera.
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Dai primi anni novanta in poi, seguendo le orme di Truman Capote e di Norman Mailer, un
numero sempre crescente di scrittori di varie generazioni, nazionalità e formazione culturale
condividono lo stesso desiderio di realtà, di “vraie vie”.
Privilegiando il romanzo-verità, l’inchiesta, il resoconto narrativo, la narrazione di nonfiction, scritture che spesso mescolano liberamente la ricostruzione dei fatti storici con
l’invenzione, si ritorna a considerare che la realtà, che dà peso e valore all’esistenza, non è
sterile e priva di interesse ma merita attenzione, anche se da qualche tempo, si è caricata
d’incertezze e d’intense paure. La motivazione è forse da ricercare nel fatto che si è
assottigliato o quasi svanito il confine tra fittizio e immaginario, tra vero e finto, e testi
letterari in alcuni casi possono essere considerati anche i reportage giornalistici o
testimonianze sul campo. Già lo sosteneva lo scrittore di origine iraniana Salman
RUSHDIE alcuni anni fa quando affermava che “la narrativa dice la verità in un’epoca in cui
le persone cui è demandato di dire la verità inventano storie”. Sulla stessa linea troviamo anche
Babelia, supplemento letterario del quotidiano spagnolo “El Paìs” quando aprendo il
servizio con un titolo assai significativo, Novelas de Verdad, esprimeva il concetto che “la
fiction si aggrappa alla realtà e che i libri più interessanti dell’anno 2014 prendono spunto
dalla storia e dalla cronaca”. Gli esempi evocati dal curatore del servizio sono molti. Javier
Cercas è il primo per il quale “la realtà è sempre stata il carburante della finzione, tutto
parte da lì”. “Il mio ideale- continua Cercas- è utilizzare tutte le esperienze storiche combinando
la geometria e il rigore di Flaubert con la libertà, la flessibilità e la pluralità del modello di
Cervantes”.
Quando parliamo di non-fiction creativa ( secondo la definizione di Wu Ming) il pensiero va
necessariamente a Emmanuel Carrère, autore di Limonov e del recente L’adversaire che
da anni sperimenta più di altri le potenzialità del reale dentro la scrittura narrativa in prima
persona seguendo le teorie care a Truman Capote e all’altro scrittore francese, Jean
Echenoz al quale si devono ricostruzioni romanzesche di storie e vite realmente vissute
come quella del musicista e compositore Ravel o quella del pianista Max Delmarc. Ora, per
quanto riguarda la letteratura americana, uno scrittore tra i più autorevoli, in odor di premio
Nobel è certamente Philip Roth che in prima persona entra nella materia viva della
contemporaneità.
Già nell’intervista fatta a
George Plimpton apparsa sul “The
Review” del 16 gennaio 1966, Truman
New York Times Book
Capote sottolineava che pochi
scrittori di alto livello si erano cimentati
nel
giornalismo
se
non
marginalmente e come lavoro di routine
cui dedicarsi quando mancava la
creatività o come mezzo per fare denaro
rapidamente.
Tali
scrittori
ritenevano di essere capaci di inventare
storie con personaggi e temi
propri senza fare riferimenti ai fatti reali
e considerando, di fatto, il
giornalismo una forma negletta di
letteratura. Contro questo immotivato atteggiamento si collocano le teorie di Capote sul
“romanzo documento”, una forma narrativa che fa uso di tutte le tecniche dell’arte del
romanzo pur rimanendo impeccabilmente veritiera. Per molti suoi avversari queste teorie
erano poco più di uno stratagemma letterario per nascondere la mancanza di immaginazione.
Fu questa presa di posizione critica severa che spinse Truman Capote a orientarsi verso il
genere del reportage e a essere orgoglioso di aver inventato quella combinazione di
giornalismo e narrativa facendoli confluire.
Non c’era niente di veramente eccezionale nel massacro dei Clutter ma Capote e la direzione
del New Yorker erano convinti che quella tragedia fosse l’occasione di dimostrare che un
grande reportage poteva diventare uno straordinario romanzo. E fu così che Truman Capote
si mise al lavoro per scrivere il suo bestseller, In Cold Blood, il libro che gli mancava per
essere riconosciuto come uno dei più grandi scrittori americani del XX secolo.
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Per Capote come per altri c’è un intreccio inevitabile tra motivazioni private e la scelta di
affrontare argomenti di pubblica attualità e ciò denota anche il desiderio di non staccarsi
dalla realtà.
Prof. Raffaele FRANGIONE
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