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Luigi Burzotta
LO SGUARDO
DELLA MASCHERA
Psicanalisi e Arte poetica
ARMANDO
EDITORE
Sommario
Premessa
7
Le quattro lettere di Gertrude
15
Freud dimentica un nome
25
La metamorfosi di Hans
33
«Nessuno sa ch’egli è inserito nel padre»
Il suo covone non era avaro né portava odio
47
Il corpo di Odisseo
Il corpo assente nella pittura di Modica
55
Le risorse del desiderio nell’arte di Giuseppe Modica
71
Eks-intimo
Il nudo e lo specchio in un dipinto di Modica
77
Il Mosè di Michelangelo e la metafora del padre
81
Pirandello e il desiderio del padre
87
Quelli che volano alto
Enrico IV e l’oggetto perduto
107
Questa sera si recita a soggetto
119
Lo sguardo della maschera
La donna fatale da Si gira a Ciascuno a suo modo
131
L’amore impossibile nella trilogia di Claudel
Il fantasma della coppia o la coppia del fantasma
157
Pèr(e) Amore
La “Dama” come “Donna schermo”
nel caso clinico L’uomo dei topi
167
Il diavolo innamorato a Venezia
179
La forclusione del femminile
Perché il mondo arabo non è libero?
201
L’autore ringrazia l’amica Daniela Turi per l’attenta lettura del testo e i
preziosi suggerimenti; ringrazia anche gli amici Pier Luigi Pirandello e
Giuseppe Modica per l’incoraggiamento alla realizzazione di questo libro.
Premessa
Chi sfoglia questo libro o ne scorre l’indice, senza troppo badare al
titolo e al sottotitolo, potrebbe fermarsi alla prima impressione, che vi
siano raccolti diversi scritti su alcuni autori, accomunati dal proposito di analizzare dei testi, sotto il profilo psicanalitico; mentre la frase
Psicanalisi e Arte poetica indurrebbe a considerare una direzione invertita, verso un apporto dell’arte alla psicanalisi.
L’enunciazione del titolo, Lo sguardo della maschera, che campeggia sulla copertina e sul frontespizio vuole suggerire, con una metafora
pirandelliana, che proprio dal testo letterario si origina, ogni volta, per
l’autore, quella funzione dello sguardo che lo invita a passare per il campo dell’Altro, quel terzo della parola, da cui la domanda può fare ritorno,
attivando la pulsione; attivazione che propizia il sorgere del soggetto,
atteso che, fuori dal gioco del linguaggio, nessuno può sapere da dove
egli desidera.
Si vuole in questo seguire quell’assunto avanzato da Lacan, indigesto
per i più, che la pulsione freudiana, Trieb, non è l’istinto ma piuttosto un
artificio del linguaggio in rapporto all’eros; se è vero che «la pulsione è
l’eco nel corpo del fatto che ci sia un dire»1 e che soltanto per il tramite
di questo bizzarro congegno la sessualità partecipa alla vita psichica2.
La funzione dell’arte poetica, come luogo terzo del linguaggio, è stata qui evocata per dare ragione del carattere propriamente analitico della molla, che ha dato l’impulso al sorgere di ciascuno degli scritti, che
soltanto a posteriori si presentano qui riuniti dal criterio della raccolta,
mentre ciò che veramente li unisce tutti è la contingenza della psicanalisi
1
J. Lacan, Le sinthome (18 novembre1975), Èditions du Seuil, Paris, 1999, p. 17.
J. Lacan, I quattro concetti fondamentali della psicanalisi (27 maggio 1964), Einaudi,
Torino, 1979, p. 208.
2
7
in esercizio, della pratica psicanalitica, che è la palestra dove ciascuno è
stato elaborato.
Posso pertanto affermare con qualche verità che ciascuno dei testi,
qui riproposti in un ordine misto tra il cronologico e il tematico, è il
capitolo di un’opera che ho intrapreso a partire dal momento in cui si
era ben avviata, or sono tre decenni, la mia avventura con la psicanalisi:
accanto a questa, inavvertitamente, mi trovavo a installare un laboratorio di scrittura, che avrebbe accompagnato, per un sentiero parallelo, il
lavoro analitico, un passo dopo l’altro, nel suo percorso propriamente
personale e in quello fatto con altri.
Era il momento di svolta in cui la mia analisi andava oltre la vaghezza
delle prime intenzioni, sospendendo l’improbabile recupero di una tessera mancante al mosaico incompleto di un opaco sapere: avendo presto
avvertito che in questa aspirazione a colmare, sapere e godere convergono a velare il sintomo.
Di là dalle lusinghe del senso compiuto, ero meglio orientato a contornare i vuoti, nei giri e nei tornanti del dire, tra i garbugli che mimano
la verità.
Pur risoluto a dire il vero, come tuttavia credevo, nel lavoro analitico,
procedevo con passo incerto su questa via, salvo che, ad ogni inciampo
della parola, ero guidato, sul filo ambiguo dell’interpretazione, a scioglierne la cifra, con l’invenzione di un frammento di sapere, tanto nuovo
quanto effimero, tale però da fare un po’ di luce su quei lembi di reale,
che parassitano il godimento e determinano il sintomo; omologamente,
sull’altro versante della scrittura, ciascun brano di questo discorso tenuto
a latere, andando oltre la metafora, di non si sa quale capitolo smarrito
di una storia soggettiva, poteva configurarsi, nella sua natura di testo
cifrato, come luogo dell’enunciazione. Due momenti distinti ma propizi,
l’uno e l’altro, a saldare l’immaginario con il sapere inconscio: solo per
il breve tempo di un lampo, ma bastevole a rischiarare i bordi dell’impossibile e dare un po’ di respiro al godimento.
C’è continuità tra il dire e lo scrivere, come tra due facce opposte di
una superficie, che tuttavia proseguono l’una nell’altra, perché in seno al
dire può esserci un evento dello scritto.
Il dire poggia sulla voce che, come ognuno può avvertire dallo straniamento che talvolta gli dà il fatto di udirsi parlare, risuona nel corpo,
8
dove gli fa eco la pulsione. Ciò che consente il passaggio, che permette
l’inversione dal dire allo scritto, è quel che si produce quando la voce
si sgancia dal senso e va alla deriva nella polifonia della parola, sicché
la lettera, come residuo del significante, precipita come scarto e diviene
elemento di puro reale, fuori senso; è in questa nuova economia di godimento, in cui è preso il gioco combinatorio tra lettera e fonazione, che
può darsi l’evento dello scritto, dove si manifesta il soggetto dell’enunciazione.
“Che il soggetto dica” è l’opinione corrente, come quella che le fa
eco “che al soggeto si parli”; l’una e l’altra così radicate in ognuno,
che sopra ci si è potuta edificare la teoria della comunicazione: alle due
estremità di un percorso, dove è supposto viaggiare il messaggio, i soggetti assumerebbero alternativamente il ruolo di emittente e destinatario.
Questo modello di intersoggettività rivela il suo impianto illusorio quando si accetti, con Lacan, che l’emittente riceve dal destinatario il proprio
messaggio sotto forma rovesciata e cioè: che il discorso dell’uomo è
sempre il discorso dell’Altro.
In modo semplificato, e dunque approssimativo, potremmo dire che
il soggetto non è padrone del proprio discorso, se subito rettifichiamo,
sostituendo “parlante” a “soggetto”; perché quanto al soggetto, resta ancora da collocarlo da qualche parte.
Quando colui che parla sa quello che dice, egli è sicuro, e noi pure,
ma che non sia soggetto – proprio nel senso di assoggettato – al fiume
di parole, che lo attraversa senza lasciare la minima traccia di bagnato
(l’acqua lo bagna e il vento lo asciuga). È quando egli si mette nella
posizione di non sapere e solo a partire da quel punto di sospensione del
proprio “penso”, che si apre quel varco nel dire, per il quale il soggetto
può fare la sua comparsa e subita scomparsa, in un battito, secondo le
pulsazioni dell’inconscio.
Allora il soggetto ci si rivela come effetto del dire – vanificando la
pretesa che ci sia un soggetto artefice del dire –; così come accade nei
lapsus e nel motto di spirito, quando per colui che parla s’apre il sipario
de l’“Altra scena”, oppure, quando nell’analisi c’è presenza dell’analista,
con l’interpretazione, se questa ambiguamente apre a quell’invenzione
di sapere, che avviene solo per il tramite della lettera sul filo equivoco
della scrittura, che è la molla della psicanalisi.
9
È opportuno allora che qui io dica per quali vie sono giunto al passo
che mi ha portato a intraprendere l’analisi personale, tracciando per brevi linee la mia storia antecedente.
All’epoca del momento inaugurale di una domanda che, finalmente,
dava l’incipit alla mia analisi, la lettura sistematica dell’Opera di Freud,
eseguita con zelo e fervore nei due decenni precedenti questo nuovo atto,
faceva già parte della mia formazione umanistica e mi aveva portato,
insieme con la curiosità per tutto ciò che fosse pertinente al linguaggio,
ad accostare gli Scritti e i Seminari di Jacques Lacan, ribaltando sullo
sfondo tutte le mie escursioni nei labirinti della letteratura psicanalitica,
d’ispirazione freudiana e post-freudiana.
Ero anche al culmine di una lunga stagione della mia vita, in cui
l’interesse per il teatro, che praticavo fin dalla giovane età, mi aveva già
portato a collaborare con l’istituzione teatrale3 della città in cui m’ero
portato a risiedere, a lato del mio lavoro d’insegnante di materie letterarie nella scuola pubblica.
Non c’era campo in cui mi addentrassi dove non era tangibile il disagio della civiltà denunciato da Freud, nel quale questi aveva scorto una
delle determinazioni, quella più scoperta, del reale.
Il mio lavoro didattico tuttavia traeva linfa dall’apporto che veniva
dalla teoria psicanalitica e insieme con questo, pure con l’ausilio importante delle proficue collaborazioni nel teatro di professione, giungeva a
trovare un originale sbocco nell’animazione teatrale4 nelle scuole e in
quella più vasta, condotta nei quartieri della città: il rapporto con i giovani studenti, nelle scuole e nei quartieri, essendo un luogo privilegiato per
incontrare il disagio nelle sue forme più pure e averci a che fare.
Si trattava, in questa pratica, allora discretamente diffusa, che originariamente era forse nata con l’intento di recuperare la spontaneità nel
quadro dell’istruzione obbligatoria allora detta di massa, di trasferire in
un’azione drammatica una materia di studio qualsiasi o un evento occasionale, lasciando ai partecipanti l’iniziativa nella scelta di parole e
di gesti, anche fuori senso, rispetto al soggetto che loro stessi avevano
proposto. Sullo sfondo del tema di partenza, l’azione allestita assumeva
3
Quaderni del Teatro stabile di Torino, n. 21, 1970, e n. 22, 1971.
Si può reperire una testimonianza di questa mia pratica in G. Bartolucci, La scrittura
scenica, TEATROLTRE 6, Bulzoni, Roma, 1973.
4
10
così qualche tratto, se non le sembianze, di chi in quel momento animava
la materia o l’evento, al punto che poteva, allora, egli stesso coglierci
qualcosa d’inatteso e vedersi, dalla posizione esterna di attore, alle prese
con il suo personale disagio. L’esperimento di animazione teatrale non
prevedeva di andare oltre questa presa d’atto, ma aveva qualche risultato
nella durata, quando consentiva di ritualizzare la sorpresa in qualche
parola, fuori senso, ricorrente.
Il passo successivo sarebbe stato quello di portare quest’esperienza
nei luoghi istituzionali in cui il sintomo, nelle sue forme più manifeste,
trovava a quel tempo la sua accoglienza e il suo ascolto, memore del
monito freudiano che l’io di ciascuno di noi non ha nulla di dissimile da
quello dei cosiddetti malati di mente. Intanto avevo trasferito dalla città
di Torino a Roma la mia abituale attività di animazione teatrale nei quartieri, senza mai lasciare l’attività didattica nelle scuole statali.
A questo punto il lavoro con i giovani del quartiere, prima nelle cantine e poi in un luogo stabile, opportunamente predisposto e attrezzato
dal locale Comitato di quartiere, si era configurato come un laboratorio,
spontaneamente costituitosi, secondo le dinamiche dello psicodramma,
senza per questo prefiggersi una intenzionalità terapeutica. Era comunque un dispositivo che permetteva, agli attori di questa esperienza, la scoperta di un gusto nuovo nel sentire il proprio corpo, fisicamente immerso
nel linguaggio del movimento e della parola, ritrovandosi ciascuno, senza saperlo, a trasfigurare il proprio “ciò che non va” nell’invenzione di
una realtà inedita, avulso dai propri condizionamenti espressivi.
L’impiego di energie per il montaggio del congegno, richiedendo ogni
volta il lavoro paziente di qualche anno, era tuttavia, per il conduttore,
dispendioso e affidato al reclutamento tanto aleatorio quanto gratuito di
coloro che vi prendevano parte, senza un vero contratto che andasse oltre
il transfert, per così dire, collettivo sulla mia persona. L’impasse era senza appello e giungeva con la consapevolezza che letteratura psicanalitica
e psicanalisi non sono equivalenti.
Eccomi così giunto agli albori degli anni Ottanta con il proposito di
sperimentare, per me stesso, l’impegno di un’analisi personale.
Devo tuttavia confidare che il mio ingresso nell’analisi aveva anche
radici più schiette e più lontane, per non dire più ingenue, che risalivano
all’adolescenza, quando, tra le numerose e accanite frequentazioni lette11
rarie, proprie di quell’età, ero incorso nella lettura di un qualche scritto
vagamente scientifico, che, presumendo indagare sull’animo dell’uomo,
mi aveva convinto che quel ragionare sulla psiche fosse l’arte nuova di
pensare, e che questa avrebbe dovuto essere la mia futura occupazione.
È pure, forse, da queste premesse che, diversi anni dopo, sarei felicemente approdato a Freud.
S’intende allora come, partendo dal semplice voto adolescenziale, la
mia analisi era infine motivata dalla prospettiva del divenire analista,
non sapendo che quella era la maschera di un sintomo, o, per meglio
dire, che dietro il sintomo del divenire analista si occultava quello del
mio personale disagio.
Tutto il fervore dei primi anni d’analisi era speso nell’impegno a ridurre questo sintomo, che, paradossalmente, svelò la sua faccia d’inganno solo quando, dopo alcuni anni, cominciavo arditamente a occupare
il posto dell’analista, pur proseguendo nella mia analisi personale, che
ritenevo, a ragione, il vero luogo della clinica. Apprendevo così che non
c’è altra clinica che quella personale e che bisogna passare fino in fondo
per questa se si vuole avere la chance che, venendo infine a quel passo di
mettersi a quel posto, ci sia presenza dell’analista.
Ero così entrato nella pratica della psicanalisi da profano, e consideravo questa condizione un privilegio e una garanzia perché scevro, in
partenza, dalle presunzioni di cui dovessi liberarmi, nel caso che mi potessero venire da una qualche sedicente competenza professionale. Non
si parla, qui, dell’esperienza sul campo, con i malati, che si acquisisce nei
luoghi istituzionali, che anzi può essere un tirocinio utile se non indispensabile alla formazione, ma della supponenza di un sapere medico o altro.
Sembra che questo fosse il senso del saggio di Freud: Die Frage der
Laienanalyse.
Il primo aggettivo che la lingua personale mi suggerisce, per tradurre
il Laien freudiano, che designa l’analisi esercitata dai non medici e che
in italiano si traduce comunemente “laica”, ma che si è anche tradotto
con “profana”, è un termine che mi viene dalla parlata di origine materna, e che qui trascrivo con laja. Termine che, giocando sull’equivoco
tra lettera e fonazione, mi viene di attaccare al sostantivo “analisi”, per
ottenere il composto lajanalisi, che suona allo stesso modo dell’originario freudiano. Consonanza accattivante, ma ben a proposito, se si precisa
12
che, il termine laju si usa, in quella parlata, nell’accezione di “brutto”,
“sgradevole”, aggettivo che, nella lingua italiana come in quell’altra,
suole anche dare un’attribuzione etica, oltre che estetica.
In questo riconosco la mia eresia, il modo mio di «scegliere la via per
la quale prendere la verità», iter che, per obbligato che sia, è pur sempre
una scelta, com’è esemplificato dall’incipit del mio lavoro analitico, che
metteva in principio, come esergo, i versi dove Dante rivolge l’invocazione ad Apollo nel Paradiso:
Entra nel petto mio, e spira tue
sì come quando Marsia traesti
de la vagina de le membra sue.
Era il proposito liminare, la dichiarazione ingenuamente colta, di disponibilità a sottoporre a scorticatura il mio stesso Io, identificato con il
mitico campione del misconoscimento.
Operazione che poi richiese ben altri mezzi, seppure talvolta non totalmente difformi dall’esercizio della lettera, ma non certamente piacevoli come quelli della citazione letteraria. Pur conservando l’entusiasmo
del neofito dell’analisi, nella sua pratica quotidiana, dovevo sperimentare
che il lavoro analitico richiede di superare ogni volta la soglia di ciò che
è gradevole o confortevole per entrare nel rischio, passando per il campo impervio dell’Altro, e che, se talvolta, grazie a chi sapientemente lo
conduce, è proprio l’invenzione a segnare una qualche svolta nel sapere,
sull’equivoco, anche poetico, dell’interpretazione, che sorprende inerme
l’analizzante, sospeso tra lettera e fonazione, è solo per chiedergli un
tributo da pagare, puntualmente, sulla propria pelle, è il caso di dirlo.
Lajanalisi allora è un neologismo che viene a puntino, così per tagliar
corto con qualsiasi pretesa di nobiltà, di aura professionale da attribuire
a una formazione presunta didattica. La didattica non potendo venire che
dallo spingere a fondo l’analisi in ciò che essa può avere di più laju.
Chi ha un’esperienza della pratica psicanalitica, infatti, sa che, per
osservare l’assunto freudiano iniziale di dire qualsiasi cosa, non importa
se assurda e impertinente, sgradevole oppure oscena, non si può non
fare astrazione sia dal profilo estetico sia da quello etico, così come l’uno
e l’altro è inteso nel senso comune, per portare avanti un lavoro di parola
13
in modo libero: dalle riserve sulle pagine di vergogna della propria storia
o dalle preclusioni di offesa all’immagine intoccabile dell’altro, dove
segretamente si mette al riparo il proprio ideale.
È questo diuturno esercizio che, nel corso degli anni, parallelamente
alla pratica analitica, prima solo personale e poi anche nella posizione
di chi la conduce, ha ispirato a chi verga queste righe l’estro della scrittura, dove, mettendo alla prova l’esperienza di analizzante, in estensione, prendeva anche in esame dei testi letterari, o figurativi, nell’intento
che qualcosa di quel lavoro quotidiano riapparisse negli scritti che man
mano prendevano forma.
Non è senza saltare a piè pari la cordicella dell’impudenza, che qui
si fanno i nomi degli autori che furono, come per caso, presi a modello
e tirati dentro quest’avventura, per proporre alla psicanalisi i loro testi,
facendone quel terzo indispensabile al lavoro analitico: Omero, Dante,
Alessandro Manzoni, Wolfgang Goethe, Jacques Cazotte, Victor Hugo,
Paul Claudel, Sigmund Freud, Gabriele D’Annunzio, Luigi Pirandello,
e, per finire, un pittore mio contemporaneo, Giuseppe Modica; ma essa
non ha potuto affrontarli se non mostrando il suo scacco, forse proprio
lì, in quel sapere in scacco della psicanalisi, «perché l’enigma resta dalla
sua parte ed essa rimane silente»5.
Se allo scrivente è riuscito di trarre profitto dall’esempio di questi
autori, per mostrare al meglio dove la psicanalisi rivela il suo sapere in
scacco, quel vuoto di struttura che essa manifesta quale figura in abisso
nella propria arme, come indice di una predisposizione a un sapere sempre nuovo, si potrà giudicare da ciò che i lettori potranno ricavare dalle
pagine che seguono.
Potrò allora dire di aver esercitato su me medesimo quell’esperimento di drammatizzazione che, in passato, per molti anni mi ero ostinato a
proporre, ai giovani che allora confidavano in me, come adesso qualcuno
si affida a me richiedendomi al posto dell’analista, dove il vuoto che mi
attivo a scavare è l’unica arma, di sapere predisposto, di cui dispongo.
5
J. Lacan, Di un discorso che non sarebbe del sembiante (12 maggio 1971), Einaudi,
Torino, 2010, pp. 106-107.
14
Le quattro lettere di Gertrude
«Gertrudina, Gertrudina!» risuonava nel silenzio dei lunghi corridoi
tirati a cera e le suore si rimandavano di bocca in bocca il nome vezzeggiato di Gertrude, come uno di quei dolcini che soltanto loro sanno
confezionare nella quiete del chiostro.
Al suono di quella voce il cuore di Gertrude non si gonfiava più,
come accadeva quando non conosceva ancora il turbamento, che i racconti delle educande le avevano iniettato: con le immagini a lei sconosciute di brillanti e variopinti sogni mondani.
Il richiamo delle suore la coglieva adesso in qualche angolo isolato del convento, intenta nello sforzo di animare, sulle bianche pareti,
qualcosa che somigliasse ai racconti delle sue più fortunate compagne.
Era il suo un lavoro di collage con immagini prese a prestito; perché,
per quanto sforzo facesse, non le riusciva di trovare nel suo ricordo che
qualche larva sbiadita e senza vita.
Per questi nuovi sogni mancava a Gertrude il materiale da costruzione. Non c’era in lei alcun ricordo, per quanto deformato, che la legasse
alla radice del proprio godimento.
Il desiderio, timidamente rianimato dalle scosse dei tumultuosi progetti delle compagne, non aveva di che sostenersi: Gertrude non disponeva della molla di un proprio “fantasma”.
La primissima infanzia era stata come cancellata da una puerizia,
condita di santini e di bambole che rappresentavano suore: le sole immagini disponibili come Io ideale su cui modellare il proprio Io.
Quanto all’Ideale dell’Io ci aveva pensato il Principe padre a scolpirlo nella sua mente con espressioni del tipo: «…il sangue si porta per
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tutto dove si va»; con la precisa allusione al destino di comando che a
Gertrude era riservato, nel monastero che l’avesse accolta.
Attorno alla piccola era stato tramato un ferreo involucro di significanti, per i quali obbligatoriamente doveva passare la sua domanda; e
sui quali alla lunga la domanda si era atrofizzata, provocando il collasso
del desiderio e l’eclissi del fantasma.
Dunque a Gertrude non era rimasto che identificarsi con quello
squallido tratto: lo scarno e rinsecchito scettro in un monastero; e per il
resto sparire.
Nel seminario del 26 novembre 1969 Lacan postula quattro modalità
per il soggetto, in quanto parlante, di collocarsi in un discorso. Ne consegue la formulazione di “quattro discorsi”: quello del Maître, quello
dell’Isterica, quello dell’Università e quello dell’Analista.
Ogni struttura soggettiva, vi si configura per la posizione che, in ciascuno dei discorsi elencati, occupano i quattro significanti fondamentali, che Lacan ha isolato nel corso del suo insegnamento.
È il suo apporto originale nel campo freudiano l’aver sintetizzato in
poche lettere la scrittura per una logica dell’inconscio.
$, è lo stesso soggetto, barrato per prima intenzione, giacché, come
essere di linguaggio, non può che sussistere in qualche significante e
per il resto sparire;
S1, è il signifiant maître, il tratto unario dell’Identificazione, l’Ideale dell’io;
S2, è il sapere inconscio, il rappresentante primariamente rimosso
della rappresentazione; di questo sapere l’Altro, quello senza il quale
non ci sarebbe parola per il soggetto, proprio dal soggetto è supposto
esserne gravido;
a, il plus de jouir, è l’oggetto piccolo a, l’oggetto fantasmatico a cui
è legata la nostalgia del godimento e perciò detto causa di desiderio.
Questi significanti possono ruotare su di un quadrante a quattro settori, che designano quattro posti fissi; e dalla posizione dei primi sui
secondi il soggetto risulta preso in una rete, che specifica la struttura
del discorso.
Il discorso del Maître è quello in cui S1, il signifiant maître, occupa
il posto principale:
16
S1
$
S2
a
Agente
Verità
Altro
Produzione
Che il discorso del Maître, “del padrone antico”, possa applicarsi
all’infanzia e all’adolescenza di Gertrude non deve sorprendere; perché
«…ciò che instaura, installa, mantiene il discorso del Maître, è del tutto
escluso che sia la forza, giacché, malgrado tutto, coloro ai quali questo
discorso si applica sono la stragrande maggioranza»1.
Gertrude era l’ultima figlia di un gran Principe che seguiva in modo
rigoroso la legge del maggiorasco, quella legge che riservava al primogenito, oltre al titolo, tutte le sostanze della famiglia, nel modo più
completo che si potesse.
«La nostra infelice era ancora nascosta nel ventre della madre, che
la sua condizione era già irrevocabilmente stabilita»2; pure il nome,
s’intende, che nell’intenzione del padre doveva richiamare l’idea del
chiostro.
Non si può dire che il Principe non avesse riposto delle speranze
sulla figlia, perché al contrario aveva il preciso progetto di farne la principessa del locale monastero.
Così Gertrude pure lei è inserita nel discorso del “padrone antico”,
quello in cui il significante principale, il tratto unario dell’Identificazione è al primo posto, quello del sembiante.
E bisogna dire che Gertrude si accomoda bene in questo discorso,
già tutto imbastito, sapientemente, su di lei nei primi sei anni di vita:
«tu sei una ragazzina» le si diceva: «queste maniere non ti convengono:
quando sarai madre badessa, allora comanderai a bacchetta, farai alto
e basso».
Oppure quando il Principe la riprendeva per certe maniere troppo
libere e familiari, «ehi! ehi!» le diceva; «non è questo il fare di una par
tua: se vuoi che un giorno ti si porti il rispetto che ti sarà dovuto, impara
fin d’ora a star sopra di te: ricordati che tu devi essere, in ogni cosa, la
prima del monastero; perché il sangue si porta per tutto dove si va»3.
Entrata nel monastero all’età di sei anni, Gertrudina è per tutte la
1
J. Lacan, Il rovescio della psicoanalisi, Einaudi, Torino, 2001.
Manzoni, I Promessi Sposi, Ferrario, Milano, 1827.
3 Ibid.
2 A.
17
signorina, per antonomasia; ed è trattata dalle monache con la stessa
familiarità rispettosa, che esigono per se stesse dalle altre educande.
Le monache, complici compiacenti del Principe, si accomodano di
buon grado a occupare nella struttura del “discorso” di Gertrude il posto
dell’Altro, di quello che come tale deve, è supposto sapere. Lo stesso
posto è detto anche “del servo antico” e come tale, chi lo occupa, quel
sapere deve cederlo.
Tutto va bene finché sono le monache, e soltanto loro, a recitare la
parte del “servo antico” dal posto dell’Altro.
S1
$
S2
a
Agente
Verità
Altro
Produzione
Gertrude non deve nemmeno darsi la pena di interrogarle sul loro sapere; esse glielo danno, tutto in anticipo e spontaneamente, questo sapere sulla sua verità: «Gertrudina! Gertrudina!» ripete l’eco dalle candide
volte del monastero, facendo vibrare le corde più intime di Gertrude;
ma non sono che scampoli di godimento.
Quando il soggetto, $, è strettamente legato a S1, il soggetto cioè aderisce tenacemente al suo Ideale, si produce l’illusione che «l’inserzione
nel godimento è il fatto di sapere»; dal momento che l’interdizione del
godimento è preliminare nel discorso del Maître e la congiunzione di $
con S1 vi si fa a spese del “fantasma”.
Ma tra le educande del monastero «ce n’erano alcune che sapevano
d’esser destinate al matrimonio. Gertrudina, nodrita nelle idee della sua
superiorità, parlava magnificamente dei suoi destini futuri di badessa,
di principessa del monastero, voleva a ogni costo esser per le altre un
soggetto d’invidia; e vedeva con meraviglia e con dispetto, che alcune
di quelle non ne sentivano punto. All’immagini maestose, ma circoscritte e fredde, che può somministrare il primato in un monastero, contrapponevano esse le immagini vere e luccicanti, di nozze, di pranzi, di
conversazioni, di festini, di villeggiature, di vestiti, di carrozze»4.
Finora Gertrude ha trovato il proprio sostegno nell’identificazione al
tratto unario; ed è così saldamente legata ad esso, al “testimone”, allo
4
18
Ibid.
scettro che il Principe padre le ha posto tra le mani, che ogni possibilità
di nuova attitudine ne è condizionata.
Di fronte a questo nuovo sapere così allettante e così oscuramente
legato a qualcosa di misterioso, ch’ella deve pur sentire in sé, sembrerebbe naturale e spontaneo che la ragazza debba disporsi a un nuovo
tipo di identificazione. Del resto è proprio con le ragazze di un collegio
che Freud illustra il terzo tipo di identificazione, l’identificazione di
desiderio, l’identificazione dell’isterica.
Per adeguarsi al desiderio delle sue compagne Gertrude dovrebbe
cambiare discorso: passare cioè dalla struttura del discorso del Maître a
quella del discorso dell’Isterica.
In fondo si tratterebbe semplicemente di far ruotare di un quarto di
giro i significanti nel quadrante; ma la rotazione può essere eseguita
soltanto al prezzo di una disgiunzione.
Il soggetto deve disgiungersi dal signifiant maître.
(M)
S1
$
S2
a
(H)
$
a
S1
S2
Questa disgiunzione, questa rimozione del signifiant maître, a
Gertrude fallisce.
Il modo in cui lei si dispone al suo nuovo genio implica la causa del
fallimento:
«Per non restare al di sotto di quelle sue compagne, e per condiscendere nello stesso tempo al suo nuovo genio, rispondeva, che, alla
fine dei conti, nessuno le poteva mettere il velo in capo senza il suo
consenso, che anche lei poteva maritarsi, abitare un palazzo, godersi il
mondo, e meglio di tutte loro; che lo poteva, pur che l’avesse voluto,
che lo vorrebbe, che lo voleva…»5.
Sì lo vuole a questo punto, è chiaro; ma Gertrude rivela, nelle stesse
parole in cui si risolve a volere, che non vuole abbandonare nulla del
suo registro: il registro del padrone.
Tuttavia lei si mette, a partire da questo momento, per una strada
nuova; ma su questa strada, che dovrebbe condurla altrove, ella muove5
Ibid.
19
rà puntualmente tutti quei passi che la condurranno in modo ineluttabile
al suo destino di monaca.
Il primo di questi passi è una lettera, in forma di supplica, che le
monache, vigilanti, la convincono a sottoscrivere in uno di quei momenti in cui Gertrude, ormai in età pubere, si sentiva in colpa per le sue
lambiccate fantasie, rispondenti a quel suo nuovo genio. La supplica
era rivolta all’ecclesiastico, vicario delle monache, che aveva il compito di esaminare le aspiranti al velo, per sincerarsi della loro libera
scelta; ma «…la supplica non era forse ancor giunta al suo destino,
che Gertrude s’era già pentita d’averla sottoscritta. Si pentiva d’essersi
pentita, passando così i giorni e i mesi in un’incessante vicenda di sentimenti contrari»6.
Ora in questa storia, così appassionatamente narrata dal Manzoni, il
sentimento contrario alle fantasie di Gertrude non è quello ispirato da
una religiosità autentica.
Il Manzoni, che in fatto di religione se ne intende, ci assicura che la
religione di Gertrude, fondata sull’orgoglio, è una larva come le altre.
Dunque Gertrude non si sente in colpa per il fatto di trascorrere o abbandonarsi a fantasie proibite ma per la sua «ripugnanza al chiostro» e
la sua «resistenza alle insinuazioni de’ suoi maggiori, nella scelta dello
stato»7.
Insomma il dramma di Gertrude riguarda la politica e non la fede.
E ha tutto il sapore di un intrigo diplomatico il modo in cui viene concertata con le sue compagne congiurate, e fatta recapitare per canali
misteriosi, la lettera con la quale Gertrude informa il padre della sua
nuova risoluzione.
Né meno diplomatico è il silenzio del Principe, in risposta alla lettera; e quello ancora più oscuro, perché condito di allusioni reticenti,
della Madre badessa.
Arriva il tempo in cui Gertrude deve trascorrere un mese nella casa
paterna, prima di compiere gli ultimi passi necessari al suo definitivo
ingresso nel monastero; e lei vi si prepara con il proposito di controbattere la presumibile guerra del padre.
6
7
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Ibid.
Ibid.
In casa nessuno le parla di niente: nessuno le parla. Del resto solo
raramente viene ammessa alla presenza dei familiari.
«Aveva sperato che, nella splendida e frequentata casa paterna,
avrebbe potuto godere almeno qualche saggio reale delle cose immaginate; ma si trovò del tutto ingannata. La clausura era stretta e intera
come nel monastero: d’andare a spasso non si parlava neppure;»8 e la
cosa appare freddamente calcolata, se si pensa che Gertrude arriva da
un posto dove è rimasta rinchiusa per otto anni. «A ogni annunzio d’una
visita, Gertrude doveva salire all’ultimo piano, per chiudersi con alcune
vecchie donne di servizio: lì anche desinava quando c’era invito.
I servitori s’uniformavano, nelle maniere e ne’ discorsi, all’esempio
e all’intenzioni de’ padroni»9.
Eccoci al cuore del problema: quelli che lei avrebbe voluto trattare
con familiarità signorile, i domestici, le corrispondono «una noncuranza manifesta».
Il discorso del Maître è minato nel suo fondamento.
C’è però qualcuno nella servitù che le porta un rispetto e sente per
lei una compassione di un genere particolare.
«Il contegno di quel ragazzotto era ciò che Gertrude aveva fino allora visto di più somigliante a quell’ordine di cose tanto contemplato nella sua immaginativa, al contegno di quelle sue creature ideali. A poco
a poco si scoprì un non so che di nuovo nelle maniere della giovinetta:
una tranquillità e un’inquietudine diversa dalla solita, un fare di chi ha
trovato qualcosa che gli preme, che vorrebbe guardare ogni momento,
e non lasciar vedere agli altri.
Le furon tenuti gli occhi addosso più che mai: che è che non è, una
mattina, fu sorpresa da una di quelle cameriere, mentre stava piegando
alla sfuggita una carta, sulla quale avrebbe fatto meglio a non iscriver
nulla. Dopo un breve tira tira, la carta rimase nelle mani della cameriera, e da queste passò in quelle del principe»10.
È la terza lettera che scrive Gertrude: la prima indirizzata al vicario
delle monache; la seconda indirizzata al padre; questa indirizzata… a
chi? Al paggio evidentemente; ma se è finita, in un modo così preve8
Ibid.
Ibid.
10 Ibid.
9
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dibile da sembrare fatale, nelle mani del padre, è perché proprio quella
era, senza saperlo, la vera destinazione.
È il solo momento in cui Gertrude, non si sa con quale convinzione,
tenta il discorso dell’isterica; mettendo in atto $ una manovra in cui si
fabbrica un padre S1 animato dal desiderio di sapere S2: di sapere almeno quel tanto che basti per credere che lei, a, è il valore supremo di
questo suo sapere:
$
a
S1
S2
«Un padre cioè sul quale regnerebbe: lei [povera illusa] regnerebbe
e lui non governerebbe»11.
Ma il principe è un uomo d’altro stampo. Le compare con quella
carta in mano e, con cipiglio terribile, pronuncia parole roventi.
Il castigo immediato è quello d’essere rinchiusa in camera con la
serva che ha fatto la scoperta, ma se ne lascia intravvedere un altro più
oscuro e minaccioso.
Che Gertrude debba stare rinchiusa in compagnia della cameriera
non è una scelta casuale.
“Testimonio della sua colpa” e “Cagione della sua disgrazia”, la cameriera, che dal canto suo non si astiene da qualche dispetto, rimprovero o minaccia, è l’unico termine di paragone che abbia la prigioniera
per meditare sulla propria condizione: «…nell’abisso in cui Gertrude
era caduta… la condizione di monaca festeggiata, ossequiata, ubbidita,
le pareva uno zuccherino»12.
È il risultato che si voleva, lasciando Gertrude in balìa di una cameriera; ed è proprio per «uscir dall’unghie di colei, e di comparirle in
uno stato al di sopra della sua collera e della sua pietà che… una mattina, stuccata e invelinita all’eccesso, per uno di que’ dispetti della sua
guardiana, andò a cacciarsi in un angolo della camera e lì, con la faccia
nascosta tra le mani, stette qualche tempo a divorar la sua rabbia. Sentì
allora un bisogno prepotente di vedere altri visi, di sentire altre parole,
d’essere trattata diversamente.
11
J. Lacan, Il rovescio della psicoanalisi, cit.
Manzoni, I Promessi Sposi, cit.
12 A.
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…S’alzò di lì, andò a un tavolino, riprese quella penna fatale, e scrisse al padre una lettera piena d’entusiasmo e d’abbattimento, d’afflizione
e di speranza implorando il perdono, e mostrandosi indeterminatamente
pronta a tutto ciò che potesse piacere a chi doveva accordarlo»13.
Con questa lettera, la quarta, il cerchio si chiude: essa segna il ritorno del significante su se stesso, di Gertrude cioè alla radice stessa del
suo essere, alla sua essenza di Maître.
Che in questa lettera siano toccate le fibre più intime del personaggio, è testimoniato dalla prosa del Manzoni che, in questa occasione,
s’infiorisce di una figura retorica, il chiasmo, come a segnare con una
croce la svolta risolutiva di un itinerario: entusiasmo, abbattimento, afflizione, speranza.
Tuttavia il discorso di Gertrude ha ormai cambiato struttura: lei si è
ormai appropriata del sapere delle sue compagne, quelle destinate alla
vita mondana.
La trasmutazione, l’unica possibile in assenza della manovra psicanalitica, è quella che trasforma il suo discorso da quello del «Maître
antico» a quello del «Maître moderno», dell’Universitario.
La Gertrude che s’incontra nella vicenda del romanzo I promessi
sposi è quella donna ormai provata ma vibrante di cui l’autore dipinge
un ritratto suggestivo e inquietante; mentre la storia che abbiamo presentato è narrata retroattivamente.
A quel punto Gertrude è la maestra delle educande verso le quali può
fare ritorno il sapere acquisito, un sapere che, in dissidio con l’Ideale
dell’Io, si è denaturato; a lei non rimane che il passaggio all’atto: la
perversione e il crimine.
13
Ibid.
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