Appunti sul concetto di straniero in era precristiana

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Appunti sul concetto di straniero in era precristiana
Numero
II
Athene noctua
I nostri saggi
Appunti sul concetto di straniero in età
precristiana
Di
Luca Baldazzi
www.Athenenoctua.it
Appunti sul concetto di straniero in era precristiana
Questo breve saggio mira ad inquadrare quali accezioni hanno maggiormente caratterizzato e
definito il concetto di straniero all’interno della riflessione filosofica. A tal proposito si procederà
valutando i significati attribuiti al termine in esame o ai suoi equivalenti in epoca pre-cristiana, con
alcune proiezioni nella contemporaneità. A fronte di un argomento tanto vasto e ramificato e delle
difficoltà che fin da subito si incontrano, si è scelto di non affrontare la declinazione del termine in
questione in ambito letterario, sociologico ed antropologico, mantenendosi all’interno di un orizzonte
storico - filosofico e linguistico.
Una prima difficoltà è legata al fatto che il lemma straniero non compare nei più rilevanti dizionari
filosofici contemporanei. I compendi che contengono lemmi quali civiltà, società e cultura, arricchiti
da innumerevoli riferimenti e citazioni da autori antichi e moderni, non ospitano un termine così
rilevante per la storia dello sviluppo della società e della cultura non solo europea ma mondiale, e che
inoltre si carica di grande attualità.
La condizione dello straniero è infatti assai rilevante nel presente, tanto più in relazione alle
diverse tematiche legate ad un'altra dimensione problematica decisamente contemporanea,
l’”integrazione”. In pieno “villaggio globale”1 nel quale l’”estraneo” spesso annulla le distanze
fisiche con la nostra dimensione quotidiana - tanto che, provocatoriamente, si potrebbe anche parlare
di una evaporazione del concetto stesso di straniero - , l’assenza di una attenzione critica nei dizionari
filosofici e nella riflessione filosofico - linguista appare a dir poco sorprendente.
È a questo punto opportuno accantonare il livello della riflessione filosofica per delineare i
significati che comunemente si attribuiscono alla dimensione dello straniero. Nella lingua italiana
straniero è un sostantivo e un aggettivo che indica, in primo luogo, cittadini di altre nazioni. Oltre a
questo livello neutro di definizione, il dizionario Treccani2 attribuisce al lemma una connotazione di
estraneità, con una declinazione di ostilità/straniamento. Il concetto esprime dunque una dimensione
di alterità rispetto ad una condizione base data per scontata e, quindi, presupposta come naturale: non
si può essere “stranieri” senza essere “diversi”. Si è infatti stranieri in quanto privi di cittadinanza
(diade straniero/cittadino), o perché non inclusi in un gruppo (diade estraneo/familiare); si può,
inoltre, essere considerati (o considerarsi) stranieri quando, pur vivendo in una società, non ci si
ritiene o non si viene ritenuti ad essa vincolati (apolidi, senza dimora, pellegrini), o perché si è stati
oggetto di ostracismo, o perché si è estranei a (o estraniati da) determinati contesti culturali (diade
straniero - barbaro/civiltà) e valori imperanti (diade straniero/tradizione).
1
2
Cit. da Marshall McLuhan, Understanding Media: the Extensions of Man, 1964
Fonte: enciclopedia Treccani online; http://www.treccani.it/vocabolario/tag/straniero/, consultata lo 03/03/2013
Avvalendoci delle definizioni di Vittorio Cotesta, le rappresentazioni dello straniero finora
declinate sono “costruite mediante una logica rispondente ad una sorta di codice implicito dell’altro.
In questo codice l’altro, lo straniero, ha una sua specifica dimensione simbolica. Inoltre, allo statuto
simbolico dell’altro si contrappone lo statuto simbolico del “noi”. L’identità dello straniero, così come
è definita nel codice dell’altro, contiene l’altra faccia dell’identità del “noi”, della comunità, del
gruppo e della società rispetto alla quale lo straniero è appunto definito come tale. L’altro rappresenta
in questo modo il lato nascosto della nostra identità … Non vi è tuttavia … un unico codice originario
dell’altro. lo statuto dello straniero non è perciò univoco. Le culture, soprattutto i grandi sistemi di
senso custoditi dalle religioni, hanno ognuna un proprio codice dell’altro. Lo straniero ha pertanto
volti diversi a seconda del sistema a cui si fa riferimento”. 3
Analizzeremo di seguito le accezioni che corredano il concetto di straniero nelle culture greca,
latina ed ebraica, i cui “mattoni” costituiscono le fondamenta su cui esso si è sviluppato, evoluto o
involuto, nella moderna cultura occidentale. Ci asterremo dall’affrontare gli universi semantici che
sostanziano termini quali rinnegato, esiliato, escluso - anch’essi assai frequenti nella storia delle
culture antiche - i quali, rappresentando alcune specifiche declinazioni di straniero, aprirebbero
scenari attinenti il complesso rapporto tra straniero ed identità che non rientra nella nostra
riflessione.
Lo straniero nel mondo greco: l’ospite ed il barbaro
La nostra prima tappa4 è necessariamente la Grecia delle polis. Non si può non riconoscere come
lo straniero (xenos) sia una figura onnipresente nella dimensione culturale dei popoli di Creta,
dell’Attica , del Peloponneso e delle coste del Mediterraneo da essi popolate e colonizzate. Lo xenos
ricorre nell’epica (Omero, l’Odissea), nelle tragedie (Eschilo, Medea), nell’Olimpo - basti pensare
che uno degli appellativi più frequenti di Zeus era appunto Xenios5 , protettore degli ospiti - e nelle
riflessioni filosofiche. Speciale attenzione meritano i dialoghi platonici, nei quali molti interlocutori
sono spesso, appunto, xenoi. Nel dialogo Leggi, lo straniero Ateniese - il quale, rivolgendosi ai suoi
interlocutori, Clinia di Creta e Megillo di Sparta, li denomina allo stesso modo - discorre di come gli
3
Cit. da Vittorio Cotesta, Lo straniero, pluralismo culturale e immagini dell’Altro nella società globale, Gius. Laterza
& Figli, 2008
4 Pur essendo le fonti bibliche cui faremo riferimento in parte precedenti allo sviluppo della cultura greca, abbiamo
ritenuto opportuno seguire uno schema classico che lega la nascita della cultura occidentale alle civiltà del Peloponneso.
5
Appellativo attribuito a Zeus in qualità di difensore degli ospiti e garante della xenia, il sistema di norme e
consuetudini che regolava la tradizione dell’ospitalità nel mondo greco.
xenoi vadano concepiti in quattro tipologie a seconda degli affari o intenti che li hanno spinti a
mettersi in viaggio:
“Quattro sono allora le classi di stranieri di cui bisogna parlare: la prima è costituita da quelli che
si muovono continuamente d'estate e trascorrono per lo più il loro tempo a frequentare ora un luogo
ora un altro, come fanno gli uccelli migratori, e in effetti la maggior parte di questi, come se volasse
realmente sul mare per fare guadagni con le loro attività commerciali, vola nella bella stagione verso
gli altri stati … La seconda classe è costituita da quelli che vengono ad assistere dal vivo a quegli
spettacoli artistici che possono essere visti ed ascoltati … dopo che si sono fermati per un giusto
periodo di tempo, e abbiano visto ed ascoltato lo spettacolo per cui sono venuti, se ne vadano senza
compiere o subire danni … La terza classe di stranieri dev'essere accolta a spese dello stato, in quanto
giunge da un'altra regione per conto dello stato: li devono accogliere soltanto gli strateghi, gli
ipparchi, i tassiarchi, e dovrà prendersi cura di costoro, insieme ai pritani, quel cittadino presso il
quale uno di essi, in qualità di ospite, sarà alloggiato. La quarta classe, se mai giunge, giungerà
raramente; e se in ogni caso qualcuno venga mai da un'altra regione, con un incarico che corrisponde
a quello dei nostri osservatori, per prima cosa non abbia meno di cinquant'anni, e inoltre richieda di
voler vedere qualcosa di bello nel nostro stato, qualcosa che si distingue per bellezza da ciò che si
vede negli altri stati … Vada ognuno di questi, presentandosi senza invito, a bussare le porte dei ricchi
e dei saggi, essendo anch'egli tale …” 6
Come si può ricavare dalla distinzione che Platone avanza, gli xenoi dell’antica Grecia sono
l’equivalente dei nostri “turisti”, “viaggiatori” ed “ospiti”. Risalendo all’accezione del termine in
Omero, xenos ha il significato di “ospite, legato con altri per vincoli di reciproca solidarietà, sotto la
protezione di Zeus Xenios7 “ , condizione che poteva riguardare anche un greco; un’altra importante
declinazione è quella di “straniero accolto in ospitalità“, tanto che nell’Iliade il duello tra Diomede
e Glauco finisce per annullarsi8 quando Glauco ricorda a Diomede la sua discendenza, e quest’ultimo,
riconosciuto come in precedenti occasioni la sua casata avesse ospitato un avo dell’avversario, cessa
le ostilità e rinsalda il legame di Xenia.
“Così disse, e fu lieto Diomede, l'eroe possente nel grido di guerra; piantò la lancia nella fertile
terra e si rivolse con dolci parole a Glauco, capo d'eserciti: «Tu sei dunque mio antico, paterno ospite.
Eneo accolse una volta il grande Bellerofonte nella sua casa e lo trattenne per venti giorni, e si
scambiarono splendidi doni ospitali” …”Perciò adesso nell'Argolide io sono tuo ospite, e tu mio
ospite in Licia, se mai verrai in quel paese. Evitiamo nella battaglia la lancia l'uno dell'altro; per me
6
Cit. PLAT. Leg.., 12, 952d- 953
Fonte: http://mainikka.altervista.org/etimologia-dello-straniero/, consultato il 03/03/2013
8
Cit. Iliade, libro VI, v 119-236
7
ci sono molti Troiani e alleati famosi da uccidere, quelli che posso raggiungere e un dio mi concede;
e molti Greci ci sono per te da uccidere, quelli che puoi. Scambiandoci le armi, in modo che anche
costoro sappiano che ci vantiamo di essere antichi, paterni ospiti». 9
Lo xenos di Platone trova però completezza di senso nella contrapposizione con il termine
barbaros: lo xenos identifica infatti coloro che, appartenendo allo stesso ceppo culturale e
partecipando della comune dimensione politica, giuridica e di costumi, possono venire accettati come
“ospiti” - un esempio per tutti, Ulisse alla corte dei Feaci; barbaros è invece l’appellativo riservato
agli stranieri “altri” dalla grecità, e sottolinea
una forte estraneità. Tale estraneità viene
tendenzialmente abbinata ad un caratteristica di intrinseca brutalità che sollecita diffidenza e
disprezzo . Con Aristotele l’accezione negativa si irrobustisce, fino al punto di teorizzare e legittimare
la sottomissione e la sudditanza dei barbari ai greci.
Questo atteggiamento verso l’ “estraneo “ - che poggia su di un sentimento di paura e diffidenza
di cui si coglie una costante nella moderna dimensione di straniero - si ripropone anche verso i
meteci, gli stranieri che vivevano integrati nelle comunità greche. Meteco, dal greco metoikos, è
l’appellativo che accompagnava gli stranieri che risiedevano per un dato periodo di tempo,
generalmente un anno, nelle città stato per sviluppare commerci. Il termine deriva dalla tassa di
soggiorno (meteikon) che si richiedeva a costoro. Venivano inoltre definiti meteci quegli schiavi
liberati che non erano ancora stati accolti nella schiera dei liberi cittadini. I meteci detenevano dunque
uno status giudico inferiore e minori diritti rispetto ai liberi cittadini, ed occupavano un gradino
intermedio tra questi e gli schiavi.
Xenos e barbaros rappresentano probabilmente la diade che maggiormente contraddistingue il
mondo antico, e i cui riflessi sono più che evidenti nelle moderne società europee. Lo stereotipo del
barbaro, conservatosi grazie all’assorbimento del termine da parte dei romani e dalla sua
riproposizione nel mondo bizantino, è non solo un luogo comune dell’immaginario collettivo, ma è
stato termine di riferimento per molteplici scritti filosofici moderni e contemporanei; si pensi a Levi
Strauss in Razza e Storia e alla antinomia engelsiana “socialismo o barbarie”, ripresa e resa famosa
da Rosa Luxenburg nel Juniusbroschüre del 1915.
Dalla riproposizione dell’etimologia dei termini presi in esame discendono ulteriori spunti di
riflessioni. Se xenos deriva da ἐξ, la preposizione greca corrispondente alla latina ex, ed esprime una
meccanica divisione, la radice etimologia di barbaros è invece onomatopeica (bar, bar) utilizzata per
sottolineare la parlata eterofona dei popoli stranieri, percepita dai greci come un confuso balbettio.
9
Ivi. Versi 212 - 18 e 224 – 31; da http://www.liceofranchetti.it/insegnanti/materiali/millino/iliade.pdf, consultato il
02/03/2013
Questa connotazione di straniero in relazione all’incapacità di esprimersi correttamente secondo i
canoni della “lingua corretta”, rispecchia la specificità del mondo greco, la cui unità culturale era
garantita in primo luogo da un linguaggio comune.10
Come osservato dal filologo ed antropologo Maurizio Bettini, “l’impossibilità di comunicare che
impedisce di stabilire relazioni o scambi, è chiaramente una delle condizioni che caratterizzano lo
straniero, che prima ancora di patire la tendenziale esclusione da una identità culturale data , si trova
nella pratica condizione di non essere compreso, incapace di esporre le proprie esigenze ed i propri
pensieri in modo efficace. Non è un caso che i greci fossero soliti dire “la seiren11 annuncia un amico,
l’ape annuncia uno straniero”12 .
L’insetto che per noi oggi evoca operosità e, svelato il senso delle sue evoluzioni aeree, avanzata
capacità di comunicazione, era per i popoli ellenici oggetto di grande mistero e fascinazione;
nonostante l’ape viva in una sua piccola polis, tra il suo mondo e quello dell’uomo non c’era, né ci
poteva essere,
alcuna contiguità. L’ape era pertanto, con le sue misteriose pellegrinazioni,
un’adeguata metafora del barbaros : un soggetto “altro” dall’uomo della polis, con cui non si può
comunicare e che si è portati a temere, anche perché in grado di “pungere”.
È qui opportuno notare come la forte caratterizzazione negativa che accompagna il termine
barbaros - che si sostanzia nella locuzione greca “πᾶς μὴ Ἕλλην βάρβαρος”, chiunque non sia greco
è un barbaro - non trova equivalenti in altre culture. Neppure la civiltà cinese che concepiva la
grande muraglia oltre che per scopi difensivi, per delimitare la propria dimensione identitaria
e
sociale e che, in virtù dei suoi vasti confini e delle sue numerose etnie, disponeva di innumerevoli
termini per la condizione di “straniero”, contempla nulla di analogo. Coloro che vivevano al di là dei
suoi confini veniva indicati con l’ideogramma ci che rimanda a “ semplicità” e ad uno stato
maggiormente vicino a quello naturale, senza però comportare alcuna pretesa di superiorità né
tantomeno instillare disprezzo13.
In Aristotele troviamo poi una ulteriore accezione di straniero laddove, nel Libro I della Politica,
viene precisata la definizione di apolide per distinguere i cittadini della polis da quanti vivono al di
fuori di essa:
10
Il greco antico (si considera qui il periodo che va dall’800 a.c sino alle conquiste di Alessandro Magno, che anno
visto imporsi la koiné, il greco alessandrino), nonostante si componesse di diversi dialetti (ionico – attico, dorico,
eolico, arcado - cipriota), era molto coesa dal punto di vista linguistico. In conseguenza dell’egemonia politica di molti
centri, alcuni dialetti assumevano infatti il valore di lingue franche, e venivano regolarmente parlati in tutta la magna
Grecia. Va inoltre segnalato come nella produzione artistica ciascun dialetto fosse associato ad un dato genere in
rapporto alla sua musicalità.
11
Risulta tuttora ignoto quale insetto venisse indicato con la parola seirèn
12
Cit. da A cura di Maurizio Bettini, Lo straniero ovvero l’identità culturale a confronto, Laterza e figli 2005; , p 7
13
Remo Ceserani Lo Straniero, collana Temi Letterari, editori Laterza, 1998; p. 18
“Chi vive fuori della comunità statale per natura e non per qualche caso o è un abietto o è superiore
all’uomo”14 .
L’apolide, dunque non è un semplice xenos . Se celebre è l’affermazione - che precede di pochi
paragrafi il passo citato- secondo cui “l’uomo è un animale politico”, non va dimenticato che lo zòon
politikòn aristotelico appartiene una dimensione altra dall’ethnos, che caratterizza invece una mera
condivisione di uno stesso spazio all’interno di un gruppo biologicamente legato. La polis, invece,
è caratterizzata da una dimensione, appunto, politica, culturale e relazionale superiore. Gli uomini
che vivono al di fuori della polis oscillano, secondo Aristotele, tra l’animalità e la divinità: animalità
perché non meritevoli di condividere con altri uno stesso perimetro sociale, divinità perché non
necessitati a farlo. Questi uomini, gli apolidi, non possono dunque essere interlocutori di un rapporto
paritario, e vengono iscritti in un contesto analogo a quello che caratterizza i barbaroi. Per di più gli
apolidi , questa particolare specie di barbari , in quanto “in-civili” (l’etimologia di apolide suggerisce
anche a questo significato) sono oggetto di una forte discriminazione, che impedisce loro di venire
considerati pienamente umani e, quindi, potenziali xenoi, ovvero “ospiti”. Essi sono relegati in una
dimensione di animali umani - umanoidi o subumani - inferiori per natura e cultura. Come avviene
per i barbaroi, è quindi lecito che vengano dominati, come argomentato nel celebre passo de la
Politica che delinea il concetto di schiavitù naturale:
“Quindi quelli che differiscono tra loro quanto l’anima dal corpo o l’uomo dalla bestia (e si trovano
in tale condizione coloro la cui attività si riduce all’impiego delle forze fisiche ed è questo il meglio
che se ne può trarre), costoro sono per natura schiavi, e il meglio per essi è star soggetti a questa
forma di autorità, proprio come nei casi citati.15 ”
La dimensione “divina” dell’apolide in Aristotele, che caratterizzerebbe colui che non necessita
della polis, è dunque solo un paradosso linguistico e concettuale.
Lo straniero nel mondo romano - il simile che si fa nemico ed ospite
Nel mondo latino arcaico si può rinvenire una accezione meno estremizzante del termine
straniero, rispetto alle più tarde età repubblicana e imperiale quando si fa uso di hospes, o talvolta
peregrinus. E’ Cicerone, nel De Officis, a guidarci in un excursus storico-linguistico:
14
15
Aristotele, Politica, I, 1253a, 3 ss
Pol, I, 1254b, 7ss
“Voglio anche osservare che, chi doveva chiamarsi, con vocabolo proprio, perduellis («nemico di
guerra»), era invece chiamato hostis («straniero»), temperando così con la dolcezza della parola la
durezza della cosa. Difatti i nostri antenati chiamavano hostis quello che noi oggi chiamiamo
peregrinus («forestiero»). Ne danno prova le dodici tavole: Aut status dies cum hoste («o il giorno
fissato, per un giudizio, con uno straniero»), e cosi ancora: Adversus hostem aeterna auctoritas
(«Verso lo straniero l'azione giuridica non è soggetta a prescrizione»). Che cosa si può aggiungere a
una così grande mitezza? Chiamare con un nome così benigno colui col quale si combatte! E' ben
vero che ormai il lungo tempo trascorso ha reso questo vocabolo assai più duro: esso ha perduto il
significato di forestiero per indicare propriamente colui che ti vien contro con l'armi in pugno”16.
Il termine hostis, associato in età imperiale a nemico o avversario, originariamente rappresentava
dunque l’estraneo, colui che “veniva da fuori” e che, non facendo parte della comunità, non era
soggetto al Diritto Romano, bensì a quello Latino che valeva per i popoli laziali e italici17 .
Sempre in tema di traslazioni di significato, ritornando al contesto greco va segnalato come un
analogo slittamento si sia verificato anche per
i termini xenos e barbaros: le caratteristiche
esclusivamente positive del primo con il tempo venivano ad essere attenuate e, già con Esiodo18, lo
xenos acquisisce accezioni negative, prima quelle di estraneo/forestiero, e poi anche mercenario,
diverso; quanto a barbaros, esso assumeva accenti dispregiativi nel VI – V secolo, ovvero all’epoca
delle invasioni persiane.
Ritornando all’assorbimento della diade xenos – barbaros greca da parte della cultura e della
lingua romana, va evidenziato come il termine barbarus non viene usato nel mondo latino per
indicare popoli aventi semplicemente idiomi diversi, né tutte le popolazioni straniere o quelle
affrontate in guerra, bensì quei popoli ritenuti “incivili” ed estremamente bellicosi. Indicativo è l’uso
che di barbarus fa Giulio Cesare nel De Bello Gallico. Talvolta il termine è sinonimo di ferocia, altre
volte rimarca l’esotismo dei riti e dei costumi delle popolazioni Galle e, più in generale, di quelle
Germaniche; altre volte ancora, quando il nemico si dimostra particolarmente ostico19 e valoroso,
barbarus ed hostis sono alternati come sinonimi: è il caso di Vercingetorige Re degli Arverni , che
nell’opera è sia hostis che barbarus.
Nel mondo latino si osserva tra hostis e civis un’opposizione assai più lieve di quella riscontrata
nella diade greca. Tale prospettiva, se rapportata alla varietà di popolazioni che occupavano la
penisola italica (etruschi, osci-umbri,sanniti, siculi ed altri ancora), sembra definire un rapporto verso
16
Cicerone, De Officis, (I, par. 37)
Anche se, come delineato dal linguista Emile Benveniste, agli stranieri erano in determinati ambiti riconosciuti
“diritti uguali a quelli riconosciuti ai cittadini romani”; E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, trad.
it, Torino 1976, vol. I, cap. 7, pp. 64 sgg.
18
VIII – VII secolo A.C.
19
Abbiamo volutamente utilizzato questo termine contemporaneo per segnalarne l’origine da hostis.
17
l’altro non improntato ad una distanza rimarcata da barriere culturali e linguistiche (nonostante
ciascun popolo italico o sua frazione regionale disponesse di un proprio dialetto), bensì basato, in
assenza di conflitto, sulla potenzialità di reciproci scambi. Tale condizione si ritrova nell’etimologia
stessa della parola hostis, che deriva dal verbo hostire, vale a dire, per appunto, contraccambiare.
L’hostis antico era dunque relazionabile ai concetti di dono e di ospitalità. Solo in tempi successivi,
con le campagne espansionistiche e l’ascesa della potenza militare romana, hostis si caricherà di
quella componente antagonistica per la quale è più caratterizzato, e che ha portato Carl Schmitt ad
affermare ne Le categorie del politico che “Lo straniero è l’hostis”20.
La definizione schmittiana apre al tema del rapporto tra straniero e nemico. Non affrontando in
questa sede il concetto di nemico in ambito filosofico21 , ci limitiamo a definire il rapporto tra nemico
e straniero nella Roma regia e repubblicana, in relazione ai conflitti che caratterizzarono il Lazio in
età arcaica.
La città adagiata sui sette colli, che in epoche successive si imporrà come potenza conquistatrice
e civilizzatrice di popolazioni barbare, condivideva pienamente gli usi, i costumi e la cultura delle
altre trenta città latine con cui spesso guerreggiava per affermare il suo ruolo dominante e la sua
peculiarità. Questa lettura si rifà all’analisi dell’antropologo Pierre Clastres, secondo cui la guerra in
contesti “tribali” (ai quali può essere ascritta, ai suoi esordi, la dimensione militare della Roma regia)
non è fatta per risvegliare estraneità e, al con tempo, favorire gli scambi22 , bensì proprio per creare
ed affermare la propria specificità nei confronti di gruppi umani comunque simili. Tale
interpretazione è stata avvalorata recentemente da Florence Dupont, che seguendo l’analisi di Clastres
e del già citato Bettini, afferma come la guerra latina sia uno strumento per creare “dissimmetrie” tra
le forze in campo, e come l’ambiguità del termine hostis contempli la necessità di contrapporsi al
simile per definire e mantenere una distanza fisiologica. Questa sarebbe in origine la radice che ha
portato nei secoli successivi alla divaricazione tra i termini hostis ed hospes, dove il primo assume
valore di “simile a cui bisogna fare la guerra per tenerlo a distanza e trasformarlo in straniero”23,
mentre l’hospes, l’ospite, diviene “il simile a cui si deve fare festa per tenerlo a distanza”24. Ciò
sarebbe confermato da un’analisi del termine simile, che nella lingua latina indica una condizione di
vicinanza che può facilmente convertirsi in ostilità25 . Dalla radice simul derivano infatti sia similis,
che significa per l’appunto “colui che è simile”, che simultas, “duello, inimicizia, scontro”. Sia
20
C.SCHMITT, Le categorie del politico, tr.it. a cura di G.MIGLIO e P.SCHIERA, Bologna 1972, p.111.
Anche questa parola manca infatti dai dizionari filosofici
22
Come ritenuto di Levi Strauss
23
A cura di Maurizio Bettini, Lo straniero ovvero l’identità culturale a confronto, Laterza e figli 2005; , p 112
24
Ibidem.
25
Un classico esempio mitico si pone proprio alla fondazione di Roma e sta nella conflittualità tra Romolo e Remo.
21
l’ambiguità originaria del termine hostis che la sua successiva contrapposizione all’hospes
deriverebbero, dunque, da questa duplicità semantica.
Ritornando a hospes, notiamo un altro elemento lo riconduce xenos greco : l’hospes, oltre ad essere
oggetto di dono, rappresenta una opportunità di scambio. Questa concezione di reciprocità tra colui
che contraccambia o con cui si può scambiare definisce dunque la condizione di ospite e la sua stretta
relazione con lo straniero.
A differenza del lemma straniero,
il lemma ospitalità trova adeguato spazio nei dizionari
filosofici. La sua definizione rimanda sia al concetto di Diritto ospitale, espresso da Kant in Per la
Pace Perpetua, che alle riflessioni di Jacques T. Godbout e Marchel Mauss; Godbout identifica
l’ospitalità come una “relazione che si stabilisce attraverso un particolare operatore simbolico: il
dono”; Mauss, partendo proprio dal dono, delinea la dimensione di un rapporto basato su una triplice
obbligazione (dare, ricevere, ricambiare) ;
col terzo passaggio - l’apertura al ricambio – si
convertirebbe la dimensione dell’ ospitalità in quella di philia, ovvero di una condivisione in grado
di rinsaldare il legame sociale26.
Definito l’hostis (straniero) sia in relazione con nemico che con ospite, è opportuno segnalare la
sua relazione con il “civis”. Il cittadino romano è infatti un’identità che passa, progressivamente, da
una dimensione etnica-territoriale ad una puramente giuridica - fino ad incarnare, con la Constitutio
Antonina del 212 D.C. emanata dall’Imperatore Caracalla, una dimensione totalizzante. In
precedenza, in età arcaica e repubblicana, civis definiva semplicemente uno status altro da quello
degli popoli soggetti al diritto latino, che a loro volta – in modo analogo alla classe dei meceti del
mondo greco – si collocavano su di un gradino intermedio tra il pelegrinus – lo straniero in transito
per motivi economici – ed cittadino a pieno titolo.
Lo straniero nell’Antico Testamento - il lontano che si fa vicino
Passando a trattare le dimensioni che lo straniero assume nella cultura e nella tradizione ebraica,
il riferimento obbligato è, ovviamente, l’’Antico Testamento. I termini che incontreremo riflettono la
variegata esperienza di un popolo prima nomade, poi schiavo, poi conquistatore. Le varie accezioni
non saranno quindi direttamente confrontabili con quelle che caratterizzano lo straniero, il forestiero
e l’ ospite nelle culture greca e latina.
26
Da Enciclopedia filosofica, vol. 8 Men>Pap, Bompiani Milano 2006. P. 8208-9
I termini più ricorrenti che identificano lo straniero nell’Antico Testamento sono zar, nokri e
nekhar, gerim e ger toshav27. Zar definisce lo straniero “lontano”, che abita al di fuori dei confini di
Israele ed è quindi completamente estraneo alle vicende del popolo ebraico; questa parola inquadra
un soggetto verso cui si è portati a nutrire paura ed inimicizia, ed è etimologicamente vicina
(analogamente a quanto avviene per hostis - hospes) a sar, che indica il nemico da cui di ci si deve
difendere. Il sospetto che il popolo di Israele nutriva verso gli zar non appare, però, direttamente
proporzionale alla distanza. Al contrario, come vedremo analizzando il termine ger, in determinati
momenti della sua storia il popolo ebraico si è dimostrato assai feroce verso le popolazioni vicine, e
relativamente bendisposto verso quelle lontane.
I termini nokri e nekhar sono usati per lo straniero di passaggio, il forestiero, colui che si trova
momentaneamente in mezzo al popolo di Israele nel corso di un viaggio o per questioni di commercio.
In questi casi non si configurano sospetto e paura. I nokri e nekhar sono meritevoli di rispetto e di
ospitalità, pur non annullandosi la consapevolezza della distanza. E’ qui opportuno è citare, dalla
Genesi, l’esempio di Abramo, che accoglie tre stranieri - che sono in realtà tre angeli - e si mette al
loro servizio per un giorno interro:
"Abramo sedeva all'ingresso della tenda, nell'ora più calda del giorno", quando si ha voglia di
dormire, di abbandonarsi al sonno. Alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui.
Appena li vide, corse loro incontro dall'ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, dicendo: Mio
signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare oltre senza fermarti dal tuo servo. Si vada a
prendere un po' d'acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l'albero28"
I termini gerim e ger toshav vengono i impiegati per definire i convertiti o gli stranieri residenti,
coloro che, pur non appartenendo al popolo ebraico per nascita, vivono stabilmente in Israele. Il ger,
in qualunque forma, è degno di protezione, ed i suoi diritti sociali, come i doveri religiosi, tendono a
coincidere con quelli dell’israelita.
E’ assai importante seguire il processo attraverso cui lo zar diventa ger. Abbiamo prima constato
che lo xenos greco e l’hostis latino sono accomunati dalla condizione di una relativa vicinanza
culturale e/o geografica; nella cultura ebraica, invece, scopriamo che in determinate fasi storiche le
lontane origini e collocazioni geografiche sono un parametro essenziale per dar vita ad una relazione
bonaria o ad un’alleanza. Prendiamo ad esempio una vicenda presente nel Libro di Giosuè.29 Per
scampare ad una imminente minaccia di aggressione, gli abitanti di una città nella regione di Canaan,
27
Fonti: Remo Ceserani Lo Straniero, collana Temi Letterari, editori Laterza, 1998; p. 13-14 e l’intervento del Cardinal
Martini del 2001 al convegno “Integrazione ed integralismi. La via del dialogo è possibile”.
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Genesi, 18, 1-4
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Il Libro di Giosué è il sesto libro della Bibbia Ebraica, e si compone di 24 capitoli. In esso è narrata la conquista da
parte delle 12 tribù della regione di Canaan, che si compone di battaglie ed assedi vinti grazie al miracoli e dello
sterminio delle popolazioni autoctone, nel nome di una guerra santa per riconquistare la terra promessa.
i Gabaoniti, mandano incontro alle dodici tribù una nutrita delegazione di famiglie. Costoro si
presentano ai saggi del popolo come migranti da una terra lontana, giunti a loro cospetto per cingere
un’alleanza, o meglio, un accordo di servitù reciprocamente vantaggioso. I capi delle tribù, che
dall’inizio della loro strategia espansiva avevano sempre rifiutato di stringere accordi con le comunità
autoctone della regione, dopo una iniziale ritrosia accolgono le ragioni della delegazione, ed
annettono il popolo che rappresenta tra le loro schiere. Passati tre giorni, gli ebrei invasori arrivano
alla città dei Gabaoniti; alla scoperta dell’inganno non segue però la scissione del patto e la vendetta,
ma un semplice inasprimento delle sue condizioni : da ora in poi ai Gabaoniti saranno imposti i lavori
più faticosi per soddisfare le necessità del popolo di Israele:
3 Quando però gli abitanti di Gabaon vennero a sapere ciò che Giosuè aveva fatto a Gerico e ad
Ai, 4 giocarono d'astuzia e si misero in viaggio spacciandosi per ambasciatori; essi caricarono sui
loro asini sacchi consunti e vecchi otri di vino strappati e rappezzati, 5 si misero ai piedi sandali
vecchi e strappati e addosso vesti logore; e tutto il pane delle loro provviste era duro e sbriciolato. 6
Andarono così da Giosuè all'accampamento di Ghilgal, e dissero a lui e agli uomini d'Israele: «Noi
siamo venuti da un paese lontano; or dunque fate alleanza con noi». 7 Ma gli uomini d'Israele
risposero agli Hivvei: «Forse abitate in mezzo a noi; come possiamo stringere alleanza con voi?».8
Essi dissero a Giosuè: «Noi siamo tuoi servi!». Giosuè disse loro: «Chi siete e da dove venite?». 9
Allora essi gli risposero: «I tuoi servi sono venuti da un paese molto lontano … 12 Questo è il nostro
pane che prendemmo come provvista caldo dalle nostre case il giorno che partimmo per venire da
voi, e ora eccolo duro e sbriciolato … 15 Così Giosuè fece pace con loro e stipulò con loro il patto di
lasciarli in vita; e i capi dell'assemblea si obbligarono verso di loro con giuramento. 16 Ma tre giorni
dopo che avevano stipulato il patto con loro, vennero a sapere che quelli erano loro vicini e abitavano
in mezzo a loro … 18 Ma i figli d'Israele non li uccisero, perché i capi dell'assemblea avevano loro
giurato nel nome dell'Eterno, il DIO d'Israele. Tutta l'assemblea però mormorò contro i capi. 19 Allora
i capi dissero all'intera assemblea: «Noi abbiamo giurato loro nel nome dell'Eterno, il DIO d'Israele;
perciò non li possiamo toccare.20 Questo faremo loro: li lasceremo in vita per non attirarci addosso
l'ira dell'Eterno, a motivo del giuramento che abbiamo fatto loro». 21 I capi dissero loro: «Vivano
pure, ma siano taglialegna e portatori d'acqua per tutta l'assemblea, come i capi avevano loro detto».
22 Poi Giosuè li chiamò e parlò loro, dicendo: «Perché ci avete ingannati, dicendo: "Noi abitiamo
molto lontano da voi", mentre abitate in mezzo a noi? 23 Ora dunque siete maledetti, e non cesserete
mai di essere schiavi, spaccalegna e portatori di acqua per la casa del mio DIO»30.
Questa condotta, motivata dalla sacralità del patto che gli ebrei, anche se tratti in inganno,
avevano stipulato con i Gabaoniti, sottolinea comunque come la discriminante base di una possibile
30
Giosuè, 9 3 - 23
alleanza non sia la vicinanza/lontananza culturale, ma la collocazione geografica e territoriale31 .
Gli Ammoniti e gli Evi, altre popolazioni che risiedono in Canaan, vanno sterminate perché occupano
la “terra promessa”, e verso loro viene condotta una guerra “santa”. Non è ammessa alcuna alleanza:
allo straniero “vicino”non può esser consentito di restare in un territorio che, per volontà di Dio, non
gli appartiene. Se però lo straniero viene da lontano, e quindi compie un tragitto sia spaziale che
temporale 32 - di cui i pani secchi danno prova - per porsi in relazione con il popolo ebraico, esso può
essere oggetto di un patto, purché mantenga una posizione defilata nell’organizzazione sociale e sia
disponibile ad accettare corvee. In questo si riflette chiaramente la condizione ed il retroterra culturale
nomade delle tribù ebraiche: la disponibilità ed il rispetto nascono dall’aver compiuto analoghe
esperienze nel corso di peregrinazioni, e dall’aver dunque conosciuto/sofferto analoghe tribolazioni.
Ciò emerge con chiarezza in un passo dell’Esodo, che rivela il rispetto e l’empatia maturati in
conseguenza della cattività:
"Non molesterai il forestiero né l'opprimerai, perché voi siete stati forestieri nel paese di Egitto33"
Questa concezione dello straniero produrrà in epoche successive quella caratteristica benevolenza
verso gli stranieri predicata dai profeti. Lo stesso zar passa nel tempo da una accezione di straniero
ostile a quella che caratterizza colui che ancora non conosce la vera fede, verso cui bisogna mostrare
benevolenza.
Tornando alla storia dei Gabaoniti, si osserva come sia loro offerta una protezione contro ogni
genere di nemico, interno o esterno che sia: quando altre città di Canaan si coalizzano contro i
Gabaoniti colpevoli di essersi alleati con gli ebrei, quest’ultimi corrono a difesa dei loro truffaldini
alleati e fanno strage del nemico; in epoca successiva, Re Davide si batterà duramente contro una
tribù che si era macchiata di crimini contro i Gabaoniti, garantiti ancora dal patto di alleanza; Re
David è supportato nella sua campagna dall’ira divina che genera una carestia34. Con la dura
esperienza dell’esilio e con la evoluzione delle leggi e dei costumi, il ger sarà sempre più inserito
nella comunità religiosa dei figli d’Israele:
"Il Signore rende giustizia all'orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà pane e vestito. Amate
dunque il forestiero35"
“Non raspollare la tua vigna, né raccogliere gli acini della tua vigna: li lascerai per il povero e per
lo straniero36”
31
Cit. da Cristiano Grottanelli, Indigeni immigrati nella bibbia ebraica Le strategie dei gabaoniti, da A cura di
Maurizio Bettini, Lo straniero ovvero l’identità culturale a confronto, Laterza e figli 2005; , pp. 90
32
Nel passo biblico, i gabaoniti si presentano con le vesti logore e provviste di pane seccato, a prova del “luogo
viaggio” compiuto per giungere in presenza del popolo ebraico.
33
Esodo, 22, 20
34
Samuele, 21, 3
35
Deuteronomio, 10, 18 - 19
36
Levitico, 19 10
L'amore per il forestiero è visto quale imitazione di Dio stesso. Emerge un parallelo tra la
concezione che il popolo ha di Dio e la concezione dello straniero. Se Dio ama i deboli - l'orfano, la
vedova, lo straniero - è richiesto al membro del popolo eletto di amarli egualmente. Come si evince
dall’esempio di Davide e dei Gabaoniti, la benevolenza verso lo straniero costituisce, dunque, un
elemento cruciale dell’alleanza tra Dio ed Israele: lo straniero deve essere rispettato, pena la
prosperità stessa del popolo eletto:
"Io ti ho formato e stabilito come luce delle nazioni, perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia
uscire dal carcere i prigionieri37 "
"Io ti renderò luce delle nazioni perché porti la salvezza fino all'estremità della terra38"
Va infine osservato come, nonostante il ruolo di “popolo prescelto” e la funzione di “luci per le
nazioni”, la considerazione con cui nella Bibbia vengono tenuti gli stranieri non appare venata da
alcuna prospettiva di superiorità fondata su una supposta superiorità culturale o etnica. La cultura dei
popoli nomadi, in sintesi, non contempla la xenofobia.
Conclusioni
Questo breve elaborato ha cercato di mettere a fuoco alcuni mattoni concettuali su cui poggia la
dimensione di straniero in epoca precristiana. Ci ripromettiamo di proseguire l’excursus storico in
un successivo lavoro che tenterà di seguire il filo della narrazione fino ai giorni nostri. La
ricomposizione politica, economica e culturale del mondo antico nell’Europa proto cristiana; la nuova
sfida Occidente/Oriente nel Mediterraneo tra Croce e Mezza Luna; la ripresa dell’antichità grecoromana nell’Umanesimo e nel Rinascimento; la perdita della assoluta dimensione eurocentrica con
la scoperta e poi la colonizzazione del Nuovo Mondo; la separazione tra fede e pensiero laico
nell’Illuminismo: lo sviluppo industriale e i nuovi rapporti geopolitici generati dal capitalismo e
dall’imperialismo; l’inizio della globalizzazione nella seconda metà del’900: ognuno di questi
essenziali passaggi nella storia dell’Occidente ha comportato modifiche più o meno sostanziali nel
rapporto con la dimensione dello straniero.
Come accennato all’inizio, lo spazio e l’attenzione riservati allo straniero nel dibattito filosofico
contemporaneo non
appaiono adeguati, tanto più in relazione alla dimensione politica che
accompagna le migrazioni di popolo nell’immaginario collettivo e che spesso genera chiusure e
contrapposizioni nelle pubbliche opinioni, agitate dall’azione di movimenti xenofobi ed estremisti.
37
38
Isaia, 42, 6
Isaia, 49, 6
La dimensione dello straniero
ha subito e sta subendo radicali cambiamenti legati alla
globalizzazione, e la sua presenza tra noi è passata dal novero delle eventualità - occorrenze a quello
di una obbligata quotidianità, ponendo in essere questioni decisive relative alla ricercata/negata
integrazione. Concetti come omologazione, conflitto religioso e di civiltà, accoglienza,
ghettizzazione, ospite, intruso e simili animano il pubblico dibattito e sostanziano le pulsioni più
diverse; il tutto non è adeguatamente accompagnato, sembrerebbe, da una seria attenzione critica.
Paradossalmente, la definizione di un concetto di straniero, proprio in relazione alla sua graduale
scomparsa generata dalla
globalizzazione, appare ancor più necessaria. Ma essa deve
necessariamente essere supportata un accettabile livello di riflessione filosofica.