la fortuna nella commedia latina

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la fortuna nella commedia latina
Letteratura
I
l paragone formulato da Micione (Adelphoe, vv. 737741) tra la vita e il gioco dei dadi mette in risalto la profonda distanza che separa la visione terenziana della
sorte da quella menandrea.
Nelle commedie di Menandro e, più in generale, nella cultura ellenistica in cui esse si inseriscono, il tema
della tyche (la “sorte”, fortuna in latino) riveste un’importanza fondamentale. Ad avviare l’intreccio è spesso
un evento casuale (uno scambio di persona, un passato
in cui si incrociano i destini di due personaggi inconsapevoli del legame che li unisce, una falsa notizia ecc.),
che infrange l’equilibrio iniziale e ostacola il rapporto
amoroso tra due giovani. Sebbene i personaggi si attivino per risolvere la complicazione e rimuovere l’ostacolo
alla propria felicità, i loro piani non vanno mai a segno,
e il lieto fine è reso possibile sempre e solo da un ulteriore intervento risolutivo della sorte. Il teatro di Menandro, stando alle poche commedie pervenute, sembra dunque pervaso da un pessimismo di fondo sulla
capacità dell’uomo di controllare una realtà dominata
dalla forza imprevedibile del caso. In questo aspetto,
esso riflette il clima di crisi della civiltà greca del IV-III
secolo a.C.: la pólis ateniese (ad Atene, infatti, visse e
operò Menandro), formalmente indipendente ma attratta nella sfera d’influenza del regno macedone, aveva perso non solo la supremazia sul resto del mondo
greco, ma anche la propria capacità di autodeterminazione politica. Più in generale, la civiltà delle póleis aveva assistito, nel corso del IV secolo a.C., a cambiamenti
di enorme portata (si pensi alle conquiste di Alessandro
Magno e alla successiva formazione dei regni ellenistici)
e si vedeva avviata verso un inesorabile declino.
C
ompletamente diverso appare il quadro storico-culturale in cui si sviluppa la palliata latina (III-II sec. a.C.).
Roma è in piena crescita: sta imponendo la propria egemonia su tutto il Mediterraneo, sta consolidando le
proprie strutture economiche, sta iniziando a dar voce
alla propria civiltà attraverso una letteratura dai caratteri specifici. In questo contesto, l’uomo romano si sente
in grado di dominare la realtà, di imprimere agli eventi
la svolta desiderata con un’azione attiva ed energica.
T
ale fiducia emerge già nelle prime testimonianze della letteratura latina: una celebre sententia di Appio
Claudio Cieco ricorda «che ciascuno è artefice della
propria sorte» (fabrum esse suae quemque fortunae) e
sulla stessa linea si pone Catone, il quale afferma, a
proposito di Quinto Cedicio, che «gli dèi immortali concessero al tribuno militare ua fortuna pari al suo valore»
(Dei immortales tribuno militum fortunam ex virtute
eius dedēre, fr. 83 Peter).
V
enendo alla palliata, lo stretto rapporto tra fortuna e
abilità trova la sua manifestazione più compiuta nella figura plautina del servus callidus, regista orgoglioso
degli eventi e perfetto manipolatore delle persone. Nelle
commedie di Plauto, la soluzione degli intrecci è infatti
per lo più affidata agli stratagemmi messi in atto dal servo scaltro, nel quale l’autore esalta l’intelligenza attiva e
l’energia inesauribile della volontà, indipendentemente
dall’orientamento etico dell’azione o dalla fisionomia sociale di chi la compie.
Le implicazioni etiche sono invece radicate nel teatro di
Terenzio, dove la celebrazione dell’homo faber è legata a
un personaggio positivo come Micione, cui vanno le simpatie dell’autore. Il paragone tra vita e gioco dei dadi
è già attestato in Platone (il quale consiglia di «disporre le
proprie cose secondo quanto la ragione ritiene sia per il
meglio, come in un lancio di dadi, a seconda di come
questi sono caduti», Repubblica, X, 604 c), ma il contesto
degli Adelphoe suggerisce un più utile confronto con un
frammento del commediografo greco Alessi (esponente
della commedia di mezzo ancora attivo ai tempi di Menandro, tra IV e III sec. a.C.):
Così è la vita: come i dadi non cadono sempre allo
stesso modo, neppure la vita mantiene sempre la
stessa forma, ma comporta continui rivolgimenti.
(fr. 34 Kock)
La similitudine di Alessi rispecchia una visione del rapporto uomo-sorte assai simile a quella di Menandro, mentre
Terenzio, per bocca di Micione, non si limita a suggerire
un’accettazione serena e passiva della sorte, ma propone
una “correzione” del dato casuale:
illud quod cecidit forte, id arte (opus est) ut corrigas.
quello che è capitato per caso, è necessario che tu lo
corregga con l’abilità.
(Adelphoe, v. 740)
L’
ars che deve essere sfruttata per “correggere” la sorte
sfavorevole è la capacità di plasmare la realtà, l’abilità
pratica intesa sia come virtù sia come astuzia. L’affermazione di Micione (che diverrà proverbiale) riflette dunque
una concezione sostanzialmente ottimistica del rapporto tra uomo e realtà, sulla scia della più autentica
tradizione romana.
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G. Garbarino, L. Pasquariello – Paravia
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PERCORSI TESTUALI
L’uomo di fronte alla sorte:
da Menandro alla palliata latina