Ritratto di John Green - Hamelin | Associazione Culturale

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Ritratto di John Green - Hamelin | Associazione Culturale
IMMAGINARE IL FUTURO SA DI RIMPIANTO. I ROMANZI DI JOHN GREEN
di Giordana Piccinini( in Hamelin n. 34, Sesso e altre bugie, SETTEMBRE 2013)
Immaginare il futuro sa di rimpianto dichiara Alaska la protagonista, che muore a un terzo
del romanzo, di Cercando Alaska, ed è proprio questa impossibilità di immaginare il futuro
che si ritrova in maniera diversa nei protagonisti di altri due romanzi di John Green, che
compongono idealmente una trilogia e hanno avuto un grande successo tra i ragazzi e le
ragazze, e in America sono diventati libri di culto.
Tutti e tre affrontano lo stesso tema, partendo da situazioni e
accadimenti diversi: il suicidio/incidente di Alaska o, come lo chiama a
un certo punto l’io narrante amico-innamorato Miles, un “inci-dio” o un
“suici-dente”; la fuga da tutto, che in La città di carta Margo compie a
pagina 107 in un romanzo di quasi 400, lasciando a Quentin, di nuovo
amico-innamorato, il compito di ritrovare le tracce in un lungo viaggio
di formazione; la morte per tumore di Hazel, (non una malattia a caso,
ma quella che per eccellenza colpisce il sistema immunitario), qui non
scelta, ma proprio per questo in qualche modo più emblematica, quasi metafora di una
idiosincrasia radicale rispetto un mondo in cui i ragazzi e le ragazze non hanno più un loro
spazio. Sparizione, sospensione, morte sono forme di fuga da un futuro non più
immaginabile che non esiste più, o al massimo è rimpianto di qualcosa che non si è potuto
vivere.
Non si tratta solo di libri: la prima causa di morte degli adolescenti, in Italia, sono gli
incidenti autostradali, la seconda il suicidio. Senza pensare ad un altro tipo, più recente, di
andata: si legge sempre più spesso sui giornali che molti ragazzi italiani decidono di
iscriversi all’Università fuori dall’Italia, neppure più concludono qui il loro percorso di studi.
Motivano questa fuga non per uno scarso amore per la propria nazione, ma perché
sperano giustamente di avere più possibilità di futuro in alcune città del nord d’Europa.
D’altra parte, ho conosciuto ragazze che uscite con i massimi voti alla maturità, decidono
di non iscriversi a nessun corso universitario e di prendersi un po’ di tempo per capire cosa
fare: chi parte per lavorare in una ONG in Africa, chi per fare la cameriera a Londra,
Bergen, Berlino. Come se in questo modo si potesse catturare il senso di fare davvero
esperienza, di una concretezza che nessuna laurea riesce più a certificare.
Questo senso di vuoto pneumatico, di astrazione e volatilità, di essere sospesi in un
presente che non li comprende, non perché non li capisce ma proprio nel senso che non ne
prevede la presenza perché tutti gli spazi sono sold out, pieni di vecchi arroccati sui loro
domini, si ritrova nei film di Gus Van Sant, i tre (anche qui si può parlare di una trilogia) in
cui gli adolescenti sono al centro. In Elephant solo il massacro e la morte sembrano essere
la via d’uscita dal circolo vizioso di una esistenza piatta e senza emozioni, che fa vivere
tutto al rallenty e in un loop continuo; la sospensione in un eterno presente, che sa di
amnesia e di rimozione, è l’unica possibilità per il protagonista di Paranoid Park,
involontariamente omicida; la grande passione per i funerali è in Restless. L’amore che
resta l’occasione di incontro e innamoramento di due ragazzi, ma anche questo rapporto
rimane ina una bolla chiusa, per la condanna di una morte precocissima per leucemia da
parte di lei. Sembra che l’opera del regista e quella dello scrittore inconsapevolmente
convergano verso un destino in cui non si può più decidere nulla. « “Bella guerra” ha detto
lui, sconfortato. “Contro che cosa sono in guerra? Col mio cancro. E che cos’è il mio
cancro? Il mio cancro sono io. I miei tumori sono fatti di me. Sono fatti di me quanto il mio
cervello e il mio cuore. È una guerra civile, Hazel Grace, con un vincitore predeterminato”»
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dichiara Augustus quando capisce che il tumore ha ripreso inesorabilmente a
contaminarlo.
Si è costretti in spazi d’azione limitatissimi e predeterminati, l’esistenza come ora d’aria
sospesa tra un passato e un futuro che non riguarda le giovani generazioni. Non ci sono
conflitti o nemici, anzi ci si muove con lentezza in un cerchio protettivo, costruito da adulti
che non vogliono essere scomodati. Anche il prolungamento “coatto” del percorso di studi,
costruito su inesorabili successioni di semestri, trienni, bienni, master, lauree specialistiche
e plurispecialistiche, non è che una forma di questa sospensione forzata che impedisce una
crescita reale, e la costruzione di un futuro individuale e collettivo. “Ora avete la chiave
perché fra poco vi dottorate ma non c’è più la porta , qua non si entra” 2, dichiara in un
corso per dottorandi un docente precario e rancoroso.
I lunghi piani sequenza di Elephant non
sono solo una forma di rappresentazione della
noia lenta, delle ripetizioni di gesti quotidiani,
di un vivere indifferente da parte degli
adolescenti, ma pongono noi spettatori, adulti,
in una condizione di estraneità quasi
onnisciente,
osservatori distaccati e
indifferenti al nodo di dolore e di solitudine
che si va formando nei ragazzi e nelle ragazze che vediamo. Tutto è raffreddato, lo
schermo divide irreparabilmente noi e loro, e ci sentiamo impotenti e senza chiavi
interpretative utili a recuperare un contatto, un dialogo, una comprensione. Sembra che
tutti, noi e loro, si sia condannati inesorabilmente verso il baratro, in questo caso il
massacro della Columbine.
« “Siete un effetto collaterale” ha continuato Van Houten “di un processo evolutivo che si
cura ben poco delle vite degli individui. Siete un esperimento fallito nella mutazione”»3.
Questo, in Colpa delle stelle, grida lo scrittore scorbutico ai due ragazzi malati di cancro che
vanno a casa sua per sapere la fine del libro che lui ha scritto e loro hanno amato.
J. Green, Colpa delle stelle, Rizzoli, 2012, pag 243
S. Laffi, Crescere oggi: chi ha rubato il traguardo?, in (a cura di ) Hamelin Associazione Culturale, La zattera della
Medusa, Edizioni dell’Asino, 2010, pag 113
3 J. Green, Colpa delle stelle, Rizzoli, 2012, pag 216
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Gli adolescenti come effetti collaterali, che combattono una
guerra civile in quello che può essere considerato un genocidio. Non a
caso dopo questo incontro i due ragazzi andranno a visitare la casa di
Anna Frank, anche lei senza futuro e anche lei vittima di una
persecuzione decisa dagli adulti.
È la sistematicità con cui abbiamo eliminato ogni prospettiva di futuro
a spingerci a simili collegamenti. Ne L’epoca delle passioni tristi Miguel
Benasayag e Gérard Schmit, preoccupati per la crescente richiesta di
aiuto da parte degli adolescenti, hanno cercato di capire quali erano i
motivi di un diffondersi massiccio delle patologie psichiche tra i
giovani. Dopo aver posto sotto osservazione i servizi di consulenza psicologica, si sono
accorti che le persone che li frequentavano non avevano problemi di origine psicologica,
ma che il loro malessere nasceva da un sentimento permanente di insicurezza e
precarietà. Quindi hanno capito che non era la crisi di una persona il problema, ma la crisi
del sistema in cui quelle persone erano inserite. Crisi che si incarna perfettamente in un
futuro come minaccia e non come possibilità. Viviamo, dichiarano i due psicologi, in
un’epoca dominata da quella che Spinoza chiamava le “passioni tristi”, dove l’incertezza
della propria esistenza, il senso pervasivo di impotenza (siamo “effetti collaterali”),
nessuna possibilità di progettualità (viviamo in “città di carta”), fanno sì che la fuga, la
malattia (anche psichica) e la morte diventino l’unica possibilità.
Allora bisogna essere onesti nel distribuire le responsabilità: non sembra esserlo
Galimberti nel suo L’ospite inquietante e concordo pienamente con la critica che gli muove
Stefano Laffi, sociologo che lavora a stretto contatto con i ragazzi: il problema non è nei
più giovani, e men che meno nel loro nichilismo, ma nella disonestà degli adulti nel non
voler ammettere i loro errori e nel non volersene far carico: “ Perché ad esempio
Galimberti non nomina, non commenta il mondo dell’informazione e quello dell’Università
– i mondi che abita – e non ne racconta la corruzione morale e i rapporti di sfruttamento
che annientano ogni speranza nei giovani – la speranza che nel libro spiega essere la
salvezza – mentre crocifigge (anche giustamente) la scuola e gli insegnanti imputando loro
la fuga dalle responsabilità educative? […]
Il problema non è il vuoto nei giovani ma il deserto creato dagli adulti. Non è il non credere
a qualcosa o a qualcuno il problema, ma assistere alla distruzione sistematica di ciò in cui
poter credere. Quale passione per la progettualità individuale puoi sviluppare se vivi in un
sistema che intuisci sempre legato alle raccomandazioni? Quale passione puoi alimentare
se sai benissimo che i professori incardinati non hanno nessuna intenzione di lasciarti la
loro cattedra? E qui l’elenco potrebbe essere infinito.” 4
Il problema non è il nichilismo di cui parla Galimberti, né la vergogna come tentativo di
mettersi al riparo da una sconfitta o da una incapacità di accettare la perdita della propria
“bellezza narcisistica” di cui parla Pietropolli Charmet in Uccidersi. Il tentativo di suicidio in
adolescenza. Piuttosto è l’eliminazione di ogni prospettiva: il futuro è una illusione, dove
non c’è futuro non c’è possibilità di vita.
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S. Laffi, Galimberti e il “nichilismo dei giovani”, in “Lo Straniero”, n. 92, anno 12, pag 82
Viene a mancare anche la possibilità di cambiare perché non si
può cambiare ciò che è inconsistente, non esiste: “ Vedi quanto è falso.
Non è nemmeno di plastica, persino la plastica è più consistente. È una
città di carta. Guardala, Q: guarda tutti quei viottoli, quelle strade che
girano su se stesse, quelle case che sono state costruite per cadere a
pezzi. Tutte quelle persone di carta che vivono nelle loro case di carta,
che si bruciano il futuro pur di scaldarsi. […] Ho vissuto qui per diciotto
anni e non ho mai incontrato qualcuno che si preoccupasse delle cose
che contano davvero.”5
Quello che sembrano non comprendere sia Galimberti che Charmet è raccontato
perfettamente sia da Gus Van Sant che da John Green: è una richiesta di senso che ci
viene dai più giovani. Una delle domande costanti di Alaska, recuperata da Il generale nel
suo labirinto di Gabriel García Márquez, è quella del generale Símon Bolívar in punto di
morte “come farò ad uscire dal questo labirinto?” 6 La fuga di Margo, di Alaska e anche di
Hazel, tutte ragazze intraprendenti, profonde, colte, amanti della poesia e grandi lettrici, e
proprio per questo incapaci di adattarsi e di accettare regole di vita che non sentono come
loro, è la scelta di non accontentarsi. Stanno cercando il senso della vita: Miles sta
cercando il Grande Forse, Alaska di uscire dal labirinto di dolore in cui si trova, Margo una
città che non sia di carta, Quentin il motivo per cui Margo se n’è andata, Hazel e Augustus
il senso della loro morte e di come lasciare una traccia dopo la loro fine. Quello del lasciar
tracce è un altro elemento comune di tutti i romanzi: Margo le lascia per farsi trovare o
perdere da Quentin, Augustus lascia fogli strappati da una moleskine per dire ad Hazel
quanto l’ha amata, Alaska lascia segni sul muro per raccontare il proprio dolore prima
dell’“inci-dio”. Non è quindi una fuga dalle responsabilità quella che viene raccontata,
piuttosto la difficile esistenza di novelli Pollicino che disegnano percorsi, non con la
speranza di ritrovare una strada di cui negano l’esistenza, ma quasi a voler certificare
almeno una loro presenza.
Tentativi, questi, che rimangono per lo più invisibili agli occhi degli adulti. In questo John
Green sembra lasciare aperta un speranza maggiore rispetto a Van Sant: i professori di
Elephant non hanno la minima idea di cosa sta per accadere nel college Columbine, perché
incapaci di coglierne la noia e il vuoto serpeggianti; in Paranoid Park il ragazzo che ha
appena compiuto un omicidio involontario cerca invano un adulto di cui si può fidare, non
un amico (gli adolescenti non cercano adulti-amici) ma un adulto coerente, anche duro, ma
che lo sappia ascoltare con molta serietà. Una figura di questo tipo compare invece in ogni
libro di Green, burbera e austera, ma capace di prendere sul serio i problemi e le ansie dei
protagonisti. Così fa il professore di filosofia delle religioni, assertivo nelle sue lezioni ma
capace di grande autorevolezza, dopo la morte di Alaska: confrontando a scuola Buddismo,
Cristianesimo, Islamismo. “Quel che mi interessa è come riuscire a inquadrare una realtà
5
6
J. Green, Città di carta, Rizzoli, 2009, pag 74
J. Green, Cercando Alaska, Rizzoli, 2006, pag 35
incontestabile come il dolore nella vostra visione del mondo, e cosa vi fa sperare di poter
trovare una strada nella vita, a dispetto del dolore.”7
Lo stesso John Green potrebbe fare sue queste parole: lo scrittore considera sempre i suoi
lettori come ragazzi e ragazze intelligenti, capaci di fare riflessioni filosofiche sulla vita e sul
senso della vita. Tutti i suoi protagonisti sono profondi e amanti della lettura, tutti i suoi
libri sono pieni di citazioni di libri che i protagonisti stanno leggendo. Questo è per me
prendere sul serio gli adolescenti, considerarli come persone capaci di fare e di avere
pensieri profondi su di sé e sulla realtà. Ed è proprio per questo che essi stanno
abbandonando il mondo: abbiamo bruciato il loro futuro, scaldando e raffreddando le
nostre case di carta e a loro non resta che andarsene.
7
J. Green, Cercando Alaska, Rizzoli, 2006, pag 335