Traiettorie e strategie degli Stati Uniti in Medio Oriente

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Traiettorie e strategie degli Stati Uniti in Medio Oriente
N°29 – GENNAIO 2015
Traiettorie e strategie
degli Stati Uniti in Medio Oriente
www.bloglobal.net
BloGlobal Research Paper
Osservatorio di Politica Internazionale (OPI)
© BloGlobal – Lo sguardo sul mondo
Milano, gennaio 2015
ISSN: 2284-0362
Autore
Alessandro Tinti
Alessandro Tinti e Dottore in Relazioni Internazionali presso l’Universita di Firenze discutendo una tesi dal titolo
“L’egemonia fragile: la grande strategia della potenza americana al tempo di Obama”. In precedenza ha conseguito
con lode presso lo stesso ateneo la laurea di primo livello in Studi Politici, occupandosi al compimento del percorso universitario di teoria e pratica della nonviolenza. Ha inoltre frequentato il corso intensivo avanzato “Nuove Relazioni Transatlantiche: le organizzazioni Internazionali e le sfide della sicurezza”, organizzato da Consules
in partenariato con il Comitato Atlantico Italiano. Oltre alla passione per lo studio della politica e della conflittualita internazionale, il suo interesse professionale ricade nell’ambito delle emergenze di carattere umanitario.
Ha svolto periodi di tirocinio presso l’ufficio del Garante dei Detenuti del Comune di Firenze ed in un centro
SPRAR di accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo.
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I porti di Chabahar e Gwadar al centro dei “grandi giochi” tra Asia Centrale e Oceano Indiano, Osservatorio di Politica Internazionale (Bloglobal – Lo sguardo sul mondo), Milano 2014, www.bloglobal.n
INTRODUZIONE
A un quarto di secolo dalla destituzione del rassicurante duello con l’antagonista sovietico, quella di Barack Obama è la prima presidenza dal secondo dopoguerra ad
aver deposto definitivamente i concetti strategici e i corollari operativi della Guerra
Fredda. La simmetria bipolare tagliava con precisione i lembi del travaso ideologico,
militare ed economico del paradigma americano, ordinando sullo scacchiere internazionale priorità e soluzioni di compromesso che, nella definizione di opposte ed
esclusive aree di pertinenza, promuovevano una visione manichea del mondo pienamente collimante con l’eccezionalismo di tradizione calvinista che dalla fondazione del Nuovo Mondo ha sorretto il discorso politico statunitense. Nella solitudine di
una transitoria e amara sovrabbondanza di potenza gli Stati Uniti hanno invece scoperto la dannosa vacuità di una politica globale pensata acriticamente quale estensione universale del modello occidentale e dunque incapace di accogliere le convulsioni di un ordine internazionale che, preda di una riconfigurazione regionale dei
rapporti di forza, ha per contro rifiutato l’adesione alla norma uniformante prescritta
da Washington. Il disordine ha così costretto la superpotenza a una mobilitazione
permanente negli spazi esterni, alterando criteri e modalità d’azione dietro l’assunto
teleologico dell’intervento necessario a tutela della stabilità dell’ordine internazionale – una vocazione da sceriffo mondiale che lungi dal riprodurre l’idealismo roosveltiano è progressivamente scaduta in esibizioni muscolari della supremazia bellica,
spesso trasfigurate in atti di subordinazione delle periferie imperiali.
In realtà, se mai lo sono stati al di fuori del proprio emisfero, gli Stati Uniti non sono oggi al centro di alcun impero. Nonostante l’evidenza di una proiezione di forza
che eccede in misura e continuità i picchi conflittuali toccati tra il 1945 e il 1989, la
superpotenza è stata sempre più attratta dal ripiegamento entro una zona
d’influenza circoscritta allo scopo di trarre beneficio dalla riemersione delle grandi
potenze asiatiche (Federazione Russa e Cina) e dal consolidamento di una trama di
reciprocità egemoniche nel Pacifico sul modello della relazione transatlantica.
contrasto alla crescita strutturale di eventuali competitor, applicato dalla presidenza
di Bush Senior in poi secondo la lezione neoconservatrice dell’allora Sottosegretario
alla Difesa Paul Wolfowitz [1] – accusa e mostra il peso della pretesa condizione di
indispensabilità, che ha gradualmente stirato la superba macchina da guerra statunitense nello sterile tamponamento degli epicentri di crisi ovunque conflagrati e al
di sotto della quale avversari e alleati di Washington hanno riparato l’ambizione di
consumare lentamente il basamento della preponderanza americana.
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L’adozione di quest’approccio minimalista – che nega risolutamente il teorema del
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Tuttavia, entrambi i mandati di Obama sembrano sconfessare l’intento programmatico di rimuovere l’impronta bellica dal Medio Oriente; proposito su cui l’esecutivo
democratico
appuntò
presso
l’opinione
pubblica
nazionale
e
internazionale
l’annuncio di una netta discontinuità con la precedente gestione Bush. Attualmente,
le Forze Armate a stelle e strisce conducono operazioni militari in Siria, Iraq, Afghanistan, Pakistan, Yemen e Somalia, secondo un profilo interventista che ha inevitabilmente diluito l’attenzione dell’esecutivo sul manifesto delle riforme interne cui
Obama desiderava affidare la traccia luminosa del proprio corso politico. Piuttosto
che rimarcare la tentazione irresistibile verso un uso smodato e unilaterale della potenza, le promesse incompiute e l’incerto decisionismo dell’amministrazione odierna
sono al contrario da attribuirsi tanto alla pesante eredità della stagione simbolicamente dischiusa dalla prima Guerra del Golfo, quanto alle pressioni sistemiche che
frenano il riflusso americano dalla regione mediorientale.
Questi due fattori, analiticamente distinti eppur intrecciati nel determinare la posizione statunitense, saranno affrontati nelle pagine che seguono, offrendo anzitutto
una lettura realista del pressante coinvolgimento degli Stati Uniti nel denso teatro
del Medio Oriente e analizzando poi nel dettaglio la missione Inherent Resolve diret-
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ta a sradicare il disegno egemonico dello Stato Islamico.
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PARTE I
VINCOLI STRUTTURALI
E IMPREVIDENZA STRATEGICA
È percezione diffusa che gli Stati Uniti non siano stati in grado di intercettare i venti
di cambiamento sollevatisi nelle società arabe, applicando politiche scoordinate, finanche controfattuali, e prevalentemente motivate dalla contingenza dei focolai di
crisi improvvisamente affiorati dal Maghreb al Golfo Persico [2]. Se la complessità
del quadro regionale invita ad ammorbidire la severità del giudizio, i progetti di lungo periodo dell’amministrazione Obama non sembrano essersi affacciati oltre la
confusa condanna della deriva repubblicana. Pertanto, resta indefinito l’approdo
strategico verso cui muove la potenza statunitense rispetto alla perniciosa utopia di
una palingenesi democratica del Medio Oriente su cui neo-liberal e neo-cons trovarono una convinta unità di intenti all’indomani dell’11 settembre 2001 [3]. Il travagliato e imbarazzato riconoscimento dei cambi di leadership susseguitisi in Egitto, il
silenzio sostanziale sui rivolgimenti popolari in Bahrain, l’accantonamento della questione israelo-palestinese poi parzialmente recuperata dall’iniziativa personale del
Segretario di Stato John Kerry e la fulminea irruzione nello scenario libico esemplificano un ventaglio di soluzioni incongruenti e spesso controproducenti che manifestano l’adozione di duplici codici di condotta e di un passo irresoluto di fronte ai
fermenti regionali. L’elenco non è peraltro esaustivo. Ancor più degli eventi sopraccitati è lo sbandamento sulla guerra civile siriana a ben rappresentare i dissidi interiori dell’esecutivo americano, laddove l’escalation della rivolta contro Damasco ha
progressivamente violato gli interessi strategici denunciati da Washington (l’impiego
di armi chimiche, l’incitamento del terrorismo internazionale, l’allargamento di conflitti inter-statali a ridosso di alleati chiave quali Israele, Giordania, Turchia) [4] e
posti a discrimine di un intervento punitivo mai concretizzato, se non eventualmente in via sussidiaria nel contesto della repressione mirata delle roccaforti dello Stato
Islamico (IS).
te all’interno di un quadro geopolitico in rapido disfacimento deriva in primo luogo
dagli assunti di principio fissati in origine dalla squadra di governo democratica. A
questo riguardo Kenneth Pollack riporta come in materia di politica estera
l’amministrazione Obama abbia da subito statuito l’urgenza di disincagliare dal Medio Oriente la posizione americana, compromessa nel prestigio e nella levatura morale dagli errori di valutazione di Bush Junior, per ricalibrarne il pivot diplomaticomilitare nell’Oceano Pacifico, ritenuta un’area di valore strategico preordinato in virtù della consistenza delle economie asiatiche e in quanto terreno di scontro della
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La difficoltà nel mettere a fuoco le implicazioni di un ruolo meno divisivo e incalzan-
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competizione con il gigante cinese [5]. Condividendo questa premessa, Daniel
Drezner ha denominato multilateral retrenchment la grande strategia evocata dalla
presidenza Obama al fine di ridurre gli impegni esteri del Paese, restaurarne la reputazione e trasferire ai partner gli oneri del mantenimento della stabilità internazionale [6]. Avendo sbattuto contro l’ostruzionismo sino-russo da un lato e la minor
spendibilità dell’influenza egemonica dall’altro, Drezner distingue l’adozione di una
successiva e più veemente strategia (cosiddetta di counterpunching) che gli Stati
Uniti avrebbero abbracciato per dimostrare di essere ancora primus inter pares – ad
esempio attraverso il rafforzamento delle intese escludenti Pechino e l’avvallo della
provvisoria affermazione della Fratellanza Musulmana in Egitto. Seguendo questa
linea interpretativa, tanto il negoziato con Teheran, quanto la prossima definizione
della profondità e della durata delle operazioni in territorio siro-iracheno (dietro le
quali si staglia il duro confronto con Mosca) detteranno l’indirizzo di fondo della finora evanescente dottrina Obama. È tuttavia interessante sottolineare, riprendendo
le parole di Pollack, che l’ambivalente direzione statunitense se per un verso ha
contraddetto la tesi per cui la riduzione crescente del peso militare avrebbe prodotto un Medio Oriente maggiormente stabile e sicuro, per un altro ha invece comprovato che il disimpegno accennato dalla Casa Bianca non ha pregiudicato in termini
di vulnerabilità gli interessi strategici della superpotenza occidentale [7].
L’annotazione è rilevante poiché sottende la necessità di indagare la questione mediante lenti più sottili di quelle usualmente adoperate per la lettura delle dinamiche
geopolitiche dell’area. Inteso quale sistema regionale unificato da matrici di conflitto
e specificità linguistico-culturali, dal dissolvimento dei potentati coloniali il Medio
Oriente non ha intrapreso un percorso di autonomo consolidamento né sul piano
delle relazioni economiche, né su quello della composizione delle rivalità strategiche. Conseguentemente, il sistema mediorientale – avviluppato nell’esplosiva contraddizione d’identità incoerenti con i limiti territoriali e normativi tracciati da Stati
di recente formazione – è stato incline ad accettare l’interferenza di potenze extraregionali. Acquisito un ruolo di garanzia circa la fruibilità delle ricchezze petrolifere
del Golfo, gli Stati Uniti hanno tuttavia alterato qualitativamente la funzione egemonica con la prima incursione in Iraq: da contrappeso esterno prevalentemente riluttante a inserirsi quale parte attiva nelle contese regionali, l’operazione Desert
ciata di rifondare essa stessa gli assetti di potere. Se in origine il dissolvimento del
campo sovietico aveva incoraggiato lo sconfinamento statunitense, l’onda lunga
dell’intervento liberal-democratico ha prodotto risultati opposti a quelli auspicati
dalla dirigenza americana, anzitutto l’aggravio della competizione sull’asse iranianosaudita che la rimozione del punto di equilibrio iracheno ha fortemente sollecitato.
Stante la paralisi delle campagne lanciate sotto la cattiva stella della guerra totale
al terrorismo e l’aggressione della crisi finanziaria all’economia interna, Obama ha
tentato di allentare frettolosamente i legami contratti dalle presidenze della cosid-
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Storm rovesciò il rapporto di causalità arrogando alla superpotenza la missione cro-
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detta età unipolare, ma le grandi manovre dell’amministrazione democratica hanno
paradossalmente ostacolato la recessione di Washington dalla gestione delle dinamiche mediorientali. Il potere genera attese e la sicurezza di numerose piccole e
medie potenze fa leva sulla preponderanza bellica americana, che dispone nell’area
di capacità offensive e logistiche ineguagliabili. Tuttavia, la storica apertura verso
Rouhani da un lato e la maldestra equidistanza nella transizione egiziana dall’altro
hanno irretito le monarchie sunnite patrocinate da Riyadh, nonché Israele; ancor
più, il fallimento dell’ingenuo progetto di nation-building condotto in Iraq ha creato
un vuoto oggi colmato dalla ricomparsa dell’estremismo islamista e in futuro esposto alla bramosia delle potenze vicine. In definitiva, benché il collasso siriano e la
minor intransigenza della teocrazia iraniana abbiano diminuito le fonti di preoccupazione per Washington, la ridotta intensità delle ambizioni statunitensi nel governo
delle relazioni mediorientali non può tradursi in un accorciamento della presenza
della superpotenza a causa della struttura di potere e delle conseguenti formule di
sicurezza
su
cui
s’imperniano
gli
equilibri
regionali
[8].
In
questo
senso
l’inconsistenza della politica dell’esecutivo Obama in Medio Oriente non racconta
una flessione negli asset americani, quanto l’aumento sensibile dei costi necessari a
puntellare la cedevolezza degli ordinamenti interni e stabilire i margini della competizione inter-statale. In altre parole, la revisione dell’ordine di priorità dettato dalla
Casa Bianca è stato corrisposto da un ampliamento delle fratture strategiche che
impedisce al giocatore americano di lasciare il tavolo, a meno che questi non si faccia promotore di un diverso contratto di sicurezza.
Eppure a Obama deve essere dato merito di aver abbozzato un nuovo indirizzo diplomatico verso i Paesi mediorientali, assecondando una politica d’investimenti e
transazioni commerciali che al contrario gli occupanti dello Studio Ovale non hanno
mai privilegiato in luogo della tradizionale e robusta assistenza sul fronte militare.
Disporre del miglior martello non significa che ogni problema sia un chiodo, ha ammonito il Presidente democratico a West Point, precisando che l’esercizio della leadership globale (o, enfaticamente, della condizione d’indispensabilità pocanzi rammentata) non riposa esclusivamente sull’impiego della forza armata [9]. In linea
con quest’assunto sovente disatteso dalla ragion di Stato, Obama ha demandato il
ricorso a una varietà di strumenti – quali la Middle East Partnership Initiative (MEPI)
agganciare le economie delle società arabe. È così che gli Stati Uniti hanno offerto
all’Egitto misure di sostegno per il risanamento del debito pubblico e autorizzato lo
stanziamento di fondi per le imprese tunisine, egiziane e giordane. Inoltre, nel settembre del 2011 è stato costituito un ufficio per le “transizioni mediorientali” deputato a coordinare e finanziare l’azione diplomatica verso Tunisia, Libia e Egitto al fine di accompagnarne il processo di democratizzazione; per l’anno fiscale 2013
l’esecutivo ha richiesto 770 mln di dollari per aumentare la capienza del fondo amministrato dall’agenzia [10].
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e il US Agency for International Development’s Office of Transition Initiatives – per
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Malgrado ciò, il “nuovo inizio” annunciato a Il Cairo è stato fagocitato dal diritto di
precedenza del Pentagono, che nel sistema decisionale americano sovrasta nettamente il Dipartimento di Stato nell’elaborazione del portamento strategico della superpotenza [11]. L’apertura di Obama è dunque ridimensionata dalla continuità di
un approccio militarista che, nonostante le evidenti falle delle missioni di counterinsurgency sostenute in Iraq e Afghanistan, accentua una lettura securitaria dei rapporti regionali. Si tenga presente a tal proposito che nell’anno fiscale 2012 il Congresso ha approvato l’erogazione di 4,7 miliardi di dollari in assistenza militare verso l’intera macro-area del Nord Africa e del Medio Oriente contro i 2,5 mld destinati
a programmi civili di sviluppo economico [12]. Gli Stati Uniti garantiscono agli alleati strategici della regione – che nel caso di Egitto, Israele, Bahrain e Kuwait ricadono
sotto l’etichetta di Major non-Nato Ally (MNNA) – l’accesso ai più sofisticati sistemi
d’arma dell’industria bellica nazionale; ancor più delle commesse militari, Washington fonda la propria capacità di deterrenza sulla disponibilità nei Paesi del Consiglio
di Cooperazione del Golfo (GCC) di un insieme di hub per l’immediata e massiccia
proiezione di potenza nello scenario. Tuttavia, la disgregazione irachena sotto i colpi
del Califfato evidenzia i limiti dell’impostazione adottata dal garante americano.
Alle considerazioni sopra esposte si potrebbe obiettare che una lettura strutturale
degli interessi statunitensi non sia pienamente attendibile. In effetti, i volumi commerciali verso gli Stati Uniti (anche nel settore energetico) sono complessivamente
modesti e la superpotenza è in grado di assicurare apertura e regolarità delle transazioni petrolifere anche con il solo dispiegamento della flotta d’altura, oltre che attraverso l’alleanza di ferro con l’Arabia Saudita. Da questo punto di vista, la minaccia ipotetica della chiusura dello stretto di Hormuz è ben più elevata di quella reale
rappresentata dal radicamento di un’enclave islamista a cavallo di Siria e Iraq. Tuttavia, una serie di fattori previene il deciso allontanamento “oltre l’orizzonte” delle
avanguardie americane. Quasi la totalità degli ordinamenti pertinenti all’area strategica del Grande Medio Oriente sono sottoposti, secondo indici di maggiore o minore intensità, alla contestazione delle oligarchie regnanti, agli scontri settari per la
conquista delle leve del potere e dalla porosità dei confini sovrani. Il richiamo
d’identità sopranazionali aggrava il rischio di contaminazione tra eventi e scenari diversi, ne siano prove gli effetti destabilizzanti dell’accoglienza umanitaria dei profusiro-iracheni
in
Giordania,
l’infiltrazione
dei
gruppi
salafiti
in
Libia
e
l’accostamento degli attentati terroristici in Egitto alla causa dello Stato Islamico. È
proprio la provocazione lanciata da Abu Bakr al-Baghdadi a interrogare la direzione
e la qualità della politica di Obama. Il progetto califfale pone Siria e Iraq sull’orlo
della disintegrazione nazionale e dello stesso fallimento degli ordinamenti statali, richiamando a sé le tracce scomposte di un ancor più decisivo conflitto per il controllo
della regione mediorientale.
Tuttavia, l’IS può considerarsi una minaccia tanto insistente da cambiare il senso
della strategia globale degli Stati Uniti?
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ghi
6
Il prossimo paragrafo tenterà di dare risposta a questo interrogativo. In prima battuta è però opportuno premettere che nella permanenza in Iraq a più di dieci anni
dal rovesciamento di Saddam Hussein l’avventatezza dei decisori americani va ben
oltre il peso dei condizionamenti strutturali del quadro regionale. Si potrebbe anzi
ritenere che la sopravvalutazione delle capacità militari abbia continuamente sagomato politiche incoerenti con il ruolo di garante esterno prescritto dalla relazione
egemonica. In questo senso la presunzione sulla superiorità dell’arsenale bellico ha
generato l’equivoco dell’integrazione dei progetti di ricostruzione post-conflitto nelle
stesse dottrine di counter-insurgency, dunque affidando al personale militare il
compito di scavare i solchi per la ripresa degli ordinamenti interni. A dispetto delle
risorse investite, le linee guida articolate da Washington sono precipitate sotto le
semplificazioni di realtà socio-economiche, giuridiche e culturali assai distanti
dall’esempio liberale. Oltre a non saper scegliere le proprie battaglie, gli Stati Uniti
hanno dunque valutato con leggerezza le conseguenze e gli strumenti degli interventi [13]. Ciò vale per lo scenario afghano, dove il terzo termine del mantra “clear,
hold and build” non poteva né essere di stretta pertinenza militare, né inaugurare
un processo democratico non rispondente ad un patto sociale e privo di una solida
impalcatura amministrativa; vale ancor più per quello iracheno, dove un sistema
economico incapace di trasferire i profitti petroliferi, una burocrazia nepotistica inadatta a garantire l’accesso ai servizi di base e lo spirito di ritorsione della maggioranza sciita hanno alienato la popolazione civile nei riguardi delle nascenti istituzioni
ben più della violenza terroristica. Come annotato sulle pagine di Foreign Affairs da
Rick Brennan, consigliere del Pentagono in Iraq tra il 2006 e il 2011, dopo aver conseguito tutti gli obiettivi di combattimento nei primi quarantadue giorni della seconda spedizione nel Golfo Persico, i reparti statunitensi si trovarono del tutto impreparati dinanzi al tracollo del sistema di potere edificato dal partito Baath e assunsero
decisioni politiche controverse (il disfacimento armi in mano dell’esercito iracheno,
l’investitura di una nuova leadership sciita, l’arresto dei dirigenti statali per complicità con il regime decaduto), esasperando la sollevazione delle tribù sunnite [14].
Dalla testimonianza di Brennan emerge, tuttavia, un aspetto di maggior rilievo, ossia la percezione tangibile di quanto la crisi odierna costituisse un disastro annunciato nei rapporti restituiti dai vertici militari. La mancata intesa con il Parlamento
iracheno sull’immunità dei soldati americani, cui usualmente gli Stati Uniti vincolano
ostacolò il mantenimento di una forza residuale nel Paese – consigliata dal Capo di
Stato Maggiore Mike Mullen e dal Comandante delle operazioni in Iraq Lloyd Austin
nella misura di ventimila uomini, poi ridimensionati dall’esecutivo a ottomila. Di
fronte alla rigidità di Nouri al-Maliki, l’amministrazione Obama decise di completare
il ritiro delle truppe alla fine del 2011, in linea con il calendario annunciato dalla
presidenza democratica nel primo mese del suo insediamento [15]. Sulla chiusura
ufficiale della “guerra sbagliata” intrapresa dai falchi del Congresso (e per la verità
inizialmente sostenuta anche dalle colombe) Obama mostrò di giocarsi una buona
fetta di credibilità, ma il rispetto perentorio della scadenza fissata dallo stesso Bush
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la sottoscrizione di un accordo per il dispiegamento di contingenti in terra straniera,
7
al termine del secondo mandato presidenziale trascurò i risultati del war termination assessment condotto dagli organi militari – una valutazione che giudicava incompleta l’opera di stabilizzazione e che denunciava la fragilità del ricostituito esercito iracheno [16]. La fretta è stata dunque cattiva consigliera dell’amministrazione
in carica, cui può essere inoltre rimproverato di aver abbandonato troppo presto i
negoziati con al-Maliki per la definizione di una transizione morbida sul piano delle
garanzie di sicurezza, laddove la conservazione di un “osservatorio” statunitense
avrebbe permesso la raccolta diretta di informazioni a scopi di anti-terrorismo e il
costante addestramento delle forze irachene – aspetti oggi deficitari che compro-
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mettono la reazione all’attacco jihadista.
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PARTE II
L’IMPEGNO BELLICO E DIPLOMATICO
CONTRO IL CALIFFATO
La rapida espansione delle colonne inneggianti al Califfato islamico ha saldato con il
fuoco delle armi la rinnovata minaccia jihadista nel cuore del Medio Oriente. La leadership dell’IS ha sfruttato con intelligenza gli strappi apertisi in Siria, a causa di un
conflitto endemico che si protrae da più di tre anni, e in Iraq, ove il disaccordo tra
territorio e identità aveva assunto sotto l’esecutivo di al-Maliki la forma della rivalsa
settaria approfondendo l’antagonismo trai gruppi etnici e confessionali. Sorprendendo le cancellerie dell’Occidente, l’offensiva delle uniformi nere in apparenza ispirata da cieco furore ideologico ha invece seguito una lettura strategica ben fondata,
come dimostrato dalla tempestività e sostenibilità dell’azione militare, dal controllo
di
risorse
fondamentali
per
l’approvvigionamento
della
campagna
bellica,
dall’utilizzo della propaganda, non da ultimo dallo sfruttamento dell’opzione curda e
della convenienza turca all’indebolimento di al-Assad. Se il progetto panislamista dichiarato da al-Baghdadi nella moschea di Mosul il 29 giugno 2014 esercita conseguenze concrete e tutt’altro che irrilevanti sul piano dell’attrazione ideologica di foreign fighters votati al sacrificio estremo per avanzare la bandiera del sedicente Califfato, nel teatro di guerra siro-iracheno il Leviatano jihadista ha effettivamente
conquistato «il potere di elargire premi maggiori della vita e di infliggere punizioni
maggiori della morte» [17], acquisendo con la forza del terrore le prerogative sovrane di un ordinamento quasi statale che si arroga il diritto di riscuotere tributi, di-
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spensare servizi sociali, imporre l’ordine pubblico.
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In breve tempo l’amministrazione statunitense ha compreso che l’irruzione nella
“mezzaluna fertile” di un attore strategico risorto dalle ceneri della cellula qaedista
di al-Zarqawi costituisse un salto di qualità nella minaccia posta dal terrorismo di
matrice islamica. Lungi dal ridurlo a una sporadica riemersione dei tagliagole di alQaeda, l’ex Segretario della Difesa Chuck Hagel precisò il profilo dei militanti dell’IS
documentandone le abilità non comuni nella conduzione di operazioni di combattimento e avvertì che gli Stati Uniti avrebbero dovuto ingaggiare un avversario ben
più organizzato e raffinato di quello affrontato durante la spedizione irachena [18].
Di fronte all’avanzata jihadista, l’amministrazione Obama ha inizialmente temporeggiato rispetto al cedimento delle istituzioni di Baghdad [19]. Per le motivazioni illustrate nel paragrafo precedente, è alla superpotenza americana che gli alleati regionali e occidentali hanno però affidato il compito di muovere il primo passo verso
la composizione di un fronte antagonista. Dopo aver ricevuto dai partner NATO un
assenso di massima nel corso del vertice di Newport (4-6 settembre), il 10 settembre Barak Obama annunciò l’assunzione di responsabilità degli Stati Uniti nel mobilitare la comunità internazionale verso l’obiettivo ultimo di degradare e distruggere
l’IS [20]. Cinque giorni più tardi la conferenza di Parigi formalizzò la costituzione di
una coalizione determinata a garantire l’unità, l’integrità territoriale e la sovranità
dell’Iraq mediante l’impiego di tutti i mezzi necessari allo scopo di combattere e rimuovere
Daesh
(l’acronimo
arabo
di
IS)
dallo
scenario
regionale
[21].
Nell’operazione denominata Inherent Resolve sono così confluiti – con la benedizione di Nazioni Unite, Lega Araba e Unione Europea – più di sessanta Stati in risposta
alla richiesta di soccorso emessa dalle autorità irachene. Tuttavia, l’isolamento assoluto sulla scena internazionale non ha precluso ai proseliti di al-Baghdadi di cementare il controllo del Califfato in un’area assai vasta lungo la direttrice che congiunge Raqqa a Ramadi.
La reazione militare pianificata da Washington ha conosciuto anzitutto il graduale
aumento dei soldati statunitensi schierati nei due centri operativi allestiti a Baghdad
ed Erbil, incaricati di svolgere funzioni di consulenza, addestramento e intelligence a
favore del disfatto esercito iracheno e dei Peshmerga curdi. A ciò si aggiunga
l’approvazione, non senza malumori congressuali, di commesse militari addizionali a
beneficio del governo di Haider al-Abadi e la fornitura di armi leggere ai guerriglieri
hadiste in terra irachena, ove le prime incursioni erano iniziate l’8 agosto, e siriana,
dal 22 settembre e inizialmente senza l’apporto delle potenze alleate. Tuttavia, il
cardine cui ha costantemente guardato la strategia americana è stato la formazione
di un governo inclusivo che smorzasse le tensioni settarie incitate dai tratti discriminatori e accentratori della precedente gestione politica. È alla mancata conferma
dell’ex premier Nouri al-Maliki che l’amministrazione Obama ha infatti condizionato
l’intervento diretto nella crisi; del resto, il ricompattamento dei gruppi etnici e settari costituisce il “vero centro di gravità” del conflitto contro l’IS [22], cui la squadra
di governo presieduta da al-Abadi si sta orientando attraverso la distribuzione di in-
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del Kurdistan. Inoltre, le forze aree hanno continuato a bombardare le postazioni ji-
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centivi (quali la ripartizione dei proventi petroliferi e la riforma della sicurezza dietro
il paradigma di una Guardia Nazionale decentrata) atti a ripristinare la legittimità
delle istituzioni centrali. In definitiva, gli analisti statunitensi hanno superato le pesanti
incertezze
sollevate
dal
tracollo
dell’Iraq
ricercando
prioritariamente
l’allargamento del consenso esterno verso la repressione della trama califfale e la
determinazione di un nuovo contratto costituente tra le fazioni irachene.
Questa strategia ha raccolto successi importanti. Sul fronte delle azioni di guerra, i
raid compiuti dai caccia della coalizione internazionale hanno alleggerito la pressione jihadista sul monte Sinjar, consentendo l’evacuazione della comunità yazida che
si era lì rifugiata per scampare alla persecuzione dei militanti islamisti; inoltre, hanno guidato la riconquista curda della fondamentale diga di Mosul e rotto l’assedio
dello Stato Islamico sulla cittadina di Kobane al confine siro-turco. Sul fronte del sistema politico interno, i buoni uffici del Segretario di Stato Kerry e del Generale
John Allen, quest’ultimo nominato rappresentante ufficiale dell’alleanza anti-IS,
gruppi sunniti attorno alle contestate istituzioni centrali, come avvalorato dai negoziati per la formazione di corpi volontari da affiancare alle forze di sicurezza irachene e dalle concessioni accordate alla regione autonoma del Kurdistan (in particolare
la commercializzazione del greggio verso il mercato turco che a lungo ha costituito
una fonte di attrito con Baghdad). Infine, il coinvolgimento delle monarchie del Golfo Persico e della Giordania ha non solo ostacolato la proliferazione ideologica del
messaggio di al-Bagdhadi, ma ha anche parzialmente attutito la recezione presso il
mondo arabo del rinnovato impegno bellico di Washington quale un nuovo atto di
prepotenza messo a segno dalla rogue super-power.
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hanno invece posto le premesse per un riavvicinamento della leadership curda e dei
11
Nonostante ciò, i vicoli ciechi della frantumazione siro-irachena e la solidità dello
Stato Islamico gettano una luce cupa sulle prospettive dell’operazione Inherent Resolve. Anzitutto, l’apporto fornito alle forze di sicurezza irachene è prevalentemente
dissociato dalla realtà dei combattimenti poiché la ridotta presenza di advisor statunitensi nel teatro di guerra inficia la regia e l’efficacia dei bombardamenti aerei,
mentre le difese di Baghdad sono assicurate decisivamente dalle milizie sciite, coordinate dai pasdaran del Generale Qassem Suleimani e avverse all’ingerenza delle
potenze occidentali e sunnite. Washington è stata perciò costretta a incrementare le
unità schierate nel Paese decentrandole nella provincia contesa di al-Anbar, dove i
vessilli del Califfato risaltano indisturbati e la resistenza dell’esercito iracheno è invece flebile e discontinua. Malgrado le legioni dell’IS siano composte, secondo le
stime CIA, da poco più di 30mila combattenti, senza l’adesione convinta dei gruppi
tribali sunniti dovranno trascorrere molti mesi prima che l’esecutivo di al-Abadi possa pianificare una vasta controffensiva in grado di reprimere i seguaci di alBaghdadi. Gli ufficiali del Pentagono hanno difatti appurato che soltanto metà delle
brigate dell’esercito iracheno sono operative a tutti gli effetti e che gli apparati di sicurezza nel loro complesso (forze di polizia e reparti militari) sono falcidiati
dall’incompetenza dei vertici e dalla diserzione delle unità; del resto, l’imperizia dimostrata sul terreno di scontro è lo specchio di una macchina statale che
l’allontanamento degli ex funzionari del regime baathista ha reso, paradossalmente,
ancor più corrotta e inefficiente. Lo stallo che ne consegue, per contro, gioca a vantaggio della dirigenza dell’IS giacché rafforza l’aura d’invulnerabilità del Califfato,
esorta il raggiungimento di accordi di convenienza con etichette terroristiche che rispondono alla causa jihadista (si guardi al referente ideologico allegato alle recenti
esplosioni di violenza nel Sinai [23] o all’adesione di Jabhat al-Nusra), tiene in
ostaggio la competizione regionale e prolunga l’esposizione americana nello scenario mediorientale.
Tuttavia, questi aspetti non mettono in secondo piano gli errori commessi dagli Stati
Uniti dapprima nella sottovalutazione della crisi irachena (come approfondito in
chiusura al paragrafo precedente) e poi nell’adozione di soluzioni parziali. In disaccordo con autorevoli esponenti del Pentagono, l’amministrazione Obama ha negato,
seppur dinanzi all’evidenza di una frontiera dissolta dalle scorrerie jihadiste, la
trono di Bashar al-Assad dall’altro. In realtà, la Siria è stata sia teatro parallelo sia
punto di origine nella concezione del Califfato: nei primi mesi del 2014, quando i
miliziani islamisti strinsero la morsa su Ramadi e Falluja, le coorti jihadiste presero
il sopravvento della frammentata opposizione siriana nelle provincie di Raqqa e Dair
az-Zor, appropriandosi di cospicui giacimenti d’idrocarburi e discendendo lungo il
fiume Eufrate verso il checkpoint di Albu Kamal che immette nell’Anbar iracheno
[24]. È da questo nucleo operativo che gli insorti attestarono gli avamposti nel cuore sunnita dell’Iraq e in seguito mobilitarono l’attacco su Mosul. Per questa ragione,
la selettività della strategia americana sulla priorità dello scenario iracheno si è pre-
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complementarietà della lotta contro l’IS da un lato e la guerra civile che incrina il
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sto dimostrata fallimentare, inducendo l’esecutivo democratico ad aprire le bocche
di fuoco anche nel nord-est della Siria. Dietro alla formale denuncia del governo di
Damasco, gli Stati Uniti hanno però evitato attentamente ogni ipotesi di contrapposizione con il regime alawita, nella consapevolezza che dalla risoluzione del conflitto
siriano dipendono le delicate trattative con l’Iran e vi s’infrange la coriacea alterità
di Vladimir Putin. Come esposto dal Gen. Lloyd Austin, oggi vertice del Comando
Centrale, le operazioni in terra siriana sono condotte primariamente per influenzare
l’andamento delle ostilità in Iraq [25]. Ciò nonostante, maggiore è la profondità della depressione creata dall’IS, maggiore diviene l’urgenza di definire preventivamente la transizione politica in Siria. Da questa prospettiva, il proposito di addestrare ed
equipaggiare una fazione “moderata” di qualche migliaio di unità, cui poi attribuire
le credenziali della rivolta, è un paravento delle esitazioni statunitensi poiché le fazioni ribelli che contendono la direzione delle ostilità contro l’esercito di Assad sono
oggi assai numerose (alcune analisi distinguono oltre cinquanta sigle) e pericolosamente attratte nell’orbita dell’estremismo religioso – che finanziato e armato dalle
monarchie sunnite ha progressivamente indebolito e ostracizzato gli elementi secolari dell’insurrezione. Nella concretezza delle direttive militari, l’inazione statunitense ha di fatto permesso alle schiere dell’IS e all’esercito di Damasco di piegare le
frange moderate, ora asserragliate nella sola Aleppo.
Occorre tuttavia chiedersi se l’obiettivo strategico prestabilito dagli Stati Uniti corrisponda a quello consegnato alla storia dal discorso mediaticamente altisonante di
Barack Obama. A suggerire una risposta negativa è l’insufficienza delle risorse messe al servizio delle operazioni adesso condotte in Medio Oriente. Secondo le stime
fornite dal Comando Centrale (US CENTCOM), la coalizione internazionale ha effettuato 636 airstrikes in Iraq e 492 in Siria, mentre non sono disponibili dati sui voli
di ricognizione e sorveglianza. I bombardamenti hanno prevalentemente interessato
le infrastrutture per il raffinamento del greggio cadute in mano ai miliziani, nonché
veicoli corazzati (per lo più di fabbricazione statunitense) che la rotta disordinata
dell’esercito iracheno ha reso facile preda degli insorti. Gli Stati Uniti hanno così
tentato di indebolire la base materiale e la capacità di fuoco del Califfato. Pur subendo perdite significative, l’organizzazione jihadista ha tuttavia dimostrato notevoli
doti di adattamento sia sul fronte delle tattiche di combattimento e di controllo del
orchestrata da Washington è debilitata dall’estensione del teatro delle operazioni.
Malgrado l’ampio ventaglio di basi a disposizione dell’egemone americano – il comando operativo di al-Udeid in Qatar, l’appoggio logistico di Ali al-Salem in Kuwait,
gli snodi di al-Dhafra e al-Minhad negli Emirati Arabi Uniti, di al-Shaheed Muwaffaq
in Giordania, la portaerei George H.W. Bush nelle acque del Golfo Persico – i passaggi sul territorio siriano e nelle zone settentrionali dell’Iraq sono vincolati dal ricorso al rifornimento in volo dei bombardieri al fine di aumentarne il raggio
d’azione. A causa di queste difficoltà logistiche la diplomazia statunitense ha premuto, finora senza successo, per l’utilizzo delle basi turche, laddove il governo di
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territorio, sia su quello dei canali di approvvigionamento. Ancor più, la guerra aerea
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Ankara ha acconsentito solo allo sfruttamento della base NATO di Incirlik limitatamente ad attività di rifornimento carburante e al lancio di droni.
Nonostante queste considerazioni, le incursioni aeree statunitensi (che pesano mediamente per 8,1 milioni di dollari giornalieri sul bilancio federale) non sono comparabili in termini di frequenza e intensità alle campagne belliche intraprese dalla superpotenza dalla prima Guerra del Golfo in poi. A tal proposito, Anthony Cordesman
ha opportunamente considerato che la media di quindici raid giornalieri, su cui si
assesta l’impatto attuale della missione Inherent Resolve, impallidisce rispetto alla
tendenza di duemila-tremila incursioni registrate per ogni giorno di combattimento
durante Desert Storm [26]. Se l’assenza di un effettivo coordinamento sul terreno,
la mescolanza dei guerriglieri jihadisti nel tessuto sociale iracheno e l’impoliticità di
un maggior coinvolgimento americano prevengono una più robusta risposta militare, il raffronto sopra illustrato indica chiaramente che la proiezione di forza decretata a malincuore dall’amministrazione Obama è commisurata ad un mandato ben delimitato nelle dimensioni e nella qualità. In altre parole, la leggera impronta bellica
prova come il radicamento dello Stato Islamico non minacci gli interessi ritenuti vitali dalla dirigenza americana. L’evidenza di quest’assunto, apparentemente negato
dalle dichiarazioni di principio pronunciate dalla Casa Bianca, è da alcuni commentatori ritenuto coerente con un paradigma di “trinceramento” cui la presidenza
Al di là della correttezza di questa corrente interpretativa, si può affermare che in
mancanza di boots on the ground e di un esercito iracheno in grado di sovvertire un
equilibrio ad oggi sfavorevole l’intervento statunitense è strumentale a degradare,
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Obama avrebbe ispirato la correzione dell’internazionalismo liberale [27].
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ma non distruggere, le schiere del Califfato. In tempi non sospetti, quando i militanti dell’IS erano in procinto di scoccare l’attacco decisivo nella provincia di Ninive,
Obama ventilò una ristrutturazione della strategia di anti-terrorismo, bollando come
ingenua e insostenibile la prospettiva di invadere ogni Paese che ospitasse cellule
terroristiche; al contrario, gli Stati Uniti sarebbero dovuti diventare promotori di una
più forte alleanza internazionale aderente al capillare decentramento del fenomeno
jihadista [28]. La riedizione di un fronte di “volenterosi” in opposizione allo Stato
Islamico procede lungo questa direttrice, ma nel complesso la ragionevole posizione
assunta da Washington sembra effondere più elementi di debolezza. In primo luogo,
se la soluzione alla crisi irachena è senz’altro politica, la modesta pressione dei
bombardamenti americani ha “contribuito” a far attecchire il dominio degli uomini di
al-Baghdadi nelle aree a maggioranza sunnita dell’Iraq. Da questo punto di vista,
più voci hanno criticato il massiccio trasferimento di risorse sul bersaglio di Kobane
– motivato da ragioni umanitarie e di propaganda, ma privo di valore strategico – a
scapito delle manovre avviate dai jihadisti nell’al-Anbar, dove l’allentamento dello
FULCRI DEL CONTROLLO CALIFFALE NELLA PROVINCIA SUNNITA DI AL-ANBAR
In secondo luogo, le attese riposte in un’alleanza di Stati arabi sono svuotate dai
veti emessi da Baghdad sull’ingerenza di truppe straniere e trascese da un “grande
gioco” regionale che oppone al fronte sunnita l’influenza di Teheran. Benché con
maggior discrezione dell’egemone occidentale, l’Iran esercita sulla situazione siroirachena un fortissimo ruolo tanto politico, quanto militare. Ne è espressione la deferenza della leadership irachena, tradottasi in molteplici incontri al vertice aperti
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sguardo statunitense ha regalato campo alle avanguardie dell’IS [29].
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anche ai rappresentanti di Bashar al-Assad; del resto, ancor più dell’assistenza prestata dall’alleato americano, gli uomini di fiducia di Rouhani fanno scudo nei quartieri di Baghdad contro le infiltrazioni jihadiste. Si tenga presente a tal proposito
che il 4 dicembre i caccia iraniani hanno per la prima volta solcato i cieli dell’Iraq alla ricerca dei covi dell’IS e che a pochi giorni di distanza il Ministro degli Esteri Mohammed Javad Zarif ha ospitato gli omologhi di Siria e Iran, fissando una garanzia
sulla stabilità degli attuali assetti di potere, a buon intendere degli spettatori occidentali e sunniti. In questo senso, la risoluzione del conflitto che squarcia il Medio
Oriente transita prioritariamente dai desideri e dalle rassicurazioni di Teheran.
In definitiva, la questione cruciale cui ruota anche la posizione americana non è
quando verrà meno il vigore del Califfato, ma cosa resterà dell’integrità di Siria e
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Iraq e a vantaggio di quale attore si evolveranno gli equilibri regionali.
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PARTE III
CONCLUSIONI
Prima del sorpasso dell’economia cinese, del risveglio russo e della stagnazione interna, è nel teatro periferico del Medio Oriente che gli Stati Uniti hanno smarrito la
fiducia incrollabile nel primato americano. È nello stesso contesto strategico che
Obama ha tentato di rintracciare e deviare il timone della politica estera statunitense. Tuttavia, la dote delle presidenze che hanno vissuto e interpretato un mondo
privo del giogo ideologico del conflitto bipolare ha frenato l’azione riformatrice
dell’esecutivo in carica sotto l’attrito di una stagione incompiuta, rappresentata dalla duplice invasione nel Golfo Persico. Se una netta diversione nell’agenda della superpotenza
era
prematura,
se
non
inattuale,
nel
suo
ultimo
scorcio
l’amministrazione guidata da Barack Obama ha però l’opportunità di stabilire le regole della nuova fase politica che va aprendosi. È per questa ragione che la partita
sul nucleare iraniano, trofeo autentico cui guardano le ambizioni della presidenza
democratica, e l’assorbimento della crisi siro-irachena costituiscono la chiave di volta di un diverso equilibrio di potenza che gli Stati Uniti intendono assecondare al fine di limare la gravità delle pertinenze strategiche del Novecento. La Casa Bianca
può ancora giocare il vantaggio di una consolidata preponderanza materiale, ma
specialmente nel contorto scenario mediorientale il rischio di subire forti perdite supera la possibilità di realizzare guadagni altrettanto importanti. Come non possono
permettersi di trattare l’eversione califfale alla stregua della rovinosa irruzione in
Libia, allo stesso modo gli Stati Uniti non hanno alcun margine per ignorare i campanelli
d’allarme
che
accompagnano
il
riflusso
dei
contingenti
NATO
dall’Afghanistan. Analogamente al disastroso esempio iracheno, la stabilità del governo afgano è erosa dalle insurrezioni talebane, dalla debolezza delle istituzioni e
dei reparti di sicurezza, dall’ambigua protervia del vicino Pakistan e dalla contesa
regionale per il controllo delle fonti energetiche del Turkestan occidentale. Il collasso dell’Afghanistan, dove gli Stati Uniti hanno combattuto la guerra più lunga della
loro storia, avrebbe per le casse e le prospettive americane delle ripercussioni ben
più pesanti e complesse da maneggiare rispetto a quelle presentate oggi dalla mi-
Da questo punto di vista è opportuno augurarsi che la dirigenza statunitense riesca
a trarre dagli errori commessi un criterio efficace per governare il disordine globale.
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naccia islamista in Siria e Iraq.
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NOTE ↴
[1] F. U.S. Department of Defense, Defense Planning Guidance 1994-1999, Washington D.C.,
1992.
[2] Cfr. Jon B. Alterman, Acting and Reacting in the Middle East, in 2015 Global Forecast.
Crisis and Opportunity, Center for Strategic and International Studies, Washington D.C.,
2014.
[3] Cfr. Mario Del Pero, Libertà e Impero. Gli Stati Uniti e il mondo, 1776-2006, Laterza, Bari-Roma, 2008.
[4] Barack H. Obama, Remarks on the Middle East and North Africa, The White House, Washington D.C., 19 May 2011.
[5] Cfr. Kenneth M. Pollack, Ray Takeyh, Near Eastern Promises, in “Foreign Affairs”, vol. 93,
n. 3, May 2014.
[6] Cfr. Daniel W. Drezner, Does Obama Have a Grand Strategy? Why We Need Doctrines in
Uncertain Times, in “Foreign Affairs”, vol. 90, n. 4, July-August 2011.
[7] Cfr. Kenneth M. Pollack, Ray Takeyh, op. cit..
[8] Cfr. Thomas Juneau, U.S. Power in the Middle East: Not Declining, in “Middle East Policy”,
Vol. XXI, n. 2, Summer 2014.
[9] Barack H. Obama, Remarks at the United States Military Academy Commencement Ceremony, West Point, New York, 28 may 2014.
[10] Cfr. Christopher M. Blanchard, Alexis Arieff, Zoe Danon, Kenneth Katzman, Jeremy M.
Sharp, Jim Zanotti, Change in the Middle East: Implications for U.S. Policy, Congressional
Research Service, Washington D.C., 7 March 2012, pp. 18-19.
[11] Cfr. Chas W. Freeman, U.S. Foreign Policy and the Future of the Middle East, in “Middle
East Policy”, vol. XXI, n. 3, Autumn 2014, p. 12.
[13] Cfr. Richard K. Betts, Pick Your Battles, in “Foreign Affairs”, vol. 93, n. 6, NovemberDecember 2014.
[14] Cfr. Rick Brennan, Withdrawal Symptoms, in “Foreign Affairs”, vol. 93, n. 6, NovemberDecember 2014.
[15] Barack H. Obama, Responsibly Ending the War in Iraq, Camp Lejeune, North Carolina,
27 February 2009.
[16] Cfr. Rick Brennan, op. cit..
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[12] USAID, U.S. Overseas Loans and Grants: Obligations and Loan Authorizations, 2013.
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[17] Thomas Hobbes, Leviatano, cap. XXXVIII.
[18] Chuck Hagel, cit. in cit. in Claudette Roulo, Hagel: Joint Efforts Blunt ISIL Advance in
Iraq, Department of Defense, Washington D.C., 21 August 2014.
[19] Per una ricognizione degli antefatti della crisi irachena ed una descrizione dei provvedimenti adottati dagli Stati Uniti a seguito dell’avanzata jihadista su Mosul si guardi Alessandro
Tinti, La sfida dell’IS e la strategia di Obama, Osservatorio di Politica Internazionale (BloGlobal – Lo sguardo sul mondo), Milano, settembre 2014.
[20] Barack H. Obama, Statement by the President on ISIL, The White House, Washington
D.C., 10 September 2014.
[21] International Conference on Peace and Security in Iraq, Final Communique, Paris, 15
September 2014.
[22] Anthony H. Cordesman, The Real Center of Gravity in the War Against the Islamic
State, Center for Strategic and International Studies, Washington D.C., 30 September 2014.
[23] Cfr. Khalil al-Anan, ISIS Enters Egypt, Foreign Affairs – web edition, 4 December 2014.
[24] Kenneth Katzman, Christopher M. Blanchard, Carla E. Humud, Rhoda Margesson, Alex
Tiersky, The “Islamic State” Crisis and U.S. Policy, Congressional Research Service, Washington D.C., 22 October 2014, pp. 5-6.
[25] Lloyd J. Austin III, cit. in Jim Garamone, Anti-ISIL Strategy Working, Needs Patience,
Austin Says, Department of Defence, Fort Meade, 17 October 2014.
[26] Cfr. Anthony H. Cordesman, The Air War Against the Islamic State: The Need for An
“Adequacy of Resources”, Center for Strategic and International Studies, Washington D.C.,
29 October 2014.
[27] Cfr. Paul K. MacDonald, Joseph M. Parent, The Retrenchment War. Why the War Against
ISIS Will Be Fought On the Cheap, Foreign Affairs – web edition, 24 September 2014.
[28] Barack H. Obama, Remarks at the United States Military Academy Commencement Cer-
[29] Cfr. Anthony H. Cordesman, The Imploding U.S. Strategy in the Islamic State War?,
Center for Strategic and International Studies, Washington D.C., 23 October 2014.
Photo credits: BBC, The New York Times
Research Paper, N°29– Gennaio 2015
emony, West Point, New York, 28 May 2014.
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Ente di ricerca di
“BLOGLOBAL-LO SGUARDO SUL MONDO”
Associazione culturale per la promozione della conoscenza della politica internazionale
C.F. 98099880787
www.bloglobal.net
Research Paper, N°29– Gennaio 2015
A cura di
OSSERVATORIO DI POLITICA INTERNAZIONALE
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