s. maria cv strade e piazze fra storia ed aneddoti

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s. maria cv strade e piazze fra storia ed aneddoti
SALVATORE FRATTA
S. MARIA C. V.
STRADE E
PIAZZE
FRA STORIA ED ANEDDOTI
S. Maria C. V.
**** 2010 ****
Questo modesto lavoro è il risultato di una paziente
consultazione delle opere di illustri Autori e di un attenta
scelta delle notizie più significative. Esso non vuole essere un
testo scientifico, ma solo un lavoretto divulgativo.
In queste note richiamo, oltre a quelle di moderni studiosi,
anche le notizie, alla luce degli studi moderni non sempre
esatte, che antichi scrittori ci hanno tramandato.
Lo scopo è quello di far conoscere ai più giovani e di
far ricordare a tanti, ciò che la nostra città nasconde fra le
pieghe della sua storia.
Consideratelo un semplice omaggio, offerto a tutti coloro che
avranno la cortesia di leggerlo.
S. Maria C. V. dicembre 2010
BREVE STORIA DI TERRA DI LAVORO
La Terra di Lavoro, oggi, corrisponde alla provincia di Caserta e
comprende,
geograficamente,
il
territorio
caratterizzato
principalmente dalla pianura campana, situata tra il Monte Massico e
l’orlo settentrionale dei Campi Flegrei: “ Ricca pianura, che va dai
monti al mare, dominata dal Vesuvio”.
“Questa regione è così felice, così deliziosa, così fortunata che vi si
riconosce evidente l’opera della Natura…..quest’aere vitale, questa
perpetua mitezza di cielo, questa campagna così fertile, questi colli
solatii, queste foreste così sicure, questi recessi ombrosi, questi alberi
fruttiferi, queste montagne perdute fra le nubi, queste messi
sterminate, tanta copia di viti e di ulivi, e greggi dalle nobili lane e
tori così pingui”….(Plinio - Storia Naturale – cap. V, libro III).
“Terra molle, dilettosa, lieta, che non esclude l’operosità, la quale è
anzi fervida là dove il terreno ricompensa generosamente la fatica…
Terra che attrasse in ogni tempo genti le più diverse e insieme le
fuse”….. (T.C.I.).
Per la sua privilegiata posizione geografica, per il clima mite e la
fecondità del suolo, questa Terra, in omaggio sia alla produttività,
sia alla fatica dell’uomo, venne battezzata Terra di Lavoro.
Raccontare la storia di Terra di Lavoro non è facile impresa.
Bisognerebbe raccontare la storia dei cento e cento paesi che, presenti
in questa regione, hanno una loro specifica e antica realtà.
Ci limitiamo, quindi, a descrivere, per sommi capi e, speriamo, nel
miglior modo possibile, la storia che maggiormente si intreccia con
quella di Capua antica e nuova, che fu, anche se per un breve periodo,
capoluogo di questa nostra Terra la cui storia non è ancora
completamente conosciuta dalla maggior parte dei suoi abitanti.
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CENNI DI STORIA GEOLOGICA
In tutta la sua estensione, l’area della provincia di Terra di Lavoro, è
ubicata su antiche piattaforme sottomarine, molto estese, formatesi
tra 200 milioni e 20 milioni di anni fa circa, ricoperte da un mare
poco profondo, simile agli attuali mari tropicali.
Durante il Miocene, intorno ai 25 - 20 milioni di anni fa, un forte
sollevamento, dovuto alle spinte orogenetiche che avevano in
precedenza già formato le Alpi, interessarono anche queste terre e, in
un periodo cha va dai 25-20 milioni di anni fa a 6-5 milioni circa, si
formarono anche gli Appennini. Successivamente iniziò anche un
movimento di traslazione da ovest verso est.
Questi due movimenti di sollevamento e di traslazione spezzarono la
piattaforma primitiva e diedero origine ad altre piattaforme più
piccole, e fra esse:
A) La piattaforma carbonatica Campano – Lucana che raggiunge
uno spessore di circa 5.000 metri ed è presente in tutta la Campania
centro- meridionale. Essa costituisce i principali massicci calcarei e
calcarei – dolomitici dell’Appennino Meridionale e del subAppennino e cioè i monti Tifatini, il Taburno, il Partenio, i Lattari,
Capri e così via fino ad oltre il golfo di Policastro.
B) La piattaforma carbonatica Abruzzese – Campana che si
estende verso il Lazio, il Molise, e l’Abruzzo. Essa ha caratteristiche
simili a quelle della sopradetta piattaforma Campano- Lucana ma è
costituita in prevalenza da dolomie. Il suo spessore raggiunge i 3.000
metri e forma i monti a nord di Caserta: il monte Maggiore, il
Camposauro, il Massico, il Camino ed il Massiccio del Matese.
Nota: In tutto il Matese si trovano fossili racchiusi in blocchi di calcare ed in special modo
nei pressi di Pietraroja (dallo spagnolo = pietra rossa). Vasta risonanza ebbe il fortunato e
fortunoso ritrovamento, nel 1980-81, di un cucciolo di dinosauro vissuto solo poche
settimane, circa 113 milioni di anni fa, ritrovato da un appassionato ricercatore di fossili il
Sig. Giovanni Todesco, che non intuì immediatamente l’importanza della scoperta fatta.
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Quando ne venne a conoscenza, senza indugio consegnò il reperto e così, nel 1992, la scienza
ufficiale seppe del ritrovamento ed iniziarono gli studi su di esso.
E’ un dinosauro carnivoro, bipede, alto non più di 25 cm. E’ il primo dinosauro rinvenuto
sul suolo italiano ed i suoi resti sono particolarmente ben conservati; infatti, sono ancora
visibili sia gli organi interni (intestino, fegato, ecc), sia le fibre muscolari. E’ l’esemplare di
una specie finora non conosciuta. Esso è comunemente noto con il nome di Ciro.
Il nome scientifico, coniato dal paleontologo del Museo di Storia Naturale di Milano dott.
Cristiano Dal Sasso è Scipionyx Sanniticus: deriva dal nome del geologo Scipione Breislak
che nel 1788 scoprì e studiò il giacimento fossile del Matese.
Scipio = Scipione Onyx = unghia, Sanniticus in onore del Sannio.
Cinque milioni di anni fa, la Pianura Campana come terraferma non
esisteva. Il mare riempiva un amplissimo golfo in cui si specchiavano
modesti rilievi calcarei, alcuni già formati da molto tempo, altri
formati da poco, altri ancora che andavano formandosi nell’ultima
fase dell’orogenesi alpina.
Questa cortina di alture, a guisa di anfiteatro, dal monte Massico, al
Tifata, al Taburno e ai Lattari, delimitarono l'area della futura pianura
campana.
Successivamente, l’azione di vulcani sottomarini coprì, con
consistenti eruzioni, il fondo del mare. Spessi banchi di pomici e
cenere, che formarono vari tipi di tufo, si appoggiarono sui pendii
delle colline calcaree circostanti; l’azione livellante delle acque
fluviali che in essa scorrevano completò l’opera di costruzione della
pianura compresa tra i vulcani di Roccamonfina, i Campi Flegrei, il
Vesuvio, da poco emerso dalle acque marine, e le loro ceneri
l’arricchirono di elementi fertilizzanti. Poi lentamente, la nuova
pianura si ricoprì di vegetazione: estese macchie di lentischi, ginepri,
elci, corbezzoli, eriche, ginestre; e, più vicino ai monti, boschi di
querce e di castagni, più su ancora, boschi di faggio. In essi si
aggirarono le fiere e il temuto famelico lupo. In compenso la caccia
era tanta. Questa nuova terra si presentava generosa, e l’uomo a poco
a poco ne prese possesso ed infine le diede il nome di Campania
Felix.
Con tale appellativo, nell’antichità, veniva designato la ricca e
fertile pianura sopra descritta che si estende da Capua a Nocera.
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Una terra straordinaria, tanto fertile che il poeta romano Virgilio
nelle Georgiche le aveva accordato il primo posto tra i vari tipi di
terra: “…terra che esala una nebbia leggera e vapori alati, che assorbe
l’umidità e quando vuole da sé la restituisce, che si copre
spontaneamente di un prato sempre verde, che non si attacca al ferro
né lo rode…”(A).
Terra felice perché fortunata per il suo dolcissimo clima e per la sua
straordinaria fertilità dovuta alla natura vulcanica ed all’abbondanza
delle acque.
Terra che venne celebrata dai più bei nomi del Gran Tour, dagli
intellettuali che nel Settecento visitarono la nostra regione.
Uno fra i tanti: Goethe che così scriveva nel suo “Viaggio in Italia”:
“Caserta 16 marzo 1787….Ho visitato i resti dell’antica Capua e tutto
quanto vi si riferisca….
…In questi paesi bisogna venire per imparare che cosa è la
vegetazione e perché si lavora un campo….. Intorno a Caserta è tutta
pianura, i campi sono così uniti, così accuratamente coltivati che
sembrano viali di un giardino. Vi sono pioppi dappertutto, ed ai
pioppi si attaccano la viti e, nonostante l’ombra, il sole fa venire su
ancora i più bei grappoli”.
LE ANTICHE POPOLAZIONI
Le prime tracce di frequentazione umana nella nostra regione sono
state ritrovate in provincia di Caserta nel paesino di Tora e Piccilli
sulle pendici del Vulcano di Roccamonfina, e risalgono a 385-325
mila anni fa. Sono orme che vennero impresse sulla superficie di una
colata piroclastica, quando ancora calda, non era completamente
solidificata. Esse furono lasciate da tre individui di piccola taglia che
scesero un ripido pendio. Queste impronte, oltre l’uso naturale dei
piedi, evidenziano anche l’uso delle braccia usate nelle fasi di
appoggio e riequilibro.
Altre antichissime tracce, risalenti a circa 35.000 – 30.000 anni fa,
sono state ritrovate nei pressi di Mondragone in alcune grotte situate
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sulle pendici di Monte Petrino.
Manufatti del Paleolitico inferiore sono stati rinvenuti
a
Benevento, nell’area del vecchio aeroporto, nel territorio di Avellino
e nell'isola di Capri.
Gli strumenti litici uniti a resti di fauna pleistocenica (bisonti, orsi,
ecc) ritrovati nel sito dell’albergo Quisisana dimostrano che Capri era
un promontorio della costa campana, di origine calcarea, che circa
100.000 anni fa, a seguito di movimenti tellurici, si staccò dalla
terraferma.
Verso il 6.000 a.C. si ebbero le prime culture di uomini neolitici.
Esse si formarono attraverso la mescolanza delle popolazioni giunte
in precedenza nel periodo paleolitico. Queste antiche popolazioni
parlavano lingue di cui non conosciamo nulla. Si insediarono su
queste terre, attratte dalla fertilità del suolo e dall’abbondante fauna,
migliaia di anni prima della venuta e della occupazione di zone
costiere ad opera dei Greci.
Uno dei siti più antichi risalente alla fine del sesto millennio a.C.
venne portato alla luce nei pressi di Ariano Irpino.
Siti frequentati in tempi a noi più vicini, sono stati ritrovati, pochi
anni fa, nei pressi di Carinaro, Gricignano, Succivo, Palma
Campania, S. Paolo Belsito e Saviano nei pressi di Nola.
Nel territorio dove correva l’antico Clanio, il cui corso modificato
è rappresentato oggi dai Regi Lagni, sono state evidenziate notevoli
tracce di villaggi che risalgono alla fine del quinto millennio a.C. e di
un fitto popolamento che partendo da quei secoli giunge fino ai nostri
giorni.
Le testimonianze della presenza di queste comunità dedite
all’agricoltura, alla pastorizia, ed all’allevamento di bestiame nella
nostra terra, presenza ininterrotta per millenni, si sono potute
conservare grazie alle eruzioni vulcaniche, avvenute 20 secoli prima
di quella che seppellì Pompei, e che hanno sigillato diversi livelli di
vita mantenendoli intatti fino ai nostri giorni.
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In particolare a Gricignano sono stati ritrovati appezzamenti di
terreno con evidenti tracce di zappettature, arature e impronte delle
ruote di carri.
A Saviano, nei pressi di Nola, è stato recuperato un piccolo villaggio
preistorico investito da una colata di fango che ha preservato e fatto
ritrovare la forma di tre capanne di varie dimensioni. Davanti alle
capanne in una vasta area si è rinvenuta una sorta di gabbia li legno e
argilla che conteneva le ossa di nove capre, mentre in altri recinti si
trovavano altri animali quali mucche, maiali, pecore.
“L’attività eruttiva del Vesuvio e dei Campi Flegrei ha innumerevoli
volte interferito con il popolamento pre e protostorico della Campania
centrale prima del famoso evento che, nel 79 d.C., distrusse Pompei
ed i vicini abitati dell’area vesuviana. Potenti eruzioni hanno infatti
sepolto sotto strati di cenere e pomici ecosistemi preesistenti ed hanno
conservato le testimonianze della presenza e dell’attività
dell’uomo....”(1).
I maggiori vulcani nella regione campana sono: il vulcano di
Roccamonfina, ormai spento da oltre 50.000 anni, i campi Flegrei ed
il Vesuvio che in origine era un vulcano sottomarino: infatti sul
monte Somma si rinvengono conchiglie allo stato fossile.
Verso il III millennio a. C. giunse in Italia una prima ondata di
popolazioni indoeuropee.
Ma solo fra il 1000 ed il 900 a. C. giunsero e si stanziarono genti
indoeuropee che parlavano l’osco-umbro, cioè la lingua parlata dai
Sanniti, dagli Irpini, e, in Campania, dalla popolazione degli Opici.
Con il nome di OPICI, viene designata la popolazione di lingua
indoeuropea, che abitava la regione prima dell’invasione dei Sanniti
avvenuta verso la metà del V sec. a. C. .
E’ probabile che gli Opici fossero un gruppo più antico di
immigrati indoeuropei inoltratisi nell’Italia meridionale. Al loro
arrivo trovarono popolazioni aborigene di cui non si conosce quasi
nulla e a cui si sovrapposero prima della venuta dei Sanniti.
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Gli Opici abitavano nella pianura compresa fra il Volturno ed il
Clanio. Il nome, ricollegato a ops o opus (opera) è, forse,
l’adattamento di “opico” alla nuova lingua e significa “ popolo dei
lavoratori”: opos = lavoro; opsaom = fare.
Essi assunsero il nome di Osci solo molto tempo dopo, quando
nel territorio si insediarono le popolazioni sannitiche.
Verso l’800 a.C. giunsero genti Villanoviane che precedettero di
poco gli Etruschi, i quali gradualmente, si stabilirono nella zona, dal
VIII sec. a.C. in poi, inglobando i precedenti abitanti ed essendo un
popolo portatore di nuove tecnologie, diedero a Capua un vero assetto
di città, e la cinsero di mura.
Le aristocrazie etrusche si organizzarono in una lega di 12 città
sotto l’egida di Capua, il più importante centro del loro dominio.
Dopo la battaglia navale di Cuma del 470 a. C., avvenuta fra i
Cumani, aiutati da Gerone di Siracusa, e gli Etruschi di Capua,
essendo questi ultimi stati sconfitti e indeboliti dal punto di vista
militare, e perduto, quindi, potere, divennero facile preda, nel V e IV
sec., di popolazioni di stirpe sannitica, le quali, alla ricerca di territori
più fertili, scesero dalle montagne, occuparono Capua, con l’inganno,
annientarono l’intera popolazione ed a essa si sostituirono.
CAPUA ROMANA
Successivamente, nel 343, i Romani intervennero in aiuto di
Capua, posta sotto assedio dai Sanniti. Si ebbe così la prima guerra
sannitica (343-341 a.C.).
Capua fu accolta nella organizzazione politica romana, ma in uno
stato di netta inferiorità.
Per tanto, nel 340 la plebe capuana, durante la ribellione dei popoli
latini, si schierò contro Roma. La vittoria delle truppe romane costò a
Capua la perdita dell’Agro Falerno e l’imposizione di tributi, mentre
fu premiata la nobiltà capuana che non aveva preso parte alla
ribellione: infatti i nobili ebbero la cittadinanza senza diritto di voto,
e il diritto di contrarre nozze con i romani.
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Durante la seconda guerra sannitica (326-304 a.C.) in un periodo di
tregua, nel 312 a.C., fu iniziata la costruzione della via Appia, che
collegò Roma con Capua.
Nel 268 a.C., la strada raggiunse Benevento; nel 190 a.C., Venosa;
nel 170 fu prolungata, passando per Taranto fino a Brindisi, il porto
più importante per una diretta comunicazione con l’Oriente e la sua
successiva conquista.
Nel 123 d.C. la Via Appia fu restaurata per volere di Adriano con il
contributo dei latifondisti beneventani.
Questa grandiosa strada, larga 14 piedi romani (m.4.1), lastricata con
selci, e fiancheggiata da marciapiedi, fu una strada strategica, ideata
principalmente per rendere più veloce gli spostamenti delle truppe
che venivano impiegate nelle conquiste territoriali, favorendo in tal
modo l’espansione di Roma.
In principio era in terra battuta. In seguito, si provvide a pavimentarla
con selci. Il lavoro di costruzione era effettuato dai soldati stessi. La
pavimentazione fino a Benevento fu completata nel 191 a. C..
Con la completa disfatta dei sanniti nella terza guerra sannitica (
298-290 a.C.), tutta la Campania divenne possedimento romano.
Nel successivo periodo, per oltre un cinquantennio, fra Capua e
Roma vi fu una certa intesa e anche una alleanza in occasione della
prima guerra punica conclusa nel 242 a.C. e nella guerra contro i
Galli nel 222.
Nella seconda guerra punica, Capua fu a fianco dei romani, ma
dopo la sconfitta di Canne nel 216 a.C., la città si ribellò a Roma
aprendo le porte ad Annibale.
Nell’anno 211 Roma riconquistò Capua e la punì severamente
privandola di qualsiasi autonomia, di ogni diritto.
Non venne rasa al suolo perché era circondata da una campagna
fertilissima, che produceva il grano, si dice anche due volte l’anno: ed
il grano rappresentava una notevole ricchezza per Roma.
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Capua riacquistò la dignità di città nel 59 a.C., quando Giulio Cesare
vi dedusse una colonia di circa 20.000 veterani. L’anno successivo
riebbe la cittadinanza, e con essa la magistratura.
Negli anni seguenti la città si ingrandì notevolmente e all’epoca di
Augusto assunse il titolo di Colonia Julia Augusta Felix.
Per tutto il periodo dell’Impero romano la città ebbe grandi
concessioni da tutti gli imperatori.
Nel 130 d.C. venne costruito il nuovo anfiteatro in sostituzione di
quello che circa due secoli prima aveva visto le gesta di Spartaco, il
gladiatore che da Capua partì per ritrovare la libertà perduta.
Intanto il Cristianesimo si faceva largo fra persecuzioni e martirii.
Con l’editto di Milano, nel 313 si ebbe, finalmente, la libertà di
professare la propria fede e l’imperatore Costantino, negli anni
compresi tra il 320 e il 330, volle far edificare anche in Capua una
prima basilica cristiana, dedicata ai SS Apostoli.
Nel 410 d. C., Capua subì un saccheggio da parte dei Visigoti di
Alarico.
Nel 432, S. Simmaco, al suo ritorno dal Concilio di Efeso, dove la
Madonna era stata proclamata madre di Dio, in suo onore, edificò la
Basilica di S. Maria Maggiore.
Qualche decennio dopo, nel 455, arrivarono i Vandali di Genserico
i quali, nella loro insensata furia, saccheggiarono la città e distrussero
buona parte dei monumenti e delle abitazioni.
Venne assoggettata nel 493 da Teodorico, re degli Ostrogoti che
diede modo alla città di rifiorire.
Nel 530 vari edifici pubblici fra cui l'Anfiteatro furono restaurati
per interessamento del consolare campano Postumio Lampadio.
I LONGOBARDI
Quando il Meridione, nel 585, fu conquistato da Autari, longobardo,
e nacque la Longobardia Minore, Capua (nel 594) venne assegnata
alla dipendenza del Ducato di Benevento e ne segui le varie
vicissitudini, finchè con la morte, nel 839, dell’ultimo duca
beneventano, Sicardo, si accese una lotta intestina fra il suo erede
legittimo Siconolfo e Radelchi di Benevento che aveva usurpato il
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trono; e poichè il conte capuano Landolfo I, cercava di rendersi
indipendente dal principato beneventano, Radelchi assoldò una
banda di saraceni comandati da Khalfun, che nel 841 distrusse quasi
totalmente la florida città.
I cittadini, fuggiti sul monte Palombara, una collina nei pressi di
Triflisco, si rifugiarono nel castello detto Sicopoli, costruito già da
alcuni anni. Qualche tempo dopo, nell’856, distrutta Sicopoli per un
incendio, si traferirono nella Capua Nuova, edificata in una ansa del
Volturno e quindi più difendibile, perchè protetta su tre lati dal fiume.
Capua Vetere, quale fiorente città, ormai non esisteva più: solo
poche miserevoli casupole aggregate ai pochi edifici non gravemente
danneggiati: l’Anfiteatro, la Chiesa di S, Maria Maggiore e la Chiesa
di S. Pietro, che risultò incendiata.
Non più estesa città, ma solo piccoli borghi che presero il nome di
Casali. Vi abitavano quasi esclusivamente contadini e bifolchi: Essi
non abbandonarono mai i circostanti, fertilissimi campi da cui
traevano sostentamento anche gli abitanti della Nuova Capua.
In questi anni, i Longobardi dovettero lottare anche contro i
Saraceni Essi erano mercenari chiamati e pagati dagli stessi
governanti in guerra fra loro; dopo agirono per proprio conto, con
propositi di conquiste, razziando e distruggendo.
Nell’899, Atenolfo I di Capua conquistò Benevento ed unificò i due
ducati dichiarandoli giuridicamente inseparabili.
Nel 978 Pandolfo Testa di Ferro, capo della lega che sconfisse
definitivamente i Saraceni sulle rive del Garigliano, divenne anche
principe di Salerno e così l’intera Longobardia Minor venne
riunificata. Tuttavia alla sua morte vi furono nuove divisioni.
TERRA DI LAVORO
Con il nome Liburia era designato il “luogo ameno e fertile, ricco ed
ubertoso, pinguo di prati ed albereti, sovrabbondanti di messi e frutti”
(2), feracissima pianura che si estendeva a nord di Napoli compresa
tra le antiche strade consolari che da Pozzuoli e Cuma conducevano a
Capua. Successivamente con lo stesso nome venne designata la
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regione delimitata a nord dal fiume Clanio e a sud dall’ Ager
Neapolitanus e dal Lago Patria.
In epoca longobarda, venne chiamato con il nome di LIBURIA., il
territorio compreso tra il Volturno ed i Campi Flegrei
Secondo alcuni storici sembra che il termine Liburia sia la
deformazione popolare del toponimo latino Leboriae Terrae,
documentato fin dal I sec. d.C. da Plinio il Vecchio nella sua opera
Naturalis Historia, e ritenuto derivante da lepus = lepre, vale a dire
Terra delle lepri (2.1).
Una seconda versione dice che il nome Liburia indica la regione in
cui viveva una antichissima popolazione chiamata Leborini o Liburi,
di cui non si hanno notizie.
Per altri studiosi, infine, il nome Liburia deriva dal gentilizio Libor,
divenuto Labor per distorsione fonetica.
Dal sec. XII in poi la voce Liburia venne soppiantata dal termine
Terra Laboris che indicò un territorio più vasto del precedente e
successivamente divenne TERRA DI LAVORO.
Terra di Lavoro, dunque, era una regione storico – geografica
strettamente legata a Capua ed alla sua storia. Il territorio era molto
esteso: andava da Nola e Palma Campania fino a Gaeta, Fondi, Sora,
Venafro.
Oggi, lo stesso territorio risulta suddiviso tra le regioni politiche
amministrative della Campania, del Lazio, e del Molise.
I NORMANNI
Poco dopo l’anno 1.000, nel Meridione giunsero i Normanni,
prestando i loro servizi come mercenari.
Nel 1030 circa, nacque, con Rainulfo Drengot, ad Aversa, la prima
contea normanna d’Italia. I suoi successori, dapprima conti di Aversa,
divennero anche principi di Capua fino all’anno 1156 quando con la
morte dell’ultimo principe Roberto II la dinastia si concluse, e il
principato di Capua fu acquisito da Ruggero II d’Altavilla, divenuto
il re di tutto il Sud compresa la Sicilia strappata agli arabi, dopo una
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guerra decennale.
Verso il 1139, da Ruggero II, fu unificata
l’intera Italia
Meridionale, e in questo stesso tempo venne definito il suo
ordinamento, con la creazione di sette “giustizierai”.
L’antica Campania ne fece parte e a sua volta venne divisa in tre
province o Giustizierati; Terra di Lavoro, Ducato di Amalfi, e
Principato di Salerno che comprendeva anche il gastaldato di
Avellino.
Al tempo di Guglielmo I (1154 -1166), Terra di Lavoro
comprendeva l’attuale provincia di Caserta, l’agro nolano, e parte del
territorio beneventano; ed inoltre la valle del Garigliano, e la media
valle del Liri, ad est l’area tra Monteroduni e Venafro ed il Sannio
alifano e telesino.
Alla sua morte, gli successe Guglielmo il Buono che regnò per
poco più di un decennio e non essendovi discendenti diretti egli stesso
indicò, si dice, la zia Costanza d’Altavilla, come erede. Una parte dei
nobili, invece era propensa a dare il trono a Tancredi, figlio di
Ruggero III di Puglia, l’ultimo discendente maschio della famiglia
Altavilla. Nel novembre 1189 venne incoronato re di Sicilia. Ma
anche egli morì presto e gli successe Guglielmo III di poco più di
nove anni sotto la reggenza della madre Sibilla.
GLI SVEVI
Dal 1194 inizia l’epoca sveva. Durante questo periodo, i confini di
Terra di Lavoro ebbero la massima estensione comprendendo il
territorio tra gli Appennini ed il Tirreno, il fiume Sarno e la valle
Roveto, in Abruzzo. Il capoluogo era Capua.
Il figlio di Federico Barbarossa, l’imperatore Enrico IV di Svevia,
aveva sposato Costanza d’Altavilla, figlia di Ruggero il Normanno.
Proprio in virtù di questo matrimonio, Enrico reclamava i diritti di
successione della moglie e si accinse a riconquistare il regno, e
conquistata Palermo, il giorno di Natale del 1198, si incoronò re di
Sicilia annettendo il regno all’Impero germanico.
Il giorno seguente, 26 dicembre 1198, ad Jesi nacque Federico II,
sovrano illuminato, letterato apprezzato, protettore di artisti e
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studiosi. Presso la sua corte si incontrarono le culture latina, greca,
ebraica e araba. Durante il suo regno cercò di unificare terre e popoli,
ma venne contrastato con forza dal potere della Chiesa.
Al tempo di Federico II i giustizierati, cioè i dipartimenti
amministrativi in cui era diviso il Regno, erano nove: Abruzzo, Terra
di Lavoro, Principato, Basilicata, Capitanata, Terra di Bari, Terra
d’Otranto, Valle di Crati e Terra Giordana, Calabria.
In seguito il territorio fu suddiviso in dodici province, con la
divisione del Principato, dell’Abruzzo e della Calabria in Ulteriore (al
di qua) e Citeriore (al di la).
Alla prematura morte dell' Imperatore Federico II, avvenuta nel
1250, il figlio prediletto, Manfredi, nato nel 1232 da Bianca Lancia,
gli successe come reggente e nel 1258 assunse il titolo di re di
Sicilia, ostacolato pure lui, come il padre, dal papa, che per
contrastarlo fece venire dalla Francia, Carlo d’Angiò.
Con la battaglia di Benevento del 26 febbraio 1266 si ebbe la
sconfitta e la morte di Manfredi.
Il Regno di Sicilia venne conquistato da Carlo I d’Angiò, ma il suo
ordinamento amministrativo non venne mutato, conservando così gli
antichi giustizierati
Successivamente, Amalfi e Salerno vennero riunite in un solo
Giustizierato e da questo nel 1300 fu staccato il territorio di Avellino.
In tal modo si ottennero: il Giustizierato di Principato Citra, il
Giustizierato di Principato Ultra, ed in più il Giustizierato di Terra di
Lavoro
GLI ANGIOINI E GLI ARAGONESI
L’ultima speranza degli Svevi era riposta nel giovane Corradino,
nipote di Federico II, ultimo erede degli Hohenstaufen. Purtroppo
anch’egli venne sconfitto nella battaglia di Tagliacozzo nel 1268;
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cercò di riparare in altri lidi, ma catturato salì sul patibolo in piazza
Mercato a Napoli.
Quindi i d’Angiò avevano conquistato l’intero regno da Fondi, Gaeta,
fino alla Sicilia. Quest’ ultima, però venne persa nel 1282, con la
sommossa conosciuta con il nome di Vespri Siciliani.
La corona di Sicilia passò a Pietro III d’Aragona, marito di
Costanza, figlia del re Manfredi.
Il regno di Sicilia, dunque era così finito. Nacque il Regno di
Napoli, Stato che restò unitario dal XIII al XIX sec. Esso
comprendeva le attuali regioni dell’Abruzzo, Molise, Campania,
Puglia Basilicata, Calabria e anche alcuni territori dell’odierno Lazio
e cioè da Sora, a Fondi e a Gaeta.
Nel 1441 Alfonso V d’Aragona conquistò Napoli riunificando sotto
la sua reggenza, l’intero regno normanno – svevo, e spostando la
capitale da Palermo a Napoli, e acquisendo il nome di Alfonso I re di
Napoli detto il Magnanimo.
Con l’avvento degli Aragonesi la prima modifica amministrativa
riguardò la trasformazione dei precedenti giustizierati nelle province
di Terra di Lavoro e Contado del Molise, Principato Citra e Ultra,
Basilicata, Abruzzo Citra e Ultra, capitanata, Terra di Bari, Terra
d’Otranto, Calabria, Valle di Crati e Calabria Ultra.
Gli Aragonesi stettero sul trono napoletano fino al 1503. Dopo di
loro iniziò la lunga teoria dei vicerè spagnoli. Gli Spagnoli non
modificarono nessuna struttura amministrativa di Terra di Lavoro: per
loro il regno di Napoli era solo una colonia da cui trarre il massimo
profitto.
L’esorbitante fiscalità alimentò un fortissimo malcontento nel popolo
che sfociò nel 1647 in una vera rivoluzione capeggiata da Masaniello,
amalfitano. Ma né questa rivolta, né un tentativo di repubblica
favorito dal duca di Guisa ebbero successo e il dominio spagnolo
restò fino al 1713, anno in cui col trattato di Utrecht, il regno di
Napoli venne assegnato all’Austria, che restò sul trono napoletano
fino al 1734.
14
I BORBONE
Alla fine della Guerra di Successione polacca nel 1734, sul trono
del Regno di Napoli si insediarono i Re di casa Borbone. Essi non
modificarono l’ordinamento amministrativo dei propri territori, ma
adottarono interventi sul territorio con l’intento di valorizzarlo, ed in
particolar modo in Terra di Lavoro con la costruzione della Reggia
vanvitelliana di Caserta e successivamente la costruzione della
colonia industriale di S. Leucio, voluta da Ferdinando IV.
Nel 1799 alla Rivoluzione Partenopea, partecipò pure la nostra
città, S. Maria Maggiore, donando alla causa le vite di parecchi suoi
cittadini, caduti per i colpi inferti dall’una, le truppe sanfediste, e
dall’altra parte, le truppe francesi. E forse proprio per tale tributo di
sangue, allorquando, con l’avvento dei Napoleonidi, vennero
apportate modifiche alla divisione ed amministrazione delle province,
la città assurse a Capitale di Terra di Lavoro.
Infatti, “il 9 agosto 1806 viene pubblicata la legge n. 132 - adottata
il giorno precedente a Napoli dal nuovo re Giuseppe Bonaparte, che,
dividendo il territorio del Regno di Napoli in 13 province, presenta
una novità assoluta: come capitale di Terra di Lavoro viene
individuata S. Maria Maggiore.
Accanto a capitali di provincia di più nota fama (Napoli, Teramo,
Aquila, Chieti, Salerno, Avellino, Foggia, Bari, Lecce, Potenza,
Cosenza) viene collocata la nostra Città” (3).
Quindi S. Maria, anche se solo per poco più di due anni, fu Capitale
di Terra di Lavoro, ed essendo tale, venne in essa localizzato il
Tribunale, e fu sede anche degli Uffici dell’Intendenza (odierna
Prefettura) e del Consiglio (odierna Questura).
“ Probabilmente re Giuseppe, nella scelta della Città che avrebbe
sostituito Napoli alla guida di Terra di Lavoro si lasciò ispirare da
principi di decentramento amministrativo e di funzionalità dei servizi,
lasciando a Capua il ruolo di fortezza militare e a Caserta, dichiarata
dal Borbone “Città fedelissima” nel 1800, quello di rappresentanza
regia con il suo magnifico Palazzo Reale, molto più maestoso e
facilmente accessibile di quello di Napoli.
15
Opposte furono invece le valutazioni di Gioacchino Murat che
mantenne la residenza dei Tribunali a S. Maria, ma trasferì la sede
dell’Intendenza a Capua, ritenendo che le funzioni di un Intendente
avessero carattere più strettamente militare che civile. Quindi, con
decreto n. 182 del 26 settembre 1808, trasferisce la residenza
dell’Intendente a Capua, pur mantenendo la residenza dei Tribunali a
S.Maria” (4).
Dopo il periodo napoleonico, nel 1816, con il ritorno dei sovrani
borbonici, il suddetto trasferimento fu revocato dal re Ferdinando IV
di Borbone con decreto del 15 dicembre 1818 e l’Intendenza venne
definitivamente trasferita a Caserta.
Re Ferdinando I morì nel 1825, gli successe il figlio Francesco I e
dopo solo cinque anni, il nipote Ferdinando II. Una ventata di libertà
si ebbe nel 1848 quando il re Ferdinando II concesse al popolo la
Costituzione ispirata a quella francese (11.02.1848), peraltro subito
revocata (15.05.48).
Per questa revoca a Napoli scoppiò una sommossa popolare ed
avutone notizia, cittadini sammaritani svelsero le rotaie della ferrovia,
da poco costruita, per impedire che le truppe borboniche di stanza
nelle caserme di S. Maria e di Capua potessero raggiungere Napoli e
dare così manforte ai soldati che nella capitale cercavano di sedare la
rivolta.
Nel 1859 morì Ferdinando II e salì sul trono l’ultimo re Borbonico
Francesco II, il quale fu costretto a cedere il trono l’anno successivo
nelle mani di Garibaldi che entrato in Napoli il 7 settembre assunse la
dittatura, ed il I ottobre 1860 telegrafò: “Vittoria su tutta la linea “.
All’indomani dell’Unità la provincia di Terra di Lavoro divenne
una delle più vaste d’Italia: Infatti era costituita dall’intero territorio
della attuale provincia di Caserta, la parte meridionale della provincia
di Latina, il circondario di Gaeta, il circondario di Sora che oggi
appartiene alla provincia di Frosinone, l’agro nolano, e parte delle
16
attuali province di Benevento, Avellino ed Isernia: inoltre facevano
parte della provincia le isole ponziane.
Così viene descritta la provincia nel supplemento mensile illustrato
de IL SECOLO edito venerdì 31 luglio 1896.
“La provincia di Terra di Lavoro confina a nord con le province di
Aquila e di Campobasso – all’est con quelle di Benevento e di
Avellino – a sud-est con quella di Salerno – a sud con quella di
Napoli – a sud-ovest col mar Tirreno – ad ovest con la provincia di
Roma.
Il territorio della provincia è più montuoso che piano. Le montagne
delle Mainarde e del Matese fanno parte del displuvio generale
dell’Appennino. I monti Saticolani, Callicola e Tifata fanno parte del
subappennino Caudino – Irpino. I monti Ausoni e di Roccamonfina
fanno parte dall’antiappennino.
Sulla catena delle Mainarde, a nord, vi è il monte Meta che si eleva a
2241 metri dal livello del mare (dove nasce il Volturno ndr).
D’inverno è sempre coperto di neve. Alti sono pure, e nevosi, i monti
del Matese, dei quali più alto è il monte Miletto che si eleva a 2050
metri. Dipende dalle Mainarde il monte Cairo (1669 m.) presso
Cassino.
La provincia di Terra di Lavoro ha due fiumi importanti: il Liri ed il
Volturno. Il Liri sorge presso Petrella dal monte Camiciola. Affluenti
del Liri sono: a destra L’Amaseno, il Sacco, o Tolero e l’Ausento; a
sinistra il Fibreno, la Melfa, il Rapido e la Peccia ( chiamata Bautta
nel medio evo).
Temperato è il clima di questa provincia. Rigido sui monti delle
Mainarde e del Matese durante l’inverno ma sano.
I prodotti principali di questa terra ubertosissima sono: i vini,
frumento, canapa, lino, frutta, ortaggi e agrumi.
La superficie del territorio di questa provincia è di kmq. 5974,78 con
una popolazione assoluta di 725.537 abitanti, e con una popolazione
relativa di 121 e più per chilometro quadrato.
La provincia di Terra di Lavoro è divisa in cinque circondari: Caserta,
Nola, Sora, Piedimonte d’Alife e Formia. Ha 41 mandamenti e 186
17
comuni. La provincia ha 13 collegi elettorali politici.”
L’alta valle del Volturno, scorporata dalla provincia di Terra di
Lavoro, fece parte della provincia di Campobasso”.
Nel 1927 venne istituita la provincia di Frosinone.
L’Intendenza che, come già ricordato, era stata trasferita a Caserta,
restò in vita fino al 2 gennaio 1927, data in cui la provincia venne
soppressa. Il motivo che portò allo scioglimento della Provincia di
Terra di Lavoro, non è stato mai chiaro e non venne mai chiarito.
Tuttavia si ebbe il sospetto che fu una ripicca personale di Benito
Mussolini nei confronti di un gruppo di buontemponi antifascisti
casertani che gli avevano preparato uno spiacevole scherzo, attuato in
pubblica piazza.
Un’altra motivazione, forse, può ravvedersi nel fatto che il “Duce”
non gradiva i forti contrasti che, per l’acquisizione di un sempre
maggior potere, si verificavano fra gli emergenti capi fascisti
casertani,
Sembra, però, che la soppressione voluta da Mussolini, sia dovuta
al fatto che la provincia di Terra di Lavoro era considerata molto
grande e quindi non dava alla città di Napoli un retroterra adeguato al
ruolo di “perla del Mediterraneo” che il regime voleva praticamente e
propagandisticamente esaltare (4.1).
Le cinque province, Avellino, Benevento, Caserta, Napoli e
Salerno, vennero ridotte a 4 ed il territorio casertano, che formava la
più vasta delle province campane, venne, per una parte considerevole,
incorporato alla provincia di Napoli (che per estensione era la
penultima in Italia), mentre il resto fu diviso fra le province di
Benevento, Campobasso, Roma , Frosinone e Littoria (oggi Latina)
da pochissimo istituita.
Ovviamente una simile soppressione, danneggiò notevolmente il
territorio della provincia di Caserta, “che ragioni storiche,
geografiche, ed economiche avevano fatto il centro amministrativo di
una delle plaghe più ubertose della Campania”(4.2).
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Durante il II conflitto mondiale, anche Terra di Lavoro, come tutta
la Campania, registrò innumerevoli distruzioni e la perdita di tante
vite.
Il 23 settembre ‘43, a Napoli, il popolo, sebbene non organizzato,
combattendo eroicamente, riuscì a scacciare in quattro giornate, i
Tedeschi dalla città.
Nei giorni successivi, in altri centri della regione, ed anche in Terra
di Lavoro si vissero giornate memorabili:
- una battaglia si ebbe presso Valle di Maddaloni per salvare i Ponti
della Valle, che i tedeschi, in ritirata, volevano minare.
- a Mondragone i cittadini affrontarono i tedeschi in ritirata e si
ebbero cinque morti fra i combattenti e cinquantadue fucilati perché
in possesso di armi.
- 5 ottobre 43. A S. Maria C.V., un pugno di uomini decisi, - fra di
essi si ebbero due feriti gravi - in poche ore fecero uscire dalla città i
soldati tedeschi qui stanziati, i quali anche se in ritirata, colpirono
mortalmente un nostro concittadino in piazza S. Erasmo; sulla
Nazionale, che porta a Capua, appesero ad un olmo un giovane
appena sedicenne.
Quando, l’11 giugno 1945, pur ridimensionata nella sua estensione
territoriale, venne ricostituita la provincia di Terra di Lavoro, Caserta
tornò ad esserne il Capoluogo.
Lo stemma della provincia di Terra di Lavoro, in tempi a noi più
lontani, era rappresentato da due cornucopie d’oro legate da corona
d’oro in campo azzurro sovrastato da una corona nobiliare.
Oggi, invece, lo stemma del gonfalone di Terra di Lavoro
rappresenta due cornucopie su sfondo azzurro ricolme una di grano,
l’altra di vari frutti, unite alla base dal cerchio di una corona dorata.
Le due cornucopie, allegoricamente, rappresentano l’abbondanza e il
19
benessere economico e sociale di Terra di Lavoro.
NOTE BIBLIOGRAFICHE
(A) (Caserta e la sua storia – edito da Ente provinciale per il turismo –
testi di Claudia della Corte)
(1) (da Archeo n° 182 Aprile 2000 pag.40)
(2) (Guglielmo di Puglia in Gesta Roberti Wiscardi)
(2.1) (A.Perconte Licatese - S. Maria di Capua- pag. 150)
(3) (Bicentenario di S. Maria Capitale di Terra di Lavoro – cronache e
profili di Giovanni Laurenza pag.33 – volume pubblicato nel 2006
dal Comune di S.Maria C.V., per celebrare il bicentenario
dell’evento, sotto l’attenta guida e la facile e comprensibile prosa del
Dott. Giovanni Laurenza).
(4) (G.Laurenza op.cit. pag.34).
(4.1) (da Encicl. Treccani aggiornamenti vol. II).
(4.2) (da Wikipedia – Terra di lavoro)
(B)(Lucio Santoro - Castelli Angioini e Aragonesi)
20
PIAZZA MAZZINI
La piazza centrale della città, un quadrilatero di forma leggermente
irregolare, costituisce il nucleo più antico dell’abitato. Era uno dei fori
dell’antica Capua: il Foro del Popolo.
Le fonti hanno tramandato il nome, e la tradizione vuole individuarla con
la piazza Seplasia, la piazza famosa nell’antichità per le molte botteghe di
unguentari e di profumieri specialisti a trarre i loro prodotti dalle rose (le
rose centofoglie) coltivate in grandi quantità nei terreni intorno alla città, in
particolar modo nella campagna che si estende verso il mare, i cosiddetti
Mazzoni.
NOTA: In questa località, al tempo degli Angioini, fiorivano ancora rose selvatiche, si che i
Francesi chiamarono quei luoghi Maison des roses; di qui Maggione, e poi Mazzone. (1)
E ancora il Granata cita: “Nel Mazzone delle rose”. Il Summonte: “nel luogo detto la
Maggione delle rose, hora il Mazzone”.
Altri studiosi, invece, fanno derivare il nome da “massa”: un possesso fondiario, al cui
centro era il casale: massa grande, cioè massone da cui, popolarmente, “Mazzone”.
Dalla grande quantità di rose prodotta dai campi intorno a Capua, derivava
una notevole produzione di olii finissimi e di unguenti, tanto che si diceva :
si produce più unguento a Capua che olio altrove.
Gli unguentari vendevano “gli unguenti più soavi e delicati, di cui i
voluttuosi Campani e Romani facevano tanto uso.
La Seplasia: via di amori e di piaceri, dove i venditori offrivano i loro
cosmetici, che imbalsamavano l’aria del delizioso profumo di rose”(1.1).
“Seplasia: forum Capuae, in quo plurimi unguentarii erant”. ( Seplasia:
piazza di Capua nella quale vi erano moltissimi profumieri.) diceva Festo.
Del profumo e degli unguenti capuani ne parla Plinio il Vecchio nella
Naturalis Historia .XIII, 6.
Petronio ne fa cenno nel suo Satyricon LXII, LXXVI.
La Seplasia, oltre ad essere il centro popolare, il “forum plebis”, era
anche il centro commerciale di Capua. “Qui erano messi in vendita i
prodotti del suolo e dell’industria, qui si trovava la borsa, qui prima di tutto
si concentrava il commercio degli unguenti”.(2)
Quali somme di denaro passassero di mano in mano nella Seplasia è
mostrato da un frammento di Varrone nel quale egli cita la Seplasia di
Capua come uno di quei posti al mondo in cui si trovavano le più grandi
ricchezze, si costruivano le più grandi fortune. (3)
21
“A Capua si andava soprattutto per acquistare strumenti di lavoro, aratri,
zappe e falcetti che Catone, da buon esperto, raccomandava tra i migliori
d’Italia, e vasellame di bronzo e di coccio, la “campana suppellex”, stoviglie
comuni di cucina e da mensa, e per una merce più preziosa e meno
rusticana, per il profumo distillati dai roseti che fiorivano ovunque tra i
campi e le siepi, sì da dar vita ad un intero quartiere e da alimentare il
mercato della piazza più universalmente famosa di Capua, la piazza
Seplasia. E poichè in quel profumo di rose sembrava dovessero
sopravvivere le mollezze e le delizie degli ozi di Capua, sono andato alla
ricerca della piazza dei profumi. La Seplasia è quasi certamente da
riconoscere nella piazza che al centro dell’abitato, mutato oggi il nome in
piazza Mazzini, è da tempo immemorabile il vero mercato della città…”.(4)
Quindi, il profumo era la produzione più importante di Capua ed in questa
piazza si concentrava il commercio degli unguenti tanto che seplasium era
diventato sinonimo di profumo e seplasarius di profumiere.
In questa piazza venivano celebrate anche delle feste a sfondo religioso,
dette appunto le Seplasiae, feste che, vista la ricchezza degli
abitanti,dovevano avere grande reputazione.” (5)
Nei pressi della piazza, sul lato orientale, sorgeva il tempio di Venere.
L’ipotesi dell’esistenza del tempio suddetto è dovuta al rinvenimento, nel
1628, della statua della dea: ”...intiera assai bella, la quale venne trasferita a
Napoli, pel detto Museo di Spadafora, ed una gran base con la iscrizione a
Venere Felice..”. (G. Rucca – Capua Antica pag. 67)
NOTA: Si tenga presente che nel 1628 il collezionista antiquario Adriano Guglielmo
Spatafora, operante a Napoli, era morto già da più di trenta anni.
Nel cinquecento, le raccolte di antichità erano collezioni private. Il “museo” nel senso pieno
della parola non esisteva. Solo molto tempo dopo nacque il museo come lo si intende oggi,
cioè raccolta organica di opere d’arte.
Ancora la tradizione ci dice che in questo luogo venne o lapidato, o
pugnalato, il primo vescovo di Capua, San Prisco, che giunto nella città al
seguito di S. Pietro, governò la prima Chiesa capuana per circa 24 anni dal
42 o 44 d. C. al 66 d.C.
L’assassinio fu compiuto su istigazione dei sacerdoti del tempio di Diana
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Tifatina, i quali, per il lavoro svolto da questa santa persona, avevano visto
diminuire la loro influenza sul popolo.
Venne sepolto fuori Porta di Giove, nei pressi della via Acquaria che
snodava il suo percorso lungo l’acquedotto proveniente dai monti
circostanti. (6)
Dal 1871 al 1890 la piazza era nota come “Piazza del Popolo”.
Nel 1890, cambiò il nome in “Piazza Principe Amedeo” in omaggio ad
Amedeo Ferdinando di Savoia, terzogenito del re Vittorio Emanuele II
(1845-1890), morto, purtroppo, in quell’anno.
Dal 1947, con l’avvento della Repubblica, la piazza venne intitolata a
Giuseppe Mazzini.
Ma prima, e per molti secoli, la piazza era conosciuta, e così la si ricorda
ancora oggi, come “Piazza del Mercato”, quasi certamente per via del
mercato autorizzato da Re Roberto d’Angiò con decreto del 1 ottobre 1315.
Re Roberto, nato nella nostra città nel 1278, fu battezzato, l’anno
successivo, nella chiesa di S. Maria Maggiore da Marino Filomarino (12521285), illustre arcivescovo di Capua.
Essendo, quindi, molto legato alla sua terra natia, il re concesse ad
Ingeranno de Stella, (anche egli arcivescovo di Capua dal 1313 al 1333),
“ che ogni anno si potesse tenere una fiera in settembre nel giorno della
festività della natività di Nostra Signora da durare cinque giorni, vicino la
chiesa S. Marie de Capua sitam in Casali S.Herasmi prope ipsam Civitatem
Capue, nella quale chiesa egli era stato tenuto al sacro fonte battesimale”.(7)
Nota: Non si conosce né il giorno né il mese della nascita di Roberto
d'Angiò. L'anno si è ricavato da “poiché nel 2 del Mese di Febbraio 1296 fu
dal padre cinto cavaliere si rileva la sua età di diciotto anni, e perciò nati nel
1278” (7.1)
La fiera o mercato, importantissima per l’economia del Casale, venne
confermata da tutti i governi che succedettero nel regno di Napoli.
Si teneva in uno spazio nudo, polveroso o fangoso a seconda delle
stagioni, ed in esso confluivano alcune strade.
Sul lato della piazza esposto a mezzogiorno, con decreto del 1319, Re
Roberto il Saggio, volle far costruire una Chiesa, a tre navate, dedicata a S.
Lorenzo ed un annesso ospedale: l’ entrata principale si apriva sulla piazza
Mercato.
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“Nell’anno 1319 a richiesta ed insinuazione di Bartolomeo di Capua (il re
Roberto d’Angiò), edificò in questo gran Casale di S. Maria, la Chiesa ed
Ospedale di S. Lorenzo, con assegnargli una ben pingue rendita, col peso di
maritare dieci donzelle ogni anno; e sin oggi si veggono sulla porta della
chiesa l’effige di Roberto e di Sancia sua moglie, coll’iscrizione de’ nomi
loro;ed in questa Chiesa veniva sp esso il Re a sentire la santa Messa. Ma
oggi (1756 ca.) è padronato regio posseduto dalla Famiglia Gaetana de’
Duchi di Piedimonte, coll’alternativa co’ Re di Napoli, per special grazia a
tal mobilissima Famiglia dai sovrani conceduta”. (10)
“L’ospedale di S. Lorenzo, sito nella piazza Mercato, oggi piazza
Mazzini, fu adibito con la Chiesetta di S. Carlo ad ospizio e giardino dai
Padri Serviti, detti di Gerusalemme, per essere li medesimi, che quelli del
convento di S. Maria di Gerusalemme ad Montem, sul Casale di Bellona”
“La Chiesa di S. Lorenzo, già parte integrante del detto ospedale, situata
in mezzo della Terra, è per la verità assai comoda ai forestieri, che in tre
giorni della settimana presso la medesima vengono a tenervi il mercato, ed
hanno per tanto il comodo di udire la Santa Messa, che ogni giorno non
manca per obbligo;… ha il titolo di Badia”. (11)
“Situata in mezzo della Terra”, verosimilmente, può significare che tra la
Chiesa di S. Lorenzo, il Duomo, S. Pietro e S. Erasmo, vi era grosso modo
la stessa distanza e che non vi erano, edifici significativi, e questo spazio
aperto era percorso solo da strade di collegamento tra i tre casali suddetti.
Il mercato dal re Roberto venne concesso ogni giovedì. Venne confermato
dai successivi regnanti e re Ladislao, con diploma del 18 ottobre 1401,
concesse di potersi fare la Fiera in S. Maria Maggiore nel giorno della
Natività della Beata Vergine.
Il re Alfonso d’Aragona confermò poi il mercato per otto giorni di
settembre escludendo le tasse, eccetto il dazio; nel 1449, diede il privilegio
del Mercato franco anche per il dazio.(11.1)
…. “nel 1806, la piazza del Mercato era molto simile al piazzale antistante
l’Anfiteatro: il suolo era in terra battuta, in più parti ineguale ed infossato a
causa dell’intenso traffico che in esso confluiva dall’intera città attraverso i
varchi posti nei quattro angoli: non c’era la Fontana dei Leoni, ma un canale
di scolo con acque putride spesso ristagnanti”. (8)
24
Dopo qualche anno, nel 1829, la piazza venne sistemata e abbellita con
un’opera di Angelo Solari, “scultore di marmo in Napoli”: la cosidetta
Fontana dei Leoni a pianta circolare sovrastata da quattro leoni accovacciati.
“I leoni arrivano a S. Maria nel dicembre di quell’anno, in quattro casse di
legno di pioppo, e sistemati al centro della fontana da due scultori venuti in
seguito”.
I lavori in travertino “della Cava di Bellona” sono del maestro
scalpellino Andrea Galeno. L’opera, su progetto dell’Arch. Giovanni
Patturelli, è stata realizzata dagli appaltatori Domenico Fagiani e
Giuseppantonio Uggini che hanno provveduto alla “mettitore in opera di
tutti i travertini, Marmi di Mondragone e Pietra nera del Vesuvio”.(9)
Nota: Angelo Solari nacque a Caserta il 12 dicembre 1775 e morì a Napoli il 7 aprile 1845.
Apparteneva ad una famiglia di scultori. Il fratello Pietro lavorò fra l’altro a 4 statue per i
giardini della reggia di Caserta: le quattro statue dei cacciatori. Alla sua morte la quarta
statua non era stata completata e così si pensò di farla eseguire, appunto, da Angelo, che dava
già buona prova del suo talento, quando sarebbe stato in grado di farlo, essendo all’epoca
ancora molto giovane.
Tutto intorno alla piazza, furono messi a dimora una doppia fila di alberi
di lecci che fecero da cornice all’ ampio quadrato centrale.
Nei primi anni del Novecento, l’aspetto della vasca venne rielaborata in
forme più armoniche; vi fu aggiunto un catino metallico, che tuttora fa bella
mostra di sé, e la fontana venne protetta da una cancellata in ferro battuto,
alta all’incirca 1 metro e mezzo, che racchiudeva anche delle aiuole. Poco
distante dalla recinzione, una fontanella spandeva acqua per la pubblica
utilità..
Successivamente, la ringhiera venne modificata e abbassata, le aiuole
allargate, la fontanella eliminata e negli angoli della piazza vennero
installati, in quattro aiuole circolari formanti la base, altrettanti lampioni
che spandevano luce dall’alto dei loro tre bracci pendenti verso il suolo.
Sui lati della piazza, esposti a nord e a sud, vennero sistemati due
vespasiani in cemento prefabbricato che di tanta utilità sono stati per gli
avventori del mercato.
Sul lato che fiancheggia corso Garibaldi, delimitato da una fila di basse
colonne e da un largo marciapiede, vennero installati due chioschi in stile
primo novecento: sull’angolo verso sud
un acquafrescaio, mentre
sull’angolo opposto una rivendita di giornali, sostituito nel 1935 da un
distributore di benzina, a sua volta eliminato in tempi recenti. Sotto la fila
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interna dei lecci, alcune panchine davano la possibilità di prendere il fresco.
Lo spazio centrale aveva il fondo di ghiaia.
Nel 1978, sotto la piazza venne costruito un garage ed il verde nella piazza
venne modificato seguendo criteri moderni: i lecci sono restati solo sul lato
est.
Il mercato, successivamente, venne svolto due volte a settimana: il giovedì
e la domenica. Ma “Negli ultimi anni del loro regno, i Borboni, a seguito
delle lagnanze del clero motivate dall’assenza dei fedeli alle funzioni
domenicali, anticiparono al sabato il mercato come spostarono al lunedì
quello di Capua. Il 26. 11. 1862, il Consiglio comunale, deliberò il ripristino
nel giorno di festa, perché effettivamente la disposizione regale ledeva gli
interessi dei putecari (negozianti di specifica merce), dei barzarioti (bottegai
di generi diversi) e dei fanguttari (venditori ambulanti)”. ( da F. Palmieri
Op. cit.)
Vittorio Emanuele II il 15.02.1863 a Torino decretò che:” l’antico mercato
settimanale, solito tenersi la domenica nel Comune di S. Maria è stato
poscia trasferito al sabato, è ora ripristinato di domenica”. (12)
Il mercato nella piazza si è tenuto fino al 1966, quando con una decisione
presa anche con l’appoggio dei commercianti locali, che non volevano
restare più aperti di domenica, venne spostato verso la periferia della città.
Nelle “Passeggiate Campane”, con il suo tocco da maestro, rendendo con
le parole lo svolgersi del mercato pari ad un filmato, così lo illustrò il prof.
Amedeo Maiuri, archeologo di fama che spesso venne a visitare la moderna
Capua per ritrovare l’antica:
“Non ho mai visto mercato meglio ordinato: due o tre file di bancarelle, a
ranghi serrati come banchi di scuola, riempiono il quadrato della piazza, e
ogni mercanzia ha il suo inviolato settore. Dopo le frutta e le verdure, i semi
e le farine, c’è il settore dei mercatini delle stoffe, delle confezioni, del
vasellame, dei ramai, dei cordai, dei calzolai; non trovo i profumi dei roseti
capuani, ma, in cambio, sopra un lenzuolo candido disteso come tovaglia d’
altare, c’è la mostra dei saponi multicolori che irradiano all’intorno un forte
odore di muschio. E un pieno di compratori da non rigirarsi! Avete un
bell’allestire giganteschi empori entro palazzi di vetro, con scale mobili,
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radio altisonanti, ragazze cerimoniose al banco, miraggi di lotterie e premi;
basta compaia una bancarella con una filza di percalli e cotonine, perché il
popolo faccia ressa all’intorno. La merce fa più confidenza al sole: si palpa,
si osserva, si recita l’onesto gioco dell’adescamento e della ritrosia fra
venditore e compratore, si ritorna insomma al costume del vecchio Foro
italico, origine e ragione d’ogni convivenza sociale. Come poi facciano ad
esporre tutto quel ben di Dio sopra due scanni con uno straccio di tenda teso
bellamente come una cortina d’alcova, in modo da far spicco e richiamo di
colore e di prezzo, a scaricare, sciogliere e sciorinare balle su balle e, in
quattro e quattrotto, a rifar fagotto, a incassare tutto nello stesso carrettino
che è servito da banco di esposizione e di vendita, e a ricacciare fuori ogni
cosa al mercato del giorno dopo nella città più vicina, sono miracoli di
prestigio ai quali si assiste come ai giocolieri del circo”. (13)
La Chiesa di S. Lorenzo occupava, in parte, lo spazio ove oggi sorge il
fabbricato che ospitava, fino a poco tempo addietro, il Commissariato di
P.S. ed in parte la strada ad esso prospiciente (inizio di corso Garibaldi).
Sul lato opposto della strada si aprivano diverse botteghe di carni, le
cosiddette chianche, e varie pescherie.
Alla piazza si accedeva dalla strada dell’Angelo Custode (oggi via
Gallozzi), dal Vico Freddo (ora via Vetraia) e, proveniente dalla Piazza
Maggiore, dal Vicolo del Mercato, “la cui angustia diviene permanente
causa di impedimento e di disordine al libero transito”. Vale a dire, era così
stretto che le carrette vi transitavano con difficoltà: per avere l’idea basta
ricordare il vicoletto che, ancora oggi, dalla piazza scende a via Gramsci.
Pertanto, per allargare la sede stradale e rendere quindi possibile il
collegamento del Corso Francesco II, costruito nel 1859, con la strada,
l’antica via Atellana, proveniente da S.Andrea dei Lagni, cioè Via della
Croce (oggi via A. S. Mazzocchi) che passava per la Piazza Maggiore
(oggi p.za Matteotti), la Chiesa di S. Lorenzo, dapprima (1870 circa)
venne ridotta di dimensioni, con l’abbattimento di una navata e della
facciata e successivamente, tra il 1878-1880, completamente demolita.
Come direttore dei lavori di abbattimento fu nominato, il 10 maggio 1876,
l’ingegnere Francesco Sagnelli, cittadino sammaritano,
27
Sul suolo, divenuto così, disponibile, per ordine del Comune, venne
realizzato un edificio per pubblici uffici, su progetto dell’Ing. Nicola Parisi.
Il fabbricato era composto da un piano terra e da un primo piano. Il lavoro
di costruzione, iniziato nel 1881 e completato nel 1883, venne eseguito
dalla impresa edile Francesco Iacuariello di Napoli. Purtroppo, pochi anni
dopo, verso il 1891, nel fabbricato si verificarono delle lesioni seguite da
alcuni crolli e quindi si dovette provvedere alle necessarie riparazioni. Dopo
aver citato per danni l’impresa appaltatrice e l’Ing. Progettista, il Comune
affidò i lavori di restauro all’Ing. Gennaro Saccone ed alla Ditta Raffaele
Troiano.
Finalmente, quando i detti lavori furono completati, l’edificio, reso
agibile, ospitò gli Uffici delle Regie Poste e Telegrafi, la Pretura, ed anche
la Banca Popolare Garibaldi.
Durante il periodo fascista, fu la casa del Fascio, e dopo la II Guerra
Mondiale divenne la sede del commissariato di P.S. Al piano terra ospitò
circoli e botteghe; successivamente otto porte furono trasformate in finestre
e la nona, cioè quella centrale divenne l’ingresso agli uffici della P.S.
In corrispondenza della porta centrale, tuttora, si innalza la torretta. In
essa, in origine, era collocato un orologio, che ora, purtroppo, non esiste
più.
Sulla facciata dell’edificio, venne posta il 1.10.1913 ( 53° anniversario
della battaglia del Volturno) una iscrizione su marmo; dopo l’ultima guerra,
venne spostata e sistemata sul lato nord, cioè il lato dell’edificio, che si apre
verso la piazza.
Dettata da Raffaele Perla, (laureato in Giurisprudenza, libero docente di
Storia del Diritto presso l’Università di Napoli, uno dei redattori del Codice
Penale, Presidente del Consiglio di Stato,ecc.) e scolpita dallo scultore
Raffaele Uccella, nostro concittadino, la lapide vuole ricordare quanto il
popolo sammaritano ha dato alla causa del Risorgimento Italiano.
Essa così recita:
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LA FEDE NELLA CAUSA DELLA LIBERTA’
IN QUESTA TERRA D’ISPIRATRICE MEMORIE
NON DOMA NEL 1799
DALL’ECCIDIO DEL PARROCO CAPO E DI TERESA RICCIARDI
E DALLE ALTRE NEFANDE ATROCITA’ DELLA REAZIONE
NON VINTA NEL 1823
DAL SUPPLIZIO DI CARRABA E DE LAURETIIS
E ALLE ACERBE CONDANNE
PER LE COSPIRAZIONI
QUI RINNODATE DOPO GLI INGANNI DEL 1821
RIFULSE NEL VALORE
DI GIOVANNI DI GENNARO E DEGLI ALTRI CITTADINI
VOLONTARI NELLA CAMPAGNA DEL PATRIO RISCATTO
ACCESE L’IRA POPOLARE
NELLA SOLLEVAZIONE
CONTRO LE SOLDATESCHE BORBONICHE
ACCORRENTI A NAPOLI NEL 15 MAGGIO 1848
CONFORTO’ NEI DOLORI DELLA GALERA
LUIGI STICCO ANDREA DE DOMENICO GIOVANNI CARUSO
GAETANO VELLUCCI ANTONIO FERRARA FRANCESCO MORELLI
MICHELE DE GENNARO GIULIO NATALE ABRAMO RUCCA
IMPAVIDI PROMOTORI DI QUELLA SOMMOSSA
ANIMO’ LA SOCIETA’ QUI COSTITUITA NEL 1849
PER TENER VIVA NELLA PROVINCIA
LA FIAMMA DEL SENTIMENTO NAZIONALE
EPILOGO DELLA SECOLARE TRAMA
DI SOGNI DI OPERE DI SACRIFICI
IL FERVIDO AIUTO
OFFERTO NEL 1860 DA QUESTA CITTA’
ALLE SCHIERE GUIDATE DA GARIBALDI
NEI DECISIVI CIMENTI
PER L’UNITA’ E LA REDENZIONE D’ITALIA
OPQC
1799
1821
1848
1860
MCMXII
Proseguendo sullo stesso lato si può facilmente osservare che i quattro
palazzi ivi esistenti non hanno l’ingresso sulla piazza: tra di essi, il più
significativo è il Palazzo Auriemma la cui costruzione iniziata nel 1899, fu
completata nei primi anni del novecento. La facciata in stile liberty, fa bella
mostra di sé in piazza, mentre l’ingresso insiste su via Gramsci (ex via
Vittorio Emanuele).
29
Sull’area occupata dal Palazzo Auriemma, e invadendo parte dello
spazio di piazza Mercato, sorgeva il Teatro “Arena Nazionale”, di proprietà
di Pietro Boschi nativo di Roma. Costruito su progetto dell’Ing: Pietro
Tramundo, nativo della città., venne inaugurato il 6 giugno 1822.
“Grazie ad una relazione stilata nel 1876 dall’arch. Tommaso Matarazzi,
incaricato dal Comune di verificare lo stato di consistenza del teatro,
originariamente di proprietà di Pietro Boschi, siamo in grado di farne una
sia pur sommaria ricostruzione.
Dall’ingresso posto in via S.Lorenzo, si accedeva in un androne, quindi in
un corridoio, attraverso il quale si scendeva nella platea; questa pavimentata
in legno, conteneva dieci file di sedie di ferro, per cento posti a sedere; la
sala comprendeva anche tre ordini di palchi e poteva contenere una
quarantina di persone; mediante le scalette si saliva agli ordini superiori fino
alla galleria; complessivamente, quindi, poteva contenere intorno ai
duecentocinquanta spettatori. Ai lati del palcoscenico, anch’esso in legno,
vi erano due camerini e le quinte. La copertura della platea era fatta con
travi e tegole ed aveva al centro un aeratore, mentre quella del proscenio era
costituita da un lastricato. Il piccolo teatro ospitò comici e compagnie di
grido ed ebbe spettatori illustri come Francesco I e la moglie Isabella,
Ferdinando II e Gaetano Donizetti”.(14)
Altre notizie interessanti sul teatro le troviamo negli scritti di Fulvio.
Palmieri:
Nel Teatro Boschi “Gaetano Donizetti, durante la permanenza nel
Meridione, vi dirigeva quando si davano le sue opere. In quel tempo quando
per la festa di S. Gennaro si chiudevano i teatri a Napoli, le migliori
compagnie liriche e di prosa si trasferivano a S.Maria ( in particolare quella
del Fiorentini: Sadoschi, Alberti-Pieri, Maironi, ecc) e la città assurgeva a
capitale teatrale del Regno.
Nel Boschi i sammaritani applaudirono i comici dell’epoca: Antonio
Petito, De Angelis, di Napoli, ecc.”.(15)
Per il nuovo assetto dato alla piazza, il teatro venne demolito, nel 1895,
dopo l’ultimazione del Teatro Garibaldi.
In uno dei locali al piano terra del detto palazzo Auriemma, si apriva,
fino a pochi anni fa, una pizzeria: la Pizzeria “Pesce d’Oro” gestita dal Sig.
Michele Marrone che si vantava, e a ragione, di aver ospitato presso i suoi
tavoli anche Raffaele Viviani e Salvatore Di Giacomo.
30
Adiacente al Palazzo Auriemma si apre un sottoportico detto
popolarmente “ u Vicariello”: Esso unisce p.za Mazzini con via A.Gramsci.
Sulla parete di sinistra, per chi scende dalla piazza verso la suddetta strada,
si apre l’edicola dedicata alla Madonna di Montevergine, Immagine Sacra
festeggiata ogni anni con devozione e solennità dai commercianti del posto.
Nello spazio antistante, tra il vicolo ed il Palazzo Di Monaco, ora
Foglia, sotto il dominio spagnolo prima e sotto i Borboni poi, avevano luogo
le esecuzioni capitali dei condannati: con la decapitazione per i nobili,
mentre la forca era riservata ai plebei.
Il 16 dicembre 1823 furono eseguite, le condanne “alla pena di morte con
laccio sulle forche da subirsi nella piazza di questo Comune detta il
Mercato” di Pietrantonio de Laurentiis di anni 30 e Giuseppe Carrabba di
anni 52, con l’unica accusa di essere presunti affiliati alla Carboneria,
appartenenti alla setta detta degli “Escamiciati, durante i movimenti
rivoluzionari del 1820. (16)
Nella piazza, le ultime condanne furono eseguite nel 1826.
Subito dopo si incontra il palazzo Matarazzi, ad un solo piano, risalente
alla fine del seicento. Nessuna rilevanza architettonica, ma importante per la
storia della nostra città perché fu testimone delle nefandezze compiute dalle
truppe sanfediste durante la repressione della Repubblica Partenopea.
L’infamia che fu compiuta nelle sue mura viene ricordata da una lapide
anch’essa dettata da Raffaele Perla ed ivi posta nel 1913:
IN QUESTA CASA
CONVEGNO DI PATRIOTI
FIN DAI PRIMI ALBORI DEL RISORGIMENTO
NEL 1799
DEPREDATA ED ARSA DALLE ORDE SANFEDISTE
FU TRUCIDATA LA FANCIULLA TERESA RICCIARDI
SOTTOPOSTO AD ATROCI TORTURE
IL CITTADINO GAETANO MATARAZZI
I DISCENDENTI
VI ACCOLSERO ESULTANTI NEL 1860
LE MILIZIE E LE ARMI LIBERATRICI
La fanciulla Teresa Ricciardi per le ferite riportate il 14 giugno 1799
all’età di 14 anni circa, morì, dopo una atroce agonia, e con il conforto dei
sacramenti, il 17 giugno e tumulata nella chiesa della Congregazione Ave
31
Grazia Plena dell’Annunziata, attigua al Duomo, demolita nel 1876 quando
fu risanata e risistemata piazza Mazzocchi.
Poco distante dal palazzo suddetto, sorgeva, fino al 1963, un altro
palazzetto, (palazzo Margarita poi Matarazzo) anch’esso ad un piano,
risalente alla fine del seicento Al suo posto oggi si vede un moderno
fabbricato, in cemento armato, di nove piani, che fa angolo con via Vetraia.
Proprio su questo angolo, nel vecchio palazzetto, vi era una edicola con la
sacra effige di una Madonnina, risalente all’epoca della costruzione
dell’abitazione primitiva, dipinta su legno, di buona fattura, allocata in una
artistica cornice di marmi pregiati, cara alle premure degli operai della
vetreria operante poco distante, i quali per devozione ogni giorno
l’ornavano di fiori freschi.
Oggi, l’edicola, rimessa al suo posto dopo la costruzione del moderno
palazzo, anche se senza più la primitiva cornice di marmi pregiati, è oggetto
di cure da parte della popolazione locale.
Sul lato nord della piazza, dove confluisce via Vetraia, fino a pochi anni
fa, si apriva una rivendita di vino. All’interno del palazzo, durante i giorni
della festa del 15 agosto, in un cortile addobbato con fiori di carta rossi e
bianchi formanti dei grandi gigli stilizzati, venivano allestiti dei tavoli per
la degustazione di brodo di polipo e della impepata di cozze che veniva
servita in un piatto sul cui fondo venivano adagiate delle freselle impregnate
di un sugo rosso piccantissimo: puro estratto di peperoncino.
Proseguendo, dopo altri due palazzetti, si nota il palazzo Morelli, un
buon esempio di architettura della seconda metà dell’ottocento, il cui
ingresso però si trova sul corso Garibaldi.
L’attuale corso Garibaldi fino al 1858 non esisteva: in quello spazio, vi
erano altri palazzi, che vennero abbattuti per la costruzione della strada, che
avrebbe collegato la “Piazza del Mercato con il Real Camino che da Caserta
porta a Capua. Essa venne dedicata al nuovo re, Francesco II ed inaugurato
nel giorno del suo onomastico il 4 ottobre 1859. Per l’occasione, nella
piazza venne “eretto il palco per le autorità sul quale svettano le effigi dei
regnanti. Rende gli onori la fanfara del 2° Dragoni, tra lo sfavillio di 500
lumi a sego e lo sparo di mortaretti. Per l’occasione viene fatta una
distribuzione gratuita di pane ai poveri”. (17)
32
In piazza Mercato si svolgevano cerimonie pubbliche: fra esse si ricorda
il giuramento prestato dagli ufficiali della Guardia Nazionale il 6 ottobre
1861 alle ore 5 p.m.. (18)
E vi si svolgevano anche le feste, religiose e non, come quelle dovute in
occasioni di reali avvenimenti. Nel maggio del 1738, Carlo, re di Napoli e di
Sicilia sposa per procura, Maria Amalia Cristina figlia di Augusto III di
Sassonia. La principessa, lasciata la corte di Dresda, arrivò ai confini del
Regno napoletano il 19 giugno accolta dal marito. L’Università di S. Maria
non potè sottrarsi ai festeggiamenti di un simile evento; essi durarono tre
giorni, al termine dei quali nella piazza del Mercato si tenne “una giostra”.
La piazza fu opportunamente sistemata, rimuovendo il fango esistente e
sistemandovi un tavolato di “ginelle” (travetti di castagno) tenute insieme da
“fonigelle” (piccole funi). (19)
Si ricorda, inoltre, trenta anni dopo, la festa nei giorni 12, 13, 14
maggio 1768, per l’arrivo, nel regno di Napoli, della moglie del re
Ferdinando IV, la principessa Maria Carolina di Sassonia anch’essa sposata
per procura il 17 aprile dello stesso anno e conosciuta di persona al suo
arrivo ai confini del regno presso Fondi.
Nella stessa giornata di maggio, i novelli sposi giunsero alla reggia di
Caserta, ed ivi trascorsero la loro luna di miele.
Ogni anno, sul finire della fiera di settembre, si svolgeva in piazza la
Caccia alla bufala.
La caccia consisteva nel rincorrere e/o farsi inseguire, nella piazza recintata,
da bufalotti o bufale pungolate da arnesi, (denominati “mazze ferretti”
manovrate dai cacciatori), e addentate da cani mastini aizzati contro di esse:
Una esibizione che si svolgeva tra l’abbaiare furioso dei cani ed il muggire
degli animali impazziti dal dolore. Uno spettacolo che certamente non aveva
niente a che vedere con le classiche eleganti corride spagnole, e che si
rivelava solo rozzo e cruento.
Alla caccia del 25 settembre 1801, assistettero il re di Sardegna Carlo
Emanuele e la consorte Maria Adelaide: Questo avvenimento è ricordato da
una lapide marmorea apposta sulla facciata del palazzo Cusano –
Tartaglione (oggi Palladino), dove appunto i due principi furono ospitati e
videro lo spettacolo da un balcone che successivamente, circa 60 anni dopo,
33
nel 1858, venne abbattuto per via della costruzione del Corso, il quale venne
intitolato a Francesco II re di Napoli e successivamente a G. Garibaldi.
La lapide marmorea così ci tramanda:
KAROLO EMMANUELI SARDINIAE REGI ET M. ADELAIDI CONIUGI AUGUSTAE
QUOD ANNO CIDIDCCCI HASCE IN AEDES VII KAL OCTOBER DIVERTERINT
EASDEMQUE MAIESTATE COMPLEVERINT SVA
SPECTATURI ANIMI GRATIA BUBALORUM VENATIONEM
VETUS CAMPANORUM DELICIVM
MATHIAS TARTAGLIONIUS CUSANUS ET THOMASSINA UVA VINEA UXOR
DE GENTE PATRICIA CAMPANA
LAPIDEM TANTAE DIGNATIONIS TESTEM PONENDUM CVRARVNT
ANNVENTE D N FERDINANDO IIII P P
EX DIPL OMATE DATO ANN SUPRA DICTO PRID EID DECEMBRE
Trad; A Carlo Emanuele re di Sardegna e all’augusta consorte Maria
Adelaide, poiché il 25 set. 1801 vennero in questo palazzo e lo riempirono
delle loro maestà, per assistere per diletto alla caccia alla bufala, antico
divertimento dei Campani, Mattia Tartaglione Cusano e la moglie
Tommasina dell’Uva Vigna, famiglia patrizia campana, fecero deporre
questa lapide a testimonianza di tanto onore, col permesso di nostro signore
Ferdinando IV padre della patria con diploma firmato nello stesso anno il 12
dicembre. (21)
Nota: Carlo Emanuele re di Sardegna è il re Carlo Emanuele IV re di Sardegna dal 1796 al
1802.
La consorte è Maria Clotilde Adelaide, sorella dei re di Francia Luigi XVI e Luigi XVIII e
Carlo X.
Carlo Emanuele, persi i territori continentali, occupati dai francesi durante le campagne
napoleoniche d’Italia, si rifugia in Sardegna ed non avendo avuto figli abdica in favore del
fratello Vittorio Emanuele I.
La regina Maria Clotilde Adelaide muore in Napoli il 7 marzo 1802. Fu seppellita nella
Chiesa di Santa Caterina a Chiaia in una modesta tomba. Cinque anni dopo il Papa Pio VII la
dichiarò Venerabile e cominciò la causa per la Beatificazione.
Sul lato est della piazza si apre via C. Gallozzi. Proseguendo su questo
lato degno di nota è il Palazzo Fossataro.
Così lo descrive l’attento prof. A. Perconte Licatese (22) “ …è il prodotto
della sopraelevazione e dell’ingrandimento di un edificio settecentesco: nel
prospetto, scandito da sei lesene ioniche, si notano al piano nobile, il balcone
centrale più grande e cinque più piccoli, sormontati da timpani; al secondo
34
piano i sei balconi sono tutti uguali; sul lato sinistro sembra aggiunto un
corpo costituito da una stanza per piano; molto ampi il portone d’ingresso
che, pertanto risulta decentrato, ed il cortile interno”.
Oggi in esso ha la sua sede la “ Banca di Sconto e Conti Correnti.
La Banca venne costituita, quale società in accomandita semplice, da
Alessandro Fossataro, Raffaele Teti - Gazzero ed Eduardo De Mauro con atto
del notaio Francesco Mandara l’ 11 Agosto 1904 con un capitale di Lire
55.000.
Il 30 dello stesso mese entrò a far parte il Sig. Gaetano Cappabianca con
un capitale di Lire 20.000.
Nel 1909, il primo gennaio, fecero parte del gruppo i fratelli Giuseppe,
Francesco e Pasquale Fratta e la Banca divenne società in nome collettivo,
Fossataro & Fratta. Nel 1931, estintosi il ramo Teti-Gazzero, subentrarono i
Sigg. Francesco, Gaetano e Pasquale Peccerillo. Nel 1947 l’ultimo socio
fondatore, Eduardo De Mauro, che era stato direttore per 43 anni,. concluse
la sua esistenza.
Il 6 marzo 1975, la Banca divenne società per azioni con capitale di 700
milioni di lire. Ne fu amministratore delegato Alessandro Fossataro. Nel
1983 i soci Fratta, si allontanarono e fecero ingresso nuovi soci.(23)
Dopo il palazzo Fossataro ed il successivo palazzo Campanelli ( Giuseppe
Campanelli - nato a Potenza il 6.01.1811 morto il 08.02 1884 - tenente
colonnello dell’esercito borbonico, direttore di artiglieria nella battaglia del
1° ottobre 1860), si apre la via intitolata a Federico Pezzella, insigne
magistrato che lasciò la sua ricchissima biblioteca parte al Comune e parte al
Tribunale.
La via insiste sull’area di un palazzo seicentesco, che venne demolito nel
1974 per creare un adeguato accesso al costruendo nuovo Tribunale. Sotto
l’area occupata oggi in parte dalla strada ed in parte da un moderno
fabbricato, venne alla luce una abitazione romana i cui resti, visibili al di
sotto del livello stradale e sotto il porticato del palazzo, sono molto
interessanti: si tratta di un impluvium di casa romana del II sec. d.C. con
una fontana al centro.
Tra le feste religiose più importanti, che si svolgevano nella piazza, è da
ricordare quella del Corpus Domini. Per l’occasione si allestiva un altare
temporaneo nel “ pubblico Mercato per fare al popolo la Benedizione del
35
Santissimo e per le Autorità Amministrative che hanno seguito la
processione.(20)
In piazza Mercato aveva il suo momento culminante, la Festa della
Madonna Assunta del 15 agosto. Nel 1452, in questo stesso giorno, il re
Alfonso I d’Aragona assistette alla sacra funzione, facendo spiegare le sue
bandiere nella Chiesa di S. Maria Maggiore.
In una sua ricerca, il dott. Giovanni Laurenza (24), ci fa scoprire che nei
Conti e Atti del 1738 appaiono le spese effettuate per la festa del 15: “viene
eretto un altare che ospita l’immagine della Vergine,….riccamente
illuminato con “tianelle” riempite di sivo”.
Nei libri contabili del 1785 si ritrovano altre interessanti notizie:
“La sera, poi, diversi maestri artificieri si esibiscono a piazza mercato:
Cesare ed Elpidio Calasso da Casapulla, Pascale di Santo di S. Maria
Maggiore, Luca Cardito di S. Maria Maggiore, Apollonia Giordano maestra
artificiante di S. Maria Magg., Stefano Calasso e Giuseppe de Lucca di
Caserta, Donato Santoro del Casale di Casanova, Pascale ed Elpidio
Amoroso di Casapulla…”.
Nei Conti ed Atti del 1792 si conserva l’originale di un contratto stipulato
il 3 maggio tra l’Università e il Maestro apparatore Nicola Pappalardo di
Napoli che, per la succitata festa , allestì nella piazza un altare seguendo un
preciso disegno….L’altare veniva allestito ogni anno.
La descrizione della festa più verace e sentita, senza dubbio, è quella della
scrittrice napoletana Matilde Serao, nella sua novella “Non Più “ edita nel
1885.
“La piazza del Mercato, grandissima, riboccava di gente. La folla si
accalcava non solo nel vasto quadrilatero, addossandosi alle baracche dei
saltimbanchi, alle tende ambulanti dei venditori di sorbetti, al piccolo
carosello giallo e rosso; ma si addensava lungo il corso Garibaldi, verso
l’Anfiteatro e verso il Tribunale *, straripava sui molti balconi e su tutte le
terrazze prospicienti la piazza.
Non erano soltanto i ventimila abitanti di Santa Maria che avevano lasciato
le loro case, in quella sera di mezz’agosto, per assistere al grande fuoco
d’artifizio in onore dell’ Assunzione di Maria Vergine: ma anche dai
villaggi e dalle città vicine erano accorsi, per devozione e per curiosità.
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Nella folla minuta si mescolavano ai samaritani conciatori di cuoio, gli
ortolani di San Nicola la Strada, i setaioli di San Leucio, i fabbricanti di
torroni di Casapulla, gli agricoltori di Maddaloni e di Aversa, le pallide
maceratrici della canapa che languiscono una intera stagione sulle sponde
dei lagni.
Sui balconi illuminati a palloncini colorati, la borghesia e l’aristocrazia
samaritana faceva gli onori dell’Assunzione alla borghesia e all’aristocrazia
di Caserta e di Capua.”……
… “Intanto, uno sparo di mortaretti annunziò che lo spettacolo cominciava:
una delle macchine principiò ad ardere, a tre colori, a girandole roteanti, a
razzi. Il popolo samaritano applaudì, la folla ondeggiò tutta, per la
soddisfazione.”……. “Ardevano allegramente le girandole tricolori,
sprizzando scintille, mentre i contadini di Aldifreda, delle Curti, di
Centurano e di Cancello Arnone guardavano a bocca aperta…..
…Ma subito un’altra macchina s’accese, era una scappata di razzi che
salivano altissimi nel cielo, si schiudevano lassù, con una debole
detonazione, come un fiore che si apre, e si dividevano in tante stelle di
colori delicati.”…..
Ed ecco … “il grande chiarore giallo di una pioggia d’oro che zampillava da
una fontana di fuoco”… “Ma dopo aver applaudita la fontana di fuoco si
fece nella folla un grandissimo silenzio. L’ultimo pezzo cominciava. Era
prima un grande arco di trionfo, tutto lampioncini colorati che portava
scritto nel frontone: Viva Maria, poi quattro pezzi di fuochi d’artificio, in
quadrilatero, a mazzo di fiori, a scappate dei razzi, a girandole, a
girandolini. Come l’arco fu tutto quanto illuminato, nel vano profondo, con
la testa verso il cielo, con le bianche mani schiuse e distese che parevano
salutassero la terra, la statua della Madonna cominciò ad elevarsi. Saliva
lenta lenta, come librantesi e i potenti argani con cui era tirata su, non si
vedevano. Era vestita con la tunica rossa, col manto azzurro, e sorrideva al
cielo e dava l’addio alla terra. Le campane della cattedrale, di San Carlo,
della Croce, di Sant’Antonio suonavano a gloria. Ardevano i fuochi
incandescenti , gittando fiamme, sprizzavano scintille, vomitando stelle:
molti balconi avevano accesi i bengala. Nella piazza il popolo era
inginocchiato, pregando, acclamando la Bella Mamma Assunta in cielo.”
Per ottenere, sull'intera popolazione, la protezione e la benedizione della
Vergine Santa, il simulacro era portato in processione, da tutte le congreghe
della città, che percorrevano il Corso per tutta la sua lunghezza: dal Duomo
arrivava alla Villa e vi faceva ritorno, trattenendosi nella piazza illuminata
37
da mille luci e riempita dal brusio della folla in attesa dello spettacolo dei
fuochi pirotecnici allestiti per onorare Maria Santissima.
Il nostro concittadino Fulvio Palmieri ha così descritto la pausa. (25)
“Giunta al Mercato e dopo averne fatto il giro, la processione sostava. Lì,
senza preavviso, t’assordava il crepitio delle botte e i parossistici finali:
erano state accese a devozione dei fruttivendoli e commissionari, dei
curriari, delle antiche corporazioni degli artigiani e di coloro che non
sapendo pregare….cercavano con gli spari di meritare di Lei”.
*Nota: nell'anno in cui venne pubblicato lo scritto di Matilde Serao, non vi era ancora la Villa
Comunale, né la strada che ivi conduceva.
Ma anche avvenimenti meno gradevoli si svolsero nella piazza.
Il Prof. Alberto Perconte (26) ci ricorda un episodio di lotta politica,
accaduto il 18 settembre 1922, “La sera prima si era tenuta nel teatro
Garibaldi una manifestazione fascista…..Ad alcuni partecipanti che si
ritiravano, sulla via di Caserta fu teso un agguato ed alcuni furono feriti da
colpi di rivoltella. La rappresaglia fu immediata: i fascisti sammaritani
convennero in piazza Amedeo ed assalirono la sede della Camera del lavoro
e del PSI, dando fuoco in piazza alle suppellettili ed alle carte. Ristabilito
l’ordine dalla forza pubblica, il giorno dopo una seconda aggressione a due
fascisti scatenò una furibonda reazione. Appena terminata la seduta del
consiglio comunale, che aveva eletto sindaco il fascista Liguori, le squadre
d’azione di Capua, Caserta e Maddaloni, percorsero in corteo le vie della
città, inneggiando al fascismo e al Duce e giunte in piazza Amedeo,
ingaggiarono una vera e propria battaglia con i socialcomunisti che li si
erano raggruppati. Numerosi furono in quella occasione i feriti e gli
arrestati.”
La vicenda apparve sulle pagine de Il Mattino 20-21 settembre 1922.
38
Note Bibliografiche
(1) ( A. Altamura Dizionario dialettale napoletano).
(1.1)(Cicerone- Pro Sestio Valerio Max. XII Ext. I)
(2) (J. Beloch. Campania pag. 392)
(3) (Beloch op. cit. pag.383)
(4) (Maiuri A. - Passeggiate Campane - pag. 138)
(5)(da Mario Miele - Capua Vetere - pag. 37
(6)(G.Bova- La basilica Simmiana in S.Maria C. V.)
(7)(Reg.Ang. 1315 a. n. 204 fol. 257 t. 258 da Camillo Minieri Riccio
Genealogia di Carlo d’Angiò pag.242)
(7.1- Minieri Riccio – Genealogia di Carlo II d'Angiò p. 201)
(8) (da Bicentenario di S.Maria Capitale di Terra di Lavoro - Cronache e
profili di un bicentenario di Giovanni Laurenza pag. 96).
(9) ( da: La Guardia Naz. Pag. 43)
(10) (Granata – Storia Civile di Capua libro III pag. 62 – 63 )
(11) ( Granata – Storia Sacra della Chiesa Metropolitana di Capua, lib.III
Cap. I pag.53)
(11.1)(Teti – S. Maria C. V. pag. 396 – 397)
(12) ( Fulvio Palmieri da Na ‘nzalata ‘e chiazze, ecc. 1991)
(13) ( A.Maiuri - Passeggiate Campane Ed. Sansoni, pag.150):
(14) (A.Perconte Licatese - S. Maria Capua Vetere - pag.89)
(15) ( F. Palmieri - S. Maria C.V. - Vecchie Immagini e Note Estemporan.
pag. 89)
(16) ( da “La Guardia Nazionale” pag. 37)
(17) ( La Guardia Nazionale di S. Maria C.V. pag. 98 – museo del
Risorgimento).
(18) ( la Guardia, ecc - pag 131)
(19) (da:Figli della Vergine Assunta-pag. 14)
(20) (Conti e Atti 1768 foll. 359-361)
(21) (Alberto Perconte Licatese S.Maria di Capua, pag.130 scheda n° 38)
(22) (A. Perconte - S. Maria Capua Vetere pag. 109-120)
(23) ( da Palmieri…op.cit. pag. )
(24) ( Figli della Vergine Assunta, pag. 27 – 31)
(25) ( F. Palmieri - S. Maria Capua Vetere – Vecchie immagini e note
estemporanee)
(26) ( A. Perconte - Santa Maria Capua Vetere, pag. 42)
39
CORSO GARIBALDI
Il Corso Garibaldi, la strada principale di S. Maria C. V., venne realizzato
all’inizio della seconda metà dell’800. Fino ad allora, la stessa area era
occupata da abitazioni signorili e dai loro retrostanti ed estesi giardini.
Tutte le principali abitazioni della città erano dotate di giardini in cui
dimoravano numerose piante di agrumi. Nei giorni della fioritura delle
zagare, un gradevole, delicato profumo si diffondeva nell’aria.
Era una caratteristica della nostra città.
In epoca romana, all’incirca negli stessi spazi, correva uno dei cardines*
della antica Capua, che, procedendo da nord verso sud, metteva in
comunicazione il decumano* formato dalla via Appia, (oggi c.so A.Moro)
con il foro del Popolo.
Che il cardo esisteva, è stato dimostrato dal ritrovamento, durante la
costruzione della nuova arteria, di alcune pareti affrescate e di frammenti di
pavimento musivo, ruderi pertinenti ad alcune abitazioni romane.
Ulteriori conferme si sono avute, circa un secolo dopo, nel 1952, quando il
Prof. Alfonso de Franciscis, nelle Notizie di Scavi (pag. 301 e segg.), diede
notizia del ritrovamento del pavimento in mosaico di un’altra abitazione
databile intorno al I sec. d.C. sita all’incrocio di c.so Garibaldi e c.so
Umberto I, sul lato sud – est.
Nel 315, Costantino il Grande fece edificare, in Capua, una basilica
dedicata agli Apostoli
La città subì il saccheggio dei Visigoti di Alarico nel settembre del 410.
Nel 432, S. Simmaco costruì la basilica di S. Maria Maggiore.
Meno di 50 anni dopo, nell’estate del 455, si ebbero le razzie dei Vandali,
comandati da Genserico. Abbattendo ed incendiando, distrussero numerosi
edifici pubblici. Pur tuttavia la vita continuò.
Nel 493 pur essendo assoggettata dagli Ostrogoti, la città ebbe modo di
recuperare almeno in parte la sua precedente condizione.
Il vescovo Germano verso l’anno 520 fece costruire la Chiesa di S.
Stefano e S. Agata e l’annesso Presbiterio, che ospitò la sede vescovile fino
all’881, quando la diocesi venne trasferita nella nuova Capua.
Nel 530 alcuni dei suoi edifici pubblici vennero ripristinati su ordine di
Postumio Lampadio, consolare della Campania, come risulta da una
iscrizione che sembra essere stata dissotterrata nei pressi dell’anfiteatro,
40
verso il 1846.
Nel 553 iniziò il dominio bizantino che fu di breve durata.
Nel 585 Autari, longobardo, conquistò il Meridione, e nel 594 Capua venne
assegnata al Ducato di Benevento.
I nuovi abitanti dell’antica Capua furono i Longobardi, i quali, in verità,
non costruirono nessun edificio nuovo ed abitarono nelle case della città così
come erano, adattandole con poche costruzioni in legno.
Il cardo suddetto, nella sua struttura originaria, dovette assolvere la sua
funzione, almeno fino alla distruzione di Capua antica da parte dei Saraceni,
nell’841.
In seguito a questo tragico evento, la città, ormai mal ridotta, venne
abbandonata da buona parte della sua popolazione, fuggita o resa schiava.
Gli edifici pubblici rasi al suolo, le abitazioni saccheggiate, distrutte e
incendiate, perduta per sempre la memoria dei rispettivi proprietari: questo
il quadro desolante di Capua, la città emula di Roma.
Le macerie si coprirono di erbacce; dove prima sorgevano i fabbricati, si
aprirono vasti spazi che livellati e liberati dai detriti, furono resi coltivabili.
Vennero impiantati orti e giardini per il fabbisogno degli abitanti dei tre
casali, in cui si divise l’antica metropoli, determinando, così, la totale
scomparsa degli edifici, di molte strade della antica città e del cardo stesso.
Restarono riconoscibili, e sono giunti fino a noi, solo i tracciati di alcuni
decumani e cioè:
a) il tracciato della via Appia all’interno della città, oggi corso A. Moro;
b) la via ad essa parallela, che nel 1871 venne denominata Torre perchè da
via Albana arrivava fino alla Torre di S. Erasmo;
c) ed infine via Vetraia che, in origine, con via M. Fiore, costituiva un
unico decumano.*
NOTA: Bisogna fare una precisazione sui nomi cardine e decumani dell’antica Capua.
Il cardine o cardo è l’asse viario che da nord va verso sud.
Il decumano è l’asse viario che va da est verso ovest.
Il Prof. Julius Beloch nella sua opera “Campania” ci porta a conoscenza di quanto segue:
“Sulla limitatio dell’ager Campanus (cioè nella suddivisione dei campi capuani,ndr),
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sappiamo che qui, contrariamente alla consuetudine d’un tempo, il decumanus correva da
nord a sud ed il cardo da ovest ad est. A motivo di ciò viene addotto, cosa d’altronde giusta, il
fatto che l’estensione del territorio campano da nord a sud è maggiore che non quella da est
ad ovest.
…Nel 162 a.C., l’intera pianura venne divisa in quadrati di uguale grandezza per mezzo di
strade campestri. Il lato di uno di questi quadrati è uguale a metri 740,4 = cioè 2400 piedi
romani.”.
“ Resta però da vedersi se questa permutazione dei nomi possiamo applicarla anche alla
limitatio della città di Capua” (pag. 353).
Dunque, a Capua Vetere il decumano massimo della centuriazione, corre con andamento
sud- nord, e raggiunge Capua sul suo lato occidentale. Esso è ancora visibile lungo
l’Anfiteatro (via Spartaco ex via Grattapulci) e prosegue fino al Volturno.
Il sistema però non viene proposto all’interno della città e perciò le vie di Capua antica
rispondono esattamente ai precetti canonici: cioè i decumani vanno da est verso ovest,
mentre i cardi vanno da nord verso sud.
J. Beloch ci dà conferma di ciò a pag. 389 e segg.: “Per quel che concerne le strade della città,
possiamo stabilire con sicurezza il tracciato di almeno una di queste: il decumanus sul quale
la via Appia tagliava a mezzo la città….Ora, poiché mancano del tutto ostacoli del terreno…,
e non si trovano tombe lungo tutto questo tratto, non resta che una sola ipotesi, che cioè
l’Appia in questo tratto seguisse una delle strade dell’antica Capua. In altre parole, qui ci è
conservato uno dei decumani di Capua. Da questo dato si può trarre immediatamente una
serie di importanti conclusioni: In primo luogo le strade della città erano orientate
esattamente secondo i punti cardinali: i decumani da est ad ovest ed i cardini, che senza alcun
dubbio formavano con essi angoli retti, da nord a sud”.
Nei secoli successivi, nuovi nuclei familiari, molti dei quali erano arrivati
al seguito dei vari conquistatori, edificarono nuove abitazioni su quelle
vestigia sepolte e sconosciute, occupando, così, anche gli spazi dell’antico
cardo.
Pure uno dei due fori dell’antica Capua, il Foro del Popolo, la Seplasia
dei romani, la Piazza del Mercato, modificò, i suoi confini.
In essa confluivano alcune strade:
via Vetraia, e il primo tratto di via Gallozzi;
la via proveniente da S. Andrea, che fuori città, riuniva in un unica strada i
due rami provenienti da Atella (la via Atellana) e da Pozzuoli (la via
Campana).
Questa strada, nei pressi della piazza, diveniva strettissima, perché, nel
1319, in quegli spazi, e forse occupando buona parte del cardo, era stata
edificata la chiesa angioina di S. Lorenzo.
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Pertanto, in questa precisa area della città, si era venuto a creare un nuovo
assetto territoriale che restò immutato per parecchi secoli.
Nel medioevo la viabilità venne modificata, probabilmente, per il
traffico dei carri, intenso e caotico, che si creava per raggiungere l'area in
cui si teneva mercato..
Il nuovo percorso, (che si sviluppava su via C. Gallozzi, chiamata
dell’Angelo Custode, ed su brevi tratti delle altre strade, oggi indicate come
via Fratta, piazza S. Pietro, via Porta di Giove) congiunse, quasi
diagonalmente, i tre decumani, formati:
1) da via Vetraia – M.Fiore,
2) da via Torre ( oggi via Fratta e via Martucci) ,
3) dalla via Appia (ex via S. Gennaro, oggi Porta di Giove).
Lo scopo era duplice: percorrere più agevolmente la strada e far
risparmiare tempo a chi doveva recarsi dalla piazza del Mercato alla
suddetta via Appia, importante via di transito che metteva in comunicazione
il casale di S. Maria di Capua con paesi vicini e lontani, e, ovviamente,
per fare il tragitto in senso inverso.
Il tratto del decumano minore che, partendo dal Foro giungeva fino alla
via Albana, ebbe il nome di via Perrella; oggi via M. Fiore. Poco dopo il suo
inizio lascia, sulla sinistra, via Gallozzi,
Con l’insediamento del Tribunale, e l’arrivo di giudici, avvocati, notai, e
personale vario, gli abitanti crebbero di numero e la città avvertì la necessità
di espandersi. Pertanto, verso la metà dell’800, si avviarono i primi studi
su come sviluppare la città.
Si ritenne necessario congiungere, direttamente con il centro della città, la
via Appia, il cosiddetto “ Real Camino che da Caserta porta a Capua”,
arteria molto trafficata per il transito dei carri, adibiti al trasporto di tutto ciò
che era necessario alla vita cittadina, i quali, per raggiungere la piazza
Mercato, posta al centro della cittadina, dovevano compiere tragitti non
sempre agevoli.
La possibilità di recuperare spazi, per la costruzione di civili abitazioni ed
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edifici pubblici, veniva data, proprio, dagli ampi giardini retrostanti le poche
abitazioni che, a quel tempo, insistevano lungo via Appia, via Torre e
piazza Mercato.
Pertanto, il primo progetto eseguito per il previsto sviluppo della città, fu
l’apertura del Corso, realizzato in breve lasso di tempo e inaugurato col
nome del Re, su sua concessione, il 4 ottobre del 1859, giorno onomastico
del sovrano borbonico Francesco II..
Dopo poco più di un anno, il nome venne sostituito con quello di G.
Garibaldi.
Su progetto degli architetti Domenico Cecere e Giacomo del Carretto, i
lavori iniziarono con l’abbattimento di una parte del palazzo Cusano –
Tartaglione che si affacciava proprio sulla piazza Mercato e l’esproprio del
retrostante giardino che si estendeva in profondità occupando l’area,
successivamente utilizzata per la costruzione dell’ edificio scolastico, ed in
parte, per il Teatro Garibaldi Il suddetto palazzo perse buona parte del
corpo di fabbrica e del cortile interno. La parte demolita venne, poi,
ricostruita con i balconi che si aprirono lungo il Corso. Il cortile dapprima
molto ampio risultò dopo molto piccolo.
Alla nuova arteria, i cittadini diedero il nome di “rettifilino”. Lungo i
suoi lati vennero innalzati diversi palazzi sullo stile di fine ottocento,
appartenenti a famiglie benestanti.
Un buon esempio di architettura ottocentesca è dato dal palazzo Morelli,
situato all’incrocio con piazza Mercato. L’ingresso si apre sul corso
Garibaldi offrendo alla vista ben sette balconi per ognuno dei due piani,
mentre sulla piazza incidono solo quattro balconi per piano. Nel cortile
interno si aprono vari vani adibiti originariamente ad ospitare carrozze e
cavalli. Il giardino di questo palazzo si trovava a destra del portone e
confinava con le scuole elementari. In questo spazio venne costruito, negli
anni sessanta del Novecento, un fabbricato moderno che ospita a tutt’oggi, il
Banco di Napoli.
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Provenendo da piazza Mazzini, sul lato occidentale del corso si incontra
l’imponente
EDIFICIO DELLE SCUOLE ELEMENTARI
“ PRINCIPE DI PIEMONTE ”
Un primo progetto dell’edificio, sui tipi proposti dal Ministero della P.I.,
risale all’aprile del 1872; esso venne modificato dall’ ing. Rosalba, nel
dicembre del 1875 essendo la costruzione già iniziata. La consegna del
lavoro ultimato doveva avvenire verso maggio o giugno del 1877. Invece, fu
inaugurato il 14 marzo 1878 e intitolato al Principe Tommaso (di Savoia
duca di Genova).
L’edificio, che occupa più di 2000 mq, sorge sul suolo inizialmente di
proprietà Cusano – Tartaglione. Venne realizzato dalle imprese Ferdinando
Troiano e Luigi Mele.
“Perfettamente simmetrico, l’edificio mostra il gusto dell’epoca nello
svolgimento delle finestre con archi sovrastanti, nel liscio bugnato del piano
terra, nei cornicioni aggettanti lungo il primo piano e nel timpano triangolare
che conclude il prospetto”.(1)
Sul corso Garibaldi, l’edificio allineava, in successione, tre finestre, un
portone d’ingresso per le scuole femminili, un corpo centrale che aveva
cinque finestre a piano terra ed altrettante al primo piano, un portone di
ingresso per le scuole maschili ed altre tre finestre.
Nel 1930 l’edificio fu ampliato: sulle terrazze di lato al corpo centrale
furono erette altre aule nello stesso stile. Sui portoni d’ingresso vennero
edificati due balconi; sul prospetto fu eliminato il timpano triangolare e
costruiti, in corrispondenza dei portoni d’ingresso, due timpani ad arco in
cui si sistemarono bassorilievi con gli stemmi sabaudi e comunali. Oggi i
due timpani e gli stemmi non esistono più.
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Di fronte all’edificio scolastico, si eleva la
CHIESA DEGLI ANGELI CUSTODI
Venne edificata tra il 26 maggio 1880, posa della prima pietra, ed il 22
luglio 1882, giorno della consacrazione. La Chiesa fu innalzata, a cura e
totale spesa di Gaetano Saraceni, ricco possidente, che provvide anche
all’arredo interno.
Su progetto dell’ing. Francesco Sagnelli, i lavori furono eseguiti dalle
imprese di maggior lustro operanti nella città: Ferdinando Troiano e
Domenico Aulicino.
La facciata presenta due piani sovrapposti sormontati da un timpano
triangolare.
Nel primo piano, sopra un grande portone è posta una lapide che porta
la seguente iscrizione:
TEMPIUM HOC DEO DICATUM IN ONOREM VIRGINIS
DEIPARAE ET ANGELORUM CUSTODUM
PIETATE ATQUE AERE SUO
E FUNDAMENTIS EXSTRUENDUM ORNANDUMQUE CURAVIT
CAIETANUS SARACENUS
MDCCCLXXXII
Trad.
Questo tempio dedicato a Dio in onore della Vergine
Madre di Dio e degli Angeli Custodi
con devozione e con suo denaro
dalle fondamenta fece costruire ed abbellire
Gaetano Saraceno
1882.
Sulla seconda parte della facciata si apre un finestrone con arco
sovrastante, tipico di fine ottocento. Quattro lesene terminanti con capitello
ionico al primo piano, diventano corinzie al secondo e dividono la facciata
in zone verticali..
Mediante due scalini si accede all’interno del sacro edificio a pianta
rettangolare ad una sola navata con volta a botte, molte cappelle laterali, e l’
altare maggiore in marmi policromi.
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Negli stessi spazi, precedentemente,
sorgeva la cappella del
Conservatorio dell’Angelo Custode, il cui ingresso era situato nella via
omonima (divenuta dal 1913 via C. Gallozzi).
A seguito della costruzione della nuova strada e dell’abbattimento della
Chiesa di S. Lorenzo, la cappella si rivelò insufficiente a contenere i fedeli
delle zone circostanti, e pertanto venne edificata la chiesa attuale.
Del primitivo sacro edificio rimase solo il campanile che infatti mostra
caratteristiche architettoniche settecentesche, e che pertanto risulta essere di
fattura precedente la chiesa attuale.
Esso s’innalza sulla parte destra della chiesa attuale, presso l’abside.
Traendo notizie dall’opuscolo scritto dal Parroco Don Salvatore Iodice,
riferisco: “ A sostegno di tale tesi, sulla campana più piccola vi è la
raffigurazione dello stemma cittadino e di un ostensorio, mentre una scritta
così recita “ A.D. 1823 – Municipio di S. Maria Capua Vetere – Michael
Angelus Camirchioli Paetramelaria artifex”.
NOTA: Mi permetto far notare quanto segue: La nostra cittadina, nel 1823, non aveva ancora
il nome di S. Maria C. V, e non vi era ancora lo stemma civico. Assunse la denominazione
SANTA MARIA CAPUA VETERE con Regio Decreto del 24 agosto 1862 e potette
fregiarsi dello stemma civico verso il 1881.
Nel 1823, la città, casale di Capua, era conosciuta con il nome di Santa Maria Maggiore;
ancora prima come S. Maria di Capua. Potrebbe, perciò, esservi un errore di lettura nella data
citata.
Sulla campana maggiore, oltre al rilievo di un Angelo custode con un
fanciullo e di un busto di Madonna con bambino, è visibile la seguente
scritta: “ GAETANUS SARACENUS AERE SUO FECIT ANNO DOMINI
1883” - Luigi Mobilione fabbricante di campane in Napoli via Zappari n.
28”.
Il Conservatorio (o Monastero), era la sede di una istituzione benefica,
fondata nei primi anni del 1700, per l’interessamento del predicatore
Michele Raminondi di Lucera (Foggia), che veniva nella nostra città a
predicare nei giorni precedenti la Pasqua.
Veniva chiamato Conservatorio delle Cappuccinelle sotto il titolo dell’
Angelo Custode e fu sede dell’ordine monastico omonimo per più di un
secolo. Vi erano “circa vent’otto religiose”.
Da principio in esso erano ammesse alcune donne “pericolate”;
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successivamente fu riservato al ricovero di “povere donne pericolanti”, (cioè
donne il cui stato di povertà poteva portarle a diventare meretrici. ndr).(2)
Il conservatorio era sostenuto, “economicamente dalla beneficenza di
alcuni cittadini e da un beneficio di iuspatronato ( = diritto di partecipazione
alla protezione) della famiglia Cusano”. Successivamente anche il
Municipio elargì dei sussidi.
Il regolamento dell’istituto fu approvato il 28 febbraio 1736,
dall’Arcivescovo di Capua Mondilla Orsini.
La conduzione era affidata a Religiose che seguivano la regola di S.
Francesco e curavano l’annessa cappella nella quale il cappellano titolare
celebrava Messa”.(3)
Nel 1739 furono eseguite opere di consolidamento all’edificio del
conservatorio, perché era in procinto di “cadere il belvedere con tutto il
quarto dove abitano le religiose”, a spese dell’Università di S. Maria
Maggiore che elargì tali sussidi il 23 febbraio 1740.
Nel 1766 ospitò oneste zitelle le quali per essere ricoverate pagavano
una dote di 200 ducati per chi abitava nella città e di 300 ducati per chi
veniva da altri paesi.(4)
L’8 luglio1872, il Conservatorio fu trasformato, con Regio Decreto, in
Convitto femminile di educazione, con scuola elementare sia per alunne
interne che per quelle esterne. L’opera si prefiggeva di istruire ed educare
fanciulle appartenenti a famiglie oneste e civili, scelte annualmente dal
consiglio comunale, mediante pagamento di limitate rette od anche
gratuitamente.(5)
Qualche tempo dopo il Convitto venne aggregato all’Istituto Santa
Teresa.
Nel 1927, lo stabile ospitò, solo per pochi anni, la caserma dei Reali
Carabinieri.
Infine, per interessamento del podestà Avv. Pasquale Fratta, l’edificio, su
disegni degli Ing.ri sammaritani Enrico Amorosi e Gaetano Cariati, che
prolungarono verso nord un’ ala del convento, divenne la sede del Liceo
Ginnasio. Inaugurato l’11 aprile 1932, venne intitolato al Principe Tommaso
di Savoia. Oggi, il liceo porta il nome di un poeta latino che, forse, ebbe i
natali nell’antica Capua: Cneo Nevio.
Proseguendo nel nostro itinerario, notiamo, sul lato occidentale del corso,
il
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TEATRO GARIBALDI
La borghesia sammaritana non era da meno di quella capuana o
casertana. In città vivevano nobili, ricchi proprietari terrieri (che a volte, si
dice, non conoscessero esattamente i confini delle loro estese proprietà
sparse in tutta la provincia di Terra di Lavoro), agiate famiglie, liberi
professionisti. Quasi tutti amanti del teatro, sovente mettevano a
disposizione le sale più grandi delle loro abitazioni per avere il privilegio di
ospitare gli artisti più famosi del momento.
E non mancava nemmeno il teatro a S .Maria. Infatti, fin dal 1822, in via
S. Lorenzo, era funzionante il teatro Boschi.
Un teatro, tutto sommato, piccolo: poteva contenere all’incirca 250
spettatori, ma con una eccellente acustica, in virtù della quale, nel 1828, su
invito di un nobile residente nella nostra cittadina, il principe di
Sant’Agapito (4.1) il sovrano Francesco I di Borbone, con la consorte Maria
Isabella di Spagna e l’erede al trono, il diciottenne Ferdinando II, venne ad
assistere ad una o forse più rappresentazioni..
Gaetano Donizetti, durante il periodo in cui visse a Napoli, quando nel
Boschi venivano rappresentate le sue opere, amava dirigere personalmente
l’orchestra.
Le migliori compagnie dell’epoca e gli attori più famosi ne calcarono le
scene: basta ricordare il grande Antonio Petito, che proprio nella nostra città,
come ci tramanda il nostro Fulvio Palmieri, “incorse nell’ira della
gendarmeria borbonica che non tollerava gli spettacoli durante la
Quaresima, e perciò il primo storico Pulcinella fu ospite, anche se per poco
tempo, nelle carceri a S. Francesco”.
Tutto ciò, forse, non bastava. L’idea di avere un teatro in città, quale
segno di distinzione che “torna utile al Comune intero nei rapporti del
decoro e della civiltà”(6), nacque nell’animo dell’élite cittadina, formata
dalle famiglie sammaritane benestanti.
L’idea fiorì, forse, per emulazione, o forse perché, i facoltosi cittadini
sammaritani, erano stanchi di andare a Capua per assistere alle
rappresentazioni nel Teatro Campano, o di arrivare fino a Caserta dove a
fianco dell’antico Municipio, era stato eretto il Teatro Comunale intitolato
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alla Regina Maria Isabella, e inaugurato nel 1830.
Nota: Il Teatro Campano, (ora Teatro Ricciardi), progettatto dell’ing. Francesco
Gasperi, fu ricostruito nel 1781 su di un precedente teatro.
A Capua nacque Silvio Fiorillo creatore di Capitan Mortimoro e della prima
maschera di Pulcinella.
Nel 1835, dunque, gli amanti del teatro, sottoscrissero una petizione con
cui richiedevano la costruzione di un edificio adatto a tale scopo. La cosa al
momento non ebbe seguito.
Ma i tempi e le idee cambiavano, nuove tendenze culturali si facevano
largo fra i rappresentanti della ricca borghesia, e quindi, alcuni decenni
dopo, nel 1864, l’idea venne rispolverata e tra alcuni privati e con la
partecipazione del Municipio, venne costituita la “Società Anonima per la
costruzione di un edificio ad uso di teatro”.
L’Amministrazione Comunale si mobilitò: per reperire i fondi necessari
all’impresa, emise delle azioni; bandì un concorso per il progetto e nominò
una commissione giudicatrice composta da A. Francesconi, F. Niccolini, e
F.M. Del Giudice che scelse la soluzione proposta dal gruppo “Rossini” di
cui faceva parte l’architetto Luigi Della Corte al quale venne dato l’
incarico di redigere un primo progetto di massima, e infine deliberò che
l’edificio dovesse sorgere lungo il nuovo corso Garibaldi, come
espressamente indicato dal R.D. del 18 febbraio 1866: Art. 1: ” E’ dichiarata
opera di pubblica utilità l’erezione di un edificio ad uso di teatro…. Da
costruirsi al lato sinistro della via corso Garibaldi, a partire dal
Mercato…..”.
La scelta cadde sul giardino di proprietà dei coniugi Nicola Cipullo e
Rosina Lucarelli che si opposero alla vendita e pertanto la realizzazione
dell’opera non potette aver inizio.
Dieci anni dopo, il Municipio con delibera del 17 maggio 1876 tentò di
acquistare un’estensione di mq 1870,35, con fronte strada di m. 35,87, al
prezzo di lire 5836,65: Ma tale offerta non venne accettata dai proprietari
del suolo. Si passò quindi all’esproprio con delibera del 27 ottobre dello
stesso anno.(7)
Purtroppo si ebbe un nuovo rinvio: questa volta dovuto ad un problema di
finanziamenti. Nell’attesa che le cose migliorassero, trascorsero altri dieci
anni.
Il 27 gennaio 1887, con Regio Decreto, venne nuovamente affermato che
50
l’opera da costruire era di pubblica utilità, come già dichiarato con R.D. del
18 febbraio 1866.
Il 23 marzo 1887 si procedette all’esproprio del terreno. Il primo passo
era compiuto.
Finalmente, dopo aver accantonato il primo studio del Della Corte ed il
secondo commissionato all’arch. Gennaro Zagaria, il 3 dicembre 1887 venne
bandito un nuovo concorso per il progetto della tanto sospirata opera.
Racconta Fulvio Palmieri: “ ...fu pubblicato un bando così analitico che
agli eventuali partecipanti veniva lasciata solo la fantasia per le preziosità
stilistiche”.
Il teatro doveva contenere: una platea con 160 posti, e complessivamente
“seicento spettatori, essere fornito di sala da ballo, buffet, avere due entrate
laterali per le vetture e sul fronte principale l’ingresso per i pedoni”(8).
Trenta elaborati giunsero da tutta Italia, nel termine fissato per il 31
marzo 1888.
La commissione esaminatrice era composta da due docenti
dell’Accademia delle Belle Arti: il Prof. Pasquale Maria Veneri, titolare
della cattedra di Architettura decorativa e già docente di scenografia; il
Prof. Raffaele Folinea docente di Scienza delle costruzioni; e dall’Ing.
Federico Travaglini, prof. di Applicazione presso il Genio civile.
Il sindaco Pasquale Matarazzi ed il consigliere Giacomo Gallozzi
formavano la restante parte della commissione.
Vagliati attentamente i lavori, furono scelti due progetti, l’uno presentato
dagli Ingg. R.Beneventani e G.Rispoli sotto il nome ROMA, e l’altro,
denominato CURRIANT, proposto da Antonio Curri, professore di disegno
architettonico, nativo di Alberobello, operante a Napoli.
La commissione scelse del primo progetto, la parte interna del teatro cioè
la pianta e le sezioni, e del secondo il prospetto, cioè la facciata.
La Giunta Comunale, a cui spettava l’ultima parola, ritenne più
rispondente alle richieste fatte con il bando del concorso, l’elaborato del
Curri che venne invitato a modificare il suo progetto seguendo le indicazioni
della commissione esaminatrice.
Nel frattempo, nell’agosto del 1889, era stato finalmente acquisito l’atto
ufficiale di cessione dei suoli. Pertanto nel 1890 si diede l’avvio ai lavori
che dovevano essere completati entro la prima metà del 1891.
La direzione dei lavori, come espresso dall’art. 6 del bando, venne
51
riservata al vincitore del concorso, il Prof. Curri.
I lavori furono appaltati da Gaetano D’Agostino di Salerno, noto artista e
decoratore, che si servì della valente collaborazione di Carmine Casella per
eseguire il vasto programma ornamentale.
Per i lavori di muratura il D’Agostino preferì l’ impresa dell’abile maestro
muratore Pasquale Angiello, operante in città.
I lavori di falegnameria più importanti, dal D’Agostino, furono affidati in
subappalto alla ditta Francesco D’Errico.
Nel 1892 l’impresa D’Agostino abbandonò definitivamente il cantiere
che venne portato avanti dal solo Casella.
I lavori furono completati quattro anni dopo con una spesa complessiva di
lire 450.000 circa, che risultò essere superiore, più del doppio, a quanto
preventivato, e con ritardo sui tempi previsti. Il ritardo era dovuto,
principalmente, al fatto che l’architetto Curri trascurava il lavoro a S. Maria
essendo tutto preso dall’opera che stava svolgendo nel Caffè Gambrinus di
Napoli.
L’opera era ormai compiuta: “Evidenti riferimenti ai modelli francesi sono
riconoscibili nel Teatro Garibaldi…..la cui facciata ripropone, seppure su
scala ridotta e con sostanziali varianti, il prospetto principale dell’Opéra
parigina”.(9)
Il teatro Garibaldi fu l’ultimo teatro lirico ad essere costruito in Campania.
…”un lavoro che tanto onora l’arte e il Municipio di Santamaria” così si
espresse il pittore Domenico Morelli, uno dei più importanti artisti di quel
tempo, in una lettera, datata 12 settembre 1894, inviata al Sindaco della
città.
Il 12 aprile 1896, il Teatro, novello tempio lirico, intitolato a Garibaldi già
nel 1892, venne inaugurato con l’interpretazione dell’opera “La forza del
destino” di G. Verdi. diretta dal maestro Grandine Vincenzo che fu, fino al
1932, direttore ed insegnante del famoso Conservatorio di Musica “S.
Ferdinando”, così denominato in onore di Ferdinando IV di Borbone che lo
istituì nel 1819 a Salerno. Oggi porta il nome di un altro musicista, figlio
della nostra Terra: Giuseppe Martucci, nato a Capua.
Nell’autunno del 1897, il Garibaldi ospitò Eduardo Scarpetta e la sua
compagnia. Inoltre, è da ricordare che, su questo palcoscenico, Raffaele
Viviani recitò per l’ultima volta. (10)
Oltre alle opere liriche, nel nostro teatro venivano eseguiti anche concerti
52
di musica sinfonica e da camera. Purtroppo, in esso, la lirica regnò solo per
pochi anni: all’incirca fino alla 1^ Guerra Mondiale. In seguito, furono
poche le occasioni per ascoltare opere degne di questo nome.
Nel 1939 venne trasformato in sala cinematografica comunale, sotto la
gestione di Mario Del Piano, affiancato dal nipote Goffredo Parisi.
Nel 1944, la sala venne riservata agli spettacoli per le truppe alleate della
II Guerra Mondiale, che non impegnate sul fronte di guerra, erano di stanza
presso la nostra cittadina.
Nota: In via Vetraia, i locali della vetreria non più funzionante, erano stati adibiti a
deposito per la Croce Rossa. (Red Cross)
Negli anni successivi il teatro accolse varie compagnie di avanspettacolo;
qualche rarissimo concerto, ma continuò ad essere adibito a cinema fino a
quando, danneggiato notevolmente dal terremoto del novembre 1980, rimase
chiuso per circa un ventennio.
Restaurato, è stato riconsegnato nella sua originaria veste di teatro, ai
cittadini di S. Maria, nei primi anni del nuovo secolo.
Ora cercheremo di descrivere la sua realtà architettonica.
L’edificio viene progettato in tre sezioni: la zona dell’ingresso, il
cosiddetto foyer, articolata in due vestiboli; la sala per il pubblico, cioè
l’auditorio, ed infine il cosiddetto “Casino sociale” cioè gli ambienti al
primo piano destinati ad accogliere “un salone per grandi Unioni e
Accademie, due gabinetti uno per la lettura l’altro per il gioco, una sala per
bigliardo ed un buffet”. Ai lati di questi ambienti, due terrazze. Una annessa
alla sala da bigliardo, l’altra alla sala d’aspetto. Le due terrazze fanno da
copertura ai due ingressi laterali del Teatro.
Infatti il nostro teatro non ha il porticato anteriore, la cui finalità, in edifici
simili, era quella di far scendere dalle carrozze gli spettatori, senza che
questi soffrissero delle inclemenze del clima.
Sul nostro, invece, il porticato è progettato ai lati. In tal modo, l’edificio
viene ad essere circondato da un viale, che permette alle carrozze di non
sostare sul corso che era relativamente stretto, e, quindi, di non creare
ingorghi al traffico. Infatti, entrando da un cancello, dopo aver fatto
scendere al coperto i passeggeri, le stesse potevano uscire dall’altro.
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Gli ingressi del viale sono protetti da due cancelli in ferro opera di
Giuseppe Palmieri, fonditore in Napoli. Le ante di ogni cancello sono
sostenute da due pilastri fusi in ghisa. Gli angoli dei pilastri sono formati da
colonnette sovrapposte. Tutti e quattro i lati di ogni pilastro sono abbelliti da
due pannelli distanziati fra loro da un medaglione su cui spicca un profilo
femminile.
Il pannello superiore è sovrastato dallo stemma comunale della città: uno
scudo ovale, in cui è inserita la Croce, cinto da una corona a cinque punte;
poco più sotto, un tamburello e motivi con foglie e fiori. Nel secondo
pannello risultano evidenti maschere tragiche dell’ antico teatro classico,
strumenti musicali quali tube, cembali, sistro e zufolo, foglie di alloro,
ghirlande con nastri, ecc.
I due ingressi vengono illuminati da sfere bianche sistemate sulla
sommità di ogni pilastro.
Le aste verticali delle cancellate sono sovrastate da palmette fuse in
ghisa.
I due cancelli impreziosiscono notevolmente la facciata del teatro, la cui
architettura, così come si espresse il prof. Curri, è ispirata ai più importanti
teatri italiani e d’oltralpe. Egli fu sempre convinto “che l’Architettura ha
bisogno non solo di linee architettoniche ma anche di sculture e pitture per
ottenere un’opera che riesca classica, completa, armonica.”.
La facciata si divide in due piani: Al piano terra, una zoccolatura in
pietra calcarea si alza per oltre 1,50 metri sul livello stradale; essa viene
protetta da sei mezze colonne, sovrastate da pigne, allineate lungo tutto
l’esterno del teatro. In tal modo, le suddette colonne, perdono il loro abituale
uso di paracarri divenendo elementi scenici della facciata.
Tre portoni d’ingresso si aprono al centro, mentre ai loro lati, due nicchie
ospitano altrettante statue, opere in gesso di Vincenzo Alfano, noto artista
napoletano. Si ammirano, a destra, Carlo Goldoni e, a sinistra, Vittorio
Alfieri che simboleggiano “ La Commedia e la Tragedia “. Le due nicchie
sono impreziosite da due conchiglie che sovrastano le statue.
Altre nicchie complete di conchiglie sono situate lungo la prima parte dei
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lati dell’edificio: queste, però, non ospitano nessuna statua.
Su tutte le nicchie insistono riquadri i cui bassorilievi riproducono
strumenti musicali e motivi floreali.
Quattro medaglioni in marmo raffiguranti i profili di Vincenzo Bellini,
Giocchino Rossini, Giovan Battista Pergolesi e Domenico Cimarosa sono
inseriti negli spazi sovrastanti gli archi dei portoni d’ingresso,
impreziosendo la facciata. Sono opera dello scultore Salvatore Cepparulo
anch’egli napoletano. Sotto i medaglioni sono sistemati quattro lampioni
poggianti su bracci di ghisa.
Al di sotto di essi si aprono, poco profonde, quattro nicchie rettangolari
per l’affissione delle locandine.
La facciata del piano terra, in tutta la sua lunghezza, è sormontata, da
una fascia in cui si notano delle maschere in stucco, che hanno la funzione di
gocciolatoi dei sovrastanti balconi.
Al primo piano, il prospetto ospita cinque balconi non sporgenti e chiusi
da balaustre, separati fra loro da quattro coppie di colonne corinzie, in finto
marno, che reggono la trabeazione.
I balconi, tipici dell’architettura di fine ottocento, sull’architrave sono
sovrastati da archi a tutto sesto, finestrati e inseriti in un rettangolo, i cui due
angoli superiori sono arricchiti da rosette.
Al di sopra degli archi, in una fascia decorata con una greca, appaiono
maschere in stucco simili a quelle del piano terra.
Festoni e ghirlande legate da nastri svolazzanti, decorano la fascia
dell’architrave che delimita il secondo piano.
Il prospetto è completato da una cornice leggermente sporgente, ai cui lati
due timpani arcuati ospitano bassorilievi in gesso. In essi si riconoscono due
fantastiche figure alate con testa leonina che reggono uno scudo ovale
sormontato da una corona.
Quale coronamento della cornice, un fregio a palmette, anch’esso fuso in
ghisa, riproduce l’idea di antiche antefisse. Il fregio fa da cornice alla parte
inferiore di una ultima fascia che porta inciso a grosse lettere:
TEATRO GARIBALDI.
Nota: Il Curri seguiva, con particolare meticolosità, il lavoro su gli elementi ornamentali
ed era attento ad ogni dettaglio, al punto che non ritenendosi soddisfatto dell’opera eseguita
da un artigiano locale, un tal Bocchetti di Caserta, fece venire espressamente da Roma, il non
meglio specificato, sor Augusto ritenuto il più abile esecutore di tali preziosi dettagli, al
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quale fu chiesto di fare il lavoro tutto daccapo.
Chiusi alle estremità da due poggi, il tutto realizzato in pietra calcarea, tre
scalini occupano l’intero spazio antistante tre portoni e permettono di salire
alle soglie degli ingressi, situate allo stesso piano di calpestio del primo
vestibolo, il cui pavimento è di marmo bianco.
Su ogni ingresso, un triangolo curvilineo concavo, una vela, permette
l’ingresso alla luce naturale.
Su ognuna delle pareti laterali si aprono due porte che pervengono ad
ambienti adatti agli uffici, alla direzione, ed ai servizi. Su di esse insistono
finestre ad arco.
Negli spazi tra i due archi sono raffigurati, in medaglioni eseguiti con
pittura a “grisaille”, due importanti compositori: entrando a destra Giuseppe
Verdi, a sinistra Gaetano Donizetti. Sulle pareti, sono sistemati lampioni
dorati a tre luci. Un grande lampadario centrale illumina la sala.
Sulla parete opposta a quella d’ingresso si aprono due balconi chiusi da
parapetti con balaustre.
Otto scalini, anch’essi di marmo, situati al centro di questa parete, danno
l’accesso ad un secondo vestibolo, il cui compito principale è quello di
collegare tra loro le entrate al teatro.
E’, come locale, più piccolo del primo. Lungo i lati, due vetrate, divise da
una colonna corinzia di finto marmo, si aprono sui pianerottoli dove
giungono le scalinate delle due entrate laterali, permettendo, così, l’ingresso
alla platea, e a tutti gli ordini di palchi, a cui si giunge mediante le scale
sistemate ai lati della porta d’accesso alla sala suddetta.
Il pianerottolo sul lato sinistro del vestibolo, disimpegna la scalinata che
prosegue fino all’ ingresso da cui si accede al Salone degli Specchi.
E’ una sala rettangolare riccamente decorata: sulla parete di fronte alle
finestre furono sistemati ai lati della apertura centrale, due grandi specchi fra
lesene scanalate corinzie, mentre sulle pareti laterali, di minore lunghezza, si
aprono due porte. Fra esse si erge una colonna corinzia, mentre i lati sono
impreziositi da due colonne quadrate dello stesso stile. Sopra le citate porte
sono ricavate delle nicchie lunettate che ospitavano in origine dei busti in
gesso, oggi mancanti. Negli angoli che sovrastano gli archi, racchiusi in
tondi, sorridono delicati visi femminili. Ogni arco, al centro, è sovrastato, da
un medaglione dorato, in cui risalta un profilo di donna. Esso separa i tratti
di una fascia con greca che si distende lungo tutte le pareti.
Tra le pareti ed il soffitto in una modanatura concava, racchiusa in una
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doppia fascia dorata, sono raffigurati, senza fine di continuità, dei putti;
alcuni dei quali ballano, mentre altri suonano vari strumenti. Sono stati
dipinti con il procedimento pittorico di riproduzione delle luci e delle ombre
mediante vari toni di grigio, cioè con la tecnica della grisaille, che consente
di ottenere un effetto simile allo stucco ma di costo inferiore. Il soffitto è
decorato, nella fascia perimetrale, con pannelli in cui si notano motivi
floreali, intervallati da rosette in stucco; infine un bordo, anch’esso dorato
racchiude una lunga sequenza di palmette. Il salone è illuminato da tre
magnifici lampadari in vetro; il centrale è più grande degli altri due.
La platea ha la classica forma a ferro di cavallo, forma adottata per altri
famosi teatri italiani fin dal settecento. Il pavimento, leggermente in discesa
verso il palco, è in legno. Oggi vi sono sistemate 11 file di poltrone, in
velluto rosso, per complessivi 150 posti. In origine le poltrone erano molte
di più e le prime quattro file, prospicienti il palcoscenico, erano formate da
poltrone più ampie, e di foggia diversa dalle successive. Durante il periodo
cinematografico, scomparse le ampie poltrone delle prime file, le restanti
poltroncine furono sostituite con altre in semplice legno.
Alla sala si accede attraverso tre ingressi: il primo, il più ampio,
proveniente direttamente dal vestibolo già descritto, nella sua facciata
interna, è circondato sui tre lati da una cornice dorata.
Gli altri due, meno vistosi, si trovano sui lati, e provengono, tramite alcuni
scalini, dal corridoio del primo ordine di palchi.
La sala di platea era illuminata da quarantotto globi, disposti su tre file, e
a somiglianza di quelli sulla facciata, retti da bracci dorati, fusi in ghisa,
anche essi opera della fonderia di Giuseppe Palmieri.
Oggi se ne contano quarantadue. Fanno da cornice alla sala, tre ordini di
palchi e il loggione.
Il primo ordine comprende 12 palchi più 2, posti lateralmente fra le
colonne dell’arco scenico.
Questa prima fila, in origine, presentava e tuttora presenta, l’intero parapetto
privo di decorazioni. Il corrimano era rivestito di velluto rosso, mentre una
fascia di stoffa, pieghettata, occupava la parte alta dell’apertura verso il
palcoscenico. La fila era divisa in palchetti. Ogni palchetto, con la sua porta
d’accesso, era separato da quello attiguo, da pareti tappezzate di seta
damascata proveniente dalle seterie di San Leucio e dello stesso colore del
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velluto della balaustra.
Una piccola plafoniera di vetro, posta al centro del soffitto di ogni singolo
palchetto, diffondeva una tenue luce blu. Il vetro aveva al centro una stella a
otto punte che, illuminata, appariva dorata.
Dopo il restauro, i palchetti non hanno più le pareti divisorie. Il colore
della tappezzeria è ancora il rosso, ma non è più il broccato.
Al soffitto sono state montate anonime bianche plafoniere più grandi di
quelle che vi erano un tempo, e l’effetto è completamente diverso senza la
tenue luce blu.
La fascia superiore di stoffa pieghettata è stata sostituita da un drappeggio
bordato di ricche frange dorate, che corre lungo tutta la fila, ed è fissato in
prossimità delle colonne di sezione quadrata con capitelli corinzi, dipinti in
oro, che separano la prima fila dai palchi del secondo ordine.
Questa seconda fila di palchi è ricostruita fedelmente: era tappezzata nello
stesso modo dei palchi sottostanti, ma con parati in carta inglese e non in
seta. La tappezzeria attuale è uguale a quella delle altre file.
In essa si aprono 15 palchi non riservati, più i soliti 2, nell’arco del
proscenio. Il corrimano è dipinto in oro. Il parapetto è riccamente decorato
con figure in rilievo realizzate in cartapesta e successivamente ricoperte di
stucco e dipinte: così era la decorazione originaria.
Al centro di ogni palco si nota la maschera tragica del teatro antico dipinta
in oro; ai lati due puttini alati suonano cembali e tube, motivi floreali
completano il quadro che risulta essere uguale su ogni compartimento.
Colonne dello stesso stile e un drappeggio simile a quello degli altri due
ordini, dividono la seconda fila dalla terza, ma il parapetto è solo verniciato.
Nella struttura originale invece, sempre realizzato in cartapesta, lo stesso
parapetto portava un motivo ondeggiante e nelle volute superiori vi erano
inserite delle maschere teatrali. La decorazione si può ancora ammirare su i
due palchi situati nell’arco scenico.
La lieve sporgenza del parapetto del palco verso la sala è impreziosita da
un motivo stilizzato di foglie d’acanto. Lo stesso motivo si trova sotto la
sporgenza del parapetto del loggione.
Le solite sedici colonne reggono il loggione che è delimitato da un
parapetto costituito da una serie di 14 balaustri inseriti fra due pilastrini. Su
di essi, 16 colonnette, fuse in ghisa, terminano al soffitto, raccordate fra loro
da drappi simili a quelli dei due primi ordini, ma con frange dorate più
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grandi. Questi drappeggi sono stati ottenuti immergendo fasce di tessuto in
un bagno di gesso, e successivamente dipinte e dorate.
Ecco finalmente il soffitto. In un cerchio, inserito nella forma a ferro di
cavallo che caratterizza la sala, è dipinta la “Apoteosi della Poesia. Il Tasso
esce dal Tempio delle Muse”. L’opera venne realizzata da Gaetano Esposito
allievo del noto decoratore salernitano D’ Agostino e collaboratore del
Curri.
L’Esposito, per realizzare il dipinto del soffitto, utilizzò la tecnica della
tempera a secco che risultava essere meno costosa di quella dell’affresco.
Prima di dipingere l’opera definitivamente, l’artista realizzò un bozzetto ad
olio su tela in cui raffigura il poeta Torquato Tasso che scende dalla
scalinata del tempio dorico delle Muse, le quali, librandosi intorno al
cantore, insieme al divino Apollo, glorificano la sua arte.
Il bozzetto, di circa 1,5.x 1,5 m. si distingue per l’uso raffinato del colore
e per l’appropriato abbinamento di forme classiche e motivi floreali.
Venne mostrato per la prima volta alla Esposizione Internazionale di
Venezia del 1895 e successivamente donato dall’artista al Comune di S.
Maria C.V.
Attualmente, abbellisce la sala della presidenza della Facoltà di
Giurisprudenza nel Palazzo Melzi.
Nei due spazi lasciati liberi dal grande cerchio del dipinto, si notano
strumenti musicale e fiori lavorati a stucco.
Per raccordare la sala con il palcoscenico venne costruito un proscenio
fra due coppie di colonne corinzie. Fra le colonne, ai due lati, è ospitato un
palco per ognuna delle tre file.
Negli angoli situati fra la linea curva del proscenio ed il soffitto, in
bassorilievo a stucco, sono rappresentate due figure alate che suonano
lunghe tube rivolte verso lo stemma comunale della città: uno scudo ovale,
sovrastato da una corona e arricchito da rami di palme dorate. In esso, sullo
sfondo rosso è inserita la Croce cinta da corona.
La superficie interna dell’arco è impreziosita da un bassorilievo in stucco
divisa in tre pannelli. Il centrale, più grande degli altri due, raffigura la
Danza delle Ore.
I due pannelli laterali raffigurano: quello a destra del palco, Tersicore, la
Musa che presiedeva ai cori ed alla danza, seduta con in mano uno
strumento simile ad una zampogna, accompagnata da due puttini che si
trastullano con il sistro ed il tamburello.
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Quello a sinistra, Apollo, il dio della musica. Lo vediamo assiso, con la
cetra ai piedi, intento ad ascoltare i due puttini che suonano il doppio flauto
ed i cimbali.
Secondo la dott. Almerinda Di Benedetto, questi bassorilievi sono opera
dell’artista Salvatore Cepparulo, per la forte analogia che si riscontra in
alcune sue opere visibili presso il caffè Gambrinus di Napoli “ dove è svolto
il medesimo tema nel quale egli, rinnovando uno schema classico con
l’ausilio delle suggestioni del Liberty, raggiunge esiti tra i più alti della sua
produzione artistica”.(11)
Inutile aggiungere che anche Salvatore Cepparulo faceva parte della
schiera di artisti che lavoravano con il Prof. Curri.
Per realizzare il sipario di scena, venne interpellato il noto pittore
napoletano Domenico Morelli, che elaborò il soggetto e ne affidò
l’esecuzione al Prof. Paolo Vetri, siciliano, suo allievo prediletto che
successivamente divenne suo genero, ed insegnò per circa 30 anni
all’Istituto di Belle Arti di Napoli.
L’opera, dipinta a tempera su tela, rappresentava lo svolgersi di una
Commedia Atellana in uno splendido contesto campagnolo, avendo come
incantati spettatori contadini e pastori: sembra che la testa di uno dei
personaggi rappresentati fosse l’effige di Eduardo Scarpetta.
Inoltre nel dipinto si notava il Carro di Tespi, l’inventore della tragedia
greca che si spostava da una città all’altra con un carro sul quale innalzava il
palco per la recita.
L’opera, presentata sotto il nome di “Atellana”, suscitò notevoli
apprezzamenti in coloro che videro il bozzetto, nel 1898, alla Prima
Esposizione Artistica Italiana di Pittura e Scultura di Pietroburgo e nel
1902, alla Prima Esposizione Quadriennale di Arte Decorativa Moderna di
Torino.
Purtroppo questo sipario è andato perduto, come pure si sono perse le
tracce del secondo sipario realizzato da Matteo Casella, che rappresentava in
stile greco-romano, la Danza e la Musica, il Canto, la Commedia e la
Tragedia.
Infine è da ricordare che i lavori di muratura della struttura vennero
eseguiti con pietre di tufo unite con malta, secondo la tradizionale
costruzione.
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In ossequio alle nuove tecnologie, già utilizzate in altre prestigiose
costruzioni, il prof. Curri voleva impiegare capriate in ferro per la
edificazione del tetto, ma la sua proposta non venne accettata dal Consiglio
Comunale.
Solo per il soffitto del cosiddetto “Casino sociale” si adoperarono, per
ragioni di sicurezza in quanto ininfiammabili, e per la prima volta, travi di
ferro a T.
I mattoni furono acquistati dalle fabbriche operanti nei dintorni. Le tegole
usate erano del tipo Parigi.(12)
PIAZZETTA BOVIO
I lavori di ristrutturazione eseguiti nel convento degli Angeli Custodi,
fecero sentire, agli amministratori, la necessità di aprire un nuovo ingresso
all’edificio, divenuto sede del Liceo
Inoltre altre esigenze si intravedevano. Al primo posto vi era il fatto che
il prospetto del Teatro, per la poca larghezza della strada ad esso
prospiciente, non era valorizzato abbastanza, e quindi verso il 1933
espropriati ed abbattuti alcuni fabbricati dei sigg. Lucarelli e Smeragliuolo
(che qui aveva il suo laboratorio di falegnameria con un buon numero di
operai), venne realizzata una piazza di forma semicircolare. Al centro della
facciata perimetrale venne collocato il nuovo ingresso. Un cancello in ferro,
inserito in un arco a tutto sesto, si apre fra due coppie di colonne, sovrastate
da un timpano ad arco che racchiude un balcone balaustrato.
Lungo la facciata, realizzata a bugnato, sono disposti, sette per ogni lato
del suddetto ingresso, dei locali, adibiti, nel tempo, ad uso di negozi, di
banca, di bar. Sopra di essi, una lunga e ampia terrazza, impreziosita da una
grande balconata con pannelli in pietra scolpiti a traforo, fa da corona
riproponendo la forma della piazza, dedicata in origine alla principessa
Maria Pia di Savoia, figlia di Vittorio Emanuele II e Maria Adelaide.
Successivamente la piazzetta venne intitolata a Giovanni Bovio, nato a
Trani nel 1841, docente di filosofia all’Università di Napoli, in cui teneva un
corso libero di filosofia, amico di Mazzini, presidente della associazione
“Italia irredenta”, deputato al parlamento, di assoluta fede repubblicana.
Era il padre di Libero Bovio che tante canzoni ha regalato a Napoli ed agli
Italiani.
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Continuando la passeggiata lungo il c.so Garibaldi, si incrocia l’antico
cardo denominato fino a pochi anni fa via Torre ed ora diviso in Via
Pasquale Fratta a destra e Via Alberto Martucci sulla sinistra. Questi
nomi rivestono notevole importanza nella storia sammaritana.
L’avv. Pasquale FRATTA, quinto figlio di Antonio e Concetta
Stroffolino, facoltosi possidenti, nacque a S .Maria C. V. nel 1876. Dopo
aver frequentato le scuole superiori presso il seminario vescovile di Capua,
si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Napoli,
laureandosi a pieni voti.
Attratto da un notevole interesse per la politica, nelle elezioni comunali
del 1920, venne eletto consigliere e fece parte delle giunte guidate, nel
periodo 1920-21, dal sindaco Avv. Pasquale Troiano e, dal 1922-24, dal
sindaco Avv. Eugenio Liguori.
Fu sindaco dal 1925 al 1927 e per effetto del R.D. 2 giugno 1927 divenne
il primo podestà della città restando in carica fino al 1934, senza farsi
coinvolgere in beghe politiche.
Proprio nel 1925, appena eletto Sindaco, elargì la somma di L. 200.000
per effettuare restauri nell’Anfiteatro Campano e per tanto, ricevette da parte
della giunta comunale, una pergamena di riconoscimento.
Il 27 giugno 1926, venne inaugurato il monumento ai Caduti della
Grande Guerra. Fra le personalità che intervennero alla cerimonia vi fu il
principe Umberto II, giunto in treno, debitamente accolto dal sindaco Fratta,
dal prefetto e da tutte le altre autorità civili e religiose come l’arcivescovo
Cosenza che benedisse il monumento.
Sempre nel 1926, la città venne fornita di un autocarro, unico nella
provincia, per innaffiare le strade cittadine che in tal modo venivano tenute
sempre pulite.
Grazie a questo Sindaco di larghe vedute, la nostra città migliorò il suo
aspetto. Il corso Garibaldi venne abbellito con la messa dimora sui
marciapiedi di piante di oleandri che rimasero in sito fino agli anni 70.
Inoltre, l'Avv. Fratta si impegnò per l’ampliamento del Riformatorio e del
Tribunale.
Nel 1927 fece realizzare il campo sportivo, concedendo, per tale scopo, il
terreno comunale del soppresso cimitero.
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Nel 1928, chiese ed ottenne l’aggregazione dei piccoli comuni limitrofi,
S. Prisco, Curti, Casapulla, S. Tammaro, che ottennero nuovamente la
propria autonomia nel 1946.
Il 13 maggio 1929, il podestà Fratta, assieme alle maggiori autorità ed al
popolo, accolse il Cardinale Ascalesi, di Napoli, che, in occasione del
Primo Congresso Eucaristico dell’Arcidiocesi di Capua, era venuto a
visitare la Chiesa Collegiale della nostra città.
Nel 1930 fece dare inizio ai lavori per la sistemazione dell’ edificio
scolastico e del convento degli Angeli Custodi che divenne il Liceo fra i più
nobili della provincia, e di cui abbiamo già raccontato.
Nello stesso anno, la principessa Maria Josè del Belgio, moglie del
principe ereditario Umberto II, giunta nella nostra città, fu invitata a vedere
il Mitreo, da poco riscoperto.
Al rifiuto della principessa di scendere nel sito tramite una scala a pioli,
l’Avv., ferito nell’orgoglio di sindaco e di sammaritano, fece costruire, a
proprie spese, l’ingresso e la scala di accesso al monumento. Una lapide
posta su di una parete dell’ ingresso al monumento, ne dà testimonianza.
Nel 1939, nominato senatore del regno, non potette assolvere alle
funzioni della carica per l’avvento della II Guerra Mondiale.
Venne nominato presidente dell’Amministrazione Provinciale di Napoli; e
successivamente anche presidente dell’Opera Nazionale Maternità e
Infanzia (ONMI).
Successivamente, a causa dei continui dissidi con i politici locali, l’ Avv.
Pasquale Fratta lasciò la città e si ritirò a vivere a Napoli.
Comunque, è bene sottolineare, mai nessuno riuscì ad insidiare la stima
che il popolo sammaritano gli accordava, apprezzandolo per la signorilità, e
la dirittura morale. Lo contraddistinse la sua competenza, l’oculata
amministrazione, il suo assoluto disinteresse, il suo senso sociale, e unico
suo scopo fu il benessere della città.
Scrive di lui Fulvio Palmieri “Definendolo semplicemente un galantuomo,
gli daremmo la patente di signore illuminato ma non democratico e invece
fu anche tale pur soggiacendo all’ordine di uno Stato dittatoriale e peggio”.
(op.citata pag. 98)
Per queste sue inconfondibili caratteristiche, venne insignito della
medaglia d’oro e del diploma d’onore da parte delle autorità dell’epoca.
Il 24.04.1956 alla presenza degli avv. G. Fusco e C. Maffuccini fece
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redigere dal notaio U. Caporaso un atto di donazione con cui istituì un
“Ente avente scopi culturali e di beneficenza e fra essi anche l’obbligo di
corrispondere annualmente la somma di L. 50.000 al Consiglio dell’Ordine
degli Avvocati di S. Maria C. V. per l’istituzione di un premio da assegnarsi
ad un giovane avvocato, di età non superiore ai 32 anni che si sia distinto per
cultura e probità professionale. Volendo cominciare a dar vita a detto Ente,
ha deciso di donare allo stesso un titolo di rendita del capitale nominale di L.
1.000.000…..” ( tratto dall’atto notarile).
L’Ente fu denominato “ Fondazione Avv. P. Fratta.”.
Lo statuto della fondazione venne redatto per notar U. Caporaso in data
27.10.1956 e registrato il 13.11.1956 al numero 835.
Il riconoscimento giuridico della “Fondazione avv. P. Fratta” fu firmato il 13
febbraio 1957 dal Ministro di Grazia e Giustizia, Giovanni Gronchi,
registrato alla Corte dei Conti il 29.03.1957 ed inserito nella Raccolta
Ufficiale delle leggi e decreti della Repubblica Italiana.
Si spense nel 1969 nella sua dimora napoletana. Riposa nel cimitero della
sua città natale.
La vedova, n.d. baronessa Amalia Ventriglia, nel suo testamento,
dispose, quale lascito per la Fondazione, la somma di 80 milioni di lire. Gli
interessi bancari annuali derivanti da questa somma, sono destinati a giovani
studenti della città che versano in disagiate condizioni economiche.
Alla fine della strada, all’incrocio con via Albana si nota la Cappella di
Sant’Andrea Corsini. Era proprietà di un ramo cadetto della famiglia
Corsini di origini napoletane, che si stabilì presso la nostra cittadina nei
primi anni del settecento, in “un gran palazzo con vaghissimo giardino” (12.1)
Ora l’intero fabbricato ed il suo giardino appartiene a “ Le Figlie del SS.
Rosario di Pompei”.
L’Avv. Alberto MARTUCCI, nacque nella nostra cittadina il 5 giugno
1899, da Alfonso, Segretario comunale, e da Giuseppina Della Valle.
Svolse gli studi presso il liceo locale e conseguì la maturità nel 1917.
Partecipò alla Grande Guerra col grado di sottotenente d’artiglieria; fu
decorato con medaglia di bronzo e ricevette la promozione al grado di
tenente.
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Ritornato a casa, si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza presso
l’Università di Napoli e si laureò nel 1922. Fece pratica forense, presso i più
stimati avvocati sammaritani dell’epoca, nel campo civile che presto
abbandonò per dedicarsi completamente al Diritto Penale ricevendo
notevoli apprezzamenti anche da parte di illustri colleghi in ambito locale e
nazionale.
Nel 1934 fu libero docente di Diritto e Procedura Penale presso
l’Università di Napoli.
In campo politico, durante il periodo fascista, si tenne lontano dalla
politica.
Al termine del 2^ Conflitto Mondiale, aderì al Partito Socialista, e ne
ricoprì la carica di Segretario Provinciale. Diresse la sezione provinciale del
Comitato di Liberazione Nazionale; nel 1946 si candidò per la Costituente e
nel 1948 alla Camera, ma per le incomprensione con i dirigenti nazionali
del Partito, poco dopo si dimise da ogni carica, dedicandosi solo alla sua
professione.
Purtroppo, qualche anno dopo, nel 1956, appena cinquantasettenne, venne
a mancare.
Le sue doti morali e culturali furono fatte proprie dal figliolo Alfonso che
proseguendo nel cammino tracciato dal genitore lo ha degnamente superato
nel sapere giuridico.
Dovrei, qui, ripetere le lodi che, lo stimato Fulvio Palmieri, nei “Ricordi di
S.Maria C.V.- pag.28” celebrò per la figura dell’Avv. Martucci Mi astengo
e rimando alla lettura di quel testo.
Quasi al centro di via Martucci, alle spalle del Teatro Garibaldi, inizia una
strada intitolata A.Curri. Sulla destra, quando fu iniziata la costruzione dei
fabbricati che insistono in questo sito, si rinvenne un grande ambiente
absidato in opus reticolatum, con copertura a volta, che gli esperti hanno
datato fra la fine del II ed il I sec. a. C. mentre un secondo ambiente presenta
opere di ristrutturazione che arrivano fino al II sec. d.C.
Nel complesso è stato rinvenuto un forno foderato con una doppia fila di
lastre in terracotta, e privo della parte superiore.
Inoltre, sono state trovate anche due fornaci di modeste dimensioni, forse
adatte alla produzione di piccoli oggetti, che, sembra, sono state funzionanti
per un periodo compreso tra i primi decenni del I sec.e la fine del II sec.
d.C.
Si è ritenuto che negli ambienti citati sia stata operante una officina per la
65
lavorazione del bronzo. Infatti, in essi sono state scoperte numerose matrici
in terracotta per la fusione di vari componenti, quali anse, piedi, manici ecc.
adattabili alle situle, al vasellame di bronzo e ai lebeti, cioè alle produzioni
metallurgiche capuane famose nel mondo antico, tanto che Catone
consigliava “di comperare recipienti di bronzo a Capua”.
IL POLITEAMA
Proseguendo lungo il corso Garibaldi, verso l’incrocio con il corso
A.Moro, poco distante da via Martucci, si apriva il cinema Politeama . Si
apriva perché ormai non si aprirà più e il suolo su cui sorge è destinato a
nuove costruzioni. Pur tuttavia la sua storia deve essere annoverata fra i
ricordi dei sammaritani.
Subito dopo la fine della 1^ Guerra Mondiale, l’impresario Angelo Grillo
mise su il Politeama Estivo, un ritrovo all’aperto capace di circa 2.000 posti
a sedere che oltre agli spettacoli di films, di varietà e di operette, offriva agli
spettatori anche un inappuntabile servizio di bouvette.
Il locale restò di moda fino al 1935, quando, purtroppo, dovette chiudere
per tracollo finanziario.
La gestione, durante il periodo fallimentare, venne affidata, dal Tribunale, a
Mario Del Piano fino al 1939, anno in cui il locale fu acquistato da Ernesto
Bertini, genovese, che a sua volta, lo rivendette al comm. Alfredo Rotta,
venuto, da Genova, per dirigerlo.
Verso il 1956, il nuovo proprietario, lo rinnovò completamente, eliminando
le coperture in lamiera, che davano il nome di “baraccone” al locale, e
facendo costruire la parte centrale del tetto in modo che poteva essere aperta
durante le calde serate estive. Vennero, inoltre, costruiti i palchi al primo
piano, che nella vecchia struttura mancavano, e a cui si accedeva tramite
due scale laterali. Al piano terra, entrando, si apriva sul lato destro la
biglietteria; sul lato opposto era in funzione un piccolo ma fornito punto di
ristoro.
Il locale restò in funzione per alcuni anni, poi fu chiuso, venduto, riaperto e
definitivamente chiuso verso i primi anni del nuovo secolo.
Poco dopo s’incrocia il corso Aldo Moro, che insiste, pressappoco, sul
tracciato cittadino della via Appia.
66
Torniamo ora alla storia del Corso Garibaldi. Nel 1876 si pensò di
prolungarne il tracciato, aprendo una strada che dalla via Appia potesse
arrivare fino alla strada campestre che prendeva il nome dalla Chiesa
dedicata alla Madonna delle Grazie, (oggi via A. De Gasperi). Ù
Fu dato incarico all’Ing. Francesco Sagnelli di provvedere al progetto che
venne approvato, in tempi brevi, dal Consiglio Comunale.
Ovviamente si dovevano espropriare dei terreni e ci volle un decreto regio
per procedere, e il decreto arrivò nel 1884.
Si dovette poi aspettare il 1888 per poter abbattere i palazzi di proprietà
del Sig. Contini e del Sig. Garzillo.
Finalmente, nel 1890, i lavori iniziarono e furono portati a termine nello
stesso anno dalla impresa De Rosa. Dopo il collaudo da parte dell’Ing.
Nicola Parisi la strada venne aperta con il nome di “Prolungamento di corso
Garibaldi”.
Nel 1940 il nome suddetto venne cambiato in Italo Balbo ed infine nel
1948 fu reso omaggio ad un benemerito figlio della nostra città che aveva
trovato la fine dei suoi giorni, unitamente ad altri 334 martiri, a Roma,
presso le Fosse Ardeatine: Ugo De Carolis, maggiore nei Carabinieri.
Subito dopo l’incrocio con il corso A. Moro, sulla sinistra, in uno spazio
ricavato in un giardino di aranci, pochi anni fa, venne dedicata una piazzetta
a Errico Malatesta, altro figlio della nostra città, “uno dei più grandi, tenaci
e fedeli apostoli di libertà, di emancipazione, di fraternità che la storia tra
Ottocento e Novecento ricordi, noto e studiato in tutto il mondo”. Così lo
definì il prof. Nicola Terracciano nel convegno tenutosi a S. Maria C. V. nel
giugno 2008.
Nota: Il termine Anarchia genericamente è inteso assenza di ordine, di governo.
Anarchia, invece, indica una dottrina politica, sviluppata principalmente nell' 800, che
favoriva il totale rifiuto del sistema economico capitalistico e della sua organizzazione statale.
Per Malatesta l'anarchia era un socialismo liberalistico non assoggettato al marxismo.
“Anarchia vuol dire non violenza, non dominio dell’uomo sull’uomo, non
imposizione della volontà di uno o più su quella di altri. E’ solo mediante la
cooperazione volontaria, l’amore, il rispetto e la tolleranza; è solo con la
persuasione e l’esempio che deve trionfare l’anarchia, cioè una società di
fratelli che assicuri a tutti la libertà, il progresso e il massimo benessere
possibile”.
67
Questo era il concetto di Anarchia di Errico Malatesta e così si espresse
sulle pagine di “Pensiero e Volontà”, giornale propagandistico clandestino
da lui edito dal 1924 al 1926.
Alla fine del corso De Carolis, degno di nota è il palazzo Fortini, che
insiste sul lato occidentale della strada facendo angolo con via Alcide De
Gasperi. Costruito verso la fine dell’800, presenta due piani ma è
caratterizzato da due logge coperte poste alle due estremità del fabbricato.
Incrociando la via A. de Gasperi, il corso Ugo De Carolis termina. Di
fronte ad esso si apre
LA VILLA COMUNALE.
.
LA VILLA COMUNALE
ED IL
MONUMENTO OSSARIO DEI CADUTI
DEL I OTTOBRE 1860
Nella battaglia del I OTTOBRE 1860 si ebbero:
“ 2250 Garibaldini fuori combattimento, fra i quali 400 morti e molti feriti
mortalmente”.(Jesse White Mario)
“ pari a quello dei Borboni il numero dei morti, 306; superiore il numero dei
feriti, 1328”. (Gustavo Sacerdote)
“Volontari Garibaldini: 306 morti, 1328 feriti, 389 prigionieri e dispersi;
Soldati Borbonici: 308 morti, 820 feriti, 2160 prigionieri e dispersi”.
(Gustavo Reisoli)
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I Caduti Garibaldini riposano negli ossari di: Ponti della Valle, Castel
Morrone, S.Angelo in Formis, S. Maria C. V.
I Caduti Borbonici, per la maggior parte, furono tumulati nei cimiteri dei
paesi di provenienza. Solo pochi soldati borbonici e quelli dei contingenti
stranieri furono deposti nei cimiteri dei paesi dove caddero combattendo.
Dopo la resa di Capua, avvenuta il 2 novembre 1860, il giorno 14 dello
stesso mese, il Consiglio Comunale di S. Maria deliberò la costruzione di un
monumento per ricordare il fatto d’arme che, in parte, si era svolto alla
periferia della nostra cittadina.
Nello stesso tempo, però, dovendo, l’Amministrazione Comunale, far
fronte ad altre spese prioritarie, dovette necessariamente rinviare la
disposizione che, per il momento, rimase solo una idea.
Comunque essa fu sempre presente nella mente dei nostri concittadini,
tanto che, nel 1876, il senatore del regno, Avv. Filippo Teti, istituì un
comitato per l’edificazione del mausoleo.
Ventitrè anni dopo la decisione comunale, nel 1883, l’Amministrazione
Provinciale bandì un concorso a livello nazionale, per la progettazione di un
sacrario per i Caduti della nota battaglia.
Risultò vincitore il Prof. Manfredo Manfredi di Roma, noto architetto
autore di molte significative opere. Fra esse va ricordata la tomba di Vittorio
Emanuele II all’interno del Pantheon. Ricostruì, insieme ad altri architetti, il
campanile di San Marco a Venezia. Progettò il Palazzo del Viminale.
Insegnò alla Accademia delle Belle Arti di Venezia. Divenne direttore della
Scuola Superiore di Architettura a Roma.
Anche questo progetto restò, momentaneamente, al palo. Ma non venne
mai meno la speranza, anzi la certezza, della sua realizzazione.
Negli anni successivi si discusse a lungo dove innalzare il monumento. Si
pensò addirittura di innalzarlo sulla via Appia ai confini fra Capua e S.
Maria. Gli esponenti dei due Municipi si incontrarono il 7 marzo 1889, ma
non si misero d’accordo ed il proposito venne definitivamente accantonato.
Poiché nel 1889, era stato completato il prolungamento del corso Garibaldi,
fu avanzata la proposta di costruire un giardino pubblico al termine del
succitato prolungamento.
Finalmente, nel 1893 venne deliberato di provvedere alla costruzione di un
parco che facesse degno contorno al monumento ossario: “S. Maria volle
69
che sorgesse nella sua apposita piazza, in fondo al corso Garibaldi”.
Scelta la sede adatta, le amministrazioni comunali che via via si
succedettero, riuscirono a reperire i fondi necessari, ed espletarono, con
relativa solerzia, le pratiche necessarie per gli espropri dei terreni, del Sig.
Melorio e del barone Petitti, su cui doveva sorgere il complesso
monumentale ed il parco annesso.
Nel 1900, il Comitato preposto, formato dal sindaco avv. Eugenio Liguori,
e dagli ing. Gennaro Saccone, ing. Francesco Sagnelli, ing. Emilio Santillo,
nonché dai sig. Vincenzo Aveta, segretario e dal comm. Ernesto Della Torre,
uno dei Mille di Marsala, (di Andrea, nativo di Adro, Brescia), decise di
avvalersi del progetto che l’architetto Manfredi aveva regalato al Comune,
già da tempo.
Il 26 ottobre 1902, si giunse alla posa della prima pietra, alla presenza dei
ministri Carcano e Ottolenghi, dei senatori Cucchi, Pierantoni e Teti, alcuni
deputati fra cui Morelli, Perla, Verzillo, del sindaco Gaetano Caporaso.
Intervennero le associazioni di reduci e combattenti e la cittadinanza
sammaritana.
Alla fine della manifestazione, le autorità parteciparono ad un lauto pranzo,
offerto dal sindaco, preparato dal ristorante napoletano Esposito-Targiani e
di cui si conserva ancora il menù, (scritto in francese come d’obbligo
nell’era della Belle Epoche) allestito, nientemeno, sul palcoscenico del
Teatro Garibaldi. Seguì, un gran-gala, che si protrasse fino al mattino,
ovviamente nel salone degli specchi. (16)
Dopo aver assistito, il giorno precedente, alle manovre militari tenutesi a
Caserta, il Re, Vittorio Emanuele III, giunse a S. Maria il 25 agosto 1905, in
visita al Monumento – Ossario.
Così la cronaca: “ Alle 9,55 la marcia reale squillò….Sua Maestà, giunse,
scese dall’automobile e salì in vettura. Aveva alla sinistra il Sindaco Liguori,
dirimpetto l’on. Morelli e il Generale Brusati. Al Monumento attendevano il
Comitato esecutivo, gli Assessori, e il Consiglio del Comune, il Presidente
del Tribunale, il Procuratore del Re, il Pretore, l’ispettore del Registro, il
deputato provinciale Morelli, i funzionari delle RR. Poste, i Reduci
garibaldini, il Direttore delle Carceri e molte altre autorità. Il Re scende,
saluta affabilmente Ernesto della Torre, uno dei “Mille”, stringe la mano al
Procuratore Berardi.
Sua Maestà si ferma ad ammirare la grandiosa opera, che onora l’Arte, la
70
città e i gloriosi caduti, domanda spiegazioni, osserva la cripta e domanda
come si sarebbero raccolte le ossa e gli si risponde che si sarebbero esumate
per le campagne e i camposanti vicini.
Il Ministro della guerra, Generale Pedotti, ch’è sopraggiunto, dà
spiegazioni sulla battaglia, avvenuta tra S.Maria e Capua, e alla quale egli
prese parte. Poiché il Monumento è ancora in parte nascosto da travi, si fa
ammirare al Re il modello in gesso e ne ascolta la descrizione dal Sindaco, l’
Avv. Eugenio Liguori. (16.1)
Un Numero Unico: S. MARIA C. V. - AI CADUTI NEL 1° OTTOBRE
1860 compilato dal Prof. Paolo De Grazia e stampato presso il locale
stabilimento tipografico Umili & Quattrucci, ci fa conoscere il programma
stilato per la inaugurazione del Monumento.
Sabato, 30 settembre, convegno ciclo - automobilistico nazionale, concorso
di bande musicali ed opere di beneficenza con la distribuzione di lire 1.000
ai poveri della città.
Domenica, 1° ottobre 1905, quarantacinquesimo anniversario della battaglia,
l’Inaugurazione Ufficiale.
ore 9 - Benedizione dell’Ossario
ore 10 Ricevimento delle Autorità Civili e Militari sul Palazzo
Municipale
ore 12 - Gran corteo, che muoverà dalla piazza ferrovia, percorrendo le vie
Sirtori, Pratilli, Mazzocchi, Principe Amedeo e Corso Garibaldi, per
fermarsi nella piazza ove Sorge il Monumento Ossario.
ore 13 - Inaugurazione del Monumento-Ossario. Oratori: Avv. Eugenio
Liguori, sindaco; On. Morelli, deputato; Prof. Pasquale Papa.
ore 17 - Banchetto d’onore.
Alla sera - Artistica illuminazione a luce elettrica delle Vie principali e
piazza del Monumento. Gran fiaccolata con canto di cori ed inni patriottici a
cura del Comitato giovanile, fuochi pirotecnici simbolici, festa popolare.
Lunedì 2 ottobre
ore 9 - Ricevimento al Municipio delle squadre di ciclisti e automobilisti
con bandiera.
ore 10,30 - Sfilata delle squadre per le vie della città.
71
ore 19 - Banchetto ufficiale, che terranno le squadre ciclistiche ed
automobilistiche nel Teatro Garibaldi con l’intervento delle Autorità.
In tutti i tre giorni la città sarà artisticamente addobbata.
La cerimonia inaugurale si svolse alla presenza del ministro della Guerra,
della Pubblica Istruzione, dell’Agricoltura e di molte altre autorità, fra cui il
gen. Stefano Turr, comandante garibaldino nella battaglia del I Ottobre.
Il primicerio della collegiata, don Enrico Sanmartino, benedisse i resti dei
Caduti che vennero deposti nella cripta
Il nostro concittadino prof. Pasquale Papa, “studioso di questioni
dantesche. Libero docente di letteratura italiana presso l’Università di
Bologna; divenuto titolare, successe al Carducci su tale cattedra. Elegante
conferenziere e delicato poeta…”(17), pronunciò il discorso inaugurale.
Inoltre, il prof. Papa compose un Inno, che musicato dal maestro
Pasquale Indaco venne eseguito durante la solenne manifestazione. *
Il prof. Gennaro Faucher, docente presso il Liceo della nostra città, scrisse
il testo della pergamena commemorativa.**
Il progetto originario del monumento, ideato da Manfredo Manfredi,
prevedeva una opera di diverso aspetto e di notevoli dimensioni.
Ne dà accurata descrizione l’Ing. G. Cariati nel Numero Unico: “Esso si
componeva di un’ampia esedra chiusa su tre lati da un parapetto sobriamente
decorato, con quattro pilastri reggenti altrettanti tripodi di bronzo, con una
maestosa scala, coprendo l’ossario sottoposto. A questo si accedeva
mediante una edicola a pianta quadrata, eretta sull’esedra, avente quattro
frontoni ad una unica porta aperta nella facciata principale del monumento,
ossia verso il lato aperto dell’esedra. Sull’edicola ergevasi il piedistallo del
monumento decorato a scudi e festoni, e sul piedistallo una colonna di
pietra. Questa era rivestita nella parte inferiore da un basso rilievo in bronzo,
rappresentante gli uomini principali della memoranda giornata, nella parte
superiore era scanalata, e nella parte centrale, la maggiore di tutte, era
perfettamente liscia ed ornata da lunghe palme di bronzo. Sul fusto della
colonna, il capitello e la statua”.
Venne ridotto a più accettabili misure. Direttore dei lavori fu lo stesso
progettista, assistito dall’ ing. Nicola Parisi nostro concittadino, che fu anche
il collaudatore dell’opera finita.
Due scultori di fama, Cav. Emilio Mossutti e Comm. Ettore Ximenes
72
furono gli artefici delle parti in bronzo, fuse nelle officine Bracale e Laganà,
noti fonditori in Napoli.
Nota: Bracale fuse anche la Vittoria alata per l’ossario di Valle di Maddaloni.
I lavori edili furono appaltati dall’impresa Luigi Angiello che si avvalse
dell’opera di maestranze sammaritane: le opere, in pietra calcarea delle
nostre colline, furono lavorate dai fratelli Luca e Vincenzo De Felice e da
altri artigiani.
Oggi come allora, la Villa comunale è protetta da una cancellata in ferro
nello stile del primo Novecento, che delimita un’ area semicircolare
antistante l’ingresso da cui si accede in un largo viale alberato con lecci
sempreverdi. Essi fanno corona anche alla grande superficie centrale, dove
due fontane zampillano in altrettante vasche circolari.
Al centro sorge, solenne, il Monumento.
E’ formato da una grande piattaforma sul cui fronte si aprono cinque
gradini che salgono ad una altra piattaforma di poco più piccola anch’essa
formata da cinque scalini. Su questa ultima terrazza si innalza, nella parte
centrale, una imponente colonna: tre alti gradini sorreggono un piedistallo a
base attica, che ne sostiene un altro di dimensioni inferiori e su di esso si
eleva la stele, sovrastata dalla statua della Vittoria Alata, realizzata, in
origine, dal prof. Ettore Ximenes.
Nota: Ettore Ximenes è autore di molte opere. Vale ricordane una che si trova nel cimitero di
guerra realizzato dietro l’abside della Basilica di Aquilea. E’ una statua in bronzo e
rappresenta l’Angelo della Carità che sorregge un soldato morente. In questo pio luogo, sotto
la statua, furono deposti alcuni soldati italiani caduti durante la prima fase del conflitto, e fra
essi anche le salme di undici soldati di cui non si conosceva, e non si conosce, il nome. Nel
1921, una madre che aveva perduto il figlio in guerra, Maria Bergamas di Gradisca d’Isonzo,
ne scelse uno che, trasportato a Roma con tutti gli onori, fu deposto e riposa sotto l’Altare
della Patria, ovvero il monumento al Milite Ignoto.
Nei primi anni, a protezione dell’opera, era stata sistemata una recinzione
in ferro battuto. Fu tolta qualche tempo dopo.
Sugli altri tre lati, l’opera non risulta interessata da gradini, e la terrazza
superiore è chiusa da un parapetto in pietra traforata che da un senso di
leggerezza e leggiadria. Su i quattro pilastri, più alti, disposti agli angoli,
73
sono poggiati altrettanti tripodi di bronzo; affiancati ai primi, due pilastri
esterni, più bassi, reggono due urne; ed infine su quello posizionato al
centro della balaustra posteriore, sorge, scolpita nella pietra, un’ara, a
ricordare il sacrificio di tutti coloro che immolarono la propria vita in nome
di un ideale.
Ai piedi dei primi due pilastri, dove termina la scalinata di accesso, sono
accosciati, su un piedistallo, due grifi anch’essi fusi nel bronzo, opere dello
scultore Enrico Mossutti.
Si racconta che i lavori in bronzo, decoranti il monumento, siano stati
ricavati dalla fusione dell’affusto di due cannoni catturati dai garibaldini
della sesta compagnia del reggimento Malenchini. Sulla culatta, i loro nomi:
il Giusto e il Mago.(19)
Posizionati sotto l’arco Adriano, manovrati dai garibaldini aiutati (si dice
ma non par vero), da alcuni cannonieri della Hannibal, nave ammiraglia
inglese alla fonda nel golfo di Napoli, gli obici fecero fuoco contro gli stessi
soldati borbonici attestati nei pressi della antica chiesetta di S. Agostino, che
solitaria si ergeva lungo la strada.
L’episodio venne illustrato da Giovanni Fattori in un quadro, dal titolo
“Batteria a Porta Capua”, conservato a Firenze, Galleria d’Arte Moderna.
.
L’Avv. Raffaele Orsi, sul Numero Unico, così scrisse: ”Quale idea
sublime! I cannoni borbonici sono fusi per la statua della Vittoria, e le pietre
calcari del monte S. Angelo, bagnate dal sangue dei garibaldini, sono
impiegate per il monumento – ossario ai gloriosi caduti nella battaglia
del I ottobre 1860. La nostra città, orgogliosa di questo duraturo ricordo di
eroismo, di libertà, di arte, lo custodirà come sacro deposito, perché possa
accendere il forte animo ad egregie cose a alla fede nella libertà, nella gloria
e nella grandezza della Patria”.
Sul primo piedistallo si trova affisso un bassorilievo in bronzo
rappresentante un clipeo, scudo rotondo di forma convessa, con il bordo
istoriato e circondato da una fascia di alloro. Su di esso è riportata in rilievo
la scritta I OTTOBRE MDCCCLX, ed è ornato ai lati da festoni e nastri.
Sugli altri lati campeggia una scritta a rilievo in caratteri bronzei che dice,
a chi guarda il monumento, a destra: ITALIA E VITTORIO EMANUELE;
a sinistra: LA PATRIA RICONOSCENTE.
L’iscrizione originale riportava VITTORIA SU TUTTA LA LINEA -
74
GLORIA -- LIBERTA’
Questo primo basamento ha come modanatura una fascia a dentelli su cui
poggiano quattro timpani triangolari istoriati da un festone vegetale con
nastri incrociati.
Il secondo piedistallo porta scolpiti alcuni medaglioni: la parte frontale
del basamento, racchiuso in un tondo retto da due grifoni, mostra lo stemma
civico della città con la Croce e sotto di essa in un nastro la scritta O P Q C.
Negli altri lati, i medaglioni, incorniciati in due festoni, portano scolpite
due cornucopie annodate nella parte finale, e nei due angoli superiori si
notano due teste di grifo che con le zampe reggono la cornice dei
medaglioni. Questa seconda parte del monumento termina con una cornice
scolpita con un festone vegetale e nastri incrociati.
Infine la colonna: essa è lavorata in tre diverse sezioni: la prima sezione è
circondata da un bassorilievo che immortala Garibaldi sul suo cavallo
“Marsala”, e il suo Stato Maggiore in piedi attorno a lui.
Un anello, cesellato nel marmo della colonna, rappresenta un addobbo
vegetale a foglie di quercia e separa la prima dalla seconda parte.
Questa è ornata da un lavoro in bronzo: dei festoni di elementi vegetali
sospesi al centro secondo una curva aperta verso l’alto, girano tutto intorno
alla colonna. Nella parte anteriore si nota l’insegna dei legionari dell’antico
esercito romano, nella cui targa appare, in rilievo, la scritta ROMA e termina
con il simbolo romano per eccellenza, l’aquila.
La terza sezione, infine, anch’essa separata da un anello simile al primo,
è solamente scanalata e termina con un largo capitello di ordine composito
con volute e foglie di acanto, su cui poggia la statua della Vittoria alata. Fra
le volute è visibile lo stemma civico.
L’opera, appena terminata, era alta 24 metri.
Durante un violentissimo temporale, abbattutosi sulla città il 1° novembre
1914, il frutto del lavoro di Ximenes, venne colpito da un fulmine di
devastante potenza: la statua originaria fu ridotta in frantumi insieme alla
parte superiore della colonna. I danni ammontarono a 150.000 lire, in parte
rimborsate dall’ente presso cui il monumento era stato assicurato.
Venne restaurata circa 13 anni dopo, collocando sul ricostruito piedistallo,
opera dello scultore Giuseppe Tonnini, una nuova Vittoria Alata. Nella
75
mano destra impugna un gladio e nella sinistra porta la palma della gloria.
La colonna risultò esser alta solo 20 metri.
All'inaugurazione della nuova statua sorse un piccolo problema. Si
doveva togliere il drappo che ricopriva la Vittoria; ma per via dei gradini che
fungono da base al monumento, la scala, gentilmente resa disponibile dalla
Società Elettrica, pur raggiungendo la cima, dovette essere inclinata più di
quanto previsto dal suo regolare uso. Pertanto, si rese necessario far salire su
di essa la persona meno pesante scelta, ovviamente, fra gli addetti alla
manovra. Per la sua leggerezza, il gradito compito venne assolto dal
diciassettenne Mario Spera, che così ebbe la gioiosa ventura di rimuovere il
velo che copriva l’opera del Tonnini.
I resti di alcuni dei garibaldini morti nello scontro, riposano nella
sottostante cripta. Furono riesumati dai diversi luoghi in cui erano stati
sepolti, e cioè presso la chiesa di S. Lazzaro a Capua, presso il convento dei
Cappuccini, nel vecchio cimitero di S. Maria da cui provengono le spoglie di
Francesco Bandera, diciottenne, nativo di Cremona, e di Beniamino
Sartorio da Pavia di cui si ricordano le commoventi iscrizioni funebri.***
Nel giorno inaugurale, sul Numero Unico, Francesco Guidi, tenente del
9° Lancieri di Firenze, di stanza nella nostra città, così si espresse:
”Di già un monumento ricorda l’eroica resistenza di Bixio ai Ponti della
Valle. Altra simile opera sorge oggi in S.Maria per volere di un intero
popolo, desideroso in essa porgere l’ultimo asilo e render sacre le reliquie
dei valorosi morti, i quali fino ad oggi e per sempre ottennero, diremo con
Pericle, la più onorevole di tutte le sepolture, non quelle ove riposano, ma la
memoria degli uomini. Imperocchè la tomba degli eroi è l’intero universo e
non sotto colonne onuste d’iscrizioni fastose..”. (20)
Nel 1926, la Villa Comunale venne intitolata alla regina Margherita.
Nel 1928, nella parte retrostante, furono messi a dimora diversi alberi di
pino, rimossi, nel 2005, perché malati, e sostituiti con delle palme ed altri
alberi.
Ai lati del viale perimetrale, in tutta la sua lunghezza, vennero piantate
due file di ippocastani
76
Alle estremità dell’ingresso vennero costruiti due piccoli edifici che
ospitarono: a destra, gli attrezzi necessari alla sistemazione e alla cura del
giardino; a sinistra, l’alloggio del sig. Vincenzo Santopietro, solerte custode
comunale, che nelle calde sere d’estate, percorrendo in bicicletta l’intero
perimetro della Villa, accompagnato dal suo cane lupo, con voce stentorea,
invitava ad uscire: “Signore e signori, la Villa si chiude; sciolgo il cane e
non assumo responsabilità”.
Nel 1932 l’imprenditore Nicola Cortese, nei pressi del muro occidentale
del parco, aprì il Cinema Estivo, che non ebbe la fortuna sperata e chiuse
definitivamente verso la fine degli anni cinquanta.
Adiacente alla zona retrostante del parco, venne allestito un campo da
tennis, eliminato verso il 1952, quando venne costruita la strada intitolata a
Raffaele Perla e, ad essa affiancate, una decina di case popolari.
Lungo tutto il lato nord della Villa, subito dopo la recinzione, correvano i
binari a scartamento ridotto, della Ferrovia Alifana, che attraversava via
Galatina, costeggiava l’Anfiteatro e si dirigeva verso Capua, la cui stazione
era in via Pomerio, nei pressi del Campo Sportivo.
Nel 1960 per le celebrazioni del primo centenario della Battaglia venne
sistemata sul lato del monumento, una lapide che riporta:
NEL PRIMO CENTENARIO DELLA BATTAGLIA DEL VOLTURNO
LA CITTADINANZA SAMMARITANA
ONORA
I SUOI MARTIRI DEL RISORGIMENTO E GLI EROI GARIBALDINI
CONSACRANDO
NEL RICORDO DEL GLORIOSO RISCATTO
L’ABOMINIO DI OGNI TIRANNIDE
ED IL VIGILE AMORE PER LE LIBERTA’ REPUBBLICANE
CON LA FEDE
CHE IN ESSE RIFULGA L’AVVENIRE D’ITALIA
E SI AFFRATELLANO I POPOLI DEL MONDO
I OTTOBRE 1860 – I OTTOBRE 1960.
77
RICORDI
GARIBALDINI
Tratto dal Numero Unico edito il I Ottobre 1905 per l’inaugurazione del
Monumento
* L’ Inno composto dal Prof. Pasquale Papa
O Terra, che in seno chiudesti
il fiore dei forti caduti,
e il verde tuo manto di mèssi
pei solchi cruenti stendesti,
noi supplici a te siam venuti:
disserta i pietosi recessi,
pietosa soccorri ai devoti,
tu tenera madre, tu buona,
e l’ossa aspettanti ridona
ai figli, ai fratelli, ai nipoti.
Degli occhi la muta tristezza
Già prega alla mesta ricolta
Benigna la luce del sole.
Del sol la divina carezza
La baci per l’ultima volta:
la schiera dei forti è sua prole!
Suggelli la pace profonda
78
un velo di marmi e di fiori,
e, cinta di novi fulgori
la gloria pei cieli s’effonda.
P. PAPA
** Per cortesia dell’illustre collega G. Faucher °, pubblichiamo
l’iscrizione, ch’egli ha dettato per la pergamena commemorativa °° del
monumento ossario.
p.d.g. °°°
“ Il 1° ottobre 1905, la Città di S. Maria, sorta sugli avanzi di Capua
Antica, consacra un monumento-ossario alla memoria di coloro, che nel
1860, intorno alle sue mura, caddero nella lotta per la redenzione
d’Italia. Sulla pace dell’avello, che ne raccoglie insieme le ossa, scenda
del pari pietosa la preghiera sui vincitori e sui vinti, tra quali erano
anche figli d’Italia avvolti nell’errore. – E al cospetto de’ reduci che
rammentano le glorie del passato, questo monumento, col ricordo dei
prodi che, duce Giuseppe Garibaldi, diedero volenti la vita per la causa
più santa, terrà deste ne’ cuori degli operosi le alte feconde idealità,
convergenti nell’amore alla patria, ch’è armonia di vita e di azione
nell’umanità. A quelli che non seppero trovare il loro cammino o lo
smarrirono, sarà faro luminoso, che insegnerà la via del dovere e del
sacrificio. Dirà in ogni tempo che la fede e l’amore compiono i destini
dei popoli non immemori della loro grandezza, e che gli Italiani,
attingendo ancora da essi le novelle energie, riacquisteranno il loro
posto nel mondo, guidati dal nome fatidico di Roma”.
Nota:
° (Avv. Prof. Gennaro Faucher)
°° (La pergamena si conserva presso il Museo Garibaldino).
°°° ( Paolo de Grazia)
GARIBALDINI SAMMARITANI
I cittadini di S. Maria che presero parte ai combattimenti del settembre e
dell'ottobre 1860, furono 52 e di essi si conosce il nome.
Pur tuttavia, con molta probabilità ve ne furono anche altri che
79
parteciparono alle battaglie e di essi il nome non fu ricordato.
Fecero parte della Legione del Matese e del Sannio, della Brigata
Milbitz, del Reggimento Corrao, degli Ussari Italiani, dei Diavoli rossi, dei
Carabinieri Genovesi, distinguendosi, ovunque, per il valore dimostrato.
GARIBALDINI
*** E’ merito di Fulvio Palmieri se le iscrizioni funebri dei due Garibaldini
sepolti nel vecchio cimitero di S. Maria sono ancora da noi conosciute.
Egli le riporta nel suo noto “S. Maria C. V., vecchie immagini e note
estemporanee” a pag. 10.
“A Beniamino Sartorio da Pavia, cittadino assai più che congiunto, lasciò
la dolce sposa, i figli pargoletti e immemore del presago divieto paterno
impugnò l’armi a fare grande e una l’Italia. Infelice, colpito mortalmente nel
cruento assedio di Capua e desolato in lunga agonia da visione implacata,
rattenne la giovane vita fuggitiva fino all’implorato annuncio del perdono
del padre. La lontana deserta famiglia e i fratelli d’arme, le donne pietose
che il cuore lenivano i supremi dolori del patrio soldato, da nessuna cara
voce confortato, a lui pregano pace. 1860 “
“A Francesco Bandera di Cremona che nel 18° anno, l’Italia accolse nel
novero dei suoi gloriosi figli combattendo il giorno 1° ottobre 1860, il
fratello e le sorelle a perpetua memoria posero”
Nel Museo Garibaldino si custodisce, montato su un cilindro di metallo, il
proiettile che lo colpì a morte.
Altri garibaldini, caduti il 1° ottobre 1860, uniti a quelli caduti il 19
settembre nello scontro di Caiazzo, riposano nel piccolo cimitero di S.
Angelo in Formis. Le loro iscrizioni funebri così recitano:
“Lamberto Lamberti milanese, varcato appena tre lustri, volontario nei
Cacciatori delle Alpi cadeva nel combattimento di S. Angelo, martire
dell’indipendenza italiana il 1° ottobre 1860.
A te la palma degli eroi, ai parenti orbati dell’unico sostegno il conforto
dell’onorata memoria.”
“Qui dorme l’eterno riposo Botti Riccardo di Fiorenzuola morto di 19
80
anni il 1° ottobre 1860 combattendo per la libertà d’ Italia. Pregate.”
Un garibaldino, caduto durante l’assedio di Capua, riposa nel cimitero di S.
Maria. presso il muro occidentale.
In esso inserita, lo ricorda la seguente lapide.
DOM
ALLA MEMORIA
DEL LUOGOTENENTE
ANTONIO CERTOSINI
MORTO DA VALOROSO
SOTTO LE MURA DI CAPUA
AI 29 OTTOBRE 1860
I COMPAGNI D’ARME
QUESTA PIETRA POSERO
ANTONIO CERTOSINI - La storia di Antonio Certosini è perlomeno
singolare, e, credo, valga la pena di leggere la descrizione fatta da
Giuseppe Bandi nel suo “ I Mille”.(pag. 175 - 176).
L’episodio inizia con la battaglia di Calatafimi. “Il gruppo dei
garibaldini…era formato da Menotti, da Elia e da Schiaffino che aveva la
bandiera. I borbonici erano quasi sul ciglio della spianata… Un drappello di
costoro, veduta la ricca bandiera si fe’ vicino…Due cacciatori afferrano la
bandiera e ne strappano un lembo; Elia e Menotti li respingono ancora.
Vedendo la bandiera in quel tremendo rischio…cominciai a gridare “
salviamo la bandiera!”.. In quello istante… sopraggiunsero sette o otto
cacciatori a capo dei quali era un sergente, alto della persona e rosso di
capelli… Il fucile del sergente appoggiato con la punta della baionetta al
petto di Schiaffino, fece fuoco, e Schiaffino cadde indietro sollevando in
alto, nel cadere, la bionda e lunga barba, e lasciò la bandiera, che in mezzo a
grida di giubilo sparì dai miei occhi…..
Erano trascorsi due mesi dal giorno in cui combattemmo a Calatafimi…. In
quei giorni mettendosi insieme nuovi battaglioni …. e scarseggiando gli
81
ufficiali, si pigliassero volentieri i disertori dell’esercito borbonico. Nel
passare per la città di Barcellona (in Sicilia), trovai appunto uno di quei
nuovi battaglioni ….comandato da un certo capitano, disertore borbonico e
disertori come lui erano quasi tutti gli ufficiali. Fra questi ultimi… due, nel
salutarmi fecero mostra di gran meraviglia…..Vedendo che quei due mi
guardavano.. mi posi a squadrarli:…. riconobbi il sergente che aveva
colpito a morte il povero Schiaffino. Il suo nome era Certosini. Lo tenni
d’occhio ma si comportò da valoroso nel combattimento di Milazzo. Quatto
mesi trascorsero e Certosini moriva della morte dei valorosi sotto le mura di
Capua, colla fronte aperta da una scheggia di granata.(pag. 190)
SIMONE SCHIAFFINO di Deodato, nato a Camogli (Genova) il 16
febbraio 1835, “dei Cacciatori delle Alpi e delle Guide”, imbarcato sul
“Piemonte”, portava la bandiera dei Mille.
“Non era, come si credette, la famosa bandiera con cui Garibaldi dirà,
dodici anni dopo, di coprire la salma di Mazzini”, e nemmeno la bandiera
confezionata e regalata, nel 1855, a Garibaldi dalle donne di Valparaiso,
ricamata in oro sul bianco del tricolore..
“Era una piccola banderuola, fattasi dallo Schiaffino a bordo del vapore…
Ma era un tricolore, era il simbolo dell’Italia. Poteva essere pei nemici un
glorioso trofeo”. (20.A)… . “una piccola bandiera semplice.. e non aveva né
ricami né lettere dorate,….. improvvisata da Schiaffino a bordo del
Piemonte”.(20.B)
Di questa bandiera, i Napoletani, sembra, conquistarono soltanto l’asta,
mentre la stoffa fu lacerata; quella di Valparaiso fu mandata subito a Napoli
come trofeo.
Schiaffino, quindi, morì il 15 maggio 1860 nella battaglia di Calatafimi e
riposa nel Sacrario colà edificato.
Era marinaio, e benché giovanissimo, aveva poco più di 25 anni, poteva
fregiarsi di un anello all’orecchio sinistro: indicava che aveva doppiato capo
Horn.(20.1)
Nota: L’orecchino portato all’orecchio sinistro indicava l’appartenenza alla marina
mercantile; se portato all’orecchio destra si apparteneva alla marina di guerra.
Se l’orecchino era d’argento indicava che chi lo portava, aveva superato l’equatore.
Infine, se aveva l’orecchino e la barba, quel marinaio aveva doppiato Capo Horn.
82
Sotto le mura di Capua cadde, fra i tanti, anche un volontario della
Legione Inglese. Il suo fucile, raccolto dal tenente garibaldino Bono
Gaetano, da Campobello di Mazara (Sicilia), è conservato presso il nostro
Museo Garibaldino.(21)
Nel giorno del primo anniversario della battaglia, sul pilastro centrale
dell’arco Adriano, dove più sostenuta era stata la lotta, venne inaugurata,
rivolta l’iscrizione verso Capua, una lapide commemorativa dettata dal
letterato e patriota LUIGI SETTEMBRINI.
Nato a Napoli nel 1813, laureato in Giurisprudenza, esercitò nel foro
della nostra città per circa un anno. Per il suo atteggiamento antiborbonico
subì varie volte la prigione. Fu esiliato nel 1842 e fece ritorno a Napoli nel
1848 anno in cui fondò la “ Setta dell’Unità Italiana”. Arrestato l’anno
successivo venne condannato all’ergastolo ed inviato a S. Stefano. Dieci
anni dopo, nel 1859 la pena venne commutata in esilio. Subito dopo la
battaglia dell’ottobre 1860 ritornò, divenendo senatore del Regno e
professore di letteratura all’Università di Napoli.
Scrisse nel 1875 “ Ricordanze della mia vita “. Si spense nel 1876.
Fu l’autore delle parole incise sulla lapide commemorativa fissata
sull’Arco di Capua.
QUI
IL GIORNO PRIMO OTTOBRE 1860
GIUSEPPE GARIBALDI
VINCEVA L’ULTIMO RE DELLE DUE SICILIE
IL POPOLO DI SANTAMARIA
CHE LO VIDE E LO RICORDERA’ SEMPRE
VOLLE SERBARE IL NOME
BATTERIA GARIBALDI A PORTA CAPUA
DATO A QUESTO LUOGO NEI GIORNI DELLA PUGNA
PRESSO L’ANTICO ARCO
DONDE EGLI FULMINO’ I NEMICI D’ITALIA
TUTTA LA CITTADINANZA
PONEVA QUESTA MEMORIA
IL PRIMO OTTOBRE 1861
La lapide in marmo, era fissata su un alto e massiccio cippo che terminava
con arco a tutto sesto. Nella notte dell’11 gennaio 1863, fu oggetto di un
attentato, che la ridusse in pezzi. In brevissimo tempo, cioè l’ 8 febbraio
1863, venne rimessa al suo posto.
83
Successivamente, rovinato il cippo, venne addossata direttamente al
pilastro centrale dell’Arco.
ENRICO FARDELLA - Presso i Quattordici Ponti, costruiti nel 1844, per
permettere il passaggio della linea ferrata, che da Napoli giungeva fino alla
piazzaforte di Capua, all’alba del 1° ottobre, si udirono le prime fucilate
della imminente battaglia. Sulla strada ferrata, il generale garibaldino
Milbitz aveva fatto costruire, con sacchi di terra, un rialzo messo a cavaliere
dei binari e vi aveva piazzati due cannoni, ed inoltre, aveva fortificato tutta
la linea che arrivava fino agli Archi di Capua e proseguiva fino
all’Anfiteatro.
Un battaglione, del reggimento Malanchini, comandato dal col. Enrico
Fardella, siciliano di Trapani, era spiegato all’estremità della linea difensiva
verso il villaggio di S. Tammaro. Venne attaccato da due squadroni di
lancieri, un battaglione di pionieri, e mezza batteria. Il col. Fardella si
accorse che, alla sua destra una colonna di soldati napoletani, comandata dal
col. Sergardi, avanzando, poteva prenderlo alle spalle, e pertanto il
battaglione ripiegò, attestandosi dietro i margini della ferrovia e, dando
prova del proprio valore, fece fallire l’attacco delle truppe borboniche. Si
ebbero perdite da ambo le parti.
Giuseppe Bandi, nel suo “I Mille” racconta:
“.. i volontari.. avean trovato presso l’argine della ferrovia, il cadavere d’un
loro compagno ferito in petto da una palla e crivellato da innumerevoli colpi
di baionetta…..
Si chiamava Roman d’ Alégre, marsigliese, aveva compiuto con amore i
suoi studi, e maneggiava anch’egli con garbo la matita e il pennello.
Giovanissimo, aveva vestita la divisa degli zuavi, combattendo in Crimea e
in Lombardia; ma poi aveva piantato in asso Napoleone ed era venuto a
chieder una camicia rossa a Garibaldi, suo sogno e suo idolo. (G. Bandi,
op,cit.pag.334)
Sulla tronca colonna di mattoni fatta erigere, nel 1861, a proprie spese, dal
colonnello Fardella, (ne chiese notizie al suo amico Camillo della Corte in
una lettera del 5 luglio 1867 spedita da New York, in cui scrisse:.. esiste
ancor la colonna ch’io alzai alla strada ferrata?), fu collocata la seguente
iscrizione, dettata dal canonico Stefano Pirolo, nostro concittadino:
QUI PUGNO’
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CONTRO IL BORBONICO ORGOGLIO
IL REDIVIVO ITALIANO VALORE
NEL I OTTOBRE 1860
QUI VINSE
IL REGGIMENTO FARDELLA
QUESTO MONUMENTO ERGEVA
AI SUOI GLORIOSI MILITI
AUGURIO ED ESEMPIO AI NEPOTI
Il suolo, su cui il monumento s’innalza, fu dono del proprietario Salvatore
Morelli. Nel 1903 il sig. Gaetano Morelli, suo erede, ottenne di spostarlo di
una trentina di metri, mantenendo inalterate le caratteristiche del manufatto.
Successivamente il Comune, intorno ad esso, delimitò una piccola area con
un muretto di mattoni che oggi, purtroppo, versa in un notevole stato di
degrado.
Note: La Bandiera che sventolò ai Quattordici Ponti è conservata nel Museo Garibaldino
della nostra città.
Bisogna aggiungere inoltre che tutte e tre le bandiere dei reparti che combatterono presso S.
Maria sono conservate nel nostro museo. Inoltre nel palazzo del Municipio, prima del
terremoto del 1980, vi era una lapide che così riportava:
DUE DI QUESTE BANDIERE
NELLA CAMPAGNA NAZIONALE DEL 1860
GUIDARONO ALLA BATTAGLIA I VOLONTARI GARIBALDINI
DE’ REGGIMENTI FARDELLA E PALAZZOLO
LA TERZA DI ESSE
PIANTATA NELLA BATTERIA GARIBALDI A PORTA CAPUA
SVENTOLO’ TERRIBILE A’ NEMICI D’ITALIA
NELLE ORE SUPREME DEL PERICOLO
TUTTE E TRE
LACERE E INTRISE DAL SANGUE DEGLI EROI
FURONO DONATE A QUESTA CITTA’
CHE CONCORSE FERVENTE ALL’OPERA DEL RISCATTO
AFFINCHE’ CI RICORDINO
QUANTI DOLORI E QUANTO SANQUE COSTO’ REDIMERE LA PATRIA
CON CHE FEDE E CHE AMORE
DOBBIAMO SAPERLA MANTENERE
LIBERA E UNA
Enrico Fardella di Torrearsa, era nato a Trapani l’11 marzo 1821. Insieme
agli altri due fratelli, il marchese Vincenzo e Giambattista, fu uno dei
principali
esponenti
della
85
rivoluzione siciliana del 1848-49. Enrico era stato ufficiale dell’esercito
borbonico, venne arrestato ed incarcerato, ma poi fu graziato da Ferdinando
II. Raggiunse dapprima Genova, poi andò in esilio a Londra dove si arruolò
per partecipare alla guerra di Crimea (1853-1856). Si unì alle schiere
garibaldine, e si distinse nella battaglia di Milazzo, ma soprattutto in quella
del Volturno.
Dopo le imprese al seguito di Garibaldi, Fardella andò a combattere negli
Stati Uniti durante la guerra di Secessione (1861-1865) al comando di un
reggimento delle truppe dell’unione.
Venne nominato generale dal presidente Abramo Lincoln.
Negli anni seguenti si stabilì a New York, ma, per l' insistenza del fratello,
nel 1872, tornò a Torrearsa. Per qualche tempo dal 1873 al 1879 fu sindaco
di Trapani. Morì il 5 luglio 1892.
Anche altre strade della nostra città, essendo a loro dedicate, ricordano i
garibaldini che presero parte alla battaglia del 1° Ottobre…
AVEZZANA Giuseppe. Nacque a Chieri (TO) nel 1797. Fu volontario
nell’esercito napoleonico e prese parte alle campagne del 1813-1814. Nel
1815 entrò nell’esercito sardo con il grado di tenente. Partecipò ai moti del
1821, e condannato in contumacia riparò in Spagna dove combattè
nell’esercito costituzionale, contro il corpo di spedizione della Santa
Alleanza comandata dal duca d’Angouleme, sotto le cui insegne militava
anche Carlo Alberto di Savoia.
Caduto prigioniero, fu deportato, nel 1823, in America a New Orleans.
Successivamente, nel 1827, nella guerra d’indipendenza del Messico, offrì il
suo braccio contro gli spagnoli. Nel 1832 capeggiò una rivolta contro il
presidente A. Bustamante che voleva usurpare il trono messicano. Fu il
generale dei Quattro stati d’Oriente della repubblica Messicana. Nel 1834 lo
ritroviamo a New York, dove vive insieme alla moglie irlandese, facendo il
commerciante
Ritornò in Italia nel 1848 ma non fu riammesso nell’esercito. Fu nominato
il 26 febbraio 1849 comandante della Guardia Nazionale di Genova.
Un mese dopo, partecipò, come ispiratore e capo, ai moti scoppiati nella
città e condannato a morte in contumacia, riparò a Roma e fu nominato
ministro della guerra durante il triunvirato mazziniano.
86
Quando, dopo la strenua difesa operata dai garibaldini, la repubblica romana
cadde, riparò nuovamente a New York lavorando insieme a Garibaldi
nell’opificio di Antonio Meucci.
Al suo nuovo rientro, nel 1860 partecipò alle campagne garibaldine. Fu
insignito dell’Ordine Militare di Savoia per la condotta avuta nell’assedio di
Capua. Nel 1862 entrò nell’Esercito italiano con il grado di generale.
Collocato a riposo, combattè ancora con Garibaldi nel 1866 e poi, l’anno
successivo, nella battaglia di Mentana.
Fu eletto deputato di Napoli e di vari comuni di Terra di Lavoro quali
Montesarchio, Capaccio, Isernia.
Nel 1877 venne eletto primo presidente dell’Associazione pro Italia
Irredenta.
Morì a Roma il 25 dicembre 1879.
MILBITZ Alessandro – Aleksander Izensmid (Isenschmit), DE
MILBITZ nacque nel 1800. Nobile polacco col titolo di conte. Appena
sedicenne entrò nelle fila dell’esercito russo-polacco dove militò circa 16
anni. Nel 1832 passò nell’esercito polacco.
Nell’aprile 1849 col grado di capitano (o forse colonnello) della legione
polacca fu combattente negli scontri dei Monti Parioli a Roma, contro i
francesi. Dopo la caduta della Repubblica Romana, partì per la Grecia,
insieme a Giacinto Bruzzesi e ad altri esuli italiani e polacchi per
partecipare alla rivoluzione ungherese. Ritornò nel febbraio del 1852.
Garibaldi lo ebbe come valente collaboratore nella battaglia del Volturno. Fu
il comandante della divisione Cosenz (che era a Napoli come ministro della
guerra), la 16^ divisione, posta all’ala sinistra dello schieramento
garibaldino presso l’Arco di Capua.
Avendo dato la sua parola a Garibaldi che Santa Maria sarebbe stata
difesa fino all’ultimo sangue, pur trovandosi all’inizio in difficoltà, tenne la
sua posizione tenacemente, “sudato e rosso come un gambero, scorreva qua
e là col suo magro cavalluccio” (22) compiendo prodigi di valore ed abilità
tattica, e respingendo il nemico su tutti i punti.
Disponeva di circa 4.000 uomini, 4 cannoni e 70 cavalli.
Nelle prime ore del mattino del primo ottobre, sanguinante per una ferita,
ordinò il primo dei quattro assalti alla baionetta con cui arrestò per oltre un’
ora l’avanzata dei soldati borbonici.(22.1)
87
Chiesti, poi, altri cavalleggeri al generale Medici, ordinò una carica della
cavalleria garibaldina, composta da circa duecento uomini, sullo stradone
che da S. Maria menava a Capua, disperdendo, così, la cavalleria
nemica.(22.2)
Nella nostra città, alloggiò nel palazzo di Girolamo Della Valle, in via
Gramsci (ex via Vittorio Emanuele).
Venne insignito il 12.06.1861 della medaglia dell’Ordine Militare di Savoia.
Fu nominato generale nel Regio Esercito in cui militò circa un decennio.
Si iscrisse alla Massoneria ed appartenne alla Loggia “Ausonia” di Torino.
Venne eletto Sovrano Gran Commendatore del Supremo Consiglio di
Torino.
Morì a Torino il 17 giugno 1883.
Nota: Fra i garibaldini che combatterono a Porta Capua, le perdite ammontarono a 147
caduti; 335 feriti; 239 dispersi.
Nel Museo garibaldino viene conservata la Bandiera che il gen. Milbitz donò, il 29 ottobre
1860, alla nostra città.
Nella brigata Milbitz combatterono anche alcuni cittadini sammaritani.
SIRTORI Giuseppe, nato a Casate Vecchio (Como) il 17 aprile 1813. Fu
ordinato sacerdote nel 1838. Nel 1842, si recò a Parigi, per perfezionare gli
studi di teologia e filosofia. Studiò anche medicina, matematica, biologia,
chimica, senza completare nulla.
A seguito di un contrasto con i propri fratelli, decise di rinunciare ai voti
sacerdotali.
Nel febbraio del 1848 partecipò ai moti rivoluzionari francesi che
portarono alla nascita della Seconda Repubblica. Rientrato in Italia, giunse a
Milano ed essendo contrario alla unione della Lombardia con il Regno di
Sardegna, Sirtori entrò in una brigata di volontari lombardi. Venne nominato
capitano e con tale grado, nel 1849, partecipò alla difesa di Venezia e fu
promosso colonnello per essersi distinto nell’assedio di Forte Marghera.
Partito con i Mille, fu Capo di Stato Maggiore di Garibaldi, con il grado
di Maggior Generale. Sedeva alla destra di Garibaldi. Garibaldi aveva in lui
la massima fiducia. A Calatafimi venne ferito ad un braccio, mentre incitava
i suoi armato solo di un frustino e cavalcando un asinello sardo. Sul
Volturno ebbe il comando della divisione di riserva, e la mosse nei tempi e
nei luoghi giusti, contribuendo così alla vittoria. e distinguendosi in tutta la
campagna del 1860.
“Però del prete e degli anni del seminario gli erano rimaste le stimmate
88
gestuali inconfondibili nel modo di camminare e di fregarsi le mani candide
e ossute, con quella sua vocetta stridula e quaresimale che trasformava ogni
discorso in predica….Passava per l’uomo più inelegante dell’armata che
pure non era un’accolta di damerini…e deteneva il primato senza sforzi”(23)
con la “gran palandrana nera e il cappello a cilindro”(23 a)
“Si preparava alle battaglie come un tempo si era preparato alle messe,
digiunando e meditando. Era un uomo malinconico, taciturno, turbato ed
esangue, chiuso nel suo sacerdozio di soldato, e col goliardico ambiente
legionario non si appastò mai, rimanendone sempre un po’ remoto e in
disparte. Dovunque apparisse, le risate si spegnevano e le bocche si
chiudevano. Però le orecchie si tendevano perché le sue parole, le rare volte
che ne pronunziava, facevano testo”.(23.1)
Il 25 ottobre l’esercito garibaldino attraversò il Volturno su un ponte di
barche e transitò per Bellona. All’entrata del paese Sirtori cadde da cavallo
e si fratturò una gamba.
Nel 1861, per i suoi meriti ricevette il titolo di Commendatore dell’Ordine
Militare di Savoia. Nel marzo del 1862 venne trasferito nell’esercito
regolare col grado di Tenente Generale. Nello stesso anno venne iscritto alla
Massoneria.
Combattè nel 1866 a Custoza. Fu deputato in varie legislature.
Morì a Roma nel 1874.
STEFANO TURR - Al generale Stefano Turr, non è stata intitolata
nessuna strada. Pur tuttavia egli è da ricordare in queste note perché
presenziò all’inaugurazione del Monumento Ossario, e venne insignito della
cittadinanza sammaritana.
Nacque in Ungheria nella città di Baja nel 1825. Fu tenente nell’esercito
austriaco, nel reggimento di granatieri ungheresi, dal quale disertò. Nel 1849
prese parte alla battaglia di Novara fra le fila dell’esercito piemontese, quale
capitano della “Legione ungherese”.
La sconfitta subita dai piemontesi, comportò l’allontanamento degli esuli
italiani e stranieri. Turr riparò in Germania, partecipando alla rivolta nel
granducato del Baden, col grado di colonnello.
Nel 1853 prese parte ad un moto rivoluzionario che doveva risollevare le
terre irredente dall’Austria, ma anche questo non andò a buon fine e Turr
venne espulso. Riparò a Tunisi e poco dopo prese parte alla guerra di
Crimea con le truppe inglesi. Nel 1855, dal comando inglese venne
mandato in missione a Bucarest, ma in questa città fu arrestato dagli
89
austriaci e condannato a morte per l'antica, diserzione. Si salvò per
intercessione diretta della Regina d’Inghilterra e si rifugiò in Turchia
dedicandosi ad imprese commerciali. Scoppiata nel 1849 la seconda guerra
d‘indipendenza italiana, Turr ritornò in Italia e col grado di colonnello
combattè con truppe garibaldine: i Cacciatori delle Alpi, e fu ferito nella
battaglia presso truppe Tre Ponti nel Veneto.
Nel 1860 prese parte alla spedizione dei Mille partendo da Quarto, come
aiutante di campo di Garibaldi che lo tenne sempre in grande
considerazione. Fu da questi nominato generale di divisione. Alla fine della
campagna venne scelto come governatore di Napoli svolgendo un certo
ruolo nell’organizzare il plebiscito del 21 ottobre 1860. Successivamente
passò nell’esercito italiano col grado di generale. Nel 1888 ricevette la
cittadinanza italiana.
Il 1° ottobre 1905, presenziò l’inaugurazione del Monumento Ossario,
ultimo rappresentante dello Stato Maggiore Garibaldino.
La nostra città gli conferì la cittadinanza onoraria l’11 giugno 1906.
Fece, poi, ritorno a Budapest ove morì il 3 maggio 1908.
ACHILLE AFAN DE RIVERA
UFFICIALE BORBONICO
Achille Afan de Rivera nacque a S. Maria C. V il 19 gennaio 1842 dal
Marchese Rodrigo e da Giovanna Mira De Balena.
Fu allievo del Real Collegio Militare della Nunziatella a Napoli.
Nel maggio del 1860 partecipò a sedare i moti di Catania, scoppiati in
concomitanza allo sbarco garibaldino.
Poco dopo, partecipò alla difesa di Gaeta e durante l’assedio, col grado di
tenente, appena diciottenne, fu comandante delle batterie di obici
posizionate alla “Torre di Orlando”.
Per ottenere i rifornimenti necessari alla difesa della piazzaforte si recò
clandestinamente nello Stato della Chiesa.
Dopo la conquista del Regno borbonico, passò nell’esercito italiano e, nel
1866, combattè con valore nella Terza Guerra d’Indipendenza agli ordini di
Garibaldi sul lago di Garda e successivamente nel Trentino. Su proposta
dello stesso Garibaldi venne decorato con l’Ordine Militare di Savoia.
Ricevette il grado di colonnello nel 1883. Nel 1891 venne promosso
Maggior Generale e finalmente nel 1896 Tenente Generale di Artiglieria.
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Venne eletto deputato del regno d’Italia in varie Legislazioni.
Sottosegretario alla guerra nel secondo e terzo ministero di Rudinì e nel
quinto venne nominato ministro dei Lavori pubblici.
Nel 1900, fece parte del Comitato Generale per l’erezione del monumento
ossario da costruire nella nostra città.
Morì a Napoli il 26 ottobre 1904.
LA CASCINA DELLA VALLE
La linea di difesa dinanzi S. Maria, organizzata dai garibaldini comandati
da Milbitz, era così formata:
Sulla sinistra di Porta Capua, procedendo verso la strada ferrata, si
trovavano i battaglioni di Laugé e Sprovieri.
A cavallo della ferrovia era stata piazzata una batteria di due pezzi; dopo i
Quattordici Ponti era disposto il reggimento Malenchini e alla fine della
linea verso S. Tammaro il battaglione Fardella, con una batteria.
A Porta Capua, o Arco di Capua, era posizionata la batteria di altri due
cannoni comandata da Stefano Turr.
Nota: Le batterie sui carri della ferrovia e agli Archi Antichi erano dirette da alcuni artiglieri
piemontesi, giunti all’insaputa di Cavour, i quali con la loro collaborazione contribuirono ad
arginare l’avanzata dei soldati borbonici.
Nella Cascina Della Valle si erano attestati gli uomini della compagnia
De Flotte.
Nell’Anfiteatro si posizionarono i circa ottocento Siciliani comandati da La
Masa, per la maggior parte ragazzi, molti dei quali non avevano più di 15 o
16 anni.
Al loro fianco combatterono anche 240 Calabresi, quelli che, agli ordini
del maggiore Francesco Buscami, avevano respinto la cavalleria borbonica
attaccandola alla baionetta, nello scontro del 15 settembre.
Dopo l’Anfiteatro, verso S. Angelo, vi erano: il battaglione di Pace, i
reggimenti di Corrao e di La Porta.
Nei pressi del nuovo Cimitero una parte delle truppe della Brigata
Assanti con due battaglioni bersaglieri.
La Cascina Della Valle, in cui, preparandosi alla battaglia, si insediarono i
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volontari francesi, sorgeva isolata in mezzo ai campi, poco più avanti agli
Archi, spostata sulla destra, all’incirca a un centinaio di metri da essi e quasi
alla stessa distanza dalla via Appia e a non più di trecento dalle rovine
dell’Anfiteatro. Era di proprietà, come i terreni su cui sorgeva, di Girolamo
Della Valle, già sindaco di S. Maria dal 1846 al 1848, nominato
nuovamente a tale carica dopo il 1860, eletto deputato nel 1863. Il suo
palazzo in città fu sede del quartier generale delle forze garibaldine ed in
essa abitò per circa tre mesi il generale Milbitz.
I volontari francesi della compagnia De Flotte occuparono la suddetta
cascina qualche giorno prima dell’inizio della battaglia e si avvidero che era
circondata da numerose mete (cumuli) di paglia.
Senza perdersi d’animo, trasportarono tutta la paglia lontana
dall’abitazione e la bruciarono, evitando, così, che i soldati regi potessero
usarla contro di loro, appiccando il fuoco per costringerli ad uscire
abbandonando, così, la loro postazione.
Subito dopo praticarono nei muri del fabbricato delle feritoie; intorno alla
cascina scavarono dei fossati larghi una diecina di piedi, e con la terra
estratta costruirono un terrapieno a protezione del loro avamposto. Poi si
barricarono nel casolare, sbarrando gli accessi con tutti i mobili che
trovarono in esso.
La Compagnia era stata formata da Paul De Flotte. Di lui scrive
G.C.Abba nelle sue Notarelle di uno dei Mille a pag. 201:” Quello con una
grande barba, un po’ curvo, vestito di nero, era De Flotte. ….Egli,
rappresentante del popolo quando il colpo di Stato si gettò sopra Parigi,
stette fino all’ultimo della resistenza, poi esulò. Credo che fosse ufficiale di
marina. Qui non è che un uomo di buona volontà che rispose alla chiamata
d’Italia come i Polacchi, gli Ungheresi, tutti i generosi d’altre patrie, che ci
hanno portato le loro spade gloriose”.
. Cadde presso Solano, “nella sua camicia rossa di colonnello garibaldino”,
quando il primo distaccamento della divisione Cosenz sbarcato in Calabria,
attaccato dai borbonici dovette marciare fra le montagne per congiungersi
alle forze di Garibaldi.
“Dormirà La Flotte nella poetica terra di Calabria, che tanto ora è sua più
che nostra: lo nomineremo noi, tutta la guerra, perché dicono che da lui sarà
chiamata la compagnia di quei dugencinquanta francesi, venuti a portarci il
fiore del loro coraggio”.(G.C.Abba – op.cit. pag 213).
E Garibaldi fece onore alla memoria del Caduto e così nacque la
92
Compagnia De Flotte.
Nella battaglia del I Ottobre, la Compagnia era comandata dal capitano
Paugham, già aiutante di De Flotte.
Era composta da una cinquantina di soldati che lottarono fin dalle prime
ore, energicamente e con coraggio, contro ben cinque assalti dei regi; e
difese la comunicazione tra il centro e l’ala destra del Mibiltz sulla via di
Sant’Angelo.
Il primo assalto, sul far del mattino, fu tentato da un reggimento di
Granatieri della Guardia Reale che marciò minaccioso verso il fronte
garibaldino. I volontari francesi, senza indugio, si posizionarono nella
cascina, dietro le feritoie, sopra i tetti ed aspettarono l’ordine di aprire il
fuoco.
Il comandante Paugham osservando l’avanzata dei regi, con tutta calma
disse loro di farli avvicinare il più possibile. Giunti, i Borbonici, a circa
trenta passi di distanza, furono oggetto di una nutrita salva di fucileria che li
colpì e li costrinse ad indietreggiare.
Nello stesso momento, tuonarono anche i cannoni della batteria
posizionata all’Arco di Capua.
Dopo la battaglia, il generale Turr rivolse ai volontari d’oltre Alpi questo
elogio: ”Messieurs, vous avez rendu un grand service à l’Italie. Vous n’étiez
que 50, je vous croyais 500”.
Bisogna però aggiungere ciò che alcune fonti riferiscono: i francesi erano
solo 30 e il resto era composto da inglesi, ungheresi, piemontesi e italiani
provenienti da ogni parte del Paese.
I giornalisti che scrissero in quei giorni, arrivarono a contare un numero di
volontari francesi compreso tra i 50 e i 92.
La cascina Della Valle venne raffigurata in un quadro di Eugenio Buyer,
olio su tela dipinto nel 1879. Il titolo del quadro è il seguente: “Difesa della
Cascina Della Valle a Porta Capua da parte della Compagnia De Flotte”.
Eppure il quadro non richiama alla mente la scena di un combattimento.
In esso, all’ombra della Cascina, sono raffigurati, oltre ai garibaldini
festanti intorno ad un comandante a cavallo, anche donne e bambini che lieti
corrono verso il personaggio ritto in sella.
93
Sembra una festa e l’immagine rappresenta non già la difesa della
cascina, ma il momento di allegria e di esultanza a cui partecipano sia i
garibaldini che il popolo, per la fine della battaglia e la conquistata vittoria.
Il quadro fu donato dall’autore al generale Turr, e da questi nel 1906 alla
Città di S. Maria.
Con delibera consiliare dell’11 giugno 1906, al generale Stefano Turr fu
concessa la cittadinanza onoraria. ( dal catalogo del Museo del Risorgimento
– Città di S. Maria Capua Vetere – pag.48)
CONCLUSIONE
È vero, purtroppo, che la venuta dei Piemontesi e la conseguente annessione
del conquistato Regno Borbonico, ha costituito una disgrazia per gli abitanti
dell’Italia Meridionale.
Ma, di tanto non bisogna dar colpa a Garibaldi e ai garibaldini, che
anch’essi ebbero a subire torti.
Garibaldi venne incitato dagli stessi Siciliani a conquistare il Meridione.
La parte più attiva l’ebbero due esponenti siciliani: Rosolino Pilo che
accorse a sostenere le bande armate e a tener desta l’agitazione nell’isola e
morì in combattimento per queste sue idee, e Francesco Crispi, che
ingigantì, con le parole, la modesta rivolta in atto nelle terre siciliane.
Il Piemonte sulle prime si accontentò di osservare da lontano. Intervenne a
cose quasi concluse. Il re sabaudo “ordinò al generale di attendere il suo
arrivo, quindi di rimettergli i pieni poteri”
Dopo l’incontro del 26 ottobre a Taverna Catena fra il re Vittorio
Emanuele II ed il Generale, l’esercito garibaldino venne escluso dai
combattimenti e messo in coda; e quando venne sciolto, pochi giorni dopo,
moltissimi dei suoi soldati non furono accolti nell’esercito piemontese.
Giuseppe Garibaldi, repubblicano, amico di Mazzini, donò un Regno
conquistato con le armi e col sangue di uomini che avevano poco o niente
da spartire con il Piemonte e con il suo Re, che, a cose fatte, negò, a molti di
loro, ogni riconoscimento.
Gli errori e gli orrori si ebbero dopo la partenza di Garibaldi per Caprera.
All’alba del 9 novembre, sette giorni dopo la resa di Capua, Garibaldi
s’imbarcò sul Washington e si ritirò nella sua isola, “avendo con sé pochi
sacchetti di caffé e zucchero, un sacco di legumi, un sacco di sementi, una
94
cassa di maccheroni, una balla di merluzzo secco, e poche centinaia di lire,
risparmiate, senza ch’ei lo sapesse, dal suo segretario Basso”.
(G. Sacerdoti op.cit.- pag.802).
Questo fu il premio per l’avvenuta conquista di un Regno.
“Il giornale ufficiale del nuovo governo di Napoli, fingendo di ignorare la
partenza del Liberatore, la comunicava solamente tre giorni appresso!”
(G. Sacerdoti - op. cit.- nota pag.803)
Avrebbe potuto rifiutare, il Generale, di consegnare il Regno di Napoli al
Re piemontese; ma ne sarebbe sorta una nuova guerra civile di gran lunga
più feroce di quella appena conclusa. Non erano questi gli ideali di
Garibaldi, e di tutti coloro, anche stranieri, che combatterono al suo fianco.
I Mille (di cui quasi la metà apparteneva a ceti medio-alti, 250 avvocati,
100 medici, 20 farmacisti, 50 ingegneri, ecc) andarono alla guerra con in
testa l’ideale di una nuova Patria, di una unità nazionale che doveva
garantire a tutti una vita migliore, la libertà dall’oppressione delle potenze
straniere e una giustizia “giusta”.
I meridionali e in particolare i siciliani, oltre agli ideali, combatterono per
avere, quale ricompensa promessa, un fazzoletto di terra con cui poter vivere
senza l’oppressione del padrone e del massaro.
Per questo grande sogno soffrirono, lottarono e morirono, eroi silenziosi i
cui nomi per lo più sono sconosciuti. Purtroppo, tutti restarono delusi.
Per il nostro Sud, tutte le speranze, accarezzate per lungo tempo, andarono
perdute con l’avvento dei Piemontesi. Cavour si era appropriato del
programma repubblicano di Mazzini in nome e per conto della Monarchia
Sabauda, la quale aveva ampliato il proprio regno, non annettendo nuove
regioni, bensì conquistando una ricca colonia da sfruttare.
Il comandante in capo, gen. Enrico Cialdini, convinto razzista
antimeridionale, ebbe a dire: “Questa è Africa, altro che Italia! I beduini, a
riscontro di questi cafoni, sono latte e miele”.
Il Regno sabaudo aveva una legislazione e un sistema di amministrazione
pubblica fra i più arretrati fra quelli in vigore negli altri Stati italiani.
Quando le rivolte contadine divennero generali, la borghesia liberale del
Nord ed i proprietari terrieri del Sud furono concordi nel perseguire una
politica che salvaguardasse la continuità dell’ordine sociale ed in particolare
proteggesse la proprietà agraria.
Pertanto nessuna concessione venne fatta ai ceti piccolo - borghesi, al
95
proletariato urbano, alle masse contadine. Tutti costoro, da sempre privi dei
diritti politici, non ebbero nessun rappresentante nel Parlamento Italiano,
la cui base sociale era rappresentata dai ceti proprietari che avevano tutto
l’interesse di salvaguardare gli interessi economici della borghesia e
dell’aristocrazia terriera, che dava al lavoratore appena l’indispensabile per
poter sopravvivere, e non sempre.
A questo si aggiunga che il Piemonte, sistematicamente, spogliò l’ex
Regno Borbonico di tutte le sue industrie smantellandole dalle nostre
regioni, e ricostruendole al Nord, lasciando così senza lavoro ed
impoverendo le nostre maestranze.
Quindi, soldati senza esercito, contadini senza terra ed operai senza
fabbrica, per poter avere una speranza di vita e di futuro migliore, prima
combatterono per rimettere sul trono Francesco II, e furono chiamati
“briganti”; poi, coloro che sopravvissero dovettero emigrare.
In una lettera che scrisse alla Sig.ra Adelaide Cairoli, nel 1868, Garibaldi
così si esprime:“Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono
incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò non
rifarei oggi la via dell’Italia meridionale,… avendo cagionato solo squallore
e suscitato odio”.
Pur tuttavia, l’albero della Unità Nazionale era stato piantato. Per la prima
volta dopo la fine dell’Impero romano, l’Italia, fino ad allora preda inerme
per ogni potenza straniera che mirasse al controllo del Mediterraneo, era
diventata una, assumendo lo status di Nazione, di Stato sovrano, anche se
seguirono, purtroppo, gli orrori e gli errori fatti da chi comandò nei primi
tempi dell’Unità e anche da chi comandò dopo.
Questa Unità, agli italiani uniti del Sud, più che a tutti gli altri, costò
molto, anche per le altre guerre che si ebbero subito dopo per completare
l’Unità, e costa ancora tanto.
NOTA: Gli italiani dopo l’Unità hanno combattuto: la III guerra d’ Indipendenza nel 1866; la
presa di Roma 1870; tre guerre coloniali in Eritrea, Libia ed Etiopia; I e II guerra mondiale.
I meridionali pagarono a caro prezzo l'Unità d'Italia: pagarono con il
sangue e con l'oro. Ad essi, però, resta l’orgoglio di aver contribuito a
formare una Nazione, un solo Popolo che, nel bene e nel male, comunque,
96
tende a migliorare la vita sua e dei propri figli, fra i tentennamenti e gli
imbrogli concepiti da chi credeva allora e crede anche oggi di essere il più
furbo fra tutti: e di furbi ce ne sono a tutti i livelli sociali.
Non incolpiamo, dunque, Garibaldi, ma la politica, la sporca politica, o
meglio, la politica sporca, di allora come di oggi, e allora come oggi si
continua a combattere in nome degli ideali di libertà di pensiero e di azione,
di uguaglianza sociale che, pur esistendo sulla carta, in pratica, spesso
vengono negati.
E si combatterà ancora per ottenere una società più giusta, più tranquilla,
più serena, per una nuova età dell’oro: si spera non più con le armi ma con le
idee. Se sono buone, tempo ci vorrà, ma esse non subiranno sconfitte.
97
NOTE BIBLIOGRAFICHE
(1) (S_Casiello A.M. Di Stefano – S.Maria C.V. pag. 109)
(2) (F.Granata – Storia Sacra della Chiesa di Capua libro III cap.I
Pag.52).
(3) (Don S. Iodice – Chiesa degli Angeli Custodi)
(4)(F.Granata op. cit.)
(4.1) (F. Palmieri – S. Maria C.V. vecchie immagini- pag. 89)
(5) (S. Iodice op.cit.)
(6) (dal R.D. del 18 febbraio 1866)
(7) (A.S.C.S.M. Deliberazione 1874-1877)
(8) (A. Perconte op.cit. pag. 87)
(9) (Pier Luigi Chiapparelli – Il San Carlo e i Teatri della Campania)
(10) (F. Palmieri – Ricordi di S. Maria C.V.- pag. 108)
(11)(A. di Benedetto – Il teatro Garibaldi pag. 28).
(12)(A.Perconte Licatese – S.Maria Capua Vetere pag.87)
(12.1) (F. Granata – Storia della Chiesa metropolitana di Capua – pag.56)
(13)( Jesse White Mario – Garibaldi e i suoi tempi – pag. 294).
(14)(Gustavo Sacerdote – La vita di Giuseppe Garibaldi – pag. 789)
(15)(Gustavo Reisoli – Garibaldi condottiero – pag. )
(16) ( F. Palmieri – S.Maria C.V. – Note estemporanee pag. 45).
(16.1)(da S. Maria C. V. – Ai Caduti nel 1° ottobre 1860 pag.10).
(17) (A.Perconte Licatese – S. Maria C.V. – scheda n. 25 - pag..140)
(18) (A. Perconte – op. cit. pag.79)
(19) (G. Bandi - I Mille – pag. 338)
(20) (S.Maria C.V. Ai Caduti nel 1° Ottobre 1860 pag.10)
(20.A) (G. Sacerdote – La vita di Garibaldi – pag. 679)
(20.B) (G. Sacerdoti – op. cit. pag. 683)
(20.1) (Romano Bracalini – Non rivedrò più Calatafimi – pag. 119).
(21) ( dal catalogo del Museo del Risorgimento)
(22) ( G. Bandi - I Mille - pag. 335)
(22.1) ( A.Fratta – Garibaldi – pag. 307)
(22.2) ( G.Bandi – op. cit – pag. 337)
(23)(Romano Bracalini – Non rivedrò più Calatafimi- pag. 142)
(23 a) (Bandi - I Mille – pag. 339)
(23.1) (Indro Montanelli e Marco Nozza- Garibaldi pag. 356 e pag.419)
98
VIA ROBERTO D’ ANGIO’
IL NOME: oggi, via Roberto d’Angiò, dedicata al saggio Re di
Napoli.
In precedenza, dal 1871 al 1890 circa, via Volturno.
Prima del 1871, strada di S. Francesco: dedicata a S. Francesco di
Paola.
Palazzi notevoli: Il palazzo del Duca di Presenzano: Raimondo del
Balzo – La Torre di S. Erasmo – Palazzo Teti
La strada ripropone un antico asse viario, un cardo, orientato da
nord a sud. Nel 1955, nei pressi dell’incrocio con via Torre, furono
rinvenuti alcuni reperti relativi all’antica strada e cioè: un tratto di
pavimentazione stradale costituita da blocchi di pietra (detti basoli),
tracce di una gradinata di pietra calcarea ed un fusto di colonna
marmorea.. Un altro tratto della stessa via si rinvenne all’angolo di via
P. Morelli.
Nel tratto compreso fra queste due strade si rinvenne, verso il 1990,
un blocco di calcare che era la parte inferiore dello stipite sinistro del
portale di un edificio pubblico risalente al II sec. d.C. che si apriva
sull’antico cardo. Al livello del piano stradale primitivo furono
trovate anche alcuni basoli pertinenti al rivestimento della strada
Infine, parte dello stesso cardo potrebbe essere il tratto ritrovato in
piazza Della Valle.
Dopo aver attraversato, da sud a nord, l’intera città sul suo lato
occidentale, il cardo, sembra, giungesse o forse affiancasse uno dei
fori dell’antica Capua, il Foro dei Nobili, ubicato a poca distanza o
forse proprio davanti al Campidoglio. Nei pressi dello stesso foro
erano situate anche altre grandiose costruzioni, quali il Criptoportico
ed il Teatro.
Lasciata la piazza e attraversata la porta Tifatina (o Volturnenins),
la strada, divenuta consolare, prendeva il nome di Via Dianae e
proseguiva verso il tempio di Diana sul monte Tifata, ed arrivava fino
al fiume Volturno.
La Via Dianae non è l‘attuale via Galatina. Le ricerche
archeologiche effettuate, indicano che la strada antica si discostava
una decina di metri dalla strada attuale, passava, poi, accanto alla
chiesa della Madonna delle Grazie, giungeva nei pressi del Cimitero e
100
proseguendo per la Cupa degli Spiriti toccava le pendici del Monte
Tifata.
Una iscrizione ritrovata, sembra, nei pressi del Teatro o
dell’Anfiteatro, ci informa che il duunviro Gaius Lartius Gabinius
Fortuitus, fece pavimentare la via Diana dalla “porta volturn(ensis) ad
vicum” a sue spese.(1)
Il marmo su cui era incisa ”perché di smisurata grossezza, fu lasciato
sotterra nello stesso luogo” (G. Rucca – Capua Antica – pag.128)
Attualmente, la via inizia dal trivio formato con l’attuale via
Gramsci e con piazza Girolamo della Valle. Poco dopo, sulla
destra, incrocia via Vetraia, e, a circa metà della strada, il vicolo
Conforti, che forse rappresenta le ultime vestigia di una antica via.
Quasi di fronte ad esso, sulla sinistra incrocia via Pietro Morelli e
proseguendo, sulla destra, via Martucci (ex via Torre) ed infine
giunge in p.za S. Francesco d’Assisi.
IL CAMPIDOGLIO
E’ stato tramandato che nell’antica Capua, nel luogo della Torre di
S. Erasmo, era ubicato il Campidoglio, dedicato alla triade capitolina:
Giove, Giunone e Minerva.
Il Campidoglio, come si sa, è uno dei sette colli di Roma sul quale
venne innalzato, per la prima volta, un tempio dedicato a Giove,
iniziato da Tarquinio Prisco, completato da Tarquinio il Superbo ed
inaugurato nel 509 a.C.
Secoli dopo, anche numerose città dell’Impero Romano, ebbero il loro
“Capitolium”. Il diritto di avere siffatti “ Capitolia” sembra fosse
riservato, almeno in origine, alle “coloniae ” romane.(1.1) Infatti, tutti
i “Capitolia“ sono di formazione romana…Al più antico tempio
tripartito, rinvenuto a Segni, segue un gruppo di “Capitolia” del II sec.
a.C., edificati in città che furono tutte di costituzione coloniale; anche
i templi della prima età imperiale furono costruiti soprattutto nelle
colonie.(2)
Se ciò vale anche per Capua, si può dire che il Campidoglio
capuano, verosimilmente, è sorto poco dopo la deduzione della
colonia voluta da Giulio Cesare nel 59 a.C. (la terza, le precedenti
ebbero vita effimera). Dedotta la colonia, l’anno successivo, il 58
101
a.C., alla città vennero restituiti, dopo 152 anni, i diritti e la
cittadinanza che aveva perduto per aver dato aiuto ad Annibale.
Successivamente con Augusto, dopo la battaglia di Azio (31 a.C.), la
città assunse il titolo di Colonia Julia Augusta Felix Capua.
L’età di Augusto fu l’età dell’oro celebrata dalla poesia e dall’arte;
l’età di un periodo di pace e di prosperità. La Pax Romana durò circa
200 anni dal 27 a.C. al 178 d.C. dall’imperatore Augusto alla morte di
Marco Aurelio. In questo periodo l’economia rifiorì in tutte le
province dell’Impero. L’italico ingegno ebbe nuova vitalità
nell’edilizia pubblica e privata: e, non solo a Roma, ma in tutto
l’Impero, fu un prosperare di templi, di altari, di domus.
E forse, proprio in questo periodo venne costruito o, più
realisticamente, venne restaurato o ingrandito il tempio sul
Campidoglio dell’antica Capua, dedicato, qualche anno dopo, da
Tiberio, successore di Augusto,.
Che a Capua ci fosse il Campidoglio, tempio dedicato al culto di
Giove, la più importante fra le divinità del pantheon romano, si
ricava dalle fonti letterarie.
- Silio Italico, (poeta romano nato il 25 d.C.): “Il Campidoglio mostra
i fertili campi Stellati ed indica le pianure e le rigogliose messi”. (
Silio I., XI 265)
Dicendo: mostra i Campi Stellati ed indica le pianure, il poeta fa
intendere a chi legge, che il Capitolium si trova in alto: e quale
miglior punto di osservazione del monte Tifata: ai suoi piedi l’intera
pianura fino al mare.
- Tacito (55-120 d.C.): “Cesare (cioè Tiberio nel 26 d.C.) si decise,
finalmente, a recarsi in Campania, col pretesto di dedicare presso
Capua un tempio a Giove ed un altro presso Nola ad Augusto” .(Tac.
Annali IV 57)
- Svetonio Tranquillo (nato forse nel 69 d.C.): Tiberio, “percorsa la
Campania e dedicati a Capua il Campidoglio e a Nola il tempio di
Augusto, questo aveva indicato come motivo del viaggio, si recò a
Capri”.(Svet. La vita dei Cesari, Tiberio 40)
Svetonio, inoltre, ci informa del fatto che, quattordici anni dopo
essere stato dedicato da Tiberio “ Il Campidoglio di Capua venne
colpito da un fulmine il giorno delle idi di marzo cioè il 15 marzo del
40 d.C. Nello stesso giorno, 83 anni prima, era stato ucciso
Cesare.(Svet., Caligola, LVCII,2).
102
- La tavola Peutingeriana: pone il tempio di Giove Tifatino sul
Tifata a sud est del tempio di Diana.
Anche studiosi ed eruditi a noi più vicini hanno tramandato
l’esistenza del Campidoglio e del tempio di Giove, ma con notizie a
volte discordanti fra loro. Infatti:
- Pratili colloca il tempio di Giove Tifatino nel paesino di
Piedimonte sopra Caserta
- Michele Monaco dice che ivi sorgeva il foro
- Ottavio Rinaldi indica il carcere
- Cammillo Pellegrino egregio studioso capuano di cose antiche ,
autore dell’”Apparato delle Antichità di Capua, cita “…l’Itinerario del
Peutingero, in cui vedesi descritto il nome & il tempio di Giove
Tifatino sopra l’Oriental punta dello stesso monte Tifata.”.
- J. Beloch pone il tempio di Juppiter Tifatinus a sud-est del tempio
di Diana “forse sulla costa delle Monache sopra S.Prisco”, e annota
pure “La vicina località di Casanova nei documenti medievali è
chiamata “Casa Iovis ”.
Poi aggiunge: È difficile immaginarsi un Capitolium nella pianura.”.
(3)
Ma, ugualmente, risulta difficile pensare che ogni qual volta un
fedele voleva rivolgere la sua preghiera a Giove, se ne andasse nel
tempio sulle falde del Tifata, distante 10 km e più dalla città.
Allora, è lecito supporre, che un tempio dedicato a Giove, fosse
stato innalzato anche nella città.
Comunque sia, il Capitolium nella città di Capua c’era.
Non vi sono notizie certe sulla struttura architettonica del tempio.
Piace immaginarlo accessibile per una ampia e alta scalinata,
imponente nella struttura, edificato su un alto podio a sua volta
poggiante su un rialzo di alcuni metri, appositamente realizzato, e
quindi dominante l’intera città, la quale si presentava, come diceva
Cicerone, “planissimo in loco esplicata” – “ con le case distese
riposatamente nel piano” (4)
E considerando il piano di calpestio della domus di via Pezzella,
sottoposta alla strada attuale, ed il piano di calpestio del Museo dell’
Antica Capua, facilmente si nota il dislivello esistente fra le abitazioni
della città ed il tempio di Giove.
103
Al tempo stesso, è stato dimostrato che esisteva anche un
santuario, dedicato a Giove Tifatino, sulle falde orientali del monte
Tifata in contrapposizione al tempio di Diana Tifatina innalzato ad
occidente. Il suo ritrovamento
avvenne nel 1997, grazie
all’occasionale rinvenimento di tre lamine plumbee, con dediche
votive a Giove Tifatino, che vennero consegnate alla Sopraintendenza
di Napoli e Caserta, (4.1) ed al lavoro della squadra guidata dalla dott.
Valeria Sampaolo della Sopraintendenza Archeologica di Caserta,
nel punto indicato da J. Beloch come Castello diruto, sul monte
Tifata a quota 526. La costruzione di questo edificio si fa risalire al
III o II sec. a. C.
Forse il tempio esisteva già quando Annibale sostò a Capua nel 211
a.C.
Il culto degli antichi dei, e quindi anche quello di Giove Capitolino
resistette all’incirca fino al IV sec. d.C.
Successivamente, nel 410 d. C, il tempio ebbe a soffrire ingiurie dai
Visigoti di Alarico, e in misura maggiore, nel 455 dai Vandali di
Genserico i quali rasero al suolo le mura della città, “la
saccheggiarono e la distrussero, abbattendo quasi tutti gli edifici
pubblici e privati.”(5)
Inoltre, la nuova religione cristiana era stata accettata ormai da
più di cento anni.
Nel 315 Costantino il Grande vi aveva fatto costruire una basilica
dedicata ai Santi Apostoli Pietro e Paolo.
Nel 432, S. Simmaco aveva edificato un nuovo tempio
dedicato alla Vergine Maria: la chiesa di S. Maria Maggiore.
LA TORRE DI S. ERASMO
Il tempio capitolino, ormai distrutto, venne abbandonato, spogliato
delle sue cose più belle, che a poco a poco vennero utilizzate in altre
costruzioni, e così oggi “di esso sopravvive gran parte dell’elevato a
tre celle, costruito su di un alto podio, con paramento in opus
testaceum (mattoni e tegole)”. (6)
104
Nel luogo ove sorgeva il tempio “ furono trovati magnifici marmi,
ed intorno si vedevano grosse colonne infrante, fregi, capitelli e
basamenti rotti ed altre reliquie magnifiche”.
Verso l’anno 866, l’abate Giosuè e i monaci di S.Vincenzo al
Volturno chiesero ed ottennero da Ludovico Imperatore, ”le colonne
ed i marmi sopravvanzati alla distruzione dell’ 841. Quei bravi
monaci vollero profittare della confisca per ottenere dall’ Imperatore
le 50 colonne, che realmente ottennero. Che poi dal tempio di Giove,
dal Campidoglio, fossero state tolte le cinquanta colonne, lo attesta il
celebre Arcivescovo, Cesare Costa; il quale ne lasciò notizia nello
schizzo, dipinto sul muro dell’episcopio di Capua, insieme alla
topografia della <vecchia città>, nell’anno 1595.
Ciò assicura lo stesso Pellegrino, che, poi, fece incidere su una
lastra di rame da un cesellatore tedesco la carta di Cesare Costa”. (6.1)
Oltre ai marmi scavati da Monsignor Costa, nel 1603, il Cardinale
Bellarmino Arcivescovo di Capua, ne rinvenne altri, coi quali adornò
le due cappelle di S.Agata e di S. Francesco, nell’Arcivescovado.
Quivi, nel Campidoglio, come riferisce il Vecchioni, “si trovò la
statua della Dea Minerva in stato di perfetta conservazione, la quale fu
donata ai signori Vitelleschi e mandata in Roma, e fu rinvenuta l’altra
statua mancante del capo e del braccio, che dall’abito di cacciatrice,
col dardo in mano e la cerva ai piedi, fu riconosciuta per Diana
cacciatrice. Essa fu venduta in Napoli, per il Museo di Adriano
Guglielmo Spadafora”,
NOTA: Adriano Guglielmo Spadafora o Spatafora (1496 – 1586) era un celebre
antiquario* che viveva a Napoli nei pressi della chiesa di S. Giovanni Maggiore. Nel
1536, era stato nominato sovrintendente degli Archivi Reali di Napoli. Uomo di vasta
cultura, zio materno di Giovan Battista (della) Porta, profondo conoscitore e amante
delle antichità, allestì nella sua casa un ricca collezione di reperti, statue e ogni altra
cosa che sapeva d’antico, acquistati dappertutto.
“…la casa di Adriano Spatafora, ch’esso chiamò Pusillam domum, ma grande e bella
per le cose eminenti che vi erano…. Questo gentil homo vecchio di novant’anni e
vecchio senza infermità di vecchiaia…”. (Giulio Cesare Capaccio - Il Forastero –
pag. 855).
* A quell’epoca Antiquario significava: Colui che attende alla conoscenza delle
cose antiche
Già prima di Spatafora, vi erano stati altri collezionisti che facevano di tutto pur di
posseder antichità. Presso la casa di Diomede Carafa vi era :”..la testa di Annibale
ritrovata in Capoa fra bellissimi ornamenti di marmo nel podere di un prete da chi (=
dal quale) fu venduta al Cardinal Pietro Aldobrandini”. (G.C.Capaccio – op.cit.
pag.854)
105
Ma “quanto di bello avea in statue e medaglie Adriano Spatafora nostro antiquario,
tutto ciò che raccolse, s’inghiottì il mare in una nave che (il vicerè spagnolo) **
mandò a Spagna per abbellire la sua casa”. (G.C.Capaccio op. cit. pag. 476).
**Il vicerè spagnolo è Pedro Afan de Ribera. Prima della sua morte, avvenuta a
Napoli il 2 aprile 1571, spedì molte antichità per abbellire “la casa de Pilatos” a
Siviglia.
Questa dimora spagnola è il più sontuoso palazzo della città costruito agli inizi del
XVI sec. di proprietà di Don Fasdrique Enrique de Ribera, zio del vicerè, morto senza
eredi diretti.
Suo nipote Pedro Afan de Ribera, nel tempo trascorso a Napoli come vicerè (dal 12
giugno 1559 - al 2 aprile 1571), si prodigò per riempire il palazzo di Siviglia e i suoi
giardini di statue e antichità provenienti dalle località più celebri come Baia, Cuma,
Pozzuoli, Capua, Pompei, ecc, con l’aiuto di Adriano Spadafora.
Alcune di queste opere giacciono in fondo al mare, per via di un naufragio avvenuto
nel 1567 .
Il nipote di Adriano Spatafora, Gian Vincenzo (della) Porta (1532?- 1603?),
personaggio importante conosciuto non solo a Napoli, (ricoprì la carica reale di
scrivano di mandamento), seguì l’esempio dello zio nel collezionare libri, statue ed
anticaglie varie.
Probabilmente ciò che restò delle raccolte, alla morte di Adriano Spatafora, fu
acquisito dal nipote.
Anche il Granata riporta: “..…ognun vede che gran pezzi di
antichità si conservano, volte mirabili, archi, e diverse antichissime
strutture di una straordinaria gagliardia …” (8).
Sull’alto podio dell’antico tempio, presumibilmente nei primi anni
della loro venuta, intorno al 600 d.C., si stanziarono i longobardi e vi
adattarono una fortezza, o forse solo una torre di guardia, che attese
per molto tempo, al suo compito difensivo.
Ma perché si chiama Torre di S. Erasmo?
S. Erasmo, “secondo la leggenda, fu vescovo di Siria alla fine del
3° sec., torturato durante la persecuzione di Diocleziano, fu
miracolosamente trasportato presso Formia, dove sarebbe morto nel
303 per le ferite ricevute. Dunque S.Erasmo è il Santo di Formia. Il
suo culto, diffuso anche fuori d’Italia, forse risale al sec. IX.. E’ il
Protettore dei marinai”. (9)
106
Si può ritenere che, alla venuta dei longobardi, fra i ruderi del tempio
o già esistesse una cappella, dedicata al Santo ed il luogo prese il Suo
nome: Torre di S. Erasmo.
Nicola Teti nella sua opera ci tramanda: “…sulle rovine di questo
tempio fu innalzato il sacello di S. Erasmo, uno dei più rinomati
Vescovi della Capua antica. In questo punto fu elevata la Torre che
dal nome del santo vescovo fu detta di S. Erasmo”. (9.1)
Vi è una ipotesi che spiega perché il sacello o tempietto o
cappella, fosse dedicata a S. Erasmo, protettore dei marinai. Presso
l’anfiteatro capuano era in uso il velario, una grande copertura mobile
formata da vari teli, che difendeva gli spettatori dai cocenti raggi del
sole. Questo velario veniva manovrato, come vere e proprie vele, dai
marinai di stanza presso la loro scuola nei pressi di Miseno (oggi
Miliscola = militum schola). Verosimilmente, furono i marinai di fede
cristiana a costruire un tempietto o una edicola dedicandola al Santo
loro protettore.
Durante le lotte intestine dei Longobardi capuani e beneventani
per la successione nel Ducato, nell’ 841, assoldati da Radelchi I di
Benevento, i Saraceni, agli ordini di Halfun, loro capo di origine
berbera, che divenne, poi, emiro di Bari, saccheggiarono e distrussero
completamente Capua. La popolazione che riuscì a sopravvive alla
loro furia, fuggì, rifugiandosi sul colle Palombara al di là del fiume
Volturno, (dove pochi anni prima il conte Landolfo I aveva costruito
un castello fortificato a cui venne dato il nome di Sicopoli in onore di
Sicone, principe dell’intera Longobardia Minor). Pochi fecero ritorno
nella ormai non più esistente città, così distrutta che si preferì
costruirne una nuova e in un luogo più sicuro, su di un’ ansa del
Volturno dove aveva avuto sede il porto fluviale di Casilinum.
Nasceva così la nuova Capua.
La Capua Vetere, ridotta a poche casupole sparse fra ruderi, si
divise in tre singoli casali: Berolais, S.Maria Maggiore, S.Pietro in
Corpo, dipendenti dalla nuova città e abitati per lo più da contadini
e bifolchi, che non smisero mai di coltivare la loro unica ricchezza: i
fertili appezzamenti di terreno ubicati nei dintorni delle proprie
abitazioni.
107
A poco a poco le poche casupole di Berolais lasciarono il posto ad un
insediamento più grande che, sviluppandosi nei pressi della Torre,
prese anch’esso il nome di S. Erasmo.
Erchemperto, monaco benedettino cassinese, nativo di Teano, nella
sua Historia Longobardorum Beneventarum.( cap. 60 ) nomina la
Torre (chiamandola Santo Eremitaggio), narrando l’assedio e
l’espugnazione a cui fu sottoposta da Atanasio II (vescovo e duca di
Napoli) quando, nel 886, cercò invano d’impadronirsi di Capua.
Poco dopo l’anno Mille arrivarono nelle nostre contrade i
Normanni, e quando divenuti principi di Capua, nel 1052, si
insediarono stabilmente, occuparono la struttura longobarda della
Torre, modificandola secondo il loro costume.
I Normanni avevano un particolare modo di costruire le strutture
difensive: infatti su un rialzo artificiale veniva impiantata una torre di
guardia, di solito a pianta quadrata, circondata da una palizzata
circolare, talvolta con un camminamento di ronda posizionato presso
la massima altezza. La torre, che ospitava i soldati della guardia e
veniva utilizzata come estremo rifugio in caso di attacco, era
collegata ad un piccolo insediamento fortificato, non sopraelevato,
anch’esso protetto da un fossato. (10)
Successivamente, la fortezza, nuovamente modificata, divenne
residenza reale sotto gli Svevi, e come tale, ne usufruirono anche gli
Angioini, e gli Aragonesi.
Purtroppo, anche in questo caso, non abbiamo alcun elemento, che
possa darci un’idea del suo aspetto, malgrado le varie citazione nei
documenti. Solo una illustrazione dell’abate G.B. Pacichelli, nei
primissimi anni del 1700 (11)) mostra la costruzione angioina alterata
dall’intervento di epoca aragonese. (12)
Si nota infatti, una torre quadrata merlata, senza base scarpata, con
affiancata una difesa bassa composta da torri cilindriche e cortine
merlate, tutte con base scarpata. In nessun caso dei due edifici
possiamo identificare la residenza angioina; il primo costituiva,
probabilmente la preesistenza normanna, e nell’altro riconosciamo
l’architettura difensiva tipica del Quattrocento, (13) cioè opere di
rinforzo effettuate durante il periodo aragonese.
108
La corte, cioè lo spazio di cui usufruiva il regio palazzo, era
delimitato, per grosse linee, dalle vie che chiamate con i nomi attuali
sono: via Roberto d’Angiò, p.za S. Francesco, c.so A. Moro, via
Anfiteatro, p.za S. Erasmo, via P. Morelli. In questo spazio vi erano
freschi giardini e orti coltivati ad uso della corte reale e di tutti coloro
che gravitavano intorno ad essa.
Quando, dopo la disfatta di Manfredi a Benevento nel 1266, gli
Angioini ottennero il regno di Napoli, il re Carlo I D’Angiò istituì un
archivio per conservare le notizie di tutto ciò che avveniva nel reame.
La Torre servì come edificio adatto a conservare i documenti..
In esso furono custoditi i registri della cancelleria che costituirono
così l’Archivio Storico Angioino
Il primo registro, conserva gli atti datati dal dicembre 1268, cioè
scritti subito dopo la battaglia di Tagliacozzo, e la cattura di
Corradino di Svevia.
I documenti, da principio, vennero stilati in latino, ma poco dopo,
oltre al latino, venne introdotta, in alcuni settori della Cancelleria
Angioina, anche la lingua francese come lingua ufficiale. (14)
I suddetti registri furono trasferiti da un luogo all’altro e per un certo
periodo furono conservati anche presso la Torre di S. Erasmo.(15)
divenuta archivio reale con diploma del 15.9.1275.
Inoltre, il re Carlo “crea nella Torre la curia civile che, cinque anni
dopo, con diploma del 29 aprile 1280, venne trasferita a Napoli nel
Castel dell’Ovo. Ordina per tale scopo la costruzione di una casa
presso la Torre”.(15.1)
L’ordine venne dato al cancelliere Leonardo d’ Acacia.(15.2)
Nel 1275, la custodia della Torre venne affidata prima a Raimondo di
Ponzio (15.3), e nel 1278 Nicola del Poggetto fu nominato custode
dell’ intero complesso.
Nello stesso anno, con diploma del 4 marzo, l’edificio venne destinato
a regia scuderia. (16)
La famiglia reale passava buona parte dell’anno presso la Torre di
S. Erasmo ed in quel luogo Carlo D’Angiò espletava le sue funzioni
regali e molti furono i documenti angioini rilasciati da questa
residenza reale, e da essi si ricavano interessanti notizie storiche,
come per esempio:
109
- 20 aprile 1278: Re Carlo II ordina al Segretario del Principato di
Terra di Lavoro di fornire tutto il necessario agli ambasciatori del re
di Tunisi. (17.1)
Un notevole avvenimento si ebbe sempre nel 1278,
verosimilmente in uno dei mesi estivi, (non si conosce con esattezza
la data di nascita del re).
Fra le mura della Torre, nacque il terzogenito di Carlo II e della regina
Maria d’Ungheria, Roberto, che divenne il terzo re della casa
D’Angiò. Venne battezzato, l’anno seguente, nella Chiesa di S. Maria
Maggiore, dal Cardinale Marino Filomarino.
Re Roberto, anche da re non dimenticò mai la sua città nativa per
la quale nutriva un notevole affetto ed alla quale assegnò notevoli
benefici, come la fiera annuale di settembre che tanto beneficio
apportò ai cittadini del casale.
“Questo re soleva in tempo di state venire a deliziarsi nel casale di
S.Maria di Capua nella Torre di S. Erasmo, la quale nel suo largo e
chiuso territorio ha fatto rinvenir frammenti di colonne, ed altre
gloriose vecchiezze. Nell’arco del portone mostra ella sollevata le
imprese regali Angioine”. (18)
Il 7 gennaio 1295 nella Torre, Bartolomeo di Capua, protonotaro
del Regno, sottoscrive, firmandosi “Miles domini Papae”, il
programma politico di Bonifacio VIII (18.1), Benedetto Caetani di
Anagni, eletto Papa in Napoli il 24.12.1294.
Non si sa con precisione in quali giorni il novello papa arrivò nella
residenza angiona di S. Maria.
Molto probabilmente, egli sostò nella Torre di S. Erasmo, proveniente
da Napoli, sul finire di dicembre 1294 e fino ai primi giorni di
gennaio 1295, per dirigersi poi verso Roma, dove venne solennemente
consacrato ed incoronato verso la fine di gennaio.
Re Roberto, durante il suo regno, concesse anche altri benefici alla
sua città natale, e fra essi si ricorda:
- Il diploma del 5 dicembre 1334, con cui ordina di fare riparazioni
alla Torre di S. Erasmo, e di costruire un ospedale presso detta Torre,
“per aiuto de’ poveri e ricettacolo degli infermi.” Per questi lavori,
con documento analogo del 1335, si dispone il pagamento del
compenso di 21 tarì a Luca di Viterbo.
110
Poco dopo, nel 1336, fece eseguire alcune riparazioni all’ospedale e,
su richiesta della moglie, la regina Sancia di Maiorca, vi fece edificare
la chiesa, dedicata sempre a S. Erasmo (19)
Questa chiesetta, che aveva la cella campanaria sulla facciata,
divenuta ormai fatiscente e non riparabile, venne demolita nel 1910
quando la nuova chiesa, costruita poco distante dalla prima, e sempre
intitolata al Santo, era stata completata e resa funzionate.
Nel successivo periodo aragonese, la Torre “vien munita da
baluardi, fosso e contro scarpa; prestando per un ponte ingresso
nell’area, ove sta consacrata al Santo e dotata la Cappella. Gode
sontuose scuderie. Mostra nel marmo i gradi, sala confortevole per le
comiche rassembranze. Quarti comodi e abitati dai medesimi Re, ed
ogni opportunità felicitata da dolcezza di clima”.( 20)
Ai reali aragonesi piaceva recarsi nella Torre di S. Erasmo, ed in essa
risiedevano, di solito, durante i mesi estivi. Il re Alfonso d’Aragona
“a motivo di svago sostava spesso anche alla Torre di S. Erasmo nel
Casale di S. Maria Maggiore, e di qui si recava nella tenuta di Arnone,
ove si era fatto costruire un magnifico edificio per le cacce” (21)
Nel 1496, il re, per i servigi resi durante la guerra contro i
fiorentini, diede in possesso a Luigi Gentile di Capua, di origine
genovese, l’intero immobile, ricco di “antichissime strutture di una
straordinaria gagliardia; servita più volte per fortezza e per difesa
della città a tener lungi i nemici, che di sassi e di dardi venivano ben
caricati da sopra di questa Torre in occasione di qualche ripresaglia o
incursione alla città, siccome per difesa ben valida e per le
fortificazione sicura servì poi agli Aragonesi da’ quali a gentiluomini
della famiglia Gentile fu donata…”.( 22).
Una iscrizione su marmo visibile ancora a metà del settecento, e
ritrovata nei pressi della Torre così recitava
AELIUS LOYSII GENTILIS CAMPANI
FILIUS TURRIM HANC ANTIQUITA
TE COLLAPSAM ORNAMENTO RE
STITUIT ANTRAQ CUM HORTO
APOLLINI MUSIS GENIOQ DICAVIT
111
Trad: Elio figlio di Luigi Gentile Campano restaurò abbellendola
questa torre in rovina per l’antichità e dedicò gli antri con l’orto ad
Apollo, alle Muse, e al Genio (22.1)
Successivamente passò di mano in mano ad altre famiglie nobili,
fra cui la famiglia Faenza e la Torre venne chiamata appunto Torre di
Faenza.
Dal 1602 al 1605, durante i caldi mesi estivi, S. Roberto
Bellarmino arcivescovo di Capua, si trasferiva con i familiari in S.
Maria Maggiore, il casale più popolato della diocesi con 900 famiglie,
e prendeva in fitto la Torre.
In essa compose la celebre “Spiegazione del simbolo” affinché i
parroci che non sapevano predicare, leggessero dopo il Vangelo la
spiegazione di un articolo, specialmente quando conveniva coi misteri
dei giorni festivi” (A. Iodice - S. Roberto Bellarmino a Capua - pag.
97)
Nei tre anni del suo governo, egli partiva da questo luogo per far
visita a tutte le chiese dei 40 casali della diocesi a lui affidata,
pronunciando almeno un discorso in ciascuna di esse.
Nota: S. Roberto Bellarmino (1542 – 1621) fu gesuita, uno dei più insigni teologi
della controriforma, e predicatore instancabile.
Fu chiamato, dal Santo Ufficio, a dare il suo parere nel processo a Giordano Bruno, il
filosofo nato a Nola, che era stato accusato di eresia per aver concepito un Universo
infinito, la pluralità dei mondi e per aver contrapposto la rivoluzione copernicana alla
teoria tolemaica.
Dalle sue opere, il Bellarmino individuò molte affermazioni eretiche, alcune riferite
alla teologia, altre alla filosofia.
Dopo questi anni, inizia un lento, inesorabile declino che ridusse
l’edificio in uno stato di degrado notevole
Nel 1718, diede alloggio ai cavalleggeri austriaci del reggimento
Tisch, mentre i cavalli erano sistemati nel non lontano criptoportico,
adibito a stalla.
Nel 1738, con l’avvento della casa borbonica, vi fu di stanza il
reggimento Rosciglione, per circa un decennio e la residenza Faenza
ospitò il Colonnello del Reg.to della Regina, Don Ferdinando
Caracciolo.
112
Nel 1740 nell’area della Torre, venne ritrovata una iscrizione mutila
“…ianae capitoli…”
Successivamente il complesso venne restituito al demanio regio, nel
1760 fu definitivamente abbattuto il mastio. Al suo posto, a spese
della Università di S.Maria di Capua, tra il 1851 e il 1858, demolendo
edifici antichi, venne costruito un nuovo casamento destinato
all’alloggio di militari.
“Il vecchio edifico necessitava di un risanamento edilizio in quanto - a
causa dell’umido che penetrava dalle finestre mancanti di tele e vetri i soldati che in esso alloggiavano soffrivano di oftalmia.” (23) La
caserma restò in uso fino al 1860.
Per quasi la metà dell’800, il tratto di via, che sotto il nome di
strada di S. Francesco, andava dall’incrocio con via Torre fino alla
piazza omonima, si mantenne in uno splendido isolamento.
Praticamente, non vi erano abitazioni. Quando la corte del regio
palazzo, divenuta proprietà del demanio, venne messa in vendita, una
parte di essa venne acquistata dall’ Avv. Filippo Teti, abruzzese di
origine, il quale con i proventi del suo lavoro, vi costruì, nel 1839,
prima fra tutte, la sua residenza con l’ampio cortile e con lo splendido
giardino impiantato là dove un tempo era il pavimento marmoreo
dell’orchestra e il semicerchio delle file di sedili, dell’antico teatro di
Capua. (23.1) In esso, fra le ben curate, artistiche aiuole, facevano
capolino rocchi di colonne, capitelli ed altre testimonianze di antichi
monumenti. L’abitazione dell’avv. Teti, ospitò Garibaldi durante i
giorni di fine settembre e i primi di ottobre 1860, ed in essa venne
firmata la resa di Capua il 2 novembre 1860, come ricorda una lapide
posta sulla facciata dai cittadini sammaritani nel giorno
dell’anniversario della battaglia: I ottobre 1886.
Di fronte all’ingresso di villa Teti, si apriva un grande giardino
Ortolizio sempre di proprietà del signor Teti. In questo spazio alcuni
studiosi hanno supposto l’ubicazione di uno dei Circhi dell’antica
città.
Infatti il Pratilli riferisce che nell’archivio Capitolare di Capua si
trova un documento del 1091 in cui è riportato:“In pertinentiis Villae
S. Erasmi, et proprie ubi dicitur ad Circum”.
Ancora Giacomo Rucca, archeologo e nostro concittadino, cita una
113
scrittura “dell’anno 1537, ove sta espresso che il giardino, che si disse
una volta dei Musti, e poi del signor Giuseppe Tummolo, che
corrisponde a quello posseduto oggi dai signori Teti, veniva
anticamente chiamato ad ‘Circum ubi ejus antiqua cernuntur vestigia’.
Soggiunge sempre lo stesso scrittore che tale vestigia si ravvisano
nelle fondazioni di un muro circolare, che era stato riconosciuto da
Camillo Pellegrino e dal Vecchioni, quando il Pratilli, per
assicurarsene meglio, fece scavare e scoperse un gran muro di forma
circolare”.(N. Teti, op.cit. pag. 402).
Gli studiosi moderni, però non citano nessun circo.
NOTA: E’ certamente necessario aggiungere ciò che scrive degli scrittori di cui sopra
il Prof. Julius Beloch, (1854 – 1929) docente di Storia Antica presso l’Università di
Roma.
“Ciò che Camillo Pellegrino, figlio di Alessandro (1598 – 1664), aveva tralasciato di
scrivere nelle sue opere fu ripreso, da Alessio Simmaco Mazzocchi (1684 -1771)
nella sua famosa opera In mutilum Campani amphitheatri titulum, Neapoli 1727,
scritta su commissione della città di Capua e stampata a spese di questa. E’ pur
sempre il miglior libro che possediamo sulla storia e la topografia dell’antica Capua.
Accanto al Mazzocchi sta il suo contemporaneo ed amico Francesco Maria Pratilli
(1683 – 1763), del cui funesto influsso ancora oggi in parte soffrono la topografia e
l’epigrafia campane. Il Pratilli ha falsificato sistematicamente iscrizioni, documenti e
notizie di rinvenimenti e li ha poi manipolati in entrambe le sue opere, Via Appia,
Neapoli 1745 e Consulares Campanile, Nespoli 1757. Le sue presunte fonti
principali, Fabio Vecchioni (Antichità di Capua, in 24 libri!), Silvestro Ajossa,
Primicerio d’Isa, Francesco Antonio di Tommaso, stanno naturalmente sullo stesso
piano del Pratilli (cfr. Mommsen, I N., pp 185 – 186). Lo stesso Mazzocchi non è
immune da ‘pratilliana’; completamente sotto l’influsso del Pratilli stanno Francesco
Granata, Storia civile di Capua, 3 volumi, Napoli 1752-1756; Ottavio Rinaldi,
Memorie istoriche della città di Capua, 2 volumi, Napoli 1753-1755. e specialmente
Rucca, Capua Vetere, Napoli 1828, che peraltro è una monografia utilissima.”.
Infine, nel 1864, la caserma, detta quartiere nuovo, venne assegnata
al ministero dell’Agricoltura e destinata all’allevamento di cavalli
“stalloni per la riproduzione e la selezione della razza equina: nacque
così l’Istituto di Incremento Ippico, destinato a fornire cavalli a tutta
l’Italia meridionale” (24), oltre che alla cavalleria dell’esercito italiano.
Tale compito viene espletato fino al 1965.
Il 12 dicembre 1889 Amedeo di Savoia, duca d’Aosta, quale
comandante del 10° Corpo d’Armata, passò in rivista il Reggimento
di Cavalleria “Savoia”, alloggiato appunto nel Quartiere Nuovo (25)
114
Su invito del sindaco Liguori, il Quartiere Nuovo, quale sede
dell’Istituto di Incremento Ippico, il 25 agosto 1905, ricevette la visita
dei Sovrani, Vittorio Emanuele III e della regina Elena di
Montenegro, sua consorte, che si trovavano a Caserta per assistere alle
grandi manovre.(26). In quella stessa occasione i regali presero visione
dell’erigendo Ossario dei Caduti della Battaglia del 1° ottobre 1860,
inaugurato qualche mese dopo.
Nel 1981 l’edificio, passato alla Regione Campania è stato
affidato alla Soprintendenza Archeologica per costituirvi l’attuale
Museo: (27) Museo dell’Antica Capua, inaugurato nel 1995.
Note Bibliografiche
(1) ( J. Beloch – Campania – pag. 412)
(1.1) (La Piccola Treccani vol. II pag. 590)
(2) (da Roma Antica Vol. I pag 194 ed. De Agostini)
(3) ( J. Beloch - Campania pag. 406 ed. Bibliopolis)
(4) (A. Maiuri - Passeggiate campane pag. 149 – Sansoni Edit.)
(4.1) ( Marco Minora – Guida all’Antica Capua)
(5) (A.Perconte – Capua pag. 38)
(6) (G. P. Tabone - Guida all’Antica Capua , pag.35)
(6.1) (Giacomo Stroffolini – La Contea di Capua, pag.42)
(8) (Granata, Storia Civile della fedelissima Città di Capua, I tomo
pag. 111)
(9) ( Encicl. Biografica Universale – Treccani, vol 6. pag. 512)
(9.1) ( Nicola Teti - Frammenti storici della città di Capua Vetere )
(10) (Giorgio Albertini da Focus n°26 dicembre 2008 pag. 105)
(11) ( Il Regno di Napoli in prospettiva, ecc. opera in tre parti.
Edita a Napoli nel 1703- parte I , f 86)
(12) ( Lucio Santoro – Castelli Angioini e Aragonesi – pag 76 Rusconi Ed.)
(13) (L. Santoro op. cit. pag. 64).
(14) ( L.Santoro op. cit. pag. 48)
(15) ( L. Santoro op cit. pag. 46)
(15.1) (Filangieri R. I registri Angioini)
(15.2)( Minieri Riccio – Nuovi studi riguard. la dominaz. angioina –
Napoli 1876 reg. 22 f. 31)
(15.3) (Filangieri – I registri, ecc. vol XIII reg 70 n.67)
115
(16) (F.Palmieri – Santa Maria Capua Vetere vecchie immagini
e…note estempor- pag.25)
(17) (L. Santoro op. cit. pag. 44)
(17.1)( Filangieri- I reg. ecc, vol. XIX reg.81 n. 21)
(18) (Granata- Storia Civile della fedelissima città di Capua- 1752)
(18.1)(docum. del 7.1.1295 – da A. Perconte Licatese – S.Maria di
Capua. pag.112 n.12 o)
(19) (C. Minieri Riccio - Genealogia di Carlo II D’Angiò – pag. 194,
213 – Fornj Editore)
(20) (Granata op.cit.)
(21) (Granata op. cit. libro III p, 117).
(22) ( Granata op. cit. libro I p.112 e lib. III p,107)
(22.1) (A. Per conte – S.Maria di Capua pag.134 scheda n.47)
(23) (S.Maria C.V. – S. Casiello & A.M. Di Stefano – 1980 )
(23.1)(J. Beloch- Campania – pag. 395)
(24) (da Il museo Archeologico dell’Antica Capua – G. Ciaccia – E
Guglielmo pag.11)
(25) (A.Perconte – Santa Maria Capua Vetere – pag. 30)
(26) (A.Perconte – op. cit. pag. 36)
(27) (G.C. – E.G. op.cit.)
116
VIA GAETANO CAPPABIANCA
IL NOME: Piazza dell’Olmo (1700), via Municipio (1861), via
Gaetano Cappabianca (1925).
In essa si può riconoscere un
decumano dell’antica Capua.
Inizia all’incrocio con via A.S. Mazzocchi, al trivio di S. Anna,
così conosciuto per via dell’edicola che trovasi all’inizio della strada
sul lato destro. Termina al quadrivio formato con via Albana, via
Melorio e via Saraceni.
Piazza o Platea: è il termine con cui si indicava non solo la strada, ma
anche il rione in cui essa era situata. Nel 1738 a S. Maria si
contavano otto piazze: quella della Chiesa (che comprendeva S. Maria
Maggiore, p.za Matteotti), di S. Erasmo (che comprendeva via P.
Morelli, via Anfiteatro, via Campania), del Mercato (piazza Mazzini e
le strade ad essa adiacenti), di S. Lorenzo ( via ex Vitt. Emanuele oggi
via Gramsci, p.za della Valle, via d’Angiò, via Roma), della Croce
(via Mazzocchi, via Avezzana), del Riccio (via Riccio, via Latina, via
Saraceni, p.za F.lli De Simone), piazza dell’Olmo (via Cappabianca,
via Melorio fino al monastero degli Alcantarini o di S. Marco, e via
Albana nella parte che va dalla chiesetta della Concezione verso via
Torre), piazza di Casalnuovo (da piazzetta Immacolata a via Albana).
(1)
Alla fine del seicento e al principio del settecento, tutta la zona era
chiamata Piazza dell’Olmo, per il semplice fatto che nella strada vi
erano poche abitazioni: il palazzo del Balzo e qualche altro edificio,
intervallati da giardini e da orti. In questi spazi liberi erano sistemati
degli alberi di olmo, piante di alto fusto che servivano per creare il
fresco estivo, e anche per sostenere i filari di vite coltivata nei
giardini, ubicati alle spalle delle dimore, e negli spazi prospicienti la
strada. (2)
Nel 1740 vennero eseguiti lavori di pavimentazione “nella piazza
dell’Olmo che principia dalla chiesa dell’Imm.ta concett.ne ss.ma
(Immacolata Concezione Santissima) e tira verso occid.te sino al
117
palazzo del Sig. D. Ant.o del Balzo”, lavori eseguiti dagli appaltatori
delle strade Gennaro Tuosto e Francesco Micillo. (4)
Il palazzo ove dimorava, fin dalla nascita, Don Antonio Lorenzo
del Balzo, 4° duca di Caprigliano (per nuova concessione del titolo
nel 1749) di ramo collaterale dell’antica famiglia nobile venuta al
seguito dei d’Angiò, era in origine ad un solo piano (5) ed è ubicato
all’inizio della strada, all’incrocio di via Mazzocchi.
Sulla facciata del palazzo col numero civico 19, si trova la
seguente iscrizione:
FORTUNAS RERUM AUGMETUM
VIRESQUE TUENDI HEC
EADEM SPONDENT ASTRA DIANA
DIANA
ASTRA
SPONDENT
EADEM
Trad: la luna (diana) (e) le stelle
promettono
per la stessa via
FORTUNAS AUGMETUM RERUM QUE VIRES
TUENDI
HEC
le fortune, l’aumento delle sostanze,
e
le forze per custodire tutto ciò
Nota: - La dea Artemide dai greci veniva intesa come personificazione della Luna. A
Roma ella veniva identificata con l’antica dea italica e latina Diana, anch’essa
venerata come dea della Luna.
In epoca medioevale era considerata regina delle Stelle e della Luna, di ogni destino e
della fortuna
La credenza popolare ammette l’influsso delle fasi lunari sugli avvenimenti terrestri
Successivamente, nella seconda metà dello stesso secolo, la via
venne popolarmente chiamata anche “a chiazza e’ Napule” per i
palazzi che la ricca famiglia Di Napoli vi costruì.(3) La principale
dimora della famiglia Di Napoli era il secondo palazzo sulla destra.
Un’opera che può essere ascritta, senza dubbio, alla scuola
vanvitelliana tanto in auge in quegli anni. Le quattro facciate del
cortile riprendono il motivo architettonico del basamento bugnato e
gli alti e stretti balconi sono inquadrati fra lesene giganti (6).
Questo motivo architettonico è caratteristico della Reggia di
Caserta.
118
“Nel 1910 i fratelli Bernasconi ed il fotografo Augusto Reggiani, nei
locali terranei del palazzo Di Napoli, aprirono una sala
cinematografica che durò poco”. (7).
Dall’altro lato della strada, si nota un palazzo ottocentesco.
Sull’arco interno dell’androne, che si affaccia su di un primo
cortiletto, quale chiave di volta, incisa in un blocco di pietra bianca,
appare lo stemma della casa d’Angiò: un tappeto d’azzurro
disseminato di gigli d’oro, con in capo un rastrello rosso. Il rastrello
differenzia il ramo cadetto dei d’Angiò da quello principale della casa
reale di Francia. Ovviamente nel nostro i colori non appaiono.
Nel secondo più ampio cortile del suddetto edificio, si aprono
alcuni locali in cui si svolse l’operosa vita lavorativa di Leopoldo
Cappabianca.
Nato a S. Maria Capua Vetere nel 1904,
giovanissimo, appena diciassettenne, si impegnò in politica animato
da idee socialiste, tanto che fu tra i primi nel 1921 ad aderire al
Partito Comunista. Prese parte agli scontri tra fascisti e
socialcomunisti, avvenuti in piazza Mazzini il 18 settembre 1922, e
per questo venne arrestato passando così due anni in carcere.
Ovviamente venne considerato un sovversivo pericoloso, tanto è che
ogni qualvolta il Duce usciva da Roma per recarsi in qualunque parte
d’Italia, Leopoldo Cappabianca veniva relegato nelle patrie galere.
Per poter sopravvivere mise su una officina meccanica molto
attrezzata, ed anche un impianto di galvanizzazione e cromatura, fra i
primi, se non il primo, in Terra di Lavoro.
Il 5 ottobre 1943 fu tra i promotori del fatto d’armi con cui i cittadini
di S. Maria cacciarono via i soldati tedeschi di stanza nella nostra
cittadina
Del suo intrepido coraggio fu testimone il Ten. Mario Scarlato a cui,
per lo stesso fatto d’armi, il Municipio di S. Maria Capua V., nel
1992, conferì la cittadinanza onoraria.
Il Tenente Scarlato nel suo “5 ottobre 1943” così scrive: “Io non
cesserò mai di elogiare il virile comportamento di Leopoldo
Cappabianca che, con calma addirittura singolare, accovacciato dietro
il paracarro allo sbocco della via sulla piazza (via de Simone),
sorvegliava i movimenti del nemico lanciando bombe nella direzione
119
del monumento ove si tenevano ben celati gli unni. Io stesso fui ad un
certo momento trascinato dal sangue freddo con cui questo magnifico
combattente teneva testa agli avversari…”.
Nel 1945, Leopoldo si iscrisse alla locale sezione del Partito
Comunista, e venne eletto, in varie occasioni, consigliere comunale
(1947-52; 1970-80). Visse del suo lavoro e fu sempre un galantuomo
e un maestro di vita. Morì il 18 agosto 1983.
Dopo il 1860, la strada prese il nome di via Municipio poichè la
Casa Comunale, che fino a quella data era ospitata in alcuni vani al
piano terra del palazzo dei Tribunali prospicienti la piazza
Mazzocchi,(8) venne ubicata sulla sinistra della detta via, dove,
originariamente, esisteva la chiesetta di S. Carlo, alla quale era
abbinato un ospizio per i vecchi con un vasti giardini. Alla chiesetta
ed all’ospizio si giungeva percorrendo il vialetto che, fino a pochi
anni fa, portava il nome del santo, vicolo S. Carlo e che oggi invece
chiamasi vicolo Cappabianca.
Il complesso era retto dai Padri Serviti detti di Gerusalemme, gli
stessi religiosi del convento di S. Maria di Gerusalemme ad Montem,
situato sul monte Reggeto presso Bellona. (9)
La proprietà del Convento era stata reclamata dal monastero di S.
Patrizia di Napoli. Infatti nel 1818 era stato chiesto al Tribunale che
venisse rilasciato l’intero casamento con gli annessi giardini, al
succitato monastero. La vertenza si protrasse per circa un ventennio,
ma alla fine si risolse a favore del Comune di S. Maria Maggiore.(9.1)
In fondo al vicolo S. Carlo, verso la fine dell’800, alcuni ampi
locali ospitarono un generatore di energia elettrica, azionato da una
turbina funzionante a vapore, prodotto bruciando notevoli quantità di
carbon fossile. I fumi della combustione si disperdevano nell’aria
tramite una alta ciminiera, che, non usata ormai da molti anni, venne
abbattuta dopo il 1945.
Quando l’impianto smise di funzionare, perché l’energia elettrica
venne erogata da un impianto più moderno, e di diversa tecnologia,
installato in altra zona della città, una parte dei locali ospitò una
cabina di smistamento della corrente elettrica gestita dalla SEDAC,
mentre i locali attigui, precedentemente adibiti a sala macchine e
120
deposito carbone per il funzionamento del vecchio generatore,
ospitarono negli anni 20 e 30 del novecento, il cinema “Dopolavoro
Mazzocchi”, gestito dall’imprenditore Nicola Cortese. Dopo la guerra,
cambiata la gestione, fu chiamato “Cinema Aurora”; purtroppo, verso
la fine degli anni 40, chiuse i battenti. (10)
L’edificio della casa municipale, che forse era stato adibito
anche “a casino di caccia”, rimaneva all’interno di un
amplissimo giardino conservatosi quasi integro nella sua
estensione sino alla metà di questo secolo (XX) e che dopo ha
accolto la nuova sede del Tribunale, l’Archivio Notarile,
l’Ufficio Postale, la Conciliazione, P.za della Resistenza, ecc.”.
(11)
Costruito il nuovo Tribunale, venne aperto un varco mettendo in
comunicazione il vicolo S. Carlo con piazza della Resistenza appena
completata, e ottenendo così il collegamento diretto fra via
Cappabianca ed il centro della città.
Nel 1886, finalmente, il fabbricato divenne proprietà del Comune.
Esso si presentava, con “sei vani terranei ed undici al primo piano”.
Con delibera del 1887 venne deciso di eseguire una serie di
ampliamenti e ristrutturazioni che furono completate nel 1893.
Intanto, nel 1888 con “l’esproprio del giardino di proprietà
Bizzozzaro e di alcune casupole della famiglia Adinolfi, fu sistemato
lo spazio antistante”(12) che tuttora si affaccia sulla via Cappabianca, e
venne realizzato l’ ingresso attuale. (13)
Una migliore descrizione dell’edificio la dà il prof. Alberto
Perconte nella sua dettagliata e pregevole opera: Santa Maria Capua
Vetere pag. 90 dalla quale è tratto quanto segue:
“Costruito il portico, internamente, furono realizzati lo scalone
e la sala delle riunioni.
I lavori furono eseguiti dall’ ing. Emilio Santillo. Successivamente tra
il 1900 e il 1910, fu innalzato il secondo piano e rifatta in stile
neoclassico la facciata…. Nel piano terra, a bugnato liscio, si aprono
tre archi, che immettono nell’atrio dell’ingresso, e due finestre; il
primo piano ha tre grandi balconi non aggettanti, separati da quattro
coppie di semicolonne corinzie e due balconi con timpano triangolare;
121
il secondo piano ripete i motivi del primo, ma i balconi centrali sono
più piccoli; nel timpano, appena accennato, campeggia tra due leoni lo
stemma civico”.
Il terremoto del 1980 lo rese inagibile ed è tuttora in via di
ristrutturazione.
Poco dopo, sul lato sinistro della strada, è ubicato il palazzetto che
vide i natali della religiosa Giulia Salzano. Nacque il 13 ottobre 1846
da Diego , capitano dei Lancieri di Ferdinando II e da Adelaide
Valentino. Rimase orfana del padre all'età di quattro anni e venne
affidata alle Suore della Carità del Regio Orfanotrofio di S. Nicola la
Strada, dove restò fino all'età di 15 anni. Nel 1865 si trasferì con la
famiglia a Casoria e avendo conseguito il diploma magistrale, insegnò
nella scuola comunale della cittadina.
Dopo una vita spesa ad istituire varie opere religiose fondò, a
Casoria, l'Istituto delle “Suore Catechiste del Sacro Cuore”, che oggi
opera in varie parti del mondo, si spense il 17 maggio 1929.
Proclamata beata il 27 aprile 2003 da Papa Giovanni Paolo II , è stata
proclamata Santa il 17 ottobre 2010.
La ricorda una lapide posta sulla facciata della casa natale.
In tempi recenti, è stata costruita anche un’altra strada, che si apre
lungo il lato destro del fabbricato comunale. E’ intitolata alla memoria
del sen. Francesco Lugnano. Per realizzare la quale, purtroppo, fu
abbattuta la casa in cui vide i natali, il 4 dicembre 1853, Errico
Malatesta. Il padre, Federico, era nativo di Napoli; la mamma,
Lazzarina Rastoin, era di origine Marsigliese. Errico nacque
nella nostra città, perché, sembra, che il genitore qui avesse una
attività legata alla concia delle pelli. Comunque sia, nel 1868 la
famiglia si trasferì a Napoli ed Errico, quindicenne, compi i suoi
studi presso un collegio dei Padri Scolopi. Successivamente,
all’Università di Napoli si iscrisse alla facoltà di medicina per
tre anni, ma abbandonò gli studi per dedicarsi completamente
alla politica. Visse a S. Maria “proprio nell’epicentro temporale
della storia risorgimentale sammaritana, che non potè non
incidere sul suo immaginario di ragazzo colmo di Spartaco e di
122
Garibaldi, come riconobbe espressamente”.
Aveva fatti suoi
gli ideali politici mazziniani, e fu “uno dei più grandi, tenaci, e fedeli
apostoli di libertà, di emancipazione, di fraternità, che la storia tra
Ottocento e Novecento ricordi, noto e studiato in tutto il mondo” (15).
Morì a Roma il 20 luglio 1932.
(14)
Vi sono moltissimi scritti che parlano di Errico Malatesta in modo
molto più esauriente di quanto possa io esprimere in queste poche
righe, e a cui rimando coloro che avranno la ventura di leggere questi
miei appunti.
Poco più avanti, quasi dirimpetto all’ingresso del Municipio,
all’angolo di via Riccio, (aperta nel 1832) è ubicato il palazzo
appartenuto alla famiglia Di Napoli, originariamente ad un solo piano
e ceduto successivamente alla famiglia Cappabianca, che lo ampliò,
facendovi soprelevare il secondo.
Gaetano Cappabianca nacque a S.Maria di Capua nel 1849 da
Federico e da Luisa Saraceni (figlia di Gaetano Saraceni, altro
benemerito sammaritano)
Il suo nome è legato alla fondazione dell’Istituto per Ciechi e
Sordomuti che ebbe sede nel palazzo di sua proprietà, e nella villa
Cristina che sorgeva dirimpetto, entrambi nella via Municipio, che a
lui venne intitolata nel 1925.
Questi beni, che facevano parte di un ingente patrimonio, furono
lasciati in eredità ad enti ed opere pie, affidate alle suore di qualsiasi
ordine, con testamento del 21 luglio 1908. (16).
In particolare l’asilo venne gestito dalle suore di S.Anna.
Il 12 marzo del 1909 il Comune di S.Maria C.V. assunse
l’amministrazione dell’Istituto.
Il 29.12.1911, l’Asilo, con Regio Decreto n°121 viene nominato Ente
morale.
Nel 1916 durante la Prima Guerra Mondiale, il nostro Comune istituì
un campo di raccolta per i profughi istriani e dalmati, che furono
alloggiati, in parte, anche nel palazzo Cappabianca.
A partire dallo stesso anno 1916, per i ciechi e i sordomuti, il
Comune si fece carico, del ricovero, dell’istituzione e del
funzionamento di appositi laboratori di falegnameria, calzoleria, e
123
sartoria. Tutto ciò ha funzionato egregiamente fino agli anni sessanta
del novecento. Negli anni successivi, essendovi ormai pochi ospiti,
l’edificio fu destinato ad altri scopi sociali ed infine venne chiuso per
restauri tuttora in corso (17). Sulle pareti dell’atrio dell’Istituto sono
sistemate due lapidi. La prima per ricordare Gaetano Cappabianca:
GAETANO CAPPABIANCA
ANIMA GENEROSA
CUORE ARDENTE DI CARITA’ CRISTIANA
TUTTO IL SUO COSPICUO PATRIMONIO
DESTINO’ A SOLLIEVO DELLE SVENTURE
QUESTO SONTUOSO EDIFICIO
CHE GIA’ ACCOLSE
IL MUNIFICO BENEFATTORE
OGGI OFFRE TRANQUILLO RICOVERO
A QUELLI
CHE SONO IMMERSI NELLA NOTTE PERPETUA
E QUELLI
CHE HANNO IL LABBRO SUGGELLATO ALLA PAROLA
A RICORDO
GLI AMMINISTRATORI
POSERO
ANNO MCMXXVI
La seconda per ricordare il presidente dell'Istituto Gaetano Caporaso
IN QUESTO ASILO
DALLA FONDAZIONE PER CINQUE LUSTRI
PRESIDENTE
SAGGIO PATERNO
GAETANO CAPORASO
LUCI E ARMONIA D’AMORE
DIFFONDENDO
REDESSE LA SVENTURA
FACENDOLA SORRIDERE ALLA VITA
AD ESALTAZIONE ED ESEMPIO
NEL XXII NOVEMBRE MCMXLI – XX
IL CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE
DELIBERO’ QUESTO RICORDO
Via Cappabianca termina poco più avanti.
124
NOTE BIBLIOGRAFICHE
(1) (A. Perconte – S. Maria di Capua – pag. 97).
(2) (F. Palmieri pag.85 na ‘zalata pag.146)
(3) (da F. Palmieri note estemporanee)
(4) (Casiello - Di Stefano pag.59)
(5) (A. Perconte – S.Maria di Capua pag.94)
(6) (Casiello op.cit.)
(7) (F.Palmieri – S.Maria C.V. note estemporanee pag. 88)
(8) (Alberto Perconte Licatese - S.Maria Capua Vetere pag.89 )
(9) (Granata – Storia Sacra della città di Capua Tomo II - libro III
Cap. I pag.53).
(9.1)(G.Laurenza, Bicentenario ecc. pag. 94)
(10) (Palmieri op.cit.pag.145)
(11)(Palmieri op.cit.)
(12)(A.Perconte – S.Maria C.V. pag.90)
(13)(Palmieri. Na ‘Zalata.ecc. pag. 85 -86 )
(14)(Nicola Terracciano – Convegno di S.Maria C.V. giugno 2008dedicato alle memorie risorgimentali e ad Errico Malatesta - tratto da
“ il Caffè settimanale indipendente anno XI n° 24 pag.10)
(15)( N. Terracciano op. cit.)
(16)(A.Perconte – S.Maria C.V. pag. 132)
(17)(da S.Maria C.V. nei protagonisti della sua storia – LMV - dott.
Laura Maria Vavuso pag. 36)
125
CLANIS
Il Clanio (Clanis o Clanius in latino), è un piccolo corso d’acqua,
lungo circa 60 km, che nasce da alcune sorgenti nei pressi di Avella,
antico centro osco conosciuto col nome di Abella, paese situato lungo
la riva sinistra del fiume, allo sbocco di un valico del Monte Vergine
nel massiccio del Partenio.
La più importante fra le sorgenti, denominata Bocca d’Acqua, si
trova presso il Campo di Summonte, un bel pianoro ricco di sorgenti
di acqua pura.
Altre sorgenti si trovano nel vicino Vallone delle Fontanelle.
Il nome del fiume è di origine greca e la sua etimologia, secondo lo
studioso Giuliano Maio, che scrisse su di esso un intero trattato,
deriva dall’abbondanza di viole che spontaneamente nascevano lungo
le sue rive. Nei tempi antichi il fiume aveva acque limpidissime ed era
ricco di pesci.
Notevoli tracce di insediamenti umani e di un fitto popolamento,
risalenti alla fine del V millennio a. C., sono state rinvenute in tutto il
territorio solcato dal fiume.
A pochi chilometri dal centro di Avella si trovano gli esigui ruderi
di un acquedotto costruito nel 410, gratuitamente dai suoi cittadini, su
richiesta di S. Paolino, convogliando in esso le acque del fiume, per
l’approvvigionamento idrico dei conventi presso Cimitile.
Sulle sponde del fiume, furono installati
appunto, dalle sue acque.
dei mulini, mossi,
Nei tempi più antichi, il Clanio, giunto nei pressi di Capua,
scorreva parallelo al Volturno, ma poi, non avendo la forza sufficiente
di attraversare le dune sabbiose della costa, piegava verso sud ed
arrivava fino al lago Patria, dividendosi in due rami. Di essi uno
terminava nel mare e l’altro terminava la sua corsa nel lago, formando
una zona paludosa nei tratti circostanti. Nei pressi di Literno un
fiumicello, avente lo stesso nome del paese, affluiva nel Clanis. Oggi
è detto Foce di Patria.
126
Nelle vicinanza del lago sorgeva Liternum, una delle colonie
romane nate per far da guardia al litorale tirrenico. Era considerata
una fra le più povere città della Campania.
Nei pressi, Publio Cornelio Scipione l’Africano possedeva dei
terreni ed una villa rustica in cui trascorse gli ultimi anni, dopo aver
abbandonato Roma, dedicandosi, fra i suoi veterani, ad una vita di
agricoltore e bonificatore,
In essa morì alla età di 51 anni nel 183 a.C. Per la sua tomba, come
fu riferito da Valerio Massimo, scrittore latino vissuto al tempo di
Tiberio, volle la seguente iscrizione: “Ingrata Patria, ne ossa quidam
mea habens : Ingrata Patria non avrai le mie ossa”. Alla parola Patria
si collega il nome del Lago.
La zona impaludata, e il lago stesso, veniva chiamata “Palus
Literna ” e, sembra, che proprio nel lago, i primi greci avessero creato
un porticciolo.
In quei tempi lontani, l’acqua del fiume ristagnava anche in altre
ampie zone della pianura campana. Vi era una serie di paludi che
dalle zone circostanti Nola, Marigliano, Acerra, Afragola, Aversa
arrivava al mare. Di questa realtà ne soffrì soprattutto Acerra.
Infatti il Clanis attraversava il suo fertile territorio, ed
impaludandosi presso la città, fu portatore di malaria, e con essa il
rapido decadimento dell’antica Acerrae che, già al tempo di Virgilio,
appariva spopolata.
(vacuis Clanius non aequus Acerris = funesto il Clanis alla deserta
Acerra). (1)
Il Clanis faceva da confine fra Suessola che si trovava sulla riva
destra e Acerra sulla riva sinistra.
Più tardi, il fiume segnò il limite fra il territorio bizantino di Napoli
ed il territorio longobardo del ducato di Benevento che comprendeva
anche Capua Vetere.
Nel medioevo l’impaludamento aumentò e rese inabitabile anche
un’ampia fascia della zona fra Capua e Napoli;
Nel 1021 – 1022, i primi normanni giunti nelle nostre contrade
posero i loro accampamenti presso il ponte a Selice sul Clanio, ma
subito abbandonarono quei luoghi per la loro insalubrità.
127
Per potersi rendere conto di ciò che erano le terre campane
assoggettate alle acque dei vari fiumicelli che in esse scorrevano, è
necessario riscoprire una pagina composta, nell’aprile del 1939, da
Amedeo Maiuri, archeologo e arguto scrittore, le cui opere
dovrebbero essere lette, dagli appassionati di archeologia, almeno una
volta.
“Bisogna dare un’occhiata alle vecchie carte del Reame per
comprendere quel che era, prima della vecchia bonifica fatta dal
Vicerè Conte di Lemos nel 1616 e dell’incompiuta bonifica
borbonica, la viabilità fra il Garigliano ed il Volturno, fra il Volturno
ed il Clanis; e a che era ridotto lo stato di quelle terre che Cicerone, in
tempi gravi di penuria, aveva chiamato horreum legionum, solarium
annonae, dopo alcuni secoli di abbandono e di barbarie.
Sommersi i campi intorno a Mondragone dalla palude che vi
ristagnava fin dal lago di Carinola; sfocianti il Savone e il Rio dei
Lanzi in un unico immenso stagno chiuso dalle dune del litorale: il
corso del Clanis mutato in una palude tra casali e borghi natanti come
isole; affibiati nomi tristi a luoghi febbricosi (Vico di Pantano e
Madonna di Pantano); perduta ogni traccia della Via Appia là dove
correva più superba a traverso campi alti di farro e ricche mansiones
dell’agro Falerno; scomparsa la colonia Urbana al nono miglio da
Casilino; sepolta la Via Domitiana tra boscaglie e paludi; mutato il
corso del Volturno da più ampie insaccature e sostituito il gran ponte
domizianéo dalla zattera del traghetto.
L’ultima traccia di percorribilità è negli itinerari che dopo quello
della tabula Peutingeriana, cominciano ad essere lacunosi. Nel 1343 il
Petrarca, dopo aver scritto il poema dell’Africa, non oserà più
valicare le colline di Baia per giunger fino al sepolcro di Scipione a
Liternum sul lago di Patria. Per un viaggiatore di lunga lena qual’egli
era, adusato ai rischi che il viaggiare allora comportava, le poche
miglia che separavano Baia da Cuma e Cuma da Literno, erano
insormontabili.
Sui campi sommersi ci si avventurerà ormai con la chiatta di palude
e, sui sentieri malcerti, la giumenta del buttero avanzerà guardinga
fiutando con il suo sicuro istinto l’insidia delle trémmole, delle
marcite che nascondono inghiottitoi di fango. E il pescatore di palude,
urtando con il remo il duro silice della strada, penserà a un mondo
128
lontano scomparso, a un’opera diabolica e maledetta e favoleggerà
d’una Via dei diavoli e d’un Ponte dei diavoli.!”. (2)
Ecco altra descrizione del luogo tratta da un diploma di Re Roberto
del 1312.
“Le acque colaticcie dei regi Lagni giravano per vie non libere e
tortuose: offrivano limacciosi sudiciumi ed altre sordidezze,
prodottevi dai depositi, dalle parate ed altri ostacoli frapposti dalla
umana malizia. L’alveo dei regi Lagni era talmente pieno ed
ingrombo, che nei terreni , pei quali fluiva l’acqua stessa, nelle grandi
piogge, succedeva, che la eccedente copia ne infestava l’aria,
generava epidemie, svelleva i termini designanti la proprietà dei
fondi, da impedire finanche la raccolta dei frutti”. (3)
L’opera di bonifica del territorio percorso dal Clanio, per volere del
vicerè don Pedro di Toledo fu iniziata verso il 1539, con qualche
modesta opera per regolare il deflusso delle acque.
Venne dato un maggiore impulso ai lavori, dal vicerè spagnolo Don
Ferrante Ruiz de Castro conte di Lemos, il quale volle bonificare una
zona più vasta. Inoltre, il vicerè dettò il primo regolamento per la
manutenzione dei nuovi canali.
Il progetto, senz’altro imponente, fu affidato, fin dal 1593, a
Domenico Fontana, ingegnere maggiore della città e del regno. (nato
a Melide, sul lago di Lugano, nel Canton Ticino nel 1543 e morto a
Napoli nel 1607).
I lavori iniziati verso i primi anni del 1600, alla morte del Fontana si
fermarono. Furono ripresi, con maggiore impulso, nel 1610, sotto la
direzione di Giulio Cesare Fontana, figlio di Domenico.
Prosciugati i terreni della piana del Clanio, si ottenne un
miglioramento della produzione agraria e,in parte, si risolse l’
afflizione della malaria.
Don Pedro Fernandez de Castro, successore del precedente conte di
Lemos, il 29 febbraio 1616, emanò un provvedimento per la
sistemazione dei terreni bonificati in modo da essere utilizzati per la
macerazione della canapa. Il provvedimento fu rinnovato e
completato dai successori.
L’antico corso del fiume fu parzialmente modificato
canalizzato.”.. la novella civiltà ha saputo rendere innocue,
129
e
incanalandole per la topografica inclinazione della pianura e
separandole ai sensi del duplice naturale livello della medesima. In
quello tra oriente e settentrione del territorio si fecero scorrere le
acque vive del Mefito e del Gorgone; nell’altro tra il mezzogiorno e
l’occidente della città di Acerra, in triplice alveo si fecero scorrere le
acque colaticci delle colline nolane. (4)
Le acque vive del Gorgone e del Mefito, unite al Ponte di questo
nome, dopo il Pagliarone ed il Molino Vecchio, si scaricavano al
Ponte di Casella. I lavori di Pietro
di Toledo negli attuali Regi Lagni e quelli del Conte di Lemos, sulla
Forcina, han fatto cangiare aspetto a tutta la regione. (5)
Il Fontana fece ripulire i fondali melmosi dei canali già costruiti,
fece accrescere la loro pendenza, fece rettificare i corsi d’acqua più
tortuosi, mantenne divise le acque provenienti dai monti da quelle
drenate.
“…al Fontana spetta per primo il merito di aver alberato gli argini
degli alvei a meglio rassodare il terreno”, con filari di pini che
formano lunghe vie porticate di verde, e “…bisogna riconoscere che
è questo il più grandioso porticato che fantasia e genio di architetto
potesse ideare e costruire”. (6)
Per superare le dune sabbiose, si dovette scavare, in alcune zone, un
nuovo letto e si cercò anche un nuovo sbocco che venne aperto in
località Ponte a Mare nel comune di Castel Volturno, quasi a metà
strada fra la foce del Volturno ed il lago Patria.
Una parte dell’antico corso del Clanis si può ritrovare seguendo il
cosiddetto Canale di Vena che giunge fino al succitato lago scorrendo
quasi parallelo alla SS Domitiana.
L’opera si interruppe per mancanza di fondi e solo tra il 1730 ed il
1750 furono ripresi i lavori, anche se con essi non si riuscì a risanare
completamente tutto il territorio, tanto che ancora nei primi anni
dell’Ottocento le campagne spesso si allagavano e le colture subivano
danni consistenti.
Venne costituito anche il corpo dei Guardalagni..
130
Successivamente, Ferdinando I di Borbone diede grande impulso
alle opere di bonifica intorno a Napoli e Ferdinando II su consiglio di
Carlo Afan De Rivera, con una legge del 1839, fece studiare dalla
“Consulta dei reali domini” il problema della bonifica delle terre
paludose e sterili del regno, del rimboschimento dei monti, dello
sviluppo dell’agricoltura, della pastorizia, ecc, e diede inizio ai lavori.
In essi il re investi oltre un milione di ducati, una somma pari a circa
15 milioni di euro.
Inoltre, con un decreto dell’11 maggio 1855, pose le basi per
l’amministrazione generale della stessa bonifica.
L’opera di bonifica della pianura campana, in epoca fascista, iniziò
verso la fine del 1939 ed nei primi mesi del 1940, XVIII anno era
fascista, come si può ancora leggere sulla facciata di qualche podere.
Furono bonificati i terreni nei dintorni della strada che da Aversa
porta a Villa Literno e che attraversa i paesi di San Marcellino, San
Cipriano d’Aversa, Casal di Principe.
Attraverso l’Opera Nazionale Combattenti, istituita nel dicembre del
1917, i reduci della I Guerra Mondiale, nei primi anni quaranta del
novecento, potenziarono l’agricoltura della regione bonificando nel
cuore dei “Mazzoni” alcune migliaia di ettari di territorio paludoso,
costruendovi centinaia di poderi con possibilità di riscatto da parte
dei coloni.
L’ONC realizzò anche la bonifica di Licola e Varcaturo località
dall’altra parte del lago Patria, verso Cuma.
La bonifica fu completata negli anni successivi alla seconda guerra
mondiale quasi alla fine degli anni cinquanta.
Complessivamente,il territorio bonificato dai Regi Lagni risultò
avere una superficie di circa 1100 kmq. (km 45 x 25 circa).
Il cammino delle acque verso il mare era ed è alquanto articolato.
Il Clanio che un tempo costeggiava l’antica Abellae, ora attraversa
la moderna Avella.. Poi, si dirige a nord di Nola e di Cimitile, fra i
paesi di Tufino e Risigliano, Cutignano e Cicciano e poco dopo
prende il nome di Canale di Bosco Fangone.
Bosco di Nola e Bosco Fangone erano territori paludosi che alcune
famiglie di agricoltori ivi residenti cercarono di prosciugare con
131
canali di drenaggio. Nacque così, la frazione chiamata Polvica, a sud
di San Felice a Cancello e al confine di Acerra
Poco più avanti, in prossimità del Ponte dei Fusari, il fiume accoglie
le acque del Lagno di Nola che a sua volta riceve quelle del Torrente
Sciminaro.
Al ponte dei Fusari, il Clanio perde i connotati suoi specifici e
diventa il principale dei canali artificiali costruiti per la bonifica di
quelle terre. In esso, poco dopo, si riversano sia le acque del ruscello
del Mefito ricche di acido solforico e con una temperatura che si
aggira sui 17°, che sgorgano dal bosco di Calabricito dove sorgeva
l’antica Suessula.
Descrivendo una ampia curva, passa a sud di Acerrae, quasi
circondandola.
Dirige poi le sue acque verso Caivano, e supera la SS 87 Sannitica
sotto il ponte Epitaffio, così detto per una iscrizione che si trova nelle
sue vicinanze. Poco dopo, nei pressi del Ponte Carbonara, un affluente
si riversa nei R. Lagni. Il canale principale prosegue verso Marcianise
e giunge al Ponte a Selice sulla SS 7 bis. Su questo ponte, confine fra
la giurisdizione Capuana ed Aversana, venne eretta una statua in
onore di un santo, oggi sconosciuto, a protezione dei viandanti,
andata perduta. Ne dà notizia il Granata a pag. 337 della sua opera.
Questa strada ripercorre il tracciato della via Campana che da
Capua raggiungeva Pozzuoli. Anche un’altra strada, la via Atellana,
partiva dall’antica città, attraversava il Clanio con un ponte che oggi
prende il nome di Ponte Rotto situato presso il borgo di Casapuzzano
e raggiungeva Atella.
Nei pressi di Carditello, il fiume incanalato passa sotto il ponte S.
Antonio che si trova sulla provinciale per Casaluce. Il castello che qui
sorge, fatto costruire dal normanno Rainulfo Drengot, era difeso da
ampi fossati in cui venivano convogliate le acque provenienti dal
Clanio.
Superato il ponte Annecchino sulla provinciale per Casal di
Principe, riceve le acque del ruscello Apramo, poco dopo quelle del
canale scolmatore Sciummarello proveniente da Grazzanise, supera il
ponte Bonito, poco più avanti accetta le acque del canale detto il
Lagno Vecchio e quelle del canale detto Prospero del Tufo
provenienti da Cancello e Arnone e, finalmente, raggiunge il mare in
località Ponte a Mare.
132
Il complesso sistema dei canali, per mezzo dei quali potettero
essere risanate quelle zone per molti secoli afflitte da gravi problemi
di insalubrità, prese il nome di Regi Lagni. Furono chiamati Regi per
rispetto ai monarchi che si impegnarono nella Bonifica.
La parola Lagno deriva dalla corruzione del nome del fiume:
Clanius, Lanius, Laneum, Lanio, Lagno. Da qui nacque anche la
denominazione Terra Lanei.
SANT’ ANDREA DEI LAGNI
Dalla parola Lagno, corruzione del nome del Clanio (Clanius,
Lanius, Laneum, Lanio, Lagno), prende nome il casale di S. Andrea
dei Lagni, oggi, non più frazione, ma rione di S. Maria C. V.
Il
Casale faceva parte della Terra Lanei.
Le poche case rurali, sorte intorno alle vestigia di un antico pagus o
di una villa rustica suburbana situata nel territorio compreso fra la via
Atellana e la via Cumana, ebbero un ulteriore sviluppo nel XV sec.
allorquando venne reintrodotta la lavorazione della canapa e
formarono così un piccolo agglomerato urbano.
Secondo l’arcivescovo Francesco Granata, le strade che uscivano da
Capua, passando nei pressi o attraversando i luoghi dove poi sarebbe
sorto il Casale di S. Andrea, erano tre:
1) La via Atellana che passando attraverso la Porta dallo stesso nome
e superato il Ponte Rotto, si dirigeva verso la città di Atella, che
occupava gli spazi dove oggi si trovano i paesi di S.Arpino, Orta di
Atella, Frattamaggiore, e proseguiva verso Napoli.
La via Cavalieri di Vittorio Veneto, di S. Andrea, ne ricalca il
tracciato, che scompare fra i campi, dopo aver superate le ultime case
del rione.
2) La via Consolare Campana, usciva da Porta Cumana, ed andava
avanti scavalcando il Clanio con un ponte che oggi viene chiamato
Ponte a Selice, cioè Ponte di Pietra. Dell’antico ponte sembra che non
vi siano più tracce visibili; è rimasto solo il nome.
133
Lungo questa via, appena fuori della città, nel 1810 furono ritrovati,
alcuni sepolcri adorni di bassorilievi d’elegantissima scultura su
bianco marmo. (6.1)
Essi furono trasportati in Napoli presso l’abitazione del Duca di
Carignano a cui apparteneva il fondo in cui furono trovati (G. Rucca –
Capua antica – pag.122)
Di questa strada si conserva tuttora qualche traccia. Infatti ad
Aversa, in via D. Cirillo, si possono incontrare ancora due o tre pietre
miliari sistemate nelle facciate di alcune abitazioni.
La Consolare Campana giungeva a Pozzuoli e poi a Cuma.
3) La via Marittima, lasciava la città attraverso la Porta Linternina o
Marittima. Essa passava fra i Casali, oggi chiamati S. Tammaro e
Savignano, attraversava i terreni dove ora sorge il complesso di
Carditello, ed arrivava fino a Vico di Pantano nei pressi di Liternum e
proseguiva fino al lago Patria. (7)
Del tracciato di questa strada, purtroppo non si riconosce nulla.
Inoltre è da ricordare che nei campi presso S. Andrea correva il
decumanus maximus. Di esso, in questa zona, non si trovano più
tracce visibili perché cancellate dalle antiche paludi.
Il documento più antico che riporta notizie del Casale di S. Andrea
risale al 19 luglio 1512. In esso si dice in “Terra Lanei” vi erano 15
casali; fra essi S. Andrea, Savignano e S. Lucia.
Scrive, nel 1766 il Granata: ”Questo Casale ha preso la
denominazione di S. Andrea dei Lagni per essere la di lui Chiesa
Parrocchiale, che ha titolo di S.Andrea, situata unitamente collo stesso
casale in mezzo a tanti laghi, che anticamente circondavano l’intero
paese e per i pubblici, e privati lagni, che vi sono vicini...In questo
Casale vi è il parroco, che ha cura di Anime in circa quattrocento
settantacinque..”. (8)
E’ indubbio che la Chiesa sia sorta dopo la traslazione delle reliquie
di S. Andrea nel regno di Napoli, al termine della IV crociata, indetta
dal papa Innocenzo III nel 1203, e che si concluse con la caduta di
Costantinopoli. “…le portò seco in Italia il cardinale Pietro Capuano
Arcivescovo di Amalfi, legato Apostolico nelle parti orientali nelli dì
8 maggio 1208”.
134
( Summonte – Historia della città e Regno di Napoli – tomo IV, pag.
324”.
“Probabilmente il culto del Santo era stato diffuso dagli amalfitani
– che a Capua abitavano nel quartiere ad Malfitanum (piazza dei
Giudici) – i quali avevano una vera e propria devozione per il
Santo…” (9) Nel tesoro della cattedrale di Capua è conservato, come
reliquia, un dito del Santo.
Vane sono risultate, finora, le ricerche per conoscere quale sia la
data precisa in cui venne edificata la Chiesa di S.Andrea dei Lagni.
Le prime notizie certe inerenti l’edificio ecclesiastico di S. Andrea
Apostolo, risalgono al 1570, poiché da questa data iniziano le
annotazioni nei registri parrocchiali.
L’attuale chiesa, invece, fu edificata nel 1630 circa e benedetta dal
primicerio di S. Maria Maggiore, Don Giuliano Saccone.
La facciata è in stile neoclassico; venne restaurata nel 1993.
L’interno presenta una sola navata con copertura a volta. Nella chiesa
si conserva l’affresco di una Madonna con Bambino denominata,
secondo la tradizione popolare, la Madonna della Stella. .
Si dice che questo affresco, risalente al 1400-1500, si trovasse, in
tempi precedenti, presso un’altra chiesa situata nel casale di
Pecugnano, luogo alquanto malfamato per via delle meritrici che ivi
abitavano. Pertanto “…l’allora Arcivescovo Antonio Melzi ( 16611667), avendo saputo delle immorali abitudini di tale casale, ordinò di
levare immediatamente il SS.mo Sacramento della Eucaristia ed i
Sacramenti di detta chiesa Parrocchiale, i suoi materiali e vasi sacri
e li fece trasportare in detta chiesa parrocchiale di S. Andrea; nello
stesso tempo ordinò al parroco di S. Andrea di andare a celebrare la S.
Messa nei giorni festivi, per comodità delle persone che là vivono in
particolare nei tempi delle fatiche”.(10)
I pochi abitanti del Casale di Pecugnano a poco a poco si inserirono
nella comunità di S. Andrea e il piccolo villaggio scomparve
completamente.
L’appellativo “Pecugnano” era già noto al tempo dei Normanni.
In uno studio sulle pergamene risalenti a tale periodo, a pag. 269 il
prof. G. Bova riporta la seguente notizia : Marzo 1180 – Archivio
Capitolare. Gaida……vende sei pezze di terre tra’ confini della terra
del Lagno, nel luogo detto Pocugnani a domino Tomaso Graforti… “.
135
In località Pecugnano (da pecus, bestiame), vi era uno spazio adibito
a pascolo: “locus ubi dicitur – a li mangia boj”. Nei pressi,
sorgevano “l’ecclesia S. Angeli de Picugnano” e l’ecclesia S. Rufi”.
(11)
Altri piccoli agglomerati erano sparsi nelle campagne intorno a S.
Andrea Fra essi è da ricordare Savignano, poche case nei pressi della
strada regia che da Capua volge ad Aversa, l’attuale SS 7 bis.
Oggi, di questo casale non si vedono più nemmeno le rovine, solo
un leggero rialzo nella uniformità della campagna circostante. Ne
troviamo notizie negli scritti del Granata il quale nella sua Storia
Sacra ci fa sapere che la chiesa parrocchiale del casale era sotto il
titolo di S. Maria delle Grazie, e il parroco aveva la cura di centodieci
anime.
Oltre alla succitata chiesa, presso il casale vi era anche una cappella
che aveva l’obbligo di dare, come dote maritale ad una onesta zitella
del paese, dieci ducati.
In tempi più antichi, nei pressi di Savignano o fra Savignano e
Pecugnano, vi era anche un convento di Monache, che dovette essere
abbandonato.
Oggi, il nome di una strada campestre, via delle Monache, ne
conserva il ricordo.
In un campo, all’incrocio di due strade rurali, un muro smozzicato,
si alza solitario e triste: sono i ruderi della chiesa di S. Secondino
appartenuta al suddetto Casale; se ne ha notizia in un documento del
luglio 1269. (12)
Poco distante da Savignano, esisteva un altro pagus: il Casale dello
Staffoli o Staffaro che venne soppresso e unito al vicino Casale di S.
Lucia, così chiamato dal nome della sua parrocchia Altre stradine che
percorrono i campi tra la via Campana e la strada regia proveniente
dalla moderna Capua, riportano ancora i nomi dei paghi scomparsi.
Le ragioni che portarono alla totale scomparsa di questi casali, finora
non sono state svelate.
136
LA CANAPA
La coltivazione della canapa era già in uso al tempo dei romani.
Nei primi anni del 1200, nelle nostre terre si coltivava e si lavorava
la canapa.
“A partire dal XIII secolo compaiono nella nostra documentazione i
toponimi “alla Canna Longa” (1221), “S.Maria de Cannellios” (1259),
e soprattutto i mestieri di “funarius” relativo alla lavorazione delle
funi di canapa (1214), di “cannolese” (1208) o di “cannabarius”,
lavoratore della canapa,(1230). (13)
Queste date fanno cadere ciò che comunemente si ritiene, cioè che
la lavorazione della canapa fosse stata introdotta in Terra di Lavoro
fin dal XV sec., su disposizione di Alfonso I d’Aragona (1416-1458).
Coltivazione e lavorazione vennero solo reintrodotte da questo
monarca.
La “Terra Lanei” si prestava a tale coltivazione sia per la fertilità del
suolo sia per la disponibilità delle acque del vicino Clanio, che
potevano essere facilmente utilizzate per la macerazione delle piante.
Le piante venivano seminate verso la metà di marzo; alla fine di
giugno e per tutto il mese di luglio si procedeva alla estirpazione delle
ormai cresciute piante.
All’estirpazione e non al taglio: le braccia avvolgevano una certa
quantità di steli e tiravano su: Si “scavava u cannule”.
Poi gli steli venivano stesi al sole ad asciugare, e di tanto in tanto si
giravano per rendere omogenea l’essiccazione. Qualche giorno
all’esposizione solare bastava per far cadere le foglie ormai secche,
scuotendo e sfregando fra loro gli steli. Questa operazione, fatta in
campagna sotto il cocente sole di luglio, si chiamava “scutuliatura”:
“si scutuliava ‘u cannule”.
Gli steli venivano raccolti in fasci, i cosidetti “mattuli”. Si
toglievano le radici.
Terminata questa prima fase, i fasci appesantiti da grosse pietre, e
sommersi in grosse vasche piene d’acqua, anch’esse chiamate lagni,
venivano fatti macerare per otto – dieci giorni al fine di sciogliere il
collagene, permettendo così, la separazione della corteccia dal fusto.
Dopo la macerazione i fasci, disposti in covoni, si facevano
asciugare al sole. Successivamente, venivano trasportati presso le
137
spaziose aie dei proprietari, per essere battuti con un tipico attrezzo
ricavato da un tronco di albero, la “macennula”.
Si frantumava, con essa, la parte legnosa dello stelo riducendola a
pezzetti, i cosidetti “cannaucciuli”, permettendo così la separazione
dei filamenti tessili. Le fibre ottenute venivano “spatuliate”, per
liberarle dai residui più piccoli ancora attaccati, e alla fine, venivano
pettinate..
Il prodotto ottenuto con un lavoro non certo leggero, era un
semilavorato.
Veniva immagazzinato e poi distribuito ai centri di lavorazione
NOTE BIBLIOGRAFICHE
(1) ( Verg. Georg.II 225)
(2) (A. Maiuri - “Passeggiate Campane – pag. 116)
(3) (da Gaetano Caporale – notizie Storiche della Città di Acerra- pag.297)
(4) (G. Caporale – op. cit. pag 48)
(5) (G. Caporale – op. cit. pag. 13)
(6) (A. Maiuri – Passeggiate campane - pag. 90)
(6.1) (G. Rucca – Capua antica pag. 89)
(7) (F.Granata - Storia Civile di Capua – libro I – pag. 82).
(8) (F.Granata – Storia Sacra della Chiesa Metrop. di Capua – lib. III
pag. 40)
(9) (G.Bova – Le Pergamene Sveve – vol. I pag. 46).
(10) (da “La Parrocchia di S.Andrea Apostolo nella storia” - pag. 23).
(11) (G. Bove – La vita quotidiana a Capua - pag. 9 – 11).
(12) (G. Bova - “Tra Seduciti e Burlassi nella Capua Vetere medievale”
a pag. 82).
(13) (G: Bova – Pergamene Sveve – vol. II pag. 95).
138
Indice
TERRA DI LAVORO
pag.
1
PIAZZA MAZZINI
“
21
CORSO GARIBALDI
“
40
RICORDI GARIBALDINI
“
79
VIA ROBERTO D’ANGIO’
“
100
VIA CAPPABIANCA
“
117
CLANIS – S. ANDREA DEI LAGNI
“
126
13
139