ATTI dell`incontro - tsm-Trentino School of Management
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ATTI dell`incontro - tsm-Trentino School of Management
Investimenti culturali e sviluppo locale di Pier Luigi Sacco data pubblicazione: 12 dicembre 2006 Questo testo, a cura di Silvia Bruno e Gabriella De Fino, è una versione rivista della registrazione della lezione magistrale del febbraio del 2004 tenuta da Pier Luigi Sacco per tsm-Trento School of Management. Il testo mantiene volutamente l’immediatezza dell’oralità. L’intervento non è stato rivisto dal relatore. Che cosa accade, quando gli studi economici, tradizionalmente ascritti all’area della razionalizzazione dei processi e della razionalità, incontrano l’area dell’arte, della creatività e della cultura, legate invece all’imprevedibilità e all’incertezza? Si potrebbe rovesciare la domanda e chiedersi perché si è presunto che non abbiano niente in comune. E’ importante sottolineare che se tale processo, originato dall’incontro di queste due dimensioni, viene gestito in modo appropriato, il guadagno potrebbe essere reciproco. Per ottenerlo occorre, però, guardare ai margini delle dimensioni che si incontrano; ai margini dell’economia si pone l’attenzione all’incertezza, non a quella data come fattore di disturbo della razionalità, ma di quella che è costitutiva e senza la quale non esisterebbe il fenomeno di cui ci stiamo occupando. Da qualche tempo nel mondo dell’economia l’attenzione è stata rivolta non solo all’incertezza come fattore costitutivo, ma a quella ai limiti della razionalità; si guarda alla gradualità, al ruolo del dono e dell’altruismo. Mentre qualcuno esclama “Finalmente!”, altri dicono “Ahimè, perdiamo il nostro statuto scientifico classico che ci permetteva di costruire una scienza esatta, che avrebbe dovuto darci gli elementi per gestire correttamente le sorti del mondo”. E’ viva l’esigenza di introdurre criteri di efficienza e di efficacia nell’azione delle istituzioni e degli eventi dell’arte e della cultura; è pertanto opportuno sottoporre a critica l’istanza di trasferimento acritico dei modelli gestionali tipici di una certa tradizione di industrial management all’arte e alla cultura. L’incontro con queste ultime può infatti perfino favorire l’evoluzione dei modelli manageriali. Investimenti culturali e sviluppo locale Quello degli investimenti culturali e dello sviluppo locale è un tema di cui oggi si discute abbondantemente. Negli ultimi decenni l’Italia si trova a dover affrontare una crisi di transizione economica senza precedenti, provocata anche da una serie di linee di tendenza, peraltro ampiamente prevedibili, come il progressivo restringimento dei margini competitivi e un modello di sviluppo che si avvicina maggiormente a quello dei paesi emergenti che non a quello dei paesi industrializzati. L’Italia ha uno sviluppo economico costituito essenzialmente da piccole imprese che operano, nella maggior parte dei casi, su prodotti molto specializzati, ma anche relativamente standardizzati e con una competitività basata ancora sul margine di costo. Un modello questo che, secondo Michael Porter, grande pensatore del pensiero strategico, è una visione da paese emergente perché in realtà i paesi avanzati competono soprattutto relativamente alla loro capacità di produrre in modo innovativo. Una situazione di questo tipo ha indubbiamente causato problemi e aree di crisi anche in settori e in contesti territoriali apparentemente molto floridi. Ci si chiede quindi verso quale direzione si stia andando e se “possediamo la cultura”. La cultura in Italia Una grande concentrazione di attività e di manufatti costituisce il patrimonio culturale immobilizzato sul territorio mondiale. Secondo una leggenda urbana oltre il 50% di questo patrimonio culturale si trova in Italia e si ripete in continuazione che occorre valorizzare “questo petrolio”. Il problema è che non esistono istituzioni o contenitori culturali che siano centri “di profitto”; sono centri “di costo”. E’ fondamentale capire che la cultura può avere un enorme ruolo nel nuovo modello di sviluppo economico. In Italia l’attenzione è rivolta a questo tema, ma probabilmente è focalizzata sugli aspetti sbagliati, che è, tuttavia, importante esaminare al fine di sviluppare una visione maggiormente costruttiva. I termini “economia” e “sviluppo” sono spesso messi in relazione al turismo, perché in Italia prevale una visione secondo la quale la cultura ne è il condimento. Secondo questo modello di sviluppo, che vede la cultura come qualcosa di essenzialmente strumentale e irrilevante, una città d’arte o un museo sono al massimo il corollario di una vacanza al mare o in montagna. La cultura quindi è semplicemente considerata una modalità alternativa di uso del tempo libero, non ha un ruolo se non quando non ci sono alternative migliori e non è qualcosa su cui investire. La metafora del giacimento di petrolio è tristemente perfetta per riassumere l’atteggiamento con cui ci si rivolge alla cultura. Questo dialogo non è sempre stato facile e tuttora presenta numerose difficoltà a causa delle limitazioni provenienti dalle imprese e dagli operatori culturali. Da qualche anno in Italia la situazione è monitorata con cura dall’Osservatorio Impresa e Cultura che si occupa di capire gli interventi che le imprese realizzano all’interno del mondo culturale, mettendone in luce progetti, finalità, modalità e risultati. Ne emerge che in molti casi la grande limitazione delle imprese è dovuta da un lato alla scarsità di conoscenza e consapevolezza, e che quindi spesso scelte sbagliate siano dettate dalla mancanza di competenza; dall’altro lato, tuttavia, le organizzazioni stesse non si presentano come interlocutori credibili. In Italia accade di frequente che tra un’impresa e un’organizzazione culturale si realizzino progetti di autoproduzione; le imprese quindi si occupano autonomamente di un progetto culturale, dando luogo in alcuni casi a situazioni innovative, e spesso la mancanza di partnership penalizza notevolmente le organizzazioni culturali, che ne potrebbero invece trarre notevoli vantaggi. Il discorso delle fondazioni è più complicato: in Italia lo statuto le obbliga ad intervenire in ambito culturale, tuttavia esse lo fanno con modalità opinabili. In molti casi il problema riguarda la destinazione di un budget annuale alla cultura. Accade così che si finanzino progetti locali (ad esempio la stampa di un libro di un artista locale) al solo scopo di esaurire il budget. Altre fondazioni si sono mosse invece con una progettualità diversa. Un esempio particolarmente significativo in questo senso è la Fondazione Cassa Marca di Treviso: si tratta di interventi con un impatto sul territorio abbastanza particolare perché finalizzati allo sviluppo economico. La Fondazione Cassa Marca immaginava per Treviso un ruolo diverso, mirando a mettere la città, già importante distretto industriale, in condizione di riscoprire un’identità di natura culturale. Questo modello ha raggiunto forme paradossali con alcuni esempi che si stanno diffondendo a macchia d’olio in alcuni assessorati alla cultura locali. Si potrebbe quasi parlare di “modello Treviso”. Il “modello Treviso” Qualche anno fa la Fondazione Cassa Marca e un brillante ed intraprendente curatore decisero di lanciare un progetto di valorizzazione di Ca’ dei Carraresi, basandosi però essenzialmente su un tipo di “organizzazione blockbuster”, cioè pensata per un vasto pubblico. Molti lo citerebbero come esempio di marketing perché oltre alla mostra, al visitatore viene offerta una serie di servizi, come l’organizzazione del viaggio, la logistica o le convenzioni con gli altri operatori locali, che sono curate dalla stessa realtà che si è occupata della progettazione dell’esposizione. Si produce così una sorta di pacchetto: i visitatori vengono “scaricati” davanti alla mostra e dopo ore di attesa entrano per vivere un’esperienza che Carlo Bertelli, in una recensione sul Corriere della Sera, ha descritto con queste parole: “Sembra di guardare una mostra dal finestrino di un autobus affollato”. In effetti è esattamente quello che accade: una massa di pubblico viene letteralmente spinta per pressione all’interno di questo percorso e arriva all’uscita per pura inerzia da meccanica dei fluidi! In questa situazione capita di vedere barlumi di pigmento che probabilmente sono quadri, ma potrebbero anche essere i colori del foulard di un visitatore. Tuttavia ciò che alla fine importa è che al termine della visita si hanno le prove della propria “partecipazione” a questa meravigliosa esperienza. Ciò che interessa è l’essere stati davanti ad alcuni feticci della comunicazione moderna, come “Vincent Van Gogh” o “Claude Monet”. Il solo fatto di averli visti non costituisce differenza, l’importante è “esserci stati”. La stessa dinamica si ripete al Louvre, di fronte alla Gioconda, che è assolutamente inguardabile nel senso che non si vede, perché è dietro il plexiglas, ma si prova comunque un forte bisogno di fotografarla. Perché farlo quando nel bookshop è possibile acquistare cartoline che la riproducono perfettamente? Perché è necessario avere le prove di essere stati lì! Questa può essere definita un’esperienza culturale, ma è il grado zero, perché quello che si ha è un vero e proprio contatto con una specie di feticcio. Qual è la differenza tra “Sono stato a pochi centimetri da un Manet” e “Sono stato a fare vip watching e ho visto uscire Julia Roberts dalla sua villa di Beverly Hills”? In entrambi i casi si tratta di un feticcio mediatico. E’ un’esperienza di consumo culturale molto particolare, perché il fruitore, terminata la visita, non prova il minimo desiderio di conoscere la città e visitare altri musei. La stessa offerta culturale, inoltre, finisce per essere modesta perché è completamente cannibalizzata da questa situazione. Ovviamente ad essere felici e soddisfatti di tutto ciò sono gli organizzatori dell’esposizione, ma soprattutto i ristoratori e gli albergatori, componente fondamentale di un sistema locale, ma che in questo caso vivono di una pura “economia della rendita”. E’ sufficiente osservare i listini dei prezzi durante i giorni di grande afflusso per capire con quale considerazione vengono accolti i visitatori. È una situazione che, pur sembrando redditizia, in realtà non crea sviluppo. La mia potrebbe apparire una visione paternalistica dell’arte, perché in fondo questi visitatori si ritengono appagati della loro esperienza. Il punto è un altro. Nel corso di una recente esposizione è stata presentata un’opera di attribuzione incerta. Ne sono seguite numerose polemiche e i pareri sono oscillati tra chi ha concluso che il quadro fosse stato esposto per legittimare un’opera non attribuibile con assoluta certezza all’artista in questione, tra chi invece sospettava che l’autore fosse un altro artista e infine tra chi credeva si trattasse di un falso. Per comprendere la filosofia alla base di quest’organizzazione è decisivo aggiungere che il curatore della mostra ha proposto un referendum ai visitatori nel quale veniva chiesto il loro parere sull’autenticità del quadro in questione, un quesito che gli esperti non sono riusciti a risolvere in molti mesi. La percezione che se ne ha è che il sistema locale consideri la cultura un’ottima macchina per “fare soldi” e che se ne serva per attrarre i turisti, che altrimenti non visiterebbero la città. Nel momento in cui, come è accaduto, si crea un dissidio tra la fondazione e il curatore, per il quale quest’ultimo trasferisce altrove l’attività, le conseguenze possibili sono due: o il modello si ferma, perché non esiste altra possibilità, oppure lo si rimette in piedi. Nonostante si tratti una grande possibilità per il marketing creativo, il valore principale non deve essere l’intrattenimento; l’evento dovrebbe corrispondere ad un’esperienza culturale ed essere quindi strutturato come tale. L’esperienza di Treviso, rivolta ad un particolare tipo di pubblico e non ai residenti, potrebbe allora far erroneamente concludere che la cultura sia un aspetto del turismo. Le città italiane Quello di Treviso è ovviamente un modello estremo, ma osservando altre città d’arte, come Firenze o Venezia, ci si accorge del tipo di turismo culturale che oggi prevale. Nelle calli che separano la stazione di Venezia Santa Lucia e Piazza San Marco si incontrano fast food dove non si mangia bene e negozi di souvenirs dalla dubbia qualità. Il turista però visita Venezia perché vi trova un tessuto urbano unico, nonostante sia costituito da questa tipologia di negozi. Un tempo si trattava di un tessuto diverso; non a caso, infatti, allontanandosi da queste zone si incontra una città meno artefatta. L’aspetto più divertente di tutto questo è che il visitatore entra in un negozio, compra una pizza di gomma, che non ha nulla a che fare con la tradizione culturale veneziana, ormai quasi dimenticata, la mangia guardando una Torre di Pisa in plastica e retroilluminata e scatta una foto nella quale compare ormai un “pezzo finto di Venezia” sullo sfondo: si ha l’impressione quindi che lo scopo di Venezia sia essere il fondale per le fotografie. Da questo punto di vista sembra paradossalmente quasi più corretto visitare la Venezia di Las Vegas, rispetto alla città “vera”: è un’alternativa più credibile di quella che appare sullo sfondo della cartolina. Questo modello di esperienza produce, dunque, una vera e propria degenerazione di quegli elementi di valore, che dovrebbero invece essere alla base del turismo culturale; incoraggia, inoltre, le aree di rendita legate a questo modello turistico, che risultano essere le più conservatrici e restie a qualunque altra possibilità di ragionare sul futuro della città. Distruggendo la città e il suo tessuto se ne compromette il futuro. E’ possibile un altro modo di immaginare il ruolo economico della cultura basato sull’esperienza culturale. L’esperienza Due persone possono vedere lo stesso film vivendo esperienze culturali completamente diverse; un’esperienza praticamente priva di significato per una persona, può essere invece ricca di valore per un’altra. La differenza sta nel fatto che l’esperienza può essere filtrata attraverso categorie e competenze che dipendono dalle precedenti esperienze vissute e che mettono in condizioni di dare a quella che si sta vivendo un valore maggiore o minore. La maggior parte delle attuali situazioni di consumo ha un elevato contenuto esperienziale. Nelle pubblicità delle automobili, ad esempio, ormai molto raramente vengono descritte le prestazioni in senso tecnico, che sono invece filtrate attraverso un preciso riferimento all’esperienza, legando il tutto alla proiezione mentale di cosa significa possedere quell’auto. La capacità di attribuire significato all’esperienza è quindi in stretto rapporto con la ricchezza e la strutturazione della mente. Se le persone hanno una buona predisposizione all’esperienza, esiste una maggiore probabilità che si possa creare valore all’interno di un contesto e attraverso un determinato canale. Una persona priva di competenze degustative probabilmente non è in grado, ad esempio, di distinguere, spiegare e giustificare a se stessa l’acquisto di un vino più costoso: Probabilmente questo accade semplicemente perché la sua capacità di discriminazione esperienziale è troppo bassa. Nel momento in cui si ha invece la capacità di distinguere, non soltanto si è in grado di giustificare a se stessi l’acquisto, ma soprattutto, acquistando si mettono i produttori in condizione di fare ulteriori investimenti, per poter così ottenere un prodotto più strutturato e significativo. Attraverso la costruzione della capacità di esperienza è stato possibile generare un mercato del vino di qualità che prima in Italia era pressoché inesistente. Analogamente a questo meccanismo, in tutte le economie post industriali si stanno sviluppando oggi nuovi mercati nei quali la dimensione esperienziale assume un’importanza sempre maggiore. In essa la cultura, materia prima di un nuovo processo di creazione del valore, gioca un ruolo decisivo. In passato quando si pensava al rapporto tra cultura e valore economico si aveva in mente il cosiddetto modello mecenatistico, in cui il valore economico è prodotto attraverso canali distanti dalla cultura, che ne utilizza la parte eccedente. Oggi, invece, la cultura ha assunto un ruolo sempre più centrale nella produzione di valore economico, in quanto direttamente legata all’esperienza nei consumi. Molti messaggi pubblicitari fanno riferimento ad un’operazione culturale. In realtà i pubblicitari non inventano nulla, ma metabolizzano una serie di contenuti, di linguaggi visivi e verbali prodotti in altri contesti, trasformandoli in meccanismi per la creazione del valore economico. All’interno di questo contesto, la cultura gioca evidentemente un ruolo centrale. Il ruolo della cultura nello sviluppo economico Non è casuale che la cultura stia diventando sempre più centrale all’interno di situazioni legate all’alto tasso di innovazione e all’economia dell’esperienza. Qualche esempio può chiarire questo nuovo tipo di rapporto tra la cultura e lo sviluppo economico. Austin, capitale del Texas, rappresenta un riferimento interessante nell’ambito della cultura. Come molte altre capitali americane è una città relativamente piccola con un’area metropolitana di circa 500.000 abitanti, delimitata dalle tre grandi città del Texas, Dallas Fort Worth, Houston e San Antonio. Per molto tempo la sua economia di tipo tradizionale è stata legata soprattutto all’agricoltura e al petrolio; negli ultimi anni invece ha inventato nuovi e interessanti ruoli economici legati all’economia dell’esperienza. Ormai da molti anni Austin si trova al secondo posto nella classifica delle città americane meglio amministrate. L’amministrazione pubblica ha cercato infatti di renderla un luogo accogliente per chi manifesta oggi una grande propensione verso le professioni creative, finalizzate alla creazione di prodotti ad alto tasso esperienziale. La politica di Austin ha permesso un’accoglienza senza precedenti in Texas, in cui ad esempio la comunità gay è fortemente sostenuta. La caratteristica distintiva di questa città è il gran numero di opportunità che è in grado di offrire a chi voglia ricollocarsi professionalmente lavorando in questi settori. Tutto questo può significare disponibilità di abitazioni e di studi a costi relativamente bassi e facilitazioni sui finanziamenti e sull’accesso a possibili sostenitori istituzionali. A questo si è accompagnata una politica di investimento nell’information technology, in parte guidata dalla posizione di eccellenza del Dipartimento di Computer Science dell’Università del Texas, una delle più importanti degli Stati Uniti. Nel giro di pochi anni Austin ha raggiunto così un’elevata specializzazione in alcuni settori dell’information technology riuscendo ad attrarre gli investimenti di grandi imprese come Motorola, Texas Instruments, IBM e Samsung. Il caso di Samsung è particolarmente interessante, perché ha costruito ad Austin il suo unico stabilimento straniero con un investimento di quasi due miliardi di dollari. E’ seguito lo stanziamento di 300.000 dollari, per la costruzione del Long Centre Performing Arts, destinato a diventare uno dei maggiori centri per le arti performative degli Stati Uniti. Samsung ha invitato inoltre i principali membri della business community a contribuire allo sviluppo del sistema culturale della città. Combinando l’attrazione di risorse ad alto potenziale creativo e la politica di investimento proveniente dai grandi investitori privati ci si trova ad operare all’interno di un’”economia della creatività”, in cui non esiste una distinzione netta tra vita lavorativa e tempo libero. E’ fondamentale quindi creare un clima culturalmente immersivo, cioè una situazione nella quale lo stimolo sia continuo. L’esperienza culturale è dunque l’elemento principale di cui tale sistema si nutre per essere innovativo. Questo ha permesso inoltre lo sviluppo di una notevole capacità di coordinamento dei vari attori del sistema, dando vita ad una fondazione assolutamente rivoluzionaria a cui alcune imprese dell’information technology hanno donato una quota delle loro stock options. L’idea di base di tale orientamento è che, quando il loro valore sarà aumentato, le risorse ottenute saranno messe sul mercato, liquidate e ridistribuite al sistema del no profit del territorio locale, che si occupa della marginalità sociale e di attività socialmente meritorie come la produzione culturale. Un modello di sviluppo come quello descritto è sostenibile esclusivamente se i benefici sono ridistribuiti; se accadesse il contrario, si verrebbe a creare un modello di sviluppo a due velocità, nel quale chi detiene le risorse importanti vede crescere rapidamente il proprio reddito, provocando un aumento del costo della vita, la fuga di chi non ha riscontri immediati e trasformando così Austin in un ghetto per facoltosi imprenditori (come è accaduto invece in alcune zone della Silicon Valley), creando inoltre marginalità, problemi di ansia e di sostenibilità. Nella città di Austin, al contrario, l’idea del ridistribuire mantiene bassi i costi della vita, controllando così le potenziali aree di conflittualità sociale e, inoltre, continuando a rendere la città attrattiva per chi è dotato di grandi potenzialità e redditi non altrettanto elevati. Questo modello si basa su un meccanismo di governance molto sofisticato perché per renderlo possibile occorre coordinare i molteplici interessi. E’ il risultato di un meccanismo di apprendimento sociale estremamente complesso che solo pochi anni fa non avrebbe avuto nessuna possibilità di successo. Austin era infatti una città dai tassi di innovazione assolutamente trascurabili; negli ultimi quindici anni i brevetti hanno invece registrato un incremento del 1300%. E’ un sistema questo che cresce molto rapidamente, produce ricchezza in modo visibile e nel momento in cui lo fa riesce a dar vita a meccanismi di ridistribuzione per rendere sostenibile lo stesso processo. Tutto ciò è possibile grazie agli effetti di un orientamento innovativo rispetto a scelte che in fase iniziale potevano sembrare assolutamente folli o devianti. La cultura assume un ruolo fondamentale in quanto strettamente collegata alle capacità attrattive del territorio: un’offerta culturale valida è un attrattore per persone che non sono nate e non vivono in quel territorio, ma che possono considerarlo una meta interessante in cui investire la propria carriera. Essa svolge un ruolo di orientamento all’occupazione, producendo nel sistema una tendenza alla sperimentazione di modelli innovativi, coordinando gli interessi, proponendo nuovi prodotti, creando meccanismi di interazione fra specialisti di discipline diverse; è questa la base della creazione del valore attraverso l’innovazione. Il fatto che l’Italia non riesca a farlo è una conseguenza del limitato investimento e della mancanza di una mentalità favorevole al sostentamento dei processi innovativi. Chi propone modelli innovativi si trova spesso a lottare contro meccanismi di frizione e di forte resistenza sociale. A questo si aggiunge la penuria di investimenti, che quando ci sono, spesso hanno un ritorno insoddisfacente e lamentano l’arretratezza della visione italiana. Un altro ordine di fattori di fondamentale importanza è quello della “capacitazione”. Nel momento in cui diventa caratteristica di un ambiente immersivo, la cultura provoca un mutamento nell’atteggiamento delle persone verso le esperienze che vivono, mettendole in grado di sviluppare le strutture mentali capaci di attribuire valore all’esperienza. Se nel modello di produzione industriale mancano le infrastrutture, non ci sono le condizioni per creare valore. Allo stesso modo se una comunità locale non possiede le risorse per attribuire valore alle esperienze, crea condizioni di sottosviluppo. E’ possibile pertanto affermare che queste strutture mentali rappresentano le infrastrutture di un nuovo tipo di economia e, quando vengono meno, la comunità locale non ha le condizioni per creare valore secondo questa nuova modalità. In tal modo è semplice accorgersi di cosa non funziona nei processi di sviluppo culturale. Si tratta di processi strettamente legati al turismo, nei quali la produzione culturale non svolge un ruolo centrale. All’interno di un contesto di questo tipo il ruolo della cultura è la produzione. In una città si può parlare di cultura non in relazione a edifici o monumenti, bensì quando in essa si producono operazioni culturali significative, che consentano la valorizzazione del patrimonio esistente in modo intelligente e creativo. Le nostre città d’arte purtroppo sono dei repertori di beni e non luoghi in cui si produce cultura. Il secondo aspetto da considerare è che in una città della cultura i primi beneficiari dell’offerta culturale devono essere i residenti. Gli esempi americani sono estremi, ma ci aiutano a comprendere come queste condizioni nascano in contesti nuovi e all’apparenza non particolarmente favoriti. Una recente valutazione dell’impatto economico della cultura a Denver ha mostrato che il fatturato (sia diretto che indiretto) legato all’attività culturale ammonta a circa un miliardo di dollari ogni anno. I beneficiari di quest’offerta culturale sono quasi esclusivamente i residenti del Colorado e degli stati limitrofi. Si tratta quindi di un turismo economico locale per la scala americana, diun “turismo da residenti”. Denver non sarà mai considerata una città di turismo culturale su scala mondiale, ma, creando le condizioni di attrattività per la produzione culturale nei confronti del pubblico locale, si generano economie in grado di giustificare l’esistenza di un distretto culturale di dimensioni rilevanti. La domanda viene costruita innanzitutto come domanda locale. Lo dimostra il fatto che le ore di formazione culturale erogate nell’area metropolitana di Denver sono particolarmente numerose. Questa attività è sostenibile perché l’amministrazione locale ha creato una “Agenzia locale di sviluppo culturale”, che si finanzia con una tassa di scopo. Ciò significa che su dieci dollari spesi nell’area metropolitana di Denver, un centesimo è utilizzato per il finanziamento dell’Agenzia, che ne ottiene in questo modo una quota rilevante. Le erogazioni avvengono in base ad un criterio strategico molto preciso: vengono stabiliti gli obiettivi socialmente condivisi, come il recupero degli adolescenti a rischio, l’animazione degli spazi verdi o il ripensamento delle specializzazioni produttive della città, e si premiano le organizzazioni che presentano progetti culturali interessanti e con importanti implicazioni rispetto agli obiettivi strategici. Un’unica iniziativa di questo genere naturalmente non migliorerebbe la situazione; ripetere per anni un tale processo significa raggiungere risultati concreti, insegnando ai produttori culturali a immaginare i progetti di dimensione comunitaria. La comunità locale impara quindi a considerare la cultura come un investimento. Non ha senso chiedersi se i progetti culturali diano profitti e contribuiscano allo sviluppo economico del sistema locale; se i contributi erogati permettono di produrre cultura di qualità, il fatto che siano in perdita non fa differenza perché la valorizzazione economica della cultura non si pone lo scopo di creare. Le città americane utilizzate come esempio, sono modelli applicabili anche alle città europee, spesso dense di emergenze culturali. Londra, ad esempio, dedica molta attenzione all’innovazione culturale e alla produzione, ma è talmente vasta da non poter essere considerata un distretto culturale, pur avendone più d’uno ed essendo tutti molto significativi. È una città ricca di importanti emergenze storiche e monumentali. Inserendo la valorizzazione del patrimonio all’interno di un’economia produttiva dà quindi vita ad una valorizzazione sostenibile. Alcuni paesi dell’Europa dell’est hanno intrapreso una spregiudicata valorizzazione del patrimonio, eliminando così qualunque sensibilità per una nuova produzione culturale. I casi estremi sono utili per comprendere cosa può provocare l’”incultura” della valorizzazione se concepita in modo molto tematico. Un esempio positivo è Linz, che in questo momento rappresenta uno dei poli culturali più interessanti d’Europa. Il progetto di sviluppo culturale della città è finalizzato all’attrazione e al finanziamento di progetti proposti da artisti e creativi di diversa provenienza. I progetti devono essere in grado di sfidare il senso comune e l’opinione pubblica della città: devono essere interessanti, provocatori e capaci di portare la città alla riflessione su temi rispetto ai quali era impreparata. Sembrerebbe un istinto suicida e quasi distruttivo. L’aspetto straordinario della cultura è, tuttavia, la sua capacità di aiutare le persone ad esplorare i propri margini di autodeterminazione delle scelte e di creare coesione sociale, cosa che è impossibile in un contesto nel quale non si comprende ciò che accade. E’ necessario sviluppare una politica culturale che, come nel caso di Austin e Denver, riesca a creare le condizioni necessarie agli operatori per essere efficaci, lavorare serenamente e attirare le risorse. Per fare questo è necessaria un’azione coordinata che coinvolga gli operatori culturali, l’amministrazione pubblica, il sistema imprenditoriale, quello formativo e della ricerca e l’università, attualmente coinvolti in maniera vincolante nello sviluppo di un modello di distretto culturale: La declinazione di questo rapporto, i maggiori investimenti sull’attrazione esterna, nell’orientamento all’innovazione e nella capacitazione sono strettamente collegati alle caratteristiche specifiche, alla storia e alle opportunità presenti sul territorio. Se si considerano queste specificità e si pensa che la singola attività culturale è giustificabile solo se è parte di una strategia di investimento collettivo finalizzata alla creazione di valore, la cultura diventa allora visibile nei suoi benefici di sviluppo economico e sociale e un interlocutore credibile anche per quei soggetti, ad esempio il mondo imprenditoriale, che non credono che il suo finanziamento abbia lo scopo di risanare i bilanci danneggiati dalle incapacità gestionali. Se la si considera una strategia di investimento collettivo, come accade ad Austin, dove le stock options servono a finanziare la crescita, non si tratta di carità ma di una strategia di investimento sofisticata e intelligente. Questi modelli sono difficili, richiedono un altissimo grado di responsabilità e coordinamento tra molti operatori. Non a caso in questi modelli l’esperienza iniziale è spesso di qualità ma con un primo intervento di valore dimostrativo, al quale lentamente si aggregano gli altri operatori del sistema. È evidente che questi ragionamenti sono possibili non imponendo “una cattedrale nel deserto”, ma partendo da situazioni in cui esistono segnali e elementi potenzialmente riconducibili ai modelli di sviluppo di cui abbiamo parlato. E’ giusto sapere però che percorrere questa strada di sviluppo significa frantumare abitudini, atteggiamenti, interessi economici e sociali consolidati e portatori di una visione totalmente diversa della cultura: un’attività sganciata dallo sviluppo economico e deresponsabilizzata rispetto alla modalità di uso dei fondi che vengono assegnati. Si tratta di sfide difficili ma fondamentali se si vuole davvero immaginare per l’Italia un modello di sviluppo locale diverso. 4