ZACCHEO, NUOVO FRUTTO DELLA NUOVA STAGIONE La

Transcript

ZACCHEO, NUOVO FRUTTO DELLA NUOVA STAGIONE La
ZACCHEO, NUOVO FRUTTO DELLA NUOVA STAGIONE
La filantropia di Dio
INTRODUZIONE
La discesa accondiscendente di Cristo tra gli uomini è
all’origine di ogni bellezza d’arte. L’icona, in particolare, pur
trasudando la sensibilità dell’artista, del tempo e del luogo in
cui essa nasce, trascende l’artista stesso ed esprime una visione
di fede corale, custodita dalla Chiesa sulle fondamenta della
tradizione.
E’ bene sempre aver chiara questa premessa nell’accostarsi
all’icona.
Oggi dunque voi, contemplando quest’icona, coglierete che essa
è specchio della vostra fede, trasparenza del vostro vissuto cristiano. A noi il ministero di scriverla in preghiera, a voi la gioia
di testimoniarla nella comunità.
LA FILANTROPIA DI DIO
L’icona che contempliamo celebra la filantropia di Dio,
la bellezza della sua misericordia. “Zaccheo sul sicomoro - scrive sant’Ambrogio - è il nuovo frutto della nuova stagione” (Ambrogio, In Luc., 8, 82.84-90).
Leggiamo il testo evangelico che l’icona annunzia.
(Lc 19,1-10)
1Entrò nella città di Gerico e la stava attraversando,
2quand'ecco un uomo, di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, 3cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura.
4Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là. 5Quando giunse sul
luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: "Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua". 6Scese in fretta
e lo accolse pieno di gioia. 7Vedendo ciò, tutti mormoravano: "È entrato in casa di un peccatore!". 8Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore: "Ecco, Signore, io do la metà di ciò
che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto". 9Gesù gli rispose: "Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch'egli è
figlio di Abramo. 10Il Figlio dell'uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto".
Il testo evangelico dice: “Entrò nella città di Gerico, e la stava attraversando”.
Gerico era considerata un’oasi di naturale bellezza e, soprattutto presso i rabbini, immagine stessa del
giardino dell’Eden, il paradiso della Genesi.
Di più: nell’immaginario collettivo si riteneva la conquista di Gerico, al tempo del ritorno dall’Egitto, come la conquista stessa della Terra Promessa. Una conquista pacifica fatta da Giosué intorno al 1200 a. C. grazie al suono
delle trombe, lunghi corni incavati d’ariete, utilizzati per l’invito alla preghiera che, nel simbolismo biblico, manifestano l’intervento di Dio.
Una città-simbolo, dunque, il cui nome rimanda a due immagini: la luna e il vento, ma anche al soave
odore dei profumi. Gerico è “la profumata”, ma è anche la città più bassa del mondo a circa -300 m sul livello del
mare: una posizione emblematica!
Per giungervi Gesù deve ‘discendere’. Per attraversarla deve camminare a lungo.
Egli, nella sua filantropia, ‘deve’ farlo per “cercare e salvare ciò che era perduto” (v.10).
Ai giovani, durante il Sinodo del 2002, il card. Martini indica lo stile di Gesù nell’entrare nella città degli uomini perché diventi lo stile della Chiesa:
“Gesù entra nella città. Non ha paura di misurarsi con la convivenza degli uomini. Gesù parlava per le strade,
entrava nelle case, non faceva differenze, sapeva meravigliare, era discreto e deciso. Al suo passaggio saliva la lode a
Dio perché annunciava l’evangelo. Non rinchiudetevi mai, la Chiesa è aperta al mondo”. (card Martini, Sinodo dei giovani, 2002)
L’icona mette in risalto alcuni dettagli che rimandano alle caratteristiche della città di Gerico, considerata nel tempo come il luogo dell’incontro salvifico tra piccolezza dell’uomo e la grandezza di Dio, la miseria e la
misericordia.
Questi dettagli notificano che siamo di fronte ad un profondo livello di bassezza e sono scanditi nel rapporto tra
l’elevatezza delle montagne sovrastanti e la posizione inferiore della casa. Questo dislivello è ulteriormente evidenziato da un taglio trasversale, una pendenza ripida, che conduce rapidamente l’occhio dall’alto verso il basso.
Si tratta di un elemento raffigurativo che allude ad una bassezza più profonda, interiore più che geografica. E’ la
bassezza della condizione del personaggio incontrato da Gesù, Zaccheo, personificazione dell’uomo ‘perduto’ –
così lo definisce Gesù - segnato da un’indefinita inquietudine. E’ in definitiva la nostra bassezza redenta che
l’icona celebra, esaltando la misericordia di Dio. Lui vuole fermarsi nella nostra casa, vuole entrarvi, per essere a
noi amico e familiare.
Dicevamo che Gerico è anche, etimologicamente, la città ‘profumata’. L’icona, nell’annunciare la filantropia di Dio, allude alla fragranza di odore soave: se ‘la bassezza’ di Gerico è il nostro peccato, il suo profumo è la
visita di Dio. Il profumo è la misericordia.
Gli uomini e le donne del nostro tempo si guardano intorno e vedono quello che capita e sono capaci di formulare giudizi: più il giudizio è critico e più uno crede di essere intelligente.
Tuttavia questo pensare, parlare, criticare sembra produrre per lo più amarezza, scontento, scoraggiamento.
E’ come se all’intelligenza vivace, all’informazione rapida e universale, al giudizio penetrante mancasse qualche cosa.
Qual è il profumo che manca a tanti uomini e donne del nostro tempo?
Il profumo che manca è la misericordia; quel modo di guardare che prova simpatia, quel giudizio che è capace
di diventare apprezzamento, quell’intelligenza penetrante che sa leggere ogni vicenda e considerare ogni persona in
modo così profondo da trovarla amabile.
(Mons. Mario DELPINI, Vescovo Ausiliare di Milano)
Ora chiediamoci: chi è Zaccheo? Meglio: chi è stato Zaccheo, come ha vissuto fino al giorno in cui è salito sul sicomoro della ricerca di Dio?
Il Vangelo ci dice che Zaccheo era un “pubblicano”, anzi, il capo dei pubblicani di Gerico. I pubblicani erano gli esattori delle tasse che i Giudei dovevano pagare all’Imperatore romano.
E, badate bene, quando costui accettava l’incarico, doveva prestare un giuramento di fedeltà
all’imperatore ed offrire un sacrificio pagano in onore del suo spirito.
Un traditore della propria fede, dunque, amico e servitore degli odiati invasori. Ecco perché la pratica di questo
mestiere bollava i pubblicani come pubblici peccatori. Per di più, poiché approfittavano spesso della loro posizione per estorcere denaro alla gente, erano il ritratto stesso dell’empio biblico e dello scomunicato.
Insomma, per dirla senza mezzi termini, Zaccheo è stato un rinnegato e un farabutto con il portafoglio gonfio di
denaro sporco.
Ora cosa ci dice l’icona di lui?
Zaccheo è rappresentato sull’albero del sicomoro nell’atto liberante di vedere, ascoltare, accogliere Gesù. Questo pubblicano traditore, incallito nel suo stile di vita fino ad ottenere l’ambito ruolo di
capo, è caratterizzato, quasi fosse il contrappasso delle sue scelte
sbagliate, da una statura fisica sproporzionata: è basso, quasi caricaturale nella sua modestissima altezza rispetto agli altri personaggi,
come attesta il Vangelo: “era piccolo di statura” (v.3).
Ad accentuare questo aspetto, la sua tunica – la tunica, simbolo di dignità! - , oltremodo corta, che lascia denudato il corpo fin oltre le ginocchia. Un’accentuazione che diventa ancor più palese se guardiamo
le maniche: sembra manchino di stoffa sufficiente per coprire le braccia, già corte. Tutto è così fuori misura in lui!
E rispetto a queste fattezze, rappresentazione di un animo rimpicciolito e reso meschino dall’avidità, la sua stessa opulenta ricchezza, ac-
2
caparrata in modo disonesto, appare impotente, persino incapace di nascondere la nudità del suo piccolo corpo.
Come a dire: non tutto si può comprare con il denaro, soprattutto non si possono acquistare a suon di quattrini la
dignità, l’onore e la stima degli altri.
Il capo di Zaccheo è avvolto da una sorta di copricapo che richiama il tallit,
lo scialle di preghiera ebraico, un indumento liturgico che rimanda agli antichi
mantelli con cui gli uomini del deserto si proteggevano dal sole e dalle tempeste di
sabbia. Il colore di questi teli era bianco a strisce blu: il bianco, colore prevalente,
segno della misericordia di Dio, e il blu, richiamo del cielo e della giustizia divina.
Avvolgersi in questo scialle significava avvolgersi nella misericordia divina e, al
contempo, avere consapevolezza degli impegni che derivavano dall'aver accolto gli
insegnamenti di Dio.
Sul capo di quest’uomo i colori della fedeltà all’alleanza sembrano mettere
in vetrina la contraddizione, l’ambiguità di una vita giocata sul filo del sopruso e dell’empietà. Ostentano e provocano, ma al tempo stesso nascondono un desiderio non definito di ritorno a Dio, di conversione o, se non altro, di
recupero della propria identità.
In effetti il Vangelo lo lascia intendere al v. 3: “cercava di vedere chi era Gesù”.
Che cosa vuol dire “cercare”?
Nell’originale greco la parola cercare si dice “zetéo”. Al tempo di Gesù questa parola si pronunciava “zitéo”, da cui viene, ad esempio, la parola calabrese “zitu/zita”, fidanzato/ fidanzata. Cercare dunque implica il desiderio e la volontà di instaurare un rapporto. Che per noi calabresi giunge fino alla relazione per eccellenza, il
matrimonio.
Anche il latino ci aiuta a meglio comprendere la pregnanza di questo ‘cercare’. Da circum, attorno, andare intorno, quasi in cerchio, come fa chi vuol trovare qualcosa a circitare, che vuol dire studiarsi, ingegnarsi, trovare ciò
che necessita o che si desidera o che si è smarrito.
Appena Dio si affaccia all’esperienza,
appena Egli si fa conoscere e in qualche modo vedere,
prorompe allora tutta l’esigenza vera del cuore:
io cerco Te, Signore, “il Tuo volto, Signore, io cerco” (Sal 27,8).
Questa è l’autentica essenza del desiderio del cuore umano:
vedere Te, cercare Te, amare Te.
In fondo è proprio questo che muove agilmente Zaccheo spingendolo a farsi largo tra una folla che professa per
lui odio e disprezzo e arrampicarsi sul sicomoro, sfidando la sua bassezza ed affrontando anche la possibilità di
cadere nel ridicolo: cercare una risposta per affiorare dal magma dell’insoddisfazione latente, colmare un vuoto,
guardare in faccia la propria inquietudine, trovare finalmente un ‘tu’ cui relazionarsi senza paura d’essere giudicato o cercato solo perché ricco e potente. Fosse iniziato tutto questo anche soltanto da una semplice curiosità,
non potremmo certo ridurre solo ad essa l’immediatezza di un gesto destinato ad essere motivo di derisione,
raccontato certamente ai crocicchi di Gerico dai pettegoli di turno come l’evento ridicolo del giorno, il gossip si
direbbe oggi.
E il volto di Zaccheo nell’icona lo esprime chiaramente: afferrato dallo sguardo di Cristo, chiamato per nome, appare finalmente pacificato, consapevole del suo essere persona, unica e irripetibile, da sempre amata e da sempre ricordata, come attesta il suo stesso nome che deriva dall’aramaico Zakkai, “colui di cui Dio si ricorda”.
Guardiamo Zaccheo, oggi, sull’albero: il suo è un gesto ridicolo, ma è un gesto di salvezza. E io dico a te: se tu hai un
peso sulla tua coscienza, se tu hai vergogna di tante cose che hai commesso, fermati un po’, non spaventarti. Pensa
che qualcuno ti aspetta perché mai ha smesso di ricordarti; e questo qualcuno è tuo Padre, è Dio che ti aspetta! Arrampicati, come ha fatto Zaccheo, sali sull’albero della voglia di essere perdonato; io ti assicuro che non sarai deluso.
Gesù è misericordioso e mai si stanca di perdonare! Ricordatelo bene, così è Gesù.
(Papa Francesco)
Soffermiamoci ancora su Zaccheo. Osserviamo: con la mano sinistra sembra sia strettamente aggrappato
ad un ramo dell’albero, eppure si ha come l’impressione che voglia spostarlo, farsi spazio, fare di tutto per vedere
meglio e soprattutto, dal sottobosco dei più reconditi desideri, essere guardato da Gesù. Guardato senza frapporre veli né maschere. Guardato nella sua nudità. Guardato sperando e chiedendo senza parole d’essere amato e
3
perdonato. Il sicomoro diventa quasi un confessionale sotto il cielo
della misericordia che accoglie il pentimento di un uomo ed offre il
perdono di Dio.
Arrampicarsi sul sicomoro non è semplice: sforzo e agilità
sono assolutamente necessari per aggrapparsi ai nodi del suo tronco e dipanarsi tra il groviglio dei rami. Ma soprattutto esige l’umiltà
della salita, il superamento del rispetto umano e un taglio deciso
all’orgoglio. Così come lo richiede il percorso penitenziale del cristiano che inizia un cammino di riconciliazione impegnandosi nella
conversione del cuore sigillata dal perdono sacramentale:
Pietà di me, Signore,
fammi grazia, riempimi della tua grazia.
Cancella, Signore, la mia ribellione,
lavami da ogni disarmonia,
tirami fuori da ogni mio smarrimento.
Secondo la tua grande passione per l’uomo,
abbi misericordia, o Dio.
Ora guardiamo Gesù. I suoi occhi fissano Zaccheo, dal basso verso l’alto,
attestando come l’amore sovverta l’ordine delle ‘grandezze’ e delle ‘importanze’:
non è forse il servo, ieri come oggi, a sollevare lo sguardo verso il suo padrone?
Eppure qui avviene il contrario. Si potrebbe dire che Gesù non rispetti ‘il protocollo’, come qualcuno a volte dice in ambiente curiale, non rispetti le tradizioni,
non tuteli il suo ruolo di maestro.
Semplicemente Gesù non ci guarda dall’alto in basso, come fanno i farisei che
scuotono il capo dinanzi al nostro peccato e puntano il dito per accusarci, parchi
di compassione e privi di tenerezza. La verità è che, agli occhi di Dio, ciò che conta
non è da dove veniamo né chi siamo stati e cosa abbiamo fatto. Ciò che veramente
fa la differenza è il desiderio di voler essere salvati. Ed Egli è Colui che, per farlo,
si fa servo, oggi, per me e per te.
Contemplo, Signore,
il tuo sguardo comprensivo, creativo,
capace di guardare la mia situazione
con occhio nuovo, tenero, positivo.
Fammi scoprire la verità di me stesso,
infrangi le barriere del mio cuore
entra lì dove neppure io stesso mi rendo conto
di ciò che succede
e sospingimi alla sincerità di quello che io veramente sono.
(Card. Martini)
Guardiamo ancora Gesù. La sua mano è rappresentata nell’atto di benedire: la
chiamata di Dio è sempre una benedizione per l’uomo! Egli intercetta Zaccheo.
Zaccheo risponde con la mano aperta. E’ la mano destra che si stacca dall’albero,
nello slancio della libertà ritrovata, nella corrispondenza aperta al dono della salvezza, nella gioia di fidarsi della Parola di Gesù, aggrappandosi ad essa. Dal sicomoro al cuore di Dio, dal desiderio del perdono alla gioia d’essere stati salvati.
Quando ci si scopre “salvati da Dio” e chiamati ad una vita nuova nella fede, è festa, è conversione, come per Zaccheo
che dalla piccolezza di una statura meschina risale la china dell’amore. La sua vita cambia. E diventa gioia, gioia di recuperare la dignità perduta e di condividere il dono ricevuto.
Signore, invece di salire su un albero,
io vengo nella tua casa, mi salvi il tuo mistero!
Più grande è la croce che il ramo,
si riversi sopra di me la tua misericordia!
(Cirillona, Hymn. in convers. Zacch., passim).
4
E i discepoli che si raccolgono a grappolo tra il Dio che perdona e l’uomo salvato?
Perché abbiamo scelto di porli proprio lì, tra i due, attenti testimoni
dell’evento, anch’essi partecipi con lo sguardo, i gesti, la postura?
In un mosaico della Basilica di san Marco a Venezia che rappresenta la stessa
scena evangelica, i discepoli assistono all’incontro di Gesù e Zaccheo rimanendo un
po’ appartati: Gesù è staccato da loro, anzi volta loro le spalle, tutto proteso verso
l’albero e verso Zaccheo.
A noi invece è sembrato bello porli tra i due. I seguaci del Maestro di Nazareth non
sono il germoglio della Chiesa nascente? La loro presenza lì, tra i due, vuole attestare
che, da allora e per sempre, chi incontra la Chiesa incontrerà la stessa grazia di Cristo,
la potenza della sua risurrezione, lo stesso sguardo tenero e appassionato. Quei discepoli, dal volto luminoso assorto e stupito sono lì a preannunciare che la Chiesa non
sarà semplicemente la portatrice di un messaggio, ma la realizzazione di una Presenza, non per sua capacità, ma per la potenza di cui è investita, soprattutto attraverso il
dono dei sacramenti, gesti concreti ed efficaci attraverso i quali Gesù prende la nostra
vita, la sostiene, la custodisce e continuamente la rinnova.
Non a caso il discepolo che, in primo piano, volge il suo sguardo verso Gesù, ha la palma della sua mano aperta: con questo gesto dice sì a nome di tutti e manifesta la disponibilità corale a continuare l’opera del Signore ed essere fedeli al suo mandato:
“Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del
Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato.
Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" (Mt 28,19-20).
Non solo: i tre discepoli che guardano Cristo e guardano Zaccheo esprimono
uno stile preciso di Chiesa che annuncia il primato di Dio e il primato dell’uomo. Con
la totalità di un amore indiviso, volgono lo sguardo d’ascolto e d’amore al Maestro
mentre non distolgono gli occhi dall’uomo, offrendo tenerezza, accoglienza e prossimità. Ecco, in trasparenza, l’annuncio dell’icona: chi segue Cristo ‘deve’ entrare nella vita dell’uomo e l’urgenza di
farlo si fa tanto più pressante quanto più fragile è quest’uomo! Deve attraversare il suo cuore, farsi prossimo e
amico.
I volti di questi uomini puri, divaricati tra Gesù e Zaccheo, nell’incrocio simultaneo dei loro sguardi complementari e assolutamente necessari, annunciano in definitiva quella concretezza cristiana di cui necessitano i nostri
cammini di fede e le nostre scelte pastorali: “l’amore cristiano è, come dice Papa Francesco, un amore concreto,
un amore che interviene realmente nella vita delle persone, che le cambia, che per mezzo della misericordia fa
proprie le sofferenze dell’uomo e le trasforma”.
Leggiamo ora l’iscrizione dell’icona: "Oggi devo fermarmi a casa tua" (v.5). E’ l’annuncio sorprendente di Gesù
che ci precede sempre!
Prepariamo in noi un cuore puro
perché il Signore voglia entrare con gioia
nella candida casa del nostro cuore.
A Lui gloria e potenza nei secoli dei secoli.
(Origene, "Omelia XXIV sul libro di Giosuè")
Oggi: è il momento della salvezza, è il kairòs, il tempo che va al di là di ogni determinazione temporale e diventa
decisivo per ogni uomo, in ogni tempo e ad ogni latitudine, senza esclusioni.
Devo: è la volontà di Dio che Gesù insegue incessantemente per compiere l’opera per cui è stato mandato: che
nulla vada perduto!
Fermarmi: (ménô) “restare”, il verbo che nel vangelo di Giovanni esprime la comunione di vita tra Gesù e i discepoli.
Non si tratta del semplice "alloggiare momentaneamente", "sostare per un attimo" – verbi usati invece dai farisei! – ma
del desiderio di un’amicizia gratuita e appassionata, di una comunione profonda che vuole ‘dimorare nella’ relazione e nel dialogo.
A casa tua: è lo spazio dell’intimità, il luogo in cui si vivono gli affetti, la familiarità e il calore della condivisione.
Entrare in casa significa dunque dichiararsi amico, fratello, intimo e vicino. La casa è anche il crocevia
dell’esistenza: la culla che ti accoglie alla vita, il letto nuziale che genera nuova vita ed è infine il catafalco che ti
consegna all’eternità. In questo snodarsi dell’esistenza, dalla nascita alla morte, per Zaccheo e per noi che ci sentiamo come lui, Dio c’è, s’è aperto un varco e vuole rimanere con noi.
5
Lasciamoci anche noi chiamare per nome da Gesù! Nel profondo del cuore, ascoltiamo la sua voce che ci dice: “Oggi
devo fermarmi a casa tua”, cioè nel tuo cuore, nella tua vita. E accogliamolo con gioia: Lui può cambiarci, può trasformare il nostro cuore di pietra in cuore di carne, può liberarci dall’egoismo e fare della nostra vita un dono d’amore.
Gesù può farlo; lasciati guardare da Gesù!
(Papa Francesco)
L’icona pone la casa in debito risalto, a destra, definendola attraverso una molteplicità di colori che dicono le tante sfumature della vita familiare. E ancor più in risalto è la tenda che sostituisce la porta dell’abitazione.
Perché una tenda e non una porta? Nell’icona la presenza della tenda dice che la scena raffigurata si svolge
all’interno di uno spazio. Ora, la tenda qui sembra voglia dirci che c’è ancora una scena importante oltre quella
che balza all’occhio di chi guarda. E’ come un ulteriore passo da compiere, un gesto concreto da imprimere nella
memoria del cuore, l’ultimo atto della vicenda di Zaccheo, che si svolgerà proprio nella sua casa, dinanzi
all’Ospite amico: "Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco
quattro volte tanto".
CONCLUSIONE
La conversione è opera di Dio, sua competenza. Noi possiamo mettere in atto, senza pretese, il coraggio di cercarlo, di prendere le distanze dalla folla e attenderlo là dove siamo certi che passerà. E Lui – ne siamo sicuri! – passerà perché “è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto" (v.10).
6