Guerra di liberazione - Fondazione Cassa di Risparmio di Fano

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Guerra di liberazione - Fondazione Cassa di Risparmio di Fano
IV
GUERRA DI LIBERAZIONE
ERA NECESSARIO “UN POSTO AL SOLE”?
Non entro nel grave attualissimo tema della denatalità europea: penso
invece con ironia ad Hitler che coltivava il mito della razza pura mentre ora, in Germania, ci sono più di tre milioni di turchi..! È proprio
vero che a volte la storia fa matte risate sulle nostre trovate, e chissà
quante ancora ne farà! A scuola (rivado nei lontani tempi della mia
adolescenza) non s’insegnava e nemmeno si accennava al culto della
libertà, ma si esaltavano quelli del nazionalismo e della forza. Si diceva e si ripeteva, al canto di “Giovinezza” (parole di Salvatore Gotta)
“molti nemici, molto onore”. Vecchio vizio se trovo che addirittura nel
1896 il buon Cesare Selvelli (poi ingegnere) ce l’aveva a morte con
Menelik e in alcune strofette “garibaldine” gli dava del boia, dell’assassino, del birbaccione. Ricordo la guerra contro l’Abissinia (1935) e
mi chiedo che cosa mai ci aveva fatto il Negus Neghesti (re dei re) Ailé
Selassié. Me lo sono chiesto in ritardo, ma allora erano gli anni del
“consenso” al fascismo e gl’italiani, troppi, molti, avevano abbassato
la testa, obbedendo al Duce. A scuola e per ogni dove ci veniva detto
che avevamo bisogno di “un posto al sole” perché nella penisola eravamo in troppi e non c’era lavoro per tutti. Gli studenti si mostravano
particolarmente sensibili al richiamo del Capo e lo mostravano facendo grandi “dimostrazioni”; da noi a Fano era così, cantando, oltre a
“Giovinezza”, “L’inno di Roma” (che era stato musicato da Giacomo
Puccini) e dando anche saggio del “passo romano” che, benché copiato dal tedesco “passo dell’oca”, serviva o doveva servire a dare vigore,
a coltivare sogni di gloria.
Le dimostrazioni non erano preparate con la cartolina precetto, bastava passare la voce e spesso nel pomeriggio, con la banda del 94° fanteria in testa, gli studenti sfilavano per il Corso o in Piazza ripetendo
lo slogan infame che il giornalista Mario Appelius lanciava dalla radio:
“Dio stramaledica gli inglesi!”. Ricordo che in una di quelle dimostrazioni un cartello illustrato mostrava un balilla che faceva la pipì nella
bocca aperta del Negus, ma soprattutto ho in mente qualche strofetta
allora in voga: “Caro Negus se permetti/ in Italia stiamo stretti/ allun203
gheremo lo stivale/ fino all’Africa Orientale”. E poi ricordo: “Con la
barba del Negus ci farem gli spazzolini/ ci pulirem le scarpe al Re e a
Mussolini”.
Quando Dio vuol perdere una persona la fa impazzire, ma il diavolo
più lieve (come argutamente nota Salvatore Satta) la fa ridere e la fa
diventare ridicola.
E noi ridevamo molto, il diavolo era con noi, vittime predestinate non
capivamo nulla del disvalore che il regime ci propinava. Chi riusciva a
capirlo (ma erano troppo pochi) finiva in prigione o al confino. E il
posto al sole? Fu una favola breve con brutta fine.
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LA VISITA DI MUSSOLINI E DI UMBERTO DI SAVOIA
Ogni tanto a Fano qualche istituzione “chiude”: dove andremo a finire
di questo passo?
Questa volta è toccato alla caserma Paolini che, in un primo tempo in
memoria di un grande soldato fanese del ‘600, avrebbe dovuto chiamarsi “caserma Palazzi”. Ma lasciamo stare la storia, altri l’hanno già
raccontata o la racconteranno. Qualcosa che non si sa è forse meno
importante, ma più stuzzicante.
Nel dicembre 1943, mentre la caserma ospitava reparti locali della
RSI, con molti antifascisti, la caserma Paolini doveva andare a fuoco.
L’incendio doveva cominciare (forse era una ingenuità) dal piano alto
che dà sulla via Bixio. Benzina e zolfo dovevano essere l’esca; poi ci
sarebbe stato chi avrebbe creato panico e confusione. Però avvenne
l’imprevisto: la persona che doveva fornire benzina e zolfo fu colta da
grave malore per un’ulcera perforata: portata all’ospedale, rimandò a
tempi migliori l’impresa, mentre una decina di “congiurati” (che passarono poi tutti nelle file partigiane) aspettava con ansia e, diciamolo
senza falso pudore, con un po’ di paura, di dare inizio all’azione che
non si sa come sarebbe andata a finire.
La caserma Paolini nella primavera del 1944 subì un attacco nel tardo
pomeriggio: due partigiani lanciarono ognuno una bomba a mano
sopra il cancello di via Negusanti. Lì vicino stazionavano reparti della
RSI. Le bombe, per caso, toccarono terra insieme; sì parlò di un tiro di
mortaio, poiché lo scoppio fu grande e fu vasto il raggio delle schegge. Tredici soldati della Repubblica furono feriti: uno, abbastanza gravemente. Il giorno dopo, fasciati e incerottati, li fecero sfilare lungo il
Corso affinché tutti si rendessero conto della stoffa del “terrorismo”
locale. Fu, non c’è dubbio, un episodio di guerra civile! Il fatto grave
è che nessuno pensava a proteggere la caserma nella parte esterna.
Mi piace ricordare però due scene inedite di tutt’altra natura e di tutt’altra data.
Un giorno, all’ultimo momento, si seppe che Mussolini avrebbe visitato la caserma che ospitava, come sappiamo, la Scuola Allievi
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Ufficiali di fanteria e fu allora che ripeté il monito, poi scritto a grandi lettere nel cortile della caserma stessa: “Coraggio, ardimento, sacrificio e, se necessario, il combattimento”. Fatto sta che tutti si dettero
da fare per mettere ancor più a posto l’ingresso, sempre ben tenuto.
Quando Mussolini arrivò il colonnello comandante (mi pare Ronco)
era nel cortile con una carriola a raccogliere le foglie. A un tratto si
vide davanti Mussolini che, dismessa ogni solennità, “Ma bravo - gli
disse - proprio bravo!!”.
Un’altra volta la Scuola Allievi fu visitata dal principe di Piemonte (el
principìn) Umberto di Savoia. Quando si sparse la voce che Umberto
era in caserma un foltissimo gruppo di persone (c’ero anch’io) si assiepò fuori della caserma per “vederlo”. Finalmente Umberto si affacciò
alla finestra del portone principale e allora la gente, oltre a battere le
mani, lo salutò gridando a più non posso: "Du-ce, Du-ce!!!". Ve l’immaginate la faccia di Umberto?
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STORIE O STORIELLE DI CASA NOSTRA
Ormai sono passati sessantatre anni. Quel giorno, nel tratto di strada
fra via Giordano Bruno e Borgo Cavour mi apparve proprio lui,
Mussolini col gran faccione giallo incastrato fra sahariana e berretto
bianchi. Proveniva dal campo d’aviazione dove era stato ossequiato
dalle autorità.
I fanesi applaudivano e lui sorrideva: l’aver da poco dichiarato guerra
a Francia e Inghilterra e ricevere tanti applausi dai cittadini di Fanum
Fortunae doveva sembrargli di buon augurio, e lui ne aveva tanto bisogno.
C’erano molti, e non tutti giovanissimi, che per ben fissare in mente
quel volto atteggiato a fierezza e paternalismo correvano a perdifiato
dietro la Mercedes che, veloce, andava su per il Corso rimasto sgombro da capi di stato o di governo dal maggio 1857 quando Pio IX scarrozzò per la nostra città che, solo tre anni dopo, gli avrebbe voltato le
spalle per re Vittorio Emanuele. A Benito, transitante per il Corso nell’estate del 1940, capitò di peggio tre anni dopo. A lui quel giorno non
gettarono petali di rose come a Pio IX; anzi venne giù da una finestra
del “Gafòn”, poco prima di arrivare al Caffè Centrale, un bel mazzo di
fiori ancora tutto ben legato: gli passò a un palmo dalla visiera!
Maragno, il segretario politico (è inutile aggiungere che c’era solo
quello fascista) detto bonariamente “Cinq e tre òtt” per via del suo
claudicare dovuto ad una mutilazione di guerra, impallidì: forse
sospettò un attentato; caspita potevano colpirgli la testa! Quel segretario politico era noto per essere perpetuamente in lotta con la lingua italiana. Una volta, dal balcone della Casa del fascio in Piazza XX
Settembre, aveva lanciato tuoni e fulmini contro gli “anglofilini e francofilini”. Più tardi, dopo la dichiarazione di guerra agli Stati Uniti,
disse con incrollabile fede: “Abbiamo messo a pecorone la Grecia, ci
metteremo anche l’America!”. Tuttavia, benché ispirato come
Nostradamus, fece piuttosto cilecca nel suo profetare osceno.
Nelle popolaresche storie cittadine quel segretario politico era ricordato quale vittima di ignoti ladruncoli che nottetempo gli ripulirono il
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pollaio, tralasciando per ironico sfregio un gracile striminzito galletto
al collo del quale appesero un militaresco cartoncino con la scritta
“rividibile”. Era il tempo del riso amaro.
Intanto Lui, quel giorno dell’estate 1940, proseguì verso Pesaro inseguito dal martellante “du-ce, du-ce”. Eh, sì, purtroppo parecchi fanesi
l’avevano facile quel verso. Ricordo (l’ho già scritto qualche anno fa)
che quando il principe Umberto di Savoia venne a visitare la scuola
allievi ufficiali e si affacciò alla finestra centrale del Casermone la
gente da sotto gli gridava: “du-ce, du-ce”. Ve l’immaginate la sua faccia?
Questi fanesi, questi fanesi!
2003
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HANNO AMMAZZATO DUE RAGAZZI
Benché pieno di difetti e di omissioni anche gravi (certi vuoti per fortuna sono stati colmati dalle pagine di Gastone Mazzanti “Dalle vie del
cielo a quelle della città”) è sempre interessante leggere qualche pagina di cronaca fanese della seconda guerra mondiale nel libro di
Giuseppe Perugini, oggi introvabile.
A pag. 73 del Perugini si legge: “oggi 23 settembre (del 1943 n.d.r.) si
ha a Fano il primo fatto di sangue. Un soldato tedesco di guardia alla
caserma Sant’Agostino (in effetti, si trattava di un accantonamento
ricavato dall’Esercito Italiano in un’ala del seminario vescovile, n.d.r.)
è alle prese con dei ragazzi che non vogliono tenersi lontani dalla sentinella; la guardia tedesca minaccia di sparare, poi spara con lo scopo
di spaventare e allontanare i ragazzi, che continuano a far ressa sulla
porta della caserma”.
In seguito il Perugini, che non era fra i testimoni oculari della tragedia,
freddamente e un po’ distrattamente aggiunge: “Com’è, come non è,
forse l’intenzione del soldato era di sparare in alto, ma i colpi sono partiti in anticipo ed hanno colpito tre ragazzi, due dei quali mortalmente: Renata Marconi di anni 14 e Temistocle Paolini di anni 8”. Qui finisce l’asciutta narrazione del Perugini sulla occupazione tedesca della
“Sant’Agostino”. La sua annotazione ha solo un carattere burocratico;
ma il fatto, a ben pensarci, ha un valore emblematico ben diverso. I due
ragazzi poco dopo morirono tra la disperazione attonita dei parenti e
degli amici. La città, come già il Perugini, non si scosse più di tanto.
La guerra aveva indurito gli animi, la paura li aveva crocifissi; non ci
furono né atti di ribellione contro gli occupanti tedeschi né proteste
clamorose. I due ragazzi, innocenti, erano andati verso la caserma di
Sant’Agostino dietro l’esempio degli adulti che in quei giorni tumultuosi del settembre 1943 avevano fatto man bassa di quanto avevano
trovato nella caserma più importante della città; vogliamo dire la caserma “Paolini” dalla quale, però, non fu sottratto nemmeno un fucile.
Quei due poveri ragazzi erano davanti alla caserma di Sant’Agostino
sperando di trovare un po’ di cibo o qualcos’altro che fosse di sollievo
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alle dure privazioni della guerra; invece trovarono ingiusta e crudele
morte.
Il duplice omicidio risulta solo dai certificati necroscopici. Non erano
partigiani, non erano eroi: quasi tutti si dimenticarono della loro assurda morte, come se si fosse trattato di un gioco.
Sarebbe bene che per ricordare il fatto e tramandarlo alla memoria dei
posteri il Comune di Fano ponesse sul posto una lapide che fosse di
ammonimento e insegnasse il giusto orrore che la guerra, la violenza e
la poca stima dell’altrui vita possono generare.
2001
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IL BOMBARDAMENTO DEL 17 APRILE 1944
Nell’aprile 1944 Fano subì ventun incursioni di aerei alleati: naturalmente e purtroppo ci furono morti e feriti fra i civili. Oltre ai ponti sul
Metauro gli alleati avevano preso di mira la stazione ferroviaria che nei
loro rapporti (è fonte documentatissima il libro di Gastone Mazzanti
“Dalle vie del cielo a quelle della città”) chiamavano “scalo ferroviario”.
Gravissimo il bombardamento del 17 aprile. Sessant’anni fa le bombe
sganciate da dodici aerei Marauders sudafricani scortati da sei
Spitfires (i famosi Sputafuoco) colpirono duramente Via Nolfi. Gli
edifici centrati dalle bombe sono ora scomparsi e sostituiti da nuove
costruzioni. Furono allora colpiti: La filanda Solazzi, la vecchia sede
delle Maestre Pie Venerini, la farmacia S. Elena aggregata all’Istituto
tecnico commerciale (ex ospedale di S. Croce) che poi verrà totalmente spianato in un successivo bombardamento, il portico e la chiesa di
S. Croce. Fu colpita anche la chiesa di S. Agostino che non crollò del
tutto ma vide invece crollare il soffitto reso famoso da una prospettiva
secentesca del fanese Giovanni Battista Manzi (già attribuita a
Francesco da Bibiena) raffigurante S. Agostino in gloria.
Non so se nella stessa occasione dalle bombe fu provocato uno squarcio nelle mura malatestiano-pontificie, soprastanti la linea ferrata, che
mise in luce, come scrisse il Selvelli, “un paramento secolare in grossolano opus reticulatum” (sic!), muro di origine romana del quale successivamente, riparando le mura, il geom. Menegoni del Genio Civile
ebbe la felice idea di lasciare scoperto un breve tratto.
2004
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ALFREDO PIZZONI CHI ERA COSTUI?
LA RESISTENZA CENSURATA
Nel 1993 e nel 1994 su pubblicazioni cattoliche si parlò del “caso
Pizzoni”, ma l’argomento fu notato da pochi e fu rimosso: invece era
importante.
Alfredo Pizzoni, morto nel 1957 a 63 anni, fu il Presidente del
Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (C.L.N.A.I. ).
Senz’altro un personaggio importante che oltre ad avere il pieno
appoggio del governo nazionale, allora presieduto da Bonomi, godeva
prestigio e fiducia presso gli Alleati sia in U.S.A. sia a Londra: era
addirittura più gradito, per la sua umiltà, dello stesso De Gaulle.
Tutti sanno che il 25 aprile 1945 in Alta Italia ci fu l’Insurrezione,
pochi sanno che il 27 aprile, due giorni dopo, Pizzoni venne destituito dal suo incarico e praticamente defraudato del diritto di apparire di
fronte agli italiani e al mondo quale Capo supremo della Resistenza in
Alta Italia (dove la lotta era stata più aspra) e Capo politico della lotta
di Liberazione. Al suo posto fu messo l’allora oscuro socialista
Rodolfo Morandi.
A chiedere la destituzione di Pizzoni furono Sandro Pertini (socialista,
destinato a diventare Presidente della Repubblica), Emilio Sereni e
Luigi Longo (comunisti ) e Leo Valiani (Partito d’Azione ). Achille
Marazza (D.C.) e Giustino Aspesani (Liberale), subirono il colpo “per
mantenere l’unanimismo del C.L.N.A.I.” come poi amaramente scrisse lo stesso Pizzoni.
Il diretto interessato scrisse infatti le sue memorie, ma la famiglia
imprudentemente le consegnò all’editore Giulio Einaudi, che ne stampò poche copie finite quasi tutte in magazzino. La Resistenza doveva
apparire tutta e solo di sinistra, invece Pizzoni non “rappresentava nessuno” perché non era iscritto a nessun partito!
Nelle sue “Memorie” Pizzoni parlava dei rapporti non sempre idilliaci
fra le componenti del Comitato di Liberazione e metteva in luce i
sospetti che da sinistra gravavano sugli alleati angloamericani, nonché
le mire della Resistenza slovena su Trieste! Tutte cose che si sapevano:
nulla era segreto. E’ certo che Pizzoni avrebbe difeso il confine orien212
tale italiano: per questo “non rappresentava nessuno”.
Su di lui ora fortunatamente il silenzio è stato rotto da Tommaso Piffer
che ha pubblicato recentemente (Mondadori) “Il banchiere della
Resistenza”. Già dimenticavamo di dire che Pizzoni aiutò finanziariamente la formazione e il mantenimento delle bande partigiane. Su questi fatti è bene conoscere la verità che non è affatto nemica della democrazia, siamo anzi convinti che ne sia la vera base morale!
2005
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II BATTAGLIONE DELLA LIBERAZIONE “FORTES IN FIDE”
Abbiamo avuto occasione di parlare, su questo foglio, dello sbandamento dell’8 settembre 1943 nelle file dell’esercito. In proposito merita ricordare un episodio che i più non conoscono. Il giorno 9 il Ten.
Col. Giuseppe Cecchini aveva esortato i militari in servizio presso la
Caserma Montevecchio a rimanere uniti. L’appello cadde nel vuoto; la
stessa fine fece l’invito rivolto al Comando del Campo d’Aviazione di
Fano dalla Concentrazione antifascista di Pesaro.
Il 16 settembre il Cecchini, uomo di profonda fede religiosa, assecondato da alcuni ufficiali, soldati e civili procedette alla costituzione di
un reparto, il primo nella provincia, che venne chiamato “Battaglione
della liberazione Fortes in Fide”; trasposizione in campo patriottico di
un motto d’origine ecclesiale sul tipo di quelli allora usati dall’Azione
Cattolica. Il reparto si andò organizzando nella zona di Mombaroccio,
Monte della Mattera, Monte Marino: poche bombe a mano, due pistole d’ordinanza, alcuni fucili da caccia erano tutto lo sparuto armamento di quegli uomini. In seguito furono ottenute altre armi; ma lo scopo
del Cecchini e dei suoi non era quello di passare all’attacco dei tedeschi o dei militi della RSI (che nel frattempo si andava organizzando)
affrontando le incognite di una lotta civile. Lo scopo era quello di tenere in piedi un nucleo operativo pronto a collaborare con gli alleati non
appena fossero sbarcati.
Un altro nucleo di dieci uomini, col tenente Reali, si costituì a Pergola
con lo stesso scopo. È da pensare che anche il citato invito della
Concentrazione antifascista al comandante del campo di aviazione
fanese si muovesse nella stessa logica: e cioè di mantenere libero il
campo per gli aerei alleati. Proponimenti generosi, come si vede, ma
che nascevano da una superficiale valutazione degli avvenimenti in
corso. Essi denotano come fra molti fosse diffusa la speranza, destinata a svanire in pochi giorni, di una rapida evacuazione dei tedeschi
sotto la spinta del moltiplicarsi di sbarchi alleati.
Le mosse del Col. Cecchini, che a fine ottobre disciolse il concentramento pur rimanendo in contatto con i suoi uomini, non passarono
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inosservate. Fino al maggio 1944 egli venne ricercato con l’accusa di
diserzione e costituzione di banda ribelle. Dal primo rifugio nel
Seminario Regionale passò via via ad altre sedi. Dopo la liberazione fu
nella prima giunta democratica fanese; successivamente aderì al
Partito Cristiano-Sociale dell’on. Bruni.
1993
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DOPO L’8 SETTEMBRE A FANO
Non intendiamo fare tutta la possibile cronaca dei giorni e dei mesi che
seguirono l’8 settembre, ma solo richiamare qualche dato che molti
non conoscono o hanno dimenticato.
La Concentrazione antifascista di Pesaro pubblica sul “Corriere adriatico” l’11settembre 1943 un ordine del giorno e saluta “l’esercito con
il quale il popolo si stringe in una volontà sola per la difesa della
Patria”. Le cose, però, andarono diversamente. Il 14 settembre il
Comando della zona militare di Ancona sciolse i reparti stanziati a
Fano. Ad evitare future accuse di diserzione i militari furono inviati in
licenza; nei giorni seguenti i tedeschi occuparono le caserme Paolini e
Montevecchio senza trovare alcuna resistenza.
Il 14 e il 15 settembre c’era stata l’invasione della caserma Paolini,
sede della scuola allievi ufficiali di complemento. Furono asportati
materiali e suppellettili, ma non furono prelevate armi o munizioni perché, si sentiva dire, “ormai la guerra è finita”: quello che sarebbe successo non era immaginabile dai più. E qui è bene ricordare che subito
dopo l’8 settembre molti a Fano, come altrove, pensavano con notevole ingenuità, alimentata anche dalla scarsità delle informazioni sui
tedeschi e sugli alleati, che fosse prossimo uno sbarco degli angloamericani. Il tenente colonnello Giuseppe Cecchini, del 94° Fanteria,
addirittura lo ipotizzò fra Ancona e Pesaro e, conseguentemente, operò
clandestinamente in tale ottica organizzando, a partire dal 16 settembre, un piccolo reparto da lui chiamato “Battaglione della liberazione
Fortes in Fide”. Tale reparto che avrebbe dovuto unirsi agli alleati non
raggiunse mai la consistenza e la forza di un battaglione né condusse
azioni belliche contro i tedeschi: la sua fu solo una testimonianza di
amor di Patria. Non è un di più ricordare che Giuseppe Cecchini era
profondamente cattolico.
A Fano un distaccamento G.A.P. (Gruppo di Azione Partigiana) fu formato con un centinaio di uomini solo nell’aprile 1944. L’iniziativa fu
del locale Comitato di Liberazione Nazionale presieduto dall’avv.
Enzo Capalozza. Detto Comitato nel periodo clandestino aveva sede
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permanente poco lontano da Fenile, nella villa Simonetta, messa a disposizione dal dott. Hageman.
Comandante del distaccamento fu Valerio Volpini affiancato da chi
scrive e da Otello Vitali. Era un distaccamento “sui generis” perché chi
ne faceva parte (quasi tutti giovani) pur tenendosi pronto ad ogni chiamata, continuava ad abitare con la propria famiglia. Era strutturato in
sei squadre, forzatamente limitato nell’armamento (qualche partigiano
aveva solo la rivoltella). Si rivelò più adatto a fare opera di sabotaggio
e azioni limitate più che a scendere in campo aperto contro i reparti
tedeschi.
Prima del distaccamento operavano nel territorio del Comune due
squadre G.A.P. composte da pochi uomini: altri fanesi, come si sa, operarono nei distaccamenti partigiani della zona di Cagli-Cantiano; circa
sessanta si arruolarono nell’ottobre 1944 nel Corpo Italiano di
Liberazione:
Non si hanno dati orientativi sugli effettivi fanesi nell’esercito della
Repubblica Sociale Italiana.
2003
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UNA PASQUA CLANDESTINA:
A MONTE GIOVE CON VALERIO VOLPINI
Correva la primavera del 1944. Quell’anno la Pasqua era stata “alta”.
Noi disertori dell’esercito della R.S.I e partigiani l’avevamo festeggiata, come tutti, un po’ in sordina.
Valerio qualche giorno dopo mi disse: “Dobbiamo ‘prendere Pasqua’ e
fare la Comunione”.
Non era un problema; il Seminario Regionale, luogo sicuro per noi, era
lì vicino e ci avrebbe facilmente ospitato per una breve permanenza.
Ma Valerio continuò: “Andremo a Monte Giove, lì ci sono solo i frati
e ci staremo per un giorno intero, così avremo anche modo di riflettere con calma”. Si vede che nel suo animo c’era ancora nostalgia per i
ritiri spirituali tante volte fatti lassù.
Valerio era il comandante del distaccamento partigiano fanese, io ero
in qualche modo il suo aiutante: entrambi provenivamo dalla F.U.C.I.,
la Federazione Universitaria Cattolica Italiana. Bene, si decise per
Monte Giove. Per non dare nell’occhio andammo, una mattina di buonora, solo noi due. Le inseparabili biciclette, inservibili da Rosciano in
su (la “costa” per arrivare all’eremo è piuttosto lunga), ci sarebbero
invece state utili per il ritorno e pertanto non ce ne separammo. Mentre
salivamo parlammo a lungo delle nostre responsabilità sia verso chi
faceva parte attiva della Resistenza (un centinaio di persone) sia verso
la popolazione, in grandissima parte sfollata dalla città e sistemata
nelle case e nei villaggi di campagna. Era costante preoccupazione di
Valerio non coinvolgere i civili in atti di guerra, evitando quei colpi di
testa che provocavano da parte tedesca, lo sapevamo da vari racconti,
feroci e selvagge rappresaglie.
Suonammo alla porta dell’eremo; venne ad aprire don Michele, il
padre “cellerario”, cioè l’economo della comunità monastica; ci conosceva bene e ci accolse con grande affabilità. Spiegammo il perché
della nostra visita; ci portò subito in chiesa e fu lui stesso ad ascoltare
la nostra confessione e a somministrarci la Comunione.
Intanto qualche altro camaldolese, incuriosito, venne e ci propose di
salire sul campanile; così, per passare un po’ di tempo. Salimmo e
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dopo poco fummo involontari testimoni di un bombardamento aereo
dalle parti di Pesaro. La città non si vedeva, ma il brontolio degli scoppi e le dense nuvole di fumo che, grigiastre, si alzavano verso il cielo
erano troppo eloquenti: per essere liberi bisognava sopportare i bombardamenti dei liberatori, che strana guerra!
Con padre Michele parlammo a lungo del fronte che lentamente avanzava e dell’attesa degli “alleati”. Il buon padre non sospettava che di lì
a poco tempo l’eremo (che già custodiva preziosi codici della
Federiciana) sarebbe diventato rifugio per molti, nonché il bersaglio di
qualche colpo d’artiglieria!
A mezzogiorno ci fu offerto il frugale pranzo a base di verdura, poi
ancora padre Michele ci portò nella sua cella per una specie di ritiro
spirituale.
Venne il tramonto e noi due prendemmo la via di casa. Avevamo “preso
Pasqua” e andavamo sereni incontro al nostro destino che, per grazia
di Dio, fu felice. Ma questo lo capimmo in seguito.
2002
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COME VALERIO DIVENNE UN “ARDITO”
In occasione del conferimento “alla memoria” della “Fortuna d’oro” a
Valerio Volpini sono stato invitato a dare di lui una testimonianza. Non
ho esitato ed ho preso uno spunto da un accenno che Valerio (al quale
fui vicinissimo nel tempo della resistenza) fece nella rubrica “Pubblico
e Privato” apparsa per parecchi anni su Famiglia Cristiana. Voglio dire
che, senza vantarsi di nulla, scrisse di aver preso parte alla liberazione
del Nord militando tra gli arditi del IX reparto d’Assalto.
Come giunse Valerio, anzi, come giungemmo in quel famoso e focoso
reparto?
Dopo che Fano venne liberata nell’agosto 1944 parecchi ex partigiani
erano convinti (altra scelta politica) che una forte presenza italiana
fosse necessaria fra le truppe alleate che avrebbero liberato il molto
che ancora restava in mano nemica. Fu così che dopo aver ben considerato ogni scelta seguì l’arruolamento volontario nel Corpo Italiano
di Liberazione che, nel frattempo, si era articolato in cinque divisioni
armate ed equipaggiate dagli alleati. Valerio ed altri fanesi partirono
alla fine di ottobre. Da Fano, in camion si giunse a Jesi. Qui cominciò
la mala avventura (diciamo così per sfuggire ad ogni tentazione di retorica). Alla stazione ferroviaria ci fecero salire su vagoni-merce su cui
certamente era stato trasportato catrame. Ce n’erano abbondanti inconfondibili tracce. Lì rimanemmo due giorni prima di giungere a Roma
dove fummo fatti salire su un’altra tradotta di carri-merce (oh, com’era ridotta l’Italia!) che a passi di lumaca ci portò verso Sud per raggiungere la zona di addestramento. Avemmo occasione di vedere l’allucinante spettrale visione di Monte Cassino. Finalmente dopo un
viaggio massacrante fummo portati in un accampamento nei pressi di
Caserta: era notte ma ugualmente trovammo la possibilità di riposare
alla menopeggio ficcandoci nelle tende piene di soldati sbandati.
Il giorno dopo fu una vera tragedia. Non c’era per noi la colazione:
pazienza, ci arrangiammo alla meglio. Poi, più tardi, ci dissero che non
ci avrebbero distribuito nemmeno il rancio perché non c’era, e nessuno aveva avvertito e provveduto al nostro arrivo.
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Allora Valerio, vedendo che ci trattavano con noncuranza, se non con
ostilità, si mosse verso la “tenda-comando” per far valere la nostra protesta. Dietro lui, che ormai era considerato il capo, si misero in molti.
Davanti all’ufficiale responsabile del campo avvenne una scena che è
difficile dimenticare. Valerio su tutte le furie, urlò e protestò, si strappò il fazzoletto che teneva al collo, poi, improvvisamente, apparve
nelle sue mani un revolver. Per fortuna fu svelto a disfarsi di quell’arma che certamente avrebbe causato guai a tutti quanti, però continuò
nella sua audace e amara filippica.
L’ufficiale, pallido e sconcertato, gli diede ragione e disse che avrebbe
provveduto subito a farci portare dove ci sarebbe stato per noi tutto
quello che cercavamo. Non aggiunse altro. Però è facile immaginare il
pensiero che gli attraversò la mente: “Questi ex partigiani sono un po’
matti, adesso li sistemo a dovere!”
Vennero poco dopo due camion e ci portarono a S. Angelo sul
Volturno.
Pioveva a dirotto. Nessuno di noi sapeva che lì c’era una compagnia (la
104 per esattezza ) del battaglione arditi “Col Moschin”, il IX Reparto
d’assalto. Fu così che, senza aver presentato alcuna richiesta, Valerio e
gli altri si ritrovarono “arditi”, quasi per scherzo. Bah, non parliamone
più.
Quella compagnia poi schierata al fronte in prima linea partecipò alla
presa di Bologna, il 21 aprile 1945. Pochi giorni dopo (la guerra ufficialmente terminò l’8 maggio ) fu impegnata a Monte Casale, vicino
al Lago di Garda, nel combattimento che in Italia fu l’ultimo della II
guerra mondiale. Cinque dei nostri morirono; a pensarci bene ci volle
coraggio e imprudenza nel mettere a repentaglio la propria vita negli
ultimi cinque minuti di guerra. Ma andò così, proprio così.
2002
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1944: I PESCHERECCI AFFONDATI
Nel 1944, alla fine di luglio, cominciarono a farsi sentire i cannoni
degli alleati che avanzavano verso il Metauro. Poi, oltre al rombo, arrivarono i primi proiettili; ma al di là del Metauro la sosta dei “liberatori” fu abbastanza lunga. I pochi tedeschi di retroguardia si difesero con
accanimento.
Nel frattempo il locale comando germanico si preparava a compiere a
Fano due atti atroci: l’abbattimento dei campanili (ho sempre creduto
che ciò fu fatto per odio contro il Vescovo Del Signore che s’era proposto come amministratore della città dato che nessun laico si lasciava
convincere ad assumere, come volevano i tedeschi, tale carica) e la
distruzione della flottiglia peschereccia.
Come sappiamo, il primo intento purtroppo riuscì; il secondo, per fortuna, no.
Una foto che mostra i pescherecci affondati nel porto ha fatto concludere a molti che i marinai stessi affondarono tutte le loro barche per salvarle dalla totale distruzione. Ciò solo in parte è vero.
Alcuni pescherecci furono effettivamente e scientemente affondati da
certi marinai che riuscirono ad eludere la sorveglianza nemica. “Dei
natanti rimasti i tedeschi pensavano di fare un gran falò”, così dice il
foglio “Frusaglia” pubblicato a Fano il 15 ottobre 1955.
E prosegue: “Tirava un forte vento da est e logicamente bastava appiccare il fuoco ai pescherecci posti in testa rispetto a quella direzione perché le fiamme si propagassero alle altre imbarcazioni attraccate in fila
indiana. Il caso volle che proprio al levarsi dei primi bagliori sorgesse
altro vento con direzione del tutto contraria al precedente. Il fuoco rimase circoscritto e si ebbero a lamentare pochi danni. I tedeschi ricorsero
allora a cariche di dinamite, sicché i pescherecci affondarono ma senza
subire danni irreparabili”.
Dopo la liberazione di Fano i marinai cominciarono, con immensa
fatica, a riportare a galla i natanti incuranti delle risatine che i rudimentali mezzi a loro disposizione suscitavano fra i soldati alleati i
quali consigliavano di rimandare tutto a tempi migliori.
222
L’ebbe vinta la tenacia dei marinai: fatto sta che nel gennaio 1945
parecchi dei pescherecci “affondati” ripresero finalmente il mare.
2003
223
ALL’ALBA DEL 20 AGOSTO A FANO STRAGE DI CAMPANILI
La mattina del 20 agosto 1944, verso le sette, aprii la finestra (ero rifugiato in una casa colonica a Chiaruccia) e come al solito guardai verso
Fano. Per un attimo ebbi la sensazione che la città fosse del tutto scomparsa, sprofondata. Da quella finestra in mezzo alla campagna mi era
sempre apparsa, fra gli alberi, la sagoma della sommità di quasi tutti i
campanili, quello di Santa Maria Nuova in particolare; ma quella mattina avevo davanti solo l’azzurro intenso del cielo: mancavano i “segni
crociati” della città.
All’alba i tedeschi della Wermacht, non le SS, avevano fatto saltare i
campanili più importanti e più belli: quello del Duomo, di Santa Maria
Nuova, di San Paterniano, di Sant’Arcangelo e la torre di piazza. Il
giorno dopo la stessa sorte toccò ai minori campanili di San Silvestro
e di San Domenico (e così furono sette!), ma toccò anche al maschio
della fortezza malatestiana, alla lanterna del porto, alla torretta di una
casa privata tra via Froncini e via De Cuppis. Si salvarono i campanili
di San Marco e di San Francesco di Paola (alla stazione).
La cupola di San Pietro in Valle scampò non si sa come al disastro; i
tedeschi entrarono in chiesa e si accontentarono di sparare colpi di
pistola e di mitra contro i settecenteschi angeli del transetto.
Perché tante rovine e tanto scempio di edifici? Ancor oggi qualcuno
pensa che i campanili siano stati abbattuti perché potevano servire da
osservatorio agli alleati. E’ una tesi insostenibile. Dal punto di vista
militare poteva essere valida nella prima guerra mondiale, non già nel
1944 nella fase di avanzata degli alleati abbondantemente dotati di
aerei ricognitori che tenevano sotto controllo, notte e giorno, i vari settori del fronte. Se i tedeschi avessero voluto distruggere possibili centri di osservazione avrebbero gettato a terra, fra i primi, i campanili di
Monte Giove e del Beato Sante, che invece non furono toccati.
Inoltre i campanili e gli altri edifici abbattuti non si trovavano su careggiate strategicamente importanti e nemmeno in punti di svincolo della
città. C’è poi da tener presente che nessuna città delle Marche (tutte
ricche di campanili) ebbe a soffrire lo stesso sfregio di Fano.
224
E allora? Ho dei sospetti sul comandante tedesco della piazza di Fano,
ten. Eberard Fischer. Nella lettera indirizzata al vescovo per comunicargli che sarebbero stati abbattuti “cinque” campanili (e disse una
bugia) afferma, genericamente, che l’ordine era venuto da “un comandante militare superiore”. Ma chi era questo Fischer? Sarebbe interessante appurarlo perché la distruzione dei campanili, con relativo scempio delle chiese, potrebbe essere un atto di barbarie completamente
gratuito. Un modo con cui Fischer dimostrò rancore, rabbia e disprezzo verzo la città, verso la Chiesa e il Vescovo che si era assunto la
responsabilità di rappresentare anche civilmente la città, in mancanza
di personalità disposte a farsi avanti (chi se la sentiva di passare per
“collaborazionista” alla vigilia della liberazione?).
Insomma, a Fano potrebbe essere toccata la sfortuna di avere un
comandante tedesco “antipapista” (non dimentichiamo che in
Germania il nazismo non era stato contrastato da molti luterani, ma
prevalentemente dai cattolici) dimostratosi particolarmente spietato
nel colpire nei suoi monumenti e soprattutto nelle sue testimonianze
cattoliche una città che, per altro, non aveva compiuto alcuna azione
particolarmente clamorosa o cruenta contro i tedeschi.
1992
225
20 AGOSTO DEL ’44:
IL DUOMO FU COPERTO DI MACERIE
Fra venti giorni (quando questo settimanale sarà chiuso per ferie)
ricorre il 54° anniversario del diroccamento a mine del campanile del
Duomo di Fano.
Si badi che nel 1940 il Vescovo Mons. Del Signore aveva fatto molti e
costosi lavori nella cattedrale per celebrarne l’ottavo centenario della
costruzione.
Dopo quattro anni dovette ricominciare tutto da capo, affrontando problemi enormi. “Non so - diceva - quanti anni ci vorranno; ma prima di morire
voglio rivedere il Duomo a posto!”. E anche questa volta la spuntò.
Ritornando a quel tragico 1944 le cose cominciarono a mettersi male
per la Cattedrale nella notte fra il 15 e il 16 gennaio. Aerei alleati sganciarono alcune bombe che colpirono non gravemente il tetto. Andarono
in frantumi tutte le nuovissime vetrate comprese le sei, molto belle,
istoriate da Vittorio Menegoni. Crollarono i soffitti di alcuni locali
annessi alla sacrestia. Danni più gravi subirono i palazzi posti poco
lontano dal Duomo.
Le funzioni religiose ridotte al minimo furono dirottate verso la grande sacrestia ove si accedeva attraverso un cortile interno evitando la
chiesa. Ed ecco il racconto un po’ sconnesso che delle giornate più tragiche ha registrato il Cancelliere Vescovile Mons. Agostino Narducci:
“Venne l’ordine tassativo di abbandonare la città... Diventarono sempre più difficili le condizioni con l’avvicinarsi delle azioni guerresche
e coll’inasprimento continuo delle esigenze delle truppe Tedesche che
imposero lavori, requisizioni di ogni specie senza alcun riguardo ai
bisogni della popolazione. Non fissiamo qui i soprusi e le ruberie subìte dalla cittadinanza, ma certo le sofferenze furono gravissime e tali
da lasciare il più brutto ricordo. Si può dire che i pericoli dei bombardamenti e delle armi passarono in seconda linea perché superati dalle
malversazioni e prepotenze.
Il giorno 20 agosto, senza preavvisi di sorta, anzi dopo una affermazione della autorità tedesca qui di stanza mentre la minaccia di atterrare i campanili della città si supponeva rientrata, potentissime mine
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fatte esplodere dai guastatori tedeschi fecero saltare il poderoso torrione detto Torre di Belisario su cui era stata innalzata la cella campanaria e la relativa guglia del campanile del Duomo.
L’esplosione provocò oltre il crollo del campanile, lo sfondamento del
tetto e delle volte della Cattedrale su tutto il presbiterio e navata sinistra relativa; della prima campata della navata centrale e della sinistra
aderente al presbiterio; il crollo del tetto e volta della Cappella di N.
Signora del Sacro Cuore e l’abbattimento del muro perimetrale della
Cappella del Sacramento sino al Battistero. Conseguenza di tale inqualificabile sacrilegio fu anche lo sfondamento e la rovina di parte
dell’Episcopio attiguo; il crollo della Sala adibita ad Archivio storico
della Cancelleria; la rovina quasi completa degli edifici civili fiancheggianti il Duomo per via Rainerio. Le macerie hanno ostruito la
strada pubblica e riempito in proporzioni paurose la Cattedrale. In tali
bruttissime condizioni, al rientrare della popolazione in Città, si dovette riprendere l’ufficiatura ridotta nell’ambiente della Sagrestia. Rovine
meno ingenti, ma gravissime e deplorevolissime hanno subito in Città
le Chiese di S. Paterniano, S. Domenico, S. Maria Nuova, il Santuario
detto della Madonna di Piazza delle quali furono pure fatti saltare i
relativi campanili. Tutte sono così rese impraticabili”. Bisogna aggiungere il campanile di S. Arcangelo.
A testimoniare la grossolana bugia dei tedeschi, secondo cui i i campanili potavano offrire punti di osservazione, vale ricordare che gli
unici due campanili con grande vista panoramica, cioè quello di Monte
Giove e quello del Beato Sante non furono toccati. Senza contare che
i tedeschi sapevano benissimo che gli alleati per spiare le loro mosse
avevano numerosa aviazione da ricognizione. Vollero fare uno sfregio
al Vescovo, uno sfregio alla Città.
1998
227
IL GIORNO DELLA LIBERAZIONE
Di quella fine d’agosto di mezzo secolo fa rivedo tutto, come se fosse
ieri. La città vuota, molte serrande dei negozi sfondate, case sventrate
ai due angoli di piazza XX Settembre col Corso, altre sventrate dal
crollo di sette campanili e del Maschio della fortezza malatestiana
demoliti a mine; in tutto il Comune i genieri tedeschi avevano fatto saltare i ponti in muratura, di ferro, di legno grandi e piccoli. La centrale
della Liscia era un mucchio di rovine, i moli irriconoscibili, i pescherecci affondati, la lanterna fatta saltare.
A tutto ciò bisogna aggiungere i danni precedentemente causati dai
bombardamenti alleati con la distruzione delle chiese di S. Agostino,
Santa Croce, S. Francesco di Paola, S. Cristoforo (la vecchia chiesa in
via Petrucci), dell’Istituto Tecnico commerciale, di Palazzo Zavarise e
di parte del Gabuccini ecc.
Sembravano una beffa quelle scritte “Vincere e vinceremo”, “Molti
nemici molto onore” ancora balbettanti dai muri in cui erano state
dipinte dai fascisti; “Dio stramaledica gli inglesi” aveva tuonato per
anni la radio del regime: e adesso, per uno di quei duri rovesciamenti
di aspettative imposti dalla storia (cioé dagli uomini e, in questo caso,
dalla loro capacità di guardare in faccia la realtà), il popolo aspettava
come liberatori proprio gli “stramaledetti” di ieri.
Nell’ultima settimana del “passaggio del fronte” gli alleati avevano
infittito i bombardamenti di artiglieria: dalle colline sulla destra del
Metauro si scaricò una pioggia di granate nella zona di Saltara e
Cartoceto, qualche colpo toccò l’Eremo di Montegiove. Era “l’ultimo
assaggio” contro le postazioni tedesche (poche in realtà) prima che
polacchi e canadesi varcassero il Metauro: i primi a Madonna del
Ponte, Ferriano, Falcineto, i secondi nella zona di MontemaggioreCalcinelli.
Ci furono scontri con morti e feriti fra i combattenti e, purtroppo anche
fra i civili, ma non fu combattuta una vera e propria battaglia; ci fu una
grande manovra di avvicinamento alla linea
gotica che si snodava al di là di Pesaro e di Urbino. Non voglio dire
228
altro sulle operazioni militari. Quello che ricordo più nitidamente di
quei giorni è il senso di vera e autentica “liberazione” che, pur tra le
sofferenze e le recenti macerie, aleggiava in ogni volto, in ogni discorso. Era finito l’incubo dei rastrellamenti, delle ruberie, delle paure,
delle prepotenze varie imposte dall’esercito tedesco in ritirata. Era
finito l’incubo dei bombardamenti: finalmente si respirava!
Ne ebbi una prova certissima il 25 agosto. Quel giorno attraversai il
Metauro nella zona della “passerella” tedesca, sotto le Caminate; una
pattuglia polacca mi rilevò per portarmi al comando operativo; salimmo su per una “costa” dov’erano attendati molti che avevano dovuto
lasciare all’improvviso le case dov’erano sfollati, c’erano parecchi
fanesi. Si trovavano in condizioni precarie, sembrava un accampamento di nomadi eppure, questo è meraviglioso, erano tutti contenti, sorridenti, vocianti e ciarlieri come se fossero a una scampagnata. “Il più é
fatto”, dicevano, “Presto si torna a casa”, “Bisogna ricostruire tutto”,
“Non ne potevamo più”, “En ne pudemi più!!”.
Quando leggo certi discorsi di carattere riduttivo o assolutorio sulla
guerra voluta dal fascismo mi tornano subito in mente gli occhi raggianti, i volti felici di quegli uomini e di quelle donne attendati alla
campagna sotto il sole d’agosto: erano felici perché avevano la certezza che tedeschi e fascisti se n’erano andati, per sempre! Senza retorica, senza forzature ideologiche possiamo essere certi che quelli furono
giorni di autentica Liberazione.
1994
229
QUANDO LA RESISTENZA ERA GIÀ CONCLUSA
Recentemente, a proposito dei fatti avvenuti in Italia nel 1945, ha fatto
molto discutere “Il sangue dei vinti”, il libro di Giampaolo Pansa,
uomo non di destra, in cui si parla sia delle violenze sia di certe sommarie esecuzioni toccate ai fascisti repubblicani dopo il 25 aprile.
Presentando a Roma il libro di Pansa, il giornalista e storico Paolo
Mieli ha opportunamente ricordato che dopo quel 25 aprile, sia subito
sia per parecchio altro tempo, venne anche versato il sangue dei “vincitori”. Infatti trovò la morte non solo qualcuno che non aveva niente
a che fare con le nefandezze nazifasciste, ma che addirittura aveva
preso parte alla Resistenza e dopo la liberazione si era posto su posizioni democratiche, ovviamente antitotalitarie. In particolare è stato
detto che “è davvero incredibile” il numero dei preti fatti fuori in quegli anni. Costoro, dei quali fino ad oggi s’è parlato poco o anche per
nulla come in gran parte dei libri scolastici di storia, caddero per mano
di comunisti, o di “rossi” in generale, per i quali la Resistenza non si
era conclusa e forse pensavano che addirittura fosse stata tradita. Così
continuarono a fare la loro guerra che non era più di liberazione dai
nazifascisti ma (quando non era mossa da privata vendetta scambiata
per giustizia) era solo guerra di classe per affermare la dittatura del
proletariato. È questa una storia che non è passata nella memoria collettiva perché qualcuno ha avuto interesse a metterla a tacere, ma che
deve essere integralmente conosciuta, perché questa è la tesi di Mieli
che noi condividiamo, non si può far finta che non sia accaduto ciò che
invece è purtroppo accaduto.
I più noti dei morti innocenti sono don Pessina, ucciso il 16 giugno
1946 e il sindacalista cattolico (di cui è in corso la causa di beatificazione) Giovanni Fanin ammazzato il 4 novembre 1948. Si potrebbero
fare molti altri nomi di coloro che soprattutto in Emilia-Romagna caddero nel famigerato “triangolo rosso”, che aveva uno dei suoi vertici a
Reggio Emilia ed è stato considerato da molti, crediamo giustamente,
come radice delle Brigate rosse vecchie e nuove.
È questa una storia che non è passata nella memoria collettiva perché
230
qualcuno ha avuto interesse a metterla a tacere, ma che deve essere
integralmente conosciuta perché, questa è la tesi di Mieli che noi condividiamo, non si può far finta che non sia accaduto ciò che invece è
purtroppo accaduto. Si è chiesto Paolo Mieli: “Come si spiega un’incredibile mattanza di preti e di dirigenti locali di partiti antifascisti che
rimase impunita?”. Aggiungiamo noi che quei pochi che vennero
denunciati e processati trovarono poi il modo di fuggire nell’est
Europa, soprattutto in Cecoslovacchia.
È certo che allora né poi ci furono bande di liberali, democristiani o
azionisti che abbiano ucciso dei comunisti.
Crediamo interessante, a questo punto, riportare poche righe di un’intervista apparsa su “Avvenire” il 25 gennaio 1992. Viene intervistato lo
storico don Lorenzo Bedeschi che nel 1951 aveva pubblicato un libro
che qualcuno ricorda: “L’Emilia ammazza i preti”.
Chiede l’intervistatore: “La guerra rivoluzionaria faceva parte di un
programma sistematico del P.C.I. di Togliatti?”. Ecco la risposta:
“Credo che Togliatti abbia fatto tutto il possibile per impedire la tracimazione in forme rivoluzionarie. Lo dimostra uno dei tanti episodi
ricostruiti coi documenti. Appena avvenuta la liberazione di Pesaro
cinque partigiani ventenni andarono a Roma ad accogliere Togliatti,
che li ricevette subito”. Il più coraggioso gli chiese: “Compagno
Togliatti, dopo la liberazione dei fascisti, dobbiamo ammazzare prima
i preti o i padroni per fare la nuova società?” Al che Togliatti, con la
mani nei capelli, gridò: “Non fate questo. Non avete capito niente”.
È proprio così: la strategia era un’altra. Era quella desunta dal pensiero di Gramsci: servirsi degli “intellettuali organici” per giungere al
potere in Italia attraverso l’occupazione dei centri culturali e dell’informazione.
2004
231
LA PACE FRA GLI UOMINI: NE SONO CAPACI?
La prima bomba atomica fu lanciata il 6 agosto 1945 sulla città giapponese di Hiroshima: quella data è ricordata da pochi. Allora molti
plaudirono perché la bomba atomica praticamente poneva fine alla
sanguinosa seconda guerra mondiale. Ricordo che solo “L’Osservatore
Romano” prese le dovute distanze da quell’orribile ordigno.
Erano le otto e un quarto del mattino e le sirene dell’allarme nemmeno suonarono poiché solo due aerei statunitensi volavano sopra la città
di Hiroshima abituata a vedere sul proprio cielo grossi stormi di velivoli. Poi qualcosa si staccò da uno degli aerei e giunto a qualche centinaia di metri dal suolo scoppiò e come un lampo abbagliante investì
la città. Era entrata nella storia la bomba atomica: un nuovo potente
strumento di morte si trovava nelle mani dell’uomo.
Morirono all’istante 71.000 persone; le case presero fuoco; verso le
quattro del pomeriggio l’ evaporazione prodotta dal gigantesco incendio si trasformò in torrenziale pioggia. Una moltitudine di urlanti
ustionati aveva cercato illusorio rimedio gettandosi nell’acqua dei
canali. Solo allora arrivarono i primi soccorsi: erano i gesuiti (ma chi
lo sa?) che abitavano in una vicina collina; tra essi c’era padre Pedro
Arrupe, destinato a diventare Generale della Compagnia di Gesù. Di
loro parlò poi con ammirazione la relazione ufficiale giapponese.
Mi sembra opportuno aggiungere quanto sul quel tragico avvenimento
scrisse Valerio Volpini attingendo da Robert Jungk che aveva avuto un
colloquio con uno dei pochi superstiti di quel tragico sei agosto. Si
chiamava Kazuo e quando scoppiò la bomba aveva quattordici anni.
Quel ragazzo nove giorni dopo lo scoppio e la scomparsa di Hiroshima
gridando come un pazzo “tutti gli uomini sono degli imbecilli (Otona
, Wa Bo-ka)” fece a pezzi ciò che aveva di più caro: il suo libro di lettura. Dopo quello che aveva visto a che serviva pensare e sapere?
La scena, evocata da Volpini ha valore anche per noi che predichiamo
la pace fra gli uomini; ma essi ne sono capaci?
2007
232
LA CONVERSIONE DEL GRAN RABBINO DI ROMA
Premettiamo una breve introduzione. A tutti è noto che la damnatio
memoriae di Pio XII si incancrenì con la pubblicazione del dramma di
Rolf Hochhut, tedesco, “Il Vicario” (in Italia stampato nel 1964 da
Feltrinelli con l’introduzione di Carlo Bo).
L’onorevole Spadolini definì “Il Vicario” un “modesto libello di diffamazione anticlericale e di autodifesa nazionalistica, un libello respinto
dalla cultura più aggiornata e sensibile del nostro tempo”.
Eppure ancora oggi le accuse contro quel Papa continuano e si è arrivati persino a chiamare Pacelli “il Papa di Hitler”: un’assurdità, come
ha scritto sul Corriere della Sera Paolo Mieli. E’ auspicabile che i
detrattori di Pio XII abbiano letto l’ultimo libro pubblicato dal prof.
Martin Gilbert, ebreo, uno dei massimi storici della seconda guerra
mondiale, docente a Londra di storia dell’Olocausto. Egli dice che
“Papa Pacelli ha agito moralmente e politicamente in modo appropriato e ha preso le decisioni giuste”. Scrive, poi, che “la Santa Sede ha
assunto pubblicamente posizione contro i nazisti molto presto” e
aggiunge: “Io sto dalla parte di coloro che hanno compreso il legame
tra Pio XII e i cattolici che aiutarono gli ebrei”. A Roma nel 1943
(attingiamo questi dati storici da “Avvenire” del 23 sett. 2003) quattromila ebrei furono salvati in istituti religiosi femminili e maschili. La
clausura fu superata dove si trattava di salvare vite umane; e non solo
a Roma. Dice bene lo storico Pietro Scoppola “E’ difficile immaginare che la Santa Sede ignorasse questo impegno generoso e continuo di
accoglienza” e aggiunge che “nel comportamento della grandissima
parte dei religiosi e delle religiose si può leggere anche il rifiuto della
violenza e dell’ideologia totalitaria”. Senza dimenticare i civili che
aiutarono gli ebrei si può parlare senz’altro di Resistenza Civile.
Quello che poi è successo al Papa era stato previsto da Israele Zolli.
Chi era costui? Era il Gran rabbino di Roma, convertitosi al cattolicesimo nel 1945 scegliendo per il suo battesimo il nome di Eugenio per
riconoscenza verso il Papa di cui aveva direttamente conosciuto il
grande spirito di carità e di umanità. Infatti, allorché i nazisti, nel 1943,
233
chiesero cinquanta chili d’oro per risparmiare la vita agli ebrei abitanti nel cosiddetto Portico di Ottavia, il rabbino Zolli, che ne aveva messo
insieme trentacinque chili, disperato corse in Vaticano e parlò con il
tesoriere monsignor Nogara. Attraverso lui il Santo Padre gli fece sapere che in qualche modo il Vaticano avrebbe messo a disposizione i
quindici chili mancanti. Sappiamo che quel tesoro, purtroppo, non
servì a placare l’odio e la violenza dei nazisti.
All’umanità del Papa si aggiunse che Zolli, studioso ed esegeta della
Bibbia, era stato profondamente colpito dai passi del profeta Isaia che
parlano del Servo di Jahvè e si era andato convincendo che Cristo coincideva con il Servo. Nel 1945 spiegò la sua conversione nell’autobiografia rimasta però inedita in Italia. Scrisse fra l’altro: “Un uomo non
è convertito nel momento in cui sceglie bensì nell’ora in cui riceve la
chiamata di Dio. E, quando sente la chiamata, colui che la riceve ha
solo una cosa da fare: obbedire”. E poco prima nel suo libro, ora introvabile, Antisemitismo aveva scritto: “L’ebraismo mondiale ha un debito grande di gratitudine alla Santità di Pio XII per gli iterati e pressanti appelli alla giustizia in suo favore; per le forti proteste contro leggi
e procedimenti iniqui”.
Fu buon profeta quando, subito dopo la guerra, diceva alla figlia
Miryiam: “Vedrai, faranno di Pio XII il capro espiatorio del silenzio
che tutto il mondo ha mantenuto dinanzi ai crimini nazisti”. Zolli morì
povero nel 1956. Su lui e sulla sua famiglia calò il sipario della impenetrabilità; la sua vicenda che a suo tempo aveva scatenato una vivace
bagarre fu dimenticata.
2003
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“BELLA CIAO” NON È INNO PARTIGIANO
Mi sono sempre chiesto come mai “Bella ciao” sia considerato inno
partigiano. Nei pochi mesi che qui nei dintorni di Fano sono stato partigiano non l’ho mai sentito nominare (ammesso che i partigiani avessero voglia di cantare!), e nemmeno dopo quando, con le truppe del
nuovo esercito italiano, giunsi in Alta Italia. Qui mi soffermai soprattutto a Brescia dove ebbi molti contatti sia coi partigiani delle
“Fiamme Verdi” sia con quelli della “Garibaldi”. Nessuno sapeva di
“Bella ciao”! Mi convinsi che quell’inno veniva dalla Russia!
Finalmente l’arcano mi è stato svelato leggendo alcuni recenti libri
sulla Resistenza. Quella canzone (chi lo direbbe?) ha origini molto
modeste e per nulla bellicose; non viene dall’Europa dell’Est, ma addirittura dall’Italia e siccome è in tono minore è possibile che provenga
da sotto la Toscana; forse è addirittura meridionale! In origine (ma non
si conosce l’autore) si trattava di una innocente tiritera, un po’ dolciastra, che parlava nientemeno della nonna “la vecchierella” che manda
qualcuno “alla fontanella”. Poi ha assunto una veste nuova ed è diventata quello che è diventata. Senza cedere ad alcuna tentazione revisionistica, ma solo per dare a ciascuno quello che gli spetta Roberto
Berretta ha precisato queste cose su “Avvenire” del 2 maggio 2005.
Comunque furono i comunisti italiani che, invitati al Festival della gioventù a Berlino nel 1948, cambiarono molto abilmente le parole di
quella canzoncina per bambini, ci misero “l’invasore” e tutto il resto.
Venne così fuori il canto che tutti conosciamo e che reputiamo nato
durante la Resistenza. Il che è stato consacrato, se così si può dire, dal
coro dell’armata rossa che l’ha egregiamente cantato in diverse occasioni.
Sono cose che capitano; si potrebbero citare brani lirici, anche famosi,
passati da un’opera all’altra. Per restare in tema è opportuno aggiungere che il ben noto inno trionfale fascista “Giovinezza, giovinezza”,
quello che iniziava con le parole di Salvatore Gotta “Salve o popolo
d’eroi”, era una canzone riciclata composta nel 1909 come inno goliardico.
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Chi poi non ricorda il “Signore delle cime”? Inno fra i più famosi della
montagna? Ebbene l’autore, Bepi De Marzi (vivente), lo compose
come innamorato deluso dalla fidanzata che non l’aveva aspettato di
ritorno dalla leva obbligatoria.
Suscitano davvero parecchie perplessità alcune canzoni popolari e
alpine se ben studiate nella loro origine. Dobbiamo elogiare Garibaldi
che, quando Luigi Mercantini gli consacrò l’inno “Si scopron le
tombe, si levano i morti… ”, senza tanti complimenti gli disse che
quelle parole erano piuttosto brutte, per fortuna la musica non era roba
da cani!
E la “Leggenda del Piave”? Per chi non lo sapesse fu scritta e musicata nel 1918, ma divenne simbolo della prima guerra mondiale nel 1921
quando furono traslate a Roma le ceneri del Milite Ignoto.
2005
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