Il gusto proibito dello zenzero

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Il gusto proibito dello zenzero
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L'HOTEL PANAMA
(19 86)
Il vecchio Henry Lee restò pietrificato di fronte al tram­
busto davanti all'hotel Panama. Ciò che all'inizio era solo
un crocchio di curiosi che osservavano una troupe del tele­
giornale era lievitato fino a diventare una massa ordinata di
persone; gente in giro per gli acquisti, turisti e qualche
punk di strada, tutti si chiedevano se fosse successo qualco­
sa di grosso. In mezzo alla ressa c'era anche Henry, le borse
della spesa in mano; si sentiva come se si stesse svegliando
da un sogno a lungo dimenticato. Un sogno che aveva fatto
una volta, da ragazzino.
Henry aveva visitato quell'antico punto di riferimento di
Seattle solo due volte in tutta la sua vita. La prima, quando
aveva appena dodici anni, nel lontano 1942: «gli anni della
guerra», come gli piaceva chiamarli. Già allora quell'alber­
go per scapoli era come una porta fra il quartiere cinese di
Seattle e Nihonmachi, il quartiere giapponese. Due avam­
posti di un conflitto del vecchio mondo, dove gli immigrati
cinesi e quelli giapponesi di rado si parlavano, anche se i lo­
ro bambini, americani per nascita, spesso giocavano insie­
me per strada. L'hotel Panama era sempre stato un punto
di riferimento perfetto, il luogo ideale per darsi appunta­
mento. Era stato lì che, un tempo, Henry aveva incontrato
l'amore della sua vita.
La seconda volta era oggi, nel 1986. Più di quarant'anni
dopo: pazzesco, eh? Henry aveva smesso di contare gli anni
a mano a mano che si accumulavano nella memoria. Dopo
tutto, aveva vissuto una vita intera fra le due visite all'alber­
go, che ora apparivano un po' come due fermalibri. In
mezzo c'era stato un matrimonio. La nascita di un figlio in­
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grato. Il cancro e una sepoltura. Sentiva la mancanza di sua
moglie, Ethel. Erano passati già sei mesi dalla sua scompar­
sa. Eppure non gli mancava tanto quanto avrebbe creduto,
benché detto così potesse sembrare brutto. In realtà, prova­
va più che altro una sorta di muto sollievo. Sua moglie ave­
va molto sofferto per una salute che non era cattiva ma peg­
gio. Il cancro alle ossa che l'aveva colpita era stato comple­
tamente paralizzante, per tutti e due, pensò Henry.
Negli ultimi sette anni lui l'aveva imboccata, lavata, l'ave­
va aiutata ad andare in bagno quando ne aveva bisogno e a
ritornare in poltrona una volta finito. Si era preso cura di lei
notte e giorno, ventiquattr'ore su ventiquattro, sette giorni
su sette. Marty, suo figlio, avrebbe voluto metterla in una cli­
nica, ma Henry si era opposto con fermezza. «Non finché
sono vivo», aveva esclamato, opponendo il suo rifiuto. Non
dipendeva solo dal fatto che lui era cinese, benché il suo at­
teggiamento in parte derivasse anche da questo. L'ideale
confuciano che imponeva la pietà filiale, il rispetto e la rive­
renza verso i propri genitori era un'eredità culturale che la
generazione di Henry non poteva scartare con facilità. Era
stato educato a prendersi personalmente cura dei suoi cari,
e mettere qualcuno in una clinica gli pareva inaccettabile.
Quello che suo figlio Marty non aveva mai capito fino in
fondo era che nella vita di Henry c'era un buco a forma di
Ethel e che, senza di lei, lui awertiva solo il refolo della soli­
tudine, freddo e tagliente, e gli anni che sgocciolavano via,
come il sangue da una ferita che non si rimargina mai.
Ora Ethel ~e n'era andata per sempre. Henry aveva deci­
so che bisognava seppellirla alla maniera tradizionale cine­
se, con le offerte di cibo, le coperte della longevità e le ceri­
monie di preghiera che duravano diversi giorni, nonostan­
te Marty insistesse per farla cremare. Era così moderno, lui.
Era andato da uno psicologo e aveva affrontato la morte
della madre rivolgendosi a un gruppo di sostegno online,
qualsiasi cosa fosse. A Henry entrare in contatto con qual­
cuno online faceva un po' l'effetto di parlare con nessuno,
cosa di cui aveva avuto una certa esperienza diretta nella...
nella vita reale. Il contatto online era solitario. Quasi quan­
to il Lake View Cemetery, dove aveva seppellito Ethel. Ades­
so lei godeva di una vista favolosa sul lago Washington, ed
era sepolta accanto ad altri notabili cinesi di Seatde, come
Bruce Lee e suo figlio Brandon. Ma, in fin dei conti, ognu­
no di loro occupava una fossa a sé. Costretto alla solitudine
per l'eternità. Che importanza poteva avere chi fossero i
tuoi vicini? Tanto c'era poco da spettegolare.
Quando faceva buio, come adesso, Henry chiacchierava
con sua moglie e le chiedeva come fosse andata la giornata.
Lei, ovviamente, non rispondeva. «Non sono mica matto o
roba del genere», diceva Henry rivolto al nulla, «sono solo
di idee aperte. Non si sa mai, potrebbe darsi che Ethel mi
senta.» Dopo di che, si metteva a potare le piante da appar­
tamento, la palma cinese o il sempreverde, le cui foglie in­
giallite rivelavano quanto Henry le avesse trascurate nel
corso degli ultimi mesi. Adesso però aveva di nuovo tempo.
Poteva dedicarsi a qualcosa che, per una volta, non sarebbe
peggiorata.
Ogni tanto, comunque, Henry si trovava a pensare alle
statistiche. Non del tasso di mortalità del cancro, che aveva
ghermito la povera Ethel. Piuttosto, meditava su sé stesso, e
sulla propria esistenza misurata sulle tavole attuariali di
un'assicurazione sulla vita. Aveva solo cinquantasei anni:
un giovanotto, secondo i suoi standard. Ma aveva letto su
«Newsweek» dell'inevitabile declino della salute nel caso
della perdita del coniuge alla sua età. Forse l'orologio tic­
chettava dawero? Non ne era sicuro, perché da quando
Ethel se n'era andata il tempo aveva cominciato ad arranca­
re, orologio o no.
Adesso che aveva accettato l'offerta di pensionamento
anticipato dagli stabilimenti Boeing, Henry aveva tutto il
tempo che voleva, ma nessuno con cui condividerlo. Nessu­
no con cui fare due passi per andare a comprare gli yuet
beng, i dolci alla carota, nelle fredde sere d'autunno.
Invece eccolo lì, solo soletto, in mezzo a una ressa di sco­
nosciuti. Un uomo impigliato fra due vite, ancora una volta
davanti all'hotel Panama. Seguì la folla su per i gradini di
marmo bianco crepati, che facevano sembrare il palazzo
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grato. Il cancro e una sepoltura. Sentiva la mancanza di sua
moglie, Ethel. Erano passati già sei mesi dalla sua scompar­
sa. Eppure non gli mancava tanto quanto avrebbe creduto,
benché detto così potesse sembrare brutto. In realtà, prova­
va più che altro una sorta di muto sollievo. Sua moglie ave­
va molto sofferto per una salute che non era cattiva ma peg­
gio. Il cancro alle ossa che l'aveva colpita era stato comple­
tamente paralizzante, per tutti e due, pensò Henry.
Negli ultimi sette anni lui l'aveva imboccata, lavata, l'ave­
va aiutata ad andare in bagno quando ne aveva bisogno e a
ritornare in poltrona una volta finito. Si era preso cura di lei
notte e giorno, ventiquattr'ore su ventiquattro, sette giorni
su sette. Marty, suo figlio, avrebbe voluto metterla in una cli­
nica, ma Henry si era opposto con fermezza. «Non finché
sono vivo», aveva esclamato, opponendo il suo rifiuto. Non
dipendeva solo dal fatto che lui era cinese, benché il suo at­
teggiamento in parte derivasse anche da questo. L'ideale
confuciano che imponeva la pietà filiale, il rispetto e la rive­
renza verso i propri genitori era un'eredità culturale che la
generazione di Henry non poteva scartare con facilità. Era
stato educato a prendersi personalmente cura dei suoi cari,
e mettere qualcuno in una clinica gli pareva inaccettabile.
Quello che suo figlio Marty non aveva mai capito fino in
fondo era che nella vita di Henry c'era un buco a forma di
Ethel e che, senza di lei, lui awertiva solo il refolo della soli­
tudine, freddo e tagliente, e gli anni che sgocciolavano via,
come il sangue da una ferita che non si rimargina mai.
Ora Ethel ~e n'era andata per sempre. Henry aveva deci­
so che bisognava seppellirla alla maniera tradizionale cine­
se, con le offerte di cibo, le coperte della longevità e le ceri­
monie di preghiera che duravano diversi giorni, nonostan­
te Marty insistesse per farla cremare. Era così moderno, lui.
Era andato da uno psicologo e aveva affrontato la morte
della madre rivolgendosi a un gruppo di sostegno online,
qualsiasi cosa fosse. A Henry entrare in contatto con qual­
cuno online faceva un po' l'effetto di parlare con nessuno,
cosa di cui aveva avuto una certa esperienza diretta nella...
nella vita reale. Il contatto online era solitario. Quasi quan­
to il Lake View Cemetery, dove aveva seppellito Ethel. Ades­
so lei godeva di una vista favolosa sul lago Washington, ed
era sepolta accanto ad altri notabili cinesi di Seatde, come
Bruce Lee e suo figlio Brandon. Ma, in fin dei conti, ognu­
no di loro occupava una fossa a sé. Costretto alla solitudine
per l'eternità. Che importanza poteva avere chi fossero i
tuoi vicini? Tanto c'era poco da spettegolare.
Quando faceva buio, come adesso, Henry chiacchierava
con sua moglie e le chiedeva come fosse andata la giornata.
Lei, ovviamente, non rispondeva. «Non sono mica matto o
roba del genere», diceva Henry rivolto al nulla, «sono solo
di idee aperte. Non si sa mai, potrebbe darsi che Ethel mi
senta.» Dopo di che, si metteva a potare le piante da appar­
tamento, la palma cinese o il sempreverde, le cui foglie in­
giallite rivelavano quanto Henry le avesse trascurate nel
corso degli ultimi mesi. Adesso però aveva di nuovo tempo.
Poteva dedicarsi a qualcosa che, per una volta, non sarebbe
peggiorata.
Ogni tanto, comunque, Henry si trovava a pensare alle
statistiche. Non del tasso di mortalità del cancro, che aveva
ghermito la povera Ethel. Piuttosto, meditava su sé stesso, e
sulla propria esistenza misurata sulle tavole attuariali di
un'assicurazione sulla vita. Aveva solo cinquantasei anni:
un giovanotto, secondo i suoi standard. Ma aveva letto su
«Newsweek» dell'inevitabile declino della salute nel caso
della perdita del coniuge alla sua età. Forse l'orologio tic­
chettava dawero? Non ne era sicuro, perché da quando
Ethel se n'era andata il tempo aveva cominciato ad arranca­
re, orologio o no.
Adesso che aveva accettato l'offerta di pensionamento
anticipato dagli stabilimenti Boeing, Henry aveva tutto il
tempo che voleva, ma nessuno con cui condividerlo. Nessu­
no con cui fare due passi per andare a comprare gli yuet
beng, i dolci alla carota, nelle fredde sere d'autunno.
Invece eccolo lì, solo soletto, in mezzo a una ressa di sco­
nosciuti. Un uomo impigliato fra due vite, ancora una volta
davanti all'hotel Panama. Seguì la folla su per i gradini di
marmo bianco crepati, che facevano sembrare il palazzo
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più un centro di riabilitazione Art Déco che un albergo.
Anche l'edificio, proprio come Henry, sembrava intrappo­
lato fra due mondi. Ciò nonostante, Henry si sentiva nervo­
so ed eccitato, esattamente come tutte le volte in cui ci era
passato davanti da ragazzino. Al mercato aveva sentito cir­
colare una voce ed era arrivato fin lì, passando dal negozio
di videocassette di South Jackson. All'inizio aveva creduto
che ci fosse stato qualche incidente, a causa della folla sem­
pre più numerosa. Ma non aveva sentito né visto niente,
nessuna sirena ululante né luci lampeggianti. Solo gente
che si ammassava davanti all'albergo, come una marea che
sale, gente che si avvicinava spingendo un piede avanti al­
l'altro, passo dopo passo.
Avvicinandosi, Henry aveva visto arrivare una troupe tele­
visiva e l'aveva seguita. La folla si era aperta; i presenti, inti­
miditi dalle telecamere, si erano fatti educatamente da par­
te, sgombrando la strada. Henry si era messo alle calcagna
della troupe, trascinando i piedi così da non pestare nessu­
no, o da non essere pestato a sua volta, sentendo la calca
che gli premeva alle spalle. In cima alla scalinata, appena
dentro il vestibolo, sentì la nuova proprietaria dell'albergo
annunciare: «Abbiamo trovato qualcosa nel seminterrato».
Che cosa avevano trovato? Un cadavere, forse? Oppure
un laboratorio clandestino per preparare qualche nuova
droga? No, se l'albergo fosse stato la scena di un crimine la
polizia avrebbe già transennato l'area.
L'hotel Panama era rimasto in stato di abbandono fin dal
1950, le porte e le finestre chiuse con assi di legno, prima
che subentrasse la nuova proprietaria; in tutti quegli anni,
il quartiere cinese era diventato un ghetto in cui si erano
insediate le tong, società segrete di Hong Kong e Macao. Di
giorno, gli isolati a sud di King Street erano caratterizzati
da una affascinante trasandatezza: i rifiuti e le bave di luma­
ca sul marciapiede erano in genere ignorati dai turisti che
vagavano con lo sguardo rivolto verso l'alto, studiando le
modanature decorative di un'architettura di un'altra epo­
ca. I bambini in gita d'istruzione, imbacuccati nelle giacche
e nei cappelli dai colori vivaci, si tenevano per mano e se­
guivano il proprio naso ammirando immagini che facevano
venire loro l'acquolina in bocca: anatre arrosto in mostra
nelle vetrine, pastelli rossi penzolanti che si scioglievano al
sole. Ma, di notte, per quelle strade e quei vicoli bazzicava­
no spacciatori e prostitute ossute di mezza età, che batteva­
no il marciapiede per comprarsi la dose. Il pensiero di que­
sta icona della sua infanzia avviata a diventare un fortino
della droga, con laboratori di fortuna per trasformare la co­
caina in crack, lo riempì di una dolorosa malinconia che
non aveva più provato da quando aveva stretto la mano di
Ethel, osservandola esalare l'ultimo, lungo, lento respiro.
Le cose preziose, a quanto pareva, se ne andavano tutte,
per non tornare più.
Henry si tolse il cappello e cominciò a sventolarsi con la
falda logora, mentre la folla si spingeva sempre più avanti,
premendo dal fondo. Scattarono i flash. In punta di piedi,
Henry osservò la scena da sopra la spalla dell'alto giornali­
sta televisivo che aveva davanti.
La nuova proprietaria dell'albergo, una donna bianca
snella, appena un po' più giovane di Henry, emerse dalle
scale del seminterrato reggendo in mano... un ombrello? Lo
aprì, e il cuore di Henry si mise a battere più veloce appena
vide meglio il manufatto. Era un parasole giapponese di
bambù, rosso e bianco, con un disegno arancione raffigu­
rante una carpa ko~ simile a un gigantesco pesciolino rosso.
Dal parasole, che aveva l'aria fragile, si sparse una nuvola di
polvere che fluttuò sospesa a mezz'aria, mentre la nuova
proprietaria dell'albergo faceva roteare l'ombrellino da­
vanti alle macchine fotografiche. Altri due uomini portaro­
no su dalle scale del seminterrato un baule che recava le
etichette dei porti serviti dalla Admiral OrientaI Line, con
partenze da Seattle e Yokohama. Su un lato c'era scritto un
nome, Shimizu, dipinto a mano in grandi lettere bianche.
Il baule venne aperto per soddisfare la curiosità della folla.
Dentro c'erano vestiti, album di fotografie e un vecchio
cuociriso elettrico.
La nuova proprietaria dell'albergo spiegò che nel semin­
terrato aveva rinvenuto numerosi effetti personali apparte­
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più un centro di riabilitazione Art Déco che un albergo.
Anche l'edificio, proprio come Henry, sembrava intrappo­
lato fra due mondi. Ciò nonostante, Henry si sentiva nervo­
so ed eccitato, esattamente come tutte le volte in cui ci era
passato davanti da ragazzino. Al mercato aveva sentito cir­
colare una voce ed era arrivato fin lì, passando dal negozio
di videocassette di South Jackson. All'inizio aveva creduto
che ci fosse stato qualche incidente, a causa della folla sem­
pre più numerosa. Ma non aveva sentito né visto niente,
nessuna sirena ululante né luci lampeggianti. Solo gente
che si ammassava davanti all'albergo, come una marea che
sale, gente che si avvicinava spingendo un piede avanti al­
l'altro, passo dopo passo.
Avvicinandosi, Henry aveva visto arrivare una troupe tele­
visiva e l'aveva seguita. La folla si era aperta; i presenti, inti­
miditi dalle telecamere, si erano fatti educatamente da par­
te, sgombrando la strada. Henry si era messo alle calcagna
della troupe, trascinando i piedi così da non pestare nessu­
no, o da non essere pestato a sua volta, sentendo la calca
che gli premeva alle spalle. In cima alla scalinata, appena
dentro il vestibolo, sentì la nuova proprietaria dell'albergo
annunciare: «Abbiamo trovato qualcosa nel seminterrato».
Che cosa avevano trovato? Un cadavere, forse? Oppure
un laboratorio clandestino per preparare qualche nuova
droga? No, se l'albergo fosse stato la scena di un crimine la
polizia avrebbe già transennato l'area.
L'hotel Panama era rimasto in stato di abbandono fin dal
1950, le porte e le finestre chiuse con assi di legno, prima
che subentrasse la nuova proprietaria; in tutti quegli anni,
il quartiere cinese era diventato un ghetto in cui si erano
insediate le tong, società segrete di Hong Kong e Macao. Di
giorno, gli isolati a sud di King Street erano caratterizzati
da una affascinante trasandatezza: i rifiuti e le bave di luma­
ca sul marciapiede erano in genere ignorati dai turisti che
vagavano con lo sguardo rivolto verso l'alto, studiando le
modanature decorative di un'architettura di un'altra epo­
ca. I bambini in gita d'istruzione, imbacuccati nelle giacche
e nei cappelli dai colori vivaci, si tenevano per mano e se­
guivano il proprio naso ammirando immagini che facevano
venire loro l'acquolina in bocca: anatre arrosto in mostra
nelle vetrine, pastelli rossi penzolanti che si scioglievano al
sole. Ma, di notte, per quelle strade e quei vicoli bazzicava­
no spacciatori e prostitute ossute di mezza età, che batteva­
no il marciapiede per comprarsi la dose. Il pensiero di que­
sta icona della sua infanzia avviata a diventare un fortino
della droga, con laboratori di fortuna per trasformare la co­
caina in crack, lo riempì di una dolorosa malinconia che
non aveva più provato da quando aveva stretto la mano di
Ethel, osservandola esalare l'ultimo, lungo, lento respiro.
Le cose preziose, a quanto pareva, se ne andavano tutte,
per non tornare più.
Henry si tolse il cappello e cominciò a sventolarsi con la
falda logora, mentre la folla si spingeva sempre più avanti,
premendo dal fondo. Scattarono i flash. In punta di piedi,
Henry osservò la scena da sopra la spalla dell'alto giornali­
sta televisivo che aveva davanti.
La nuova proprietaria dell'albergo, una donna bianca
snella, appena un po' più giovane di Henry, emerse dalle
scale del seminterrato reggendo in mano... un ombrello? Lo
aprì, e il cuore di Henry si mise a battere più veloce appena
vide meglio il manufatto. Era un parasole giapponese di
bambù, rosso e bianco, con un disegno arancione raffigu­
rante una carpa ko~ simile a un gigantesco pesciolino rosso.
Dal parasole, che aveva l'aria fragile, si sparse una nuvola di
polvere che fluttuò sospesa a mezz'aria, mentre la nuova
proprietaria dell'albergo faceva roteare l'ombrellino da­
vanti alle macchine fotografiche. Altri due uomini portaro­
no su dalle scale del seminterrato un baule che recava le
etichette dei porti serviti dalla Admiral OrientaI Line, con
partenze da Seattle e Yokohama. Su un lato c'era scritto un
nome, Shimizu, dipinto a mano in grandi lettere bianche.
Il baule venne aperto per soddisfare la curiosità della folla.
Dentro c'erano vestiti, album di fotografie e un vecchio
cuociriso elettrico.
La nuova proprietaria dell'albergo spiegò che nel semin­
terrato aveva rinvenuto numerosi effetti personali apparte­
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nuti a trentasette famiglie giapponesi che, presumeva, era­
no state perseguitate e deportate. La roba era stata nascosta
e mai più recuperata: una involontaria capsula del tempo
che risaliva agli «anni della guerra».
Henry restò a osservare in silenzio la piccola parata di
casse da imballaggio di legno e valigie di cuoio recuperate
dal seminterrato; la folla osservava con meraviglia quegli
averi un tempo preziosi: un abito bianco da comunione,
dei candelieri di argento annerito, una cesta da picnic... og­
getti che erano rimasti lì, intonsi, a raccogliere la polvere
per più di quarant'anni. Oggetti tenuti in serbo, in attesa di
tempi migliori che non erano mai arrivati.
Più Henry pensava a quelle vecchie cianfrusaglie sgan­
gherate, a quei tesori dimenticati, più si domandava se an­
che il proprio cuore infranto non fosse là sotto, nascosto in­
sieme a quegli oggetti appartenuti a un'altra epoca, oggetti
che nessuno aveva mai reclamato. Chiuso sotto le assi nel
seminterrato di un albergo abbandonato. Un cuore perdu­
to, ma mai dimenticato.
16
MARTYLEE
(19 86)
Henry lasciò la folla assiepata davanti all'hotel Panama e
tornò a piedi fino a casa, a Beacon Hill. La casa non era si­
tuata così in alto da godere di una veduta panoramica su
Rainier Avenue, ma sorgeva in una zona più pratica, appe­
na sopra la strada che usciva da Chinatown. Era una villetta
modesta, con tre camere da letto e un seminterrato che,
dopo tutti quegli anni, era ancora da finire. Henry aveva
avuto l'intenzione di sistemarlo quando suo figlio Marty
fosse andato all'università, ma a quel punto le condizioni di
Ethel si erano aggravate e tutti i risparmi raccolti per i mo­
menti difficili se n'erano andati in una sfilza di spese medi­
che, un torrente durato quasi un decennio. Verso la fine ­
appena in tempo - era intervenuta l'assistenza sanitaria
pubblica, che avrebbe potuto coprire anche le spese per
una casa di cura, ma Henry non aveva voluto venire meno
al suo voto: stare vicino alla moglie in salute e malattia. Per
giunta, chi vorrebbe finire i propri giorni in qualche istitu­
to pubblico, una specie di prigione dove tutti vivono nel
braccio della morte?
Prima che Henry avesse modò di rispondere alla sua stes­
sa domanda, Marty bussò due volte alla porta ed entrò spe­
dito, salutandolo con un semplice: «Ciao, pa', come va?»
per poi dirigersi immediatamente verso la cucina. «Torno
subito, non alzarti, ho solo bisogno di prendermi qualcosa
da bere: sono venuto a piedi da Capitol Hill... per fare un
po' di esercizio, sai. Dovresti pensare anche tu a fare un po'
di moto, pa', mi sa che hai messo su pancia da quando è
morta mamma.»
Henry si guardò il girovita, poi schiacciò un tasto sul tele­
17
nuti a trentasette famiglie giapponesi che, presumeva, era­
no state perseguitate e deportate. La roba era stata nascosta
e mai più recuperata: una involontaria capsula del tempo
che risaliva agli «anni della guerra».
Henry restò a osservare in silenzio la piccola parata di
casse da imballaggio di legno e valigie di cuoio recuperate
dal seminterrato; la folla osservava con meraviglia quegli
averi un tempo preziosi: un abito bianco da comunione,
dei candelieri di argento annerito, una cesta da picnic... og­
getti che erano rimasti lì, intonsi, a raccogliere la polvere
per più di quarant'anni. Oggetti tenuti in serbo, in attesa di
tempi migliori che non erano mai arrivati.
Più Henry pensava a quelle vecchie cianfrusaglie sgan­
gherate, a quei tesori dimenticati, più si domandava se an­
che il proprio cuore infranto non fosse là sotto, nascosto in­
sieme a quegli oggetti appartenuti a un'altra epoca, oggetti
che nessuno aveva mai reclamato. Chiuso sotto le assi nel
seminterrato di un albergo abbandonato. Un cuore perdu­
to, ma mai dimenticato.
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MARTYLEE
(19 86)
Henry lasciò la folla assiepata davanti all'hotel Panama e
tornò a piedi fino a casa, a Beacon Hill. La casa non era si­
tuata così in alto da godere di una veduta panoramica su
Rainier Avenue, ma sorgeva in una zona più pratica, appe­
na sopra la strada che usciva da Chinatown. Era una villetta
modesta, con tre camere da letto e un seminterrato che,
dopo tutti quegli anni, era ancora da finire. Henry aveva
avuto l'intenzione di sistemarlo quando suo figlio Marty
fosse andato all'università, ma a quel punto le condizioni di
Ethel si erano aggravate e tutti i risparmi raccolti per i mo­
menti difficili se n'erano andati in una sfilza di spese medi­
che, un torrente durato quasi un decennio. Verso la fine ­
appena in tempo - era intervenuta l'assistenza sanitaria
pubblica, che avrebbe potuto coprire anche le spese per
una casa di cura, ma Henry non aveva voluto venire meno
al suo voto: stare vicino alla moglie in salute e malattia. Per
giunta, chi vorrebbe finire i propri giorni in qualche istitu­
to pubblico, una specie di prigione dove tutti vivono nel
braccio della morte?
Prima che Henry avesse modò di rispondere alla sua stes­
sa domanda, Marty bussò due volte alla porta ed entrò spe­
dito, salutandolo con un semplice: «Ciao, pa', come va?»
per poi dirigersi immediatamente verso la cucina. «Torno
subito, non alzarti, ho solo bisogno di prendermi qualcosa
da bere: sono venuto a piedi da Capitol Hill... per fare un
po' di esercizio, sai. Dovresti pensare anche tu a fare un po'
di moto, pa', mi sa che hai messo su pancia da quando è
morta mamma.»
Henry si guardò il girovita, poi schiacciò un tasto sul tele­
17
comando per togliere l'audio al televisore. Stava guardan­
do il telegiornale per sentire se dicevano qualcosa della sco­
perta all'hotel Panama, ma non ne parlavano. Doveva esse­
re stata una giornata piena di fatti di cronaca. In grembo,
Henry aveva una pila di vecchi album di foto e alcuni an­
nuari di scuola, macchiati e odorosi di muffa per l'aria umi­
da di Seattle che si condensava sulle pareti di calcestruzzo
del seminterrato per sempre incompiuto.
Lui e Marty non si erano visti molto dal giorno del fune­
rale. Marty era impegnato nella specializzazione in chimica
presso l'Università di Seattle, e questa era una buona cosa,
che sembrava tenerlo lontano dai guai. Ma l'università sem­
brava tenerlo lontano anche dalla vita del padre, il che era
stato accettabile quando Ethel era viva, ma adesso rendeva
il vuoto nella vita di Henry ancora più voluminoso: era co­
me sporgersi dall'orlo di un canyon, gridare, e restare in
perenne attesa di un'eco che non arriva mai. Se poi Marty
faceva una scappata a casa, sembrava che il suo unico scopo
fosse usare la lavatrice, lavare l'auto o farsi sganciare un po'
di soldi; soldi che Henry gli dava sempre, senza nemmeno
mostrarsi infastidito.
Se occuparsi di Ethel era stato il primo fronte di battaglia
per Henry, aiutare il figlio a pagare l'università era stato il
secondo. Nonostante una piccola borsa di studio, Marty
aveva avuto ugualmente bisogno di un prestito studente­
sco; ma Henry aveva lasciato il suo lavoro alla Boeing op­
tando per un pensionamento anticipato per potersi occu­
pare di Ethel a tempo pieno. Sulla carta, aveva un sacco di
soldi. Sembrava decisamente benestante. Per i prestatori,
dunque, Marty veniva da una famiglia con un discreto gruz­
zolo in banca; non avevano preso in considerazione il salas­
so delle spese mediche. Quando sua madre era deceduta,
era rimasto solo il denaro che bastava per un funerale de­
cente, una spesa che a Marty era parsa del tutto superflua. '
Henry inoltre aveva evitato di parlare al figlio della se­
conda ipoteca, quella che aveva dovuto accendere per far­
gli frequentare l'università quando il prestito studentesco si
era volatilizzato. Perché farlo stare in pensiero? Perché sot­
toporlo a quella pressione? Lo studio era già abbastanza
duro di per sé. Come ogni buon padre, Henry voleva il me­
glio per suo figlio, anche se fra loro non parlavano mai
molto.
Henry si rimise a sfogliare gli album fotografici, sbiadite
rimanenze dei suoi giorni di scuola, cercando qualcuno
che non avrebbe trovato mai. Cerco di non vivere nel passa­
to, pensò, ma chissà, a volte è il passato che vive in me.
Stornò lo sguardo dalle foto per osservare il figlio che tor­
nava lentamente dalla cucina, con un bicchierone di tè ver­
de ghiacciato. Si sedette per un attimo sul divano, poi si
spostò sulla poltrona rec1inabile di sua madre, di similpelle
screpolata, proprio davanti a Henry, che si sentì meglio ve­
dendo qualcuno, chiunque, nello spazio di Ethel.
«Il tè è finito?» gli domandò.
«Già», rispose Marty, «ma ti ho tenuto l'ultimo bicchiere,
papà.» Glielo posò accanto, sul tavolinetto verde giada. A
Henry venne fatto di pensare a quanto vecchio e cinico si
fosse permesso di diventare nei mesi passati dal funerale. Il
problema non era Marty. Era lui. Aveva bisogno di uscire di
più. Quella di oggi era stata una buona partenza.
Tuttavia, Henry riuscì a mettere insieme solo un «grazie»
bofonchiato.
«Scusa se negli ultimi tempi non ce l'ho fatta a passare;
gli ultimi esami mi hanno ammazzato. Volevo essere sicuro
di non sprecare tutti i soldi duramente guadagnati che tu e
la mamma avete speso per farmi posare le chiappe sulle se­
die dell'università, tanto per cominciare.»
Adesso Henry si sentì avvampare per la vergogna perché
la vecchia, rumorosa caldaia si era spenta, e la casa stava
precipitando nel freddo.
«Così, ti ho portato un piccolo segno della mia gratitudi­
ne.» Marty gli porse una piccola busta lai see, color rosso ac­
ceso; davanti aveva un intarsio di stagnola dorata, luccicante.
Henry prese il dono con entrambe le mani. «Una busta
di denaro della fortuna; mi vuoi risarcire?»
Marty sorrise e inarcò le sopracciglia. «In un certo senso... »
Non importava quale fosse il dono. Henry si sentì morti­
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comando per togliere l'audio al televisore. Stava guardan­
do il telegiornale per sentire se dicevano qualcosa della sco­
perta all'hotel Panama, ma non ne parlavano. Doveva esse­
re stata una giornata piena di fatti di cronaca. In grembo,
Henry aveva una pila di vecchi album di foto e alcuni an­
nuari di scuola, macchiati e odorosi di muffa per l'aria umi­
da di Seattle che si condensava sulle pareti di calcestruzzo
del seminterrato per sempre incompiuto.
Lui e Marty non si erano visti molto dal giorno del fune­
rale. Marty era impegnato nella specializzazione in chimica
presso l'Università di Seattle, e questa era una buona cosa,
che sembrava tenerlo lontano dai guai. Ma l'università sem­
brava tenerlo lontano anche dalla vita del padre, il che era
stato accettabile quando Ethel era viva, ma adesso rendeva
il vuoto nella vita di Henry ancora più voluminoso: era co­
me sporgersi dall'orlo di un canyon, gridare, e restare in
perenne attesa di un'eco che non arriva mai. Se poi Marty
faceva una scappata a casa, sembrava che il suo unico scopo
fosse usare la lavatrice, lavare l'auto o farsi sganciare un po'
di soldi; soldi che Henry gli dava sempre, senza nemmeno
mostrarsi infastidito.
Se occuparsi di Ethel era stato il primo fronte di battaglia
per Henry, aiutare il figlio a pagare l'università era stato il
secondo. Nonostante una piccola borsa di studio, Marty
aveva avuto ugualmente bisogno di un prestito studente­
sco; ma Henry aveva lasciato il suo lavoro alla Boeing op­
tando per un pensionamento anticipato per potersi occu­
pare di Ethel a tempo pieno. Sulla carta, aveva un sacco di
soldi. Sembrava decisamente benestante. Per i prestatori,
dunque, Marty veniva da una famiglia con un discreto gruz­
zolo in banca; non avevano preso in considerazione il salas­
so delle spese mediche. Quando sua madre era deceduta,
era rimasto solo il denaro che bastava per un funerale de­
cente, una spesa che a Marty era parsa del tutto superflua. '
Henry inoltre aveva evitato di parlare al figlio della se­
conda ipoteca, quella che aveva dovuto accendere per far­
gli frequentare l'università quando il prestito studentesco si
era volatilizzato. Perché farlo stare in pensiero? Perché sot­
toporlo a quella pressione? Lo studio era già abbastanza
duro di per sé. Come ogni buon padre, Henry voleva il me­
glio per suo figlio, anche se fra loro non parlavano mai
molto.
Henry si rimise a sfogliare gli album fotografici, sbiadite
rimanenze dei suoi giorni di scuola, cercando qualcuno
che non avrebbe trovato mai. Cerco di non vivere nel passa­
to, pensò, ma chissà, a volte è il passato che vive in me.
Stornò lo sguardo dalle foto per osservare il figlio che tor­
nava lentamente dalla cucina, con un bicchierone di tè ver­
de ghiacciato. Si sedette per un attimo sul divano, poi si
spostò sulla poltrona rec1inabile di sua madre, di similpelle
screpolata, proprio davanti a Henry, che si sentì meglio ve­
dendo qualcuno, chiunque, nello spazio di Ethel.
«Il tè è finito?» gli domandò.
«Già», rispose Marty, «ma ti ho tenuto l'ultimo bicchiere,
papà.» Glielo posò accanto, sul tavolinetto verde giada. A
Henry venne fatto di pensare a quanto vecchio e cinico si
fosse permesso di diventare nei mesi passati dal funerale. Il
problema non era Marty. Era lui. Aveva bisogno di uscire di
più. Quella di oggi era stata una buona partenza.
Tuttavia, Henry riuscì a mettere insieme solo un «grazie»
bofonchiato.
«Scusa se negli ultimi tempi non ce l'ho fatta a passare;
gli ultimi esami mi hanno ammazzato. Volevo essere sicuro
di non sprecare tutti i soldi duramente guadagnati che tu e
la mamma avete speso per farmi posare le chiappe sulle se­
die dell'università, tanto per cominciare.»
Adesso Henry si sentì avvampare per la vergogna perché
la vecchia, rumorosa caldaia si era spenta, e la casa stava
precipitando nel freddo.
«Così, ti ho portato un piccolo segno della mia gratitudi­
ne.» Marty gli porse una piccola busta lai see, color rosso ac­
ceso; davanti aveva un intarsio di stagnola dorata, luccicante.
Henry prese il dono con entrambe le mani. «Una busta
di denaro della fortuna; mi vuoi risarcire?»
Marty sorrise e inarcò le sopracciglia. «In un certo senso... »
Non importava quale fosse il dono. Henry si sentì morti­
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