collana diretta da antonio paolacci

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collana diretta da antonio paolacci
C O L L A N A D I R ET TA DA A N TO N I O PAO L AC C I
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Eva Clesis
Parole sante
In principio fu la vecchia.
Viorica la osservò frignare nel lettino, rigida e fragile
come un tronco marcio, nella casa che i figli avevano spogliato di ogni bene, a eccezione di medicinali, fazzolettini
da naso e una madonnina di Lourdes in plastica con dentro
metà acqua.
Quando ogni domenica mattina i due figli maschi, le loro
consorti e la figliolanza al seguito venivano a trovare la povera malata, Viorica li vedeva sfilare con gli abiti buoni, le facce
tristi e la lacrima di comodo. E mai che se ne andassero a
mani vuote. Nascosto da qualche parte trovavano sempre un
pupazzo, un piatto di ceramica, un orologio, una panca o un
settimino tarlato che a casa loro ci sarebbe stato benissimo,
ché poi, si sa, sono sempre ricordi.
A vederli la vecchia smetteva di lagnarsi, distratta dalle
ombre che si ammassavano al suo capezzale, nauseata dai
profumi delle nuore; si faceva piccola al rumore dei traslochi
e agli uffa dei nipotini pestiferi. Riprendeva a gemere non
appena la porta di casa sbatteva, con la realtà che si chiudeva
a lei e alla sua badante, rimaste di nuovo sole.
Allora Viorica tirava fuori i soldi e faceva due calcoli. Per
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sé teneva un foglio da cinquanta e nascondeva gli altri sei in
un posticino segreto. Una scatolina portagioie laccata di verde. Poi si stendeva sulla brandina, soddisfatta per quanto può
durare il sogno di tornare in patria assieme a tanto denaro.
Roba di pochi secondi. Finito di sognare, si rimetteva a guardare la vecchia e ascoltava il suo lamento eterno: «Mamma…
mamma? Mamma!»
Da quando i figli s’erano portati via il televisore, un Mivar
dopotutto in ottimo stato, in casa si udiva solo la vecchia
invocare lo spirito della madre. Non la smetteva neanche
quando Viorica le cambiava il pannolone o la imboccava con
l’omogeneizzato. A volte l’ucraina le rispondeva con le poche
parole che aveva imparato a dire in italiano.
«Sì, mama, sì, bene. Sì?»
«Mamma, ma… ma? Mamma!»
«Sì, tu piano. Sì».
«Mamma… mamma. Mamma?»
La deprimente litania durava giorno e notte, e intanto
Viorica dell’Italia non aveva visto niente, nessuno dei monumenti che le donne di ritorno in Ucraina le avevano descritto, nessun Colosseo e nessuna torre pendente. Conosceva il
supermercato sotto casa, il Tutto a un euro dei cinesi e quella
cazzo di vecchia che imperterrita chiamava la madre.
E così la badante iniziò a deprimersi, scoppiava a piangere
per un nonnulla. Poi tirava su col naso, si faceva un giro turistico dell’appartamento saccheggiato, sbirciava dalle persiane
un pezzo di Italia, apriva il portagioie sperando di trovarci
più soldi, aspettava che tornasse la domenica, si spazzolava i
capelli, guardava l’ora. E all’ora giusta, si alzava per dare una
pillola all’inferma.
Mentre la nonna ciucciava l’acqua dal beccuccio, i loro
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sguardi sembravano incontrarsi. L’ucraina aveva occhi determinati, la vecchia rassegnati e vitrei. E una volta finito di
bere era di nuovo mamma e mamma.
E Viorica rispondeva: «Sì, bene, tu piano».
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«Fiat lux!» esclamò al cielo annuvolato la vecchia Lucia
Magnano detta Lina, dopo aver chiuso l’uscio di casa. Si
trascinò la sportina di tela lungo il cortile invaso da erbacce.
Nell’altra mano stringeva un ombrello nero, ma continuava a guardare il cielo bigio con espressione di sfida. Suo
figlio Santo le aveva raccomandato di non uscire di casa,
ma Lina si aspettava che a quella frase biblica il Padreterno
le sorridesse da sopra le nuvole nella maniera in cui se lo
immaginava lei: un tizio barbuto e bonario con i devoti ma
vendicativo con i reietti, un Babbo Natale vestito di bianco,
emanante luce divina et perpetua. Attendeva che il Signore
le accordasse questa gentilezza, dato che Lina, la più fedele delle sue pecorelle dopo i santi e i beati (così scherzava
padre Felice, e ogni volta la faceva arrossire), aveva pregato
che il cielo si facesse sereno. A quel dispettoso del figlio
gliel’aveva detto, lo aveva assicurato che Iddio a lei dava
sempre retta. Lui aveva borbottato un «Fa’ come vuoi», e si
era rintanato in camera sua ad ascoltare Beethoven.
«Fiat lux!» ripeté a voce alta la vecchia testarda, che brandì l’ombrello proprio come l’arcangelo Michele aveva fatto
con la spada di fuoco per scacciare la peste da Roma.
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Per tutta risposta il cielo non solo non cambiò colore,
ma cacciò un rutto timido per poi spararne due fragorosi.
Una prima goccia di pioggia si abbatté sulla punta del
naso della povera Lina, e in men che non si dica ci fu un
bell’acquazzone.
La bocca della vedova si distorse in una piega cattiva. Aprì
la sua spada di fuoco per proteggersi dalla pioggia e continuò
a ripetere: «Dio, in cosa avrò sbagliato?»
Uscì dal cortile fangoso e si diresse al Conad, ché con
quella pioggia del malaugurio il mercato saltava e in piazza
avrebbero sbaraccato. Affrettò il passo per quello che le sue
gambe corte potevano fare senza inciampare o insozzarsi. I
marciapiedi del piccolo comune di Comasia erano in pessimo stato, non come ai bei tempi di suo marito. Con la pioggia le stradine si allagavano, i tombini sputavano veleni e le
tipiche case a terrazza, con gli usci a livello di strada, finivano
per assomigliare a palafitte.
Lina entrò nel supermercato e fu accecata dalla luce
dei neon, così sinistra di primo mattino. Scontenta per la
piega che stava prendendo la giornata e per quella dei suoi
capelli sotto le zaffate d’acqua, la vecchia si tastò i ricci
da bigodino per controllare che non si fossero bagnati.
Quindi si sistemò la collanina d’oro sotto la camicetta, lasciando il rosario in evidenza, e si appuntò lo scialle nero
sul seno svuotato.
Nel bel mezzo di questi rimaneggiamenti, Lina bofonchiava saluti a denti stretti e trascinava le suole inzaccherate
delle scarpe estive, ignorando le lamentele della caporeparto che le chiedeva di lasciare la sua solida sporta di tela per
una di quelle gabbie metalliche, i cosiddetti carrelli. Guardò con disgusto le confezioni di pesce surgelato e le banane
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verdi asfissiate nel polistirolo, poi scosse la testa dal disappunto udendo i salumieri fare gli stupidi con una ragazza
anziché servire i clienti.
Aveva appena strappato un biglietto da un’infernale
macchinetta arancione con il numero di prenotazione alla
panetteria, quando si sentì picchiettare le spalle. Si voltò
con il più benedetto dei sorrisi. E che sorpresa, quando
vide la vedova Maria Teresa Ferruzzi, sua acerrima rivale
alla parrocchia di santa Caterina, responsabile dei tre quarti
delle opere di carità di Comasia, tra collette per orfani, alloggi per immigrati, mense per poveri e malati. A disagio,
Lina guardò di traverso il suo completo marrone di lanetta fredda e disprezzò la sciarpetta fucsia con cui la vedova
Ferruzzi adornava il collo segaligno. Maria Teresa le batté
la mano sul braccio destro, che Lina non fece in tempo a
ritrarre. Ecco un’altra cosa su cui il Padreterno le doveva
una spiegazione, e cioè perché dopo averlo più volte pregato di farle venire un accidente, la Ferruzzi fosse sempre tra
i piedi.
Maria Teresa Ferruzzi chiocciò: «Lina carissima, da quanto tempo!»
«Eh, Teresa, mica così tanto», borbottò Lina. Controllò il
numero della panetteria. Quarantotto.
«Ma domenica non ti ho vista a messa, mi pare… O
c’eri?»
«E certo che c’ero, sono sempre in prima fila, io!»
«Ah, scusa, e non ti ho vista, forse perché ero in giro con i cestini delle offerte per gli alluvionati, sai che la scorsa dom…»
«Aspetta, no, ora mi viene in mente, Teresa, padre Felice
mi aveva chiesto di dare una mano in sagrestia, sicuramente
quando te ne andavi in giro coi tuoi cestini ero là».
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La Ferruzzi strinse occhi e labbra, segno di un fastidio che
Lina non si lasciò sfuggire. “Colpita e affondata”, pensò.
L’amica continuò come niente: «Ah, e che allora, tutto
si spiega. Lo dissi pure alle altre, che la vedova del sindaco
Magnano non si perde mai una messa alla parrocchia di santa
Caterina».
«Mai, Teresa, venisse pure il Giudizio Universale, cascasse
il cielo sopra le nostre teste, s’aprisse in due la terra come…»
Fosse stata un uomo, la vedova Ferruzzi a sentire ’ste iatture si sarebbe toccata, ma si limitò a fare corna con la mano
nascosta nella borsetta.
«E giungessero gli angeli dell’Apocalisse, la Magnano non
si muove mai dall’altare della nostra chiesa!» concluse Lina
con voce trionfante, stringendo il numero quarantotto quasi
fosse il suo biglietto per il paradiso. Dopodiché, liquidata la
chiacchiera con la Ferruzzi, la vecchia trotterellò al banco del
pane. Allungò il collo e finì per puntare delle pucce al pomodoro per cui aveva un debole segreto. Al garzone ordinò
un chilo di pane e cinque pucce per sé. Stava per prendere i
pacchi quando si sentì apostrofare alle spalle.
«E non facciamo peccato di gola, eh, Lina mia, con quelle
pucce?»
Presa alla sprovvista, Lina si girò. La vedova Ferruzzi
l’aveva seguita.
“Che peste ti colga!” pensò la Magnano, e anche, rivolgendosi al suo confidente segreto: “Fammela morire, Signore, fammela schiattare subito, qui, in’ d’a tterra!”. Si lisciò
l’abito nero e per l’ennesima volta si chiese come mai la Ferruzzi non osservava il colore della vedovanza.
«Maria Teresa, e che diciamo? Peccati di gola io? ’Na
povera vecchierella come me, che non mangio un dolce da
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quando mio marito era vivo, pace all’anima sua? Queste qui»,
disse, e scrollò il pacco fragrante, «sono per il povero Santo,
per Santino mio!»
«Eh, ma io stavo solo scherzando… Tu sei un angelo, Lina.
E anzi, prima che mi dimentichi, mi chiedevo se, tu che sei
così caritatevole, non mi puoi dare una mano anche stavolta.
Lo so, lo so!» continuò Maria Teresa, la mano di nuovo sulla
spalla di Lina come a volersi scusare di quel che stava per dire,
«so che tu fosti sempre così buona, troppo buona con noi».
«Be’, sì, be’…»
«Ma mi chiedevo se per caso servisse anche a te una di
quelle donne dell’est… No, perché sono in contatto con la
direttrice di un’organizzazione seria, ma seria veramente».
«Non capisco».
«Funziona così: in cambio di un po’ di aiuto in casa gli dai
un alloggio e magari qualche soldo a fine mese, che poi queste poverette manderebbero da loro, in Georgia, in Polonia,
dove c’hanno le famiglie».
«Eh! Ma…»
«In quei piccoli paesi russi…»
«Ma…»
«Dove sono disperati, non sembra, eh, peggio che da noi».
«Ma non… Ma io non c’ho mica bisogno della badante,
Maria Teresa!» esclamò la Lina, che aveva capito e s’era indispettita.
Maria Teresa Ferruzzi mostrò un’espressione scandalizzata: ché mai a lei era venuto in mente di pensare a una badante
per Lina Magnano, precisò, mai.
«Dio mi è testimone, che scherziamo?»
«E che allora?» chiese Lina, imbronciata. Sistemò le pucce
nella sua sporta e si avviò alle casse.
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«E allora anche io ne ho chiesta una, sai, ma sarebbe solo
per fare del bene, in cambio di un po’ di comp... di una
mano in casa, ché ti fanno le faccende più pesanti, queste qui
sono donne in gamba».
Ma di una simile possibilità Lina Magnano non ne voleva neanche sentire parlare. Si tirò appresso la spesa, con
la vedova Ferruzzi alle calcagna che continuava imperterrita: «La vostra casa è così grande, Lina, una stanza libera
ce l’hai!»
«Anche due, casa mia è Villa Magnano, non ce lo scordiamo», sbottò Lina come a porre fine alla discussione, ma così
facendo si era data la zappa sui piedi. Cos’era quella frase appena uscita dalla sua bocca? Vanteria? Come sarebbe suonata
alle orecchie di un’arpia come la Ferruzzi? Nel peggiore dei
modi, di sicuro.
E infatti la rivale rimase zitta e stette a guardare i pacchi di
pasta con espressione significativa. La Lina si fermò. Quando
le parve d’aver trovato una pezza accettabile per la frase vanagloriosa di prima, mollò la sporta e afferrò entrambe le mani
della Ferruzzi con uno sguardo che, sotto il sorriso di carità,
lasciasse intuire il vero tormento della sua anima. Maria Teresa sorrise di rimando. Era un sorriso circospetto.
«Quella casa sarà la mia dannazione, Teresa! Hai ragione
tu, è troppo grande solo per me e Santo».
«No, io non…»
«Sei buona, ma lasciami finire, lasciami finire! Padre Felice sa bene quanto soffro per questa situazione. E alla mia
morte tutti capirete, ah, se capirete! È che a quella casa sono
legati tanti ricordi cari, nel nostro letto mi è morto il povero
Francesco, e…»
«Mi disp…»
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«E Santo, con la sua malattia, sai che trauma sarebbe.
Sono anni che non esce di casa e passa tutto il tempo ad
ascoltare le musiche», continuò Lina facendo volteggiare la
mano a indicare una melodia.
Maria Teresa non provò a dire nulla, e che doveva dire
più? La Magnano l’aveva stecchita. E d’altro canto Lina
pensò che era il momento buono a mostrare, pur nella sua
drammatica situazione, lo spirito di chi dona agli altri senza
girarsi a guardare, come invece fece la moglie di Lot (e mal
gliene incolse).
«Ma hai ragione tu, Teresa, hai ragione tu. Dovrei fare
molto altro, come dice il Vangelo? Dando a Dio ciò che è di
Cesare. Perché anche se vedova e con un figlio disgraziato e
una casa che cade a pezzi… Avrebbe proprio bisogno di una
bella risistemata, sai… E io pure comincio ad avere i miei
acciacchi, sono inappetente…»
La vedova Ferruzzi aggrottò la fronte alla vista della trippa di Lina Magnano, distribuita per il suo metro e una lenticchia d’altezza, ma non disse nulla. Anche perché sarebbe
stata interrotta.
«Nonostante tutti questi patemi, dicevo, non mi stancherò mai di dare al prossimo. Perciò, se anche in questa
circostanza ti posso aiutare… Finora non ho mai preso in
considerazione l’idea di aprire la mia casa ai più sfortunati».
«Oh, ma…»
«Ma va bene, va bene tutto. È evidente che il Signore ti
ha mandato dalla vecchia Lina a darle un’altra bella strigliata,
eh? Venne una donna mandata da Dio, e il suo nome era…
Teresa! Fammi sapere se posso ospitare una di queste donne
dell’ovest».
«Dell’est, cara, ma non ti preoccupare, ché non ti devi
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prendere anche quest’affanno, ’stu picciu! Sono stata io l’invadente», disse Maria Teresa Ferruzzi, ora a disagio. Ecco
che stava contribuendo a fare della Magnano una martire.
Lei che non esitava a intrecciarsi da sola la propria corona
di spine.
«Ah no, ah no, Teresa, e che facciamo?» sorrise con compiacenza Lina. «Ci tiriamo indietro di fronte alla chiamata di
Dio? E a proposito, tu un colpo di telefono fammelo così mi
dici, ma insisto, eh, mi raccomando».
«Non ti preoccup…»
«Ché me la prendo a male se non mi vedo nessuno bussare alla porta con la valigia in mano!»
«Sarà fatto, va benissimo, ti chiamo».
Maria Teresa Ferruzzi baciò le guance della Lina con lo
stesso fervore che avrebbe avuto a darle un pugno in faccia. Poi la salutò, grata di andarsene, e disse che a parlare
con lei si era dimenticata di fare la spesa. Sempre sorridente, Lina Magnano tirò un sospiro di sollievo e s’avviò
alle casse.
Sicuro come la morte che la vedova Ferruzzi non l’avrebbe più disturbata, pensò uscendo, e si rallegrò quando, fuori
del supermercato, vide che aveva smesso di piovere. Guardò
il cielo e salutò il Signore, che lui sì ascoltava la povera Lucia
Magnano detta Lina. Coi suoi tempi… e va buenu. Ma il
Signore a Lina l’ascoltava eccome.
Quando tornò nella stanza da letto con il pappagallo pulito e un pannolone sottobraccio, Viorica scoprì il silenzio
per la prima volta da più di due mesi, e se ne stupì. Pareva
infatti che mentre era in bagno a piangere, intenta al lavacro
della paletta con il tubo della doccia e alla sua detersione
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con l’asciugamano degli ospiti (con cui i parenti della malata si pulivano le mani), la vecchia inferma si fosse addormentata. Camminando in punta di piedi per non svegliarla,
Viorica si strofinò gli occhi gonfi per guardarla dormire. La
povera demente riposava con un respiro tanto lieve da non
udirsi neppure.
Viorica mollò pappagallo e pannolone sul comò e si sedette sulla brandina. La tregua inattesa le calmò i nervi.
Nel suo primo mese e mezzo in Italia aveva pianto di
frequente, in special modo quando era in bagno. Le mancava suo figlio ed era sola in un luogo sconosciuto. Senza
la televisione e senza poter parlare ad anima viva, a Viorica
sembrava di essere in clausura. Insonne di notte per i lamenti della malata, di giorno si aggirava per casa in preda
alla nostalgia. Trovare una distrazione era impossibile: per
non lasciare la vecchia, Viorica usciva solo per andare al
supermercato o a buttare la spazzatura. La domenica, una
delle nuore le dava la lista della spesa con i soldi contati al
centesimo: già prima che venisse lei, i figli si erano accordati con i commessi e Viorica ogni lunedì doveva consegnare
lista e denaro al supermercato sotto casa, attendere fuori e
ritirare la spesa. Fine del suo momento di libertà, giusto il
tempo di una sigaretta.
E proprio per fumare Viorica alzò la tapparella e si sporse
dalla finestra, sussultando ogni tanto per i rumori di sottofondo: il motorino del frigorifero, gli scricchiolii dei mobili,
l’eco dell’ascensore. Subito si girava a controllare l’inferma: e
che sollievo nel constatare che i rumori le facevano un baffo
e se la dormiva come mai era accaduto.
Continuò a fumare in santa pace, poi abbassò la tapparella e si sfilò la gonna. Si sedette di nuovo sulla brandina
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e si coprì le gambe nude con un plaid. Prese lo zaino che
teneva nascosto sotto il letto: dentro c’era una scatola di
biscotti da tè Maria che aveva comprato in Ucraina prima
di partire. Le erano rimasti sei biscotti, Viorica ne mangiò
cinque e ne lasciò uno, un gesto di scaramanzia contro i
tempi magri. Poi si distese a pancia in su e provò a chiudere
un attimo gli occhi, la lingua impastata di pezzetti di frolla
che le raschiavano il palato.
A un certo punto li riaprì. Cosa era stato?
Accaldata, Viorica piegò le gambe e guardò la malata che
dormiva indifferente. Il campanello suonò di nuovo.
In preda al panico, la donna scattò in piedi: con il plaid
intorno al corpo, percorse il corridoio e si mise in ascolto
dietro la porta. Chi mai poteva suonare in piena notte?
«Dove hai messo la macchina?» domandava da fuori una
voce maschile.
«Alle spalle del tabaccaio».
«E Maria è rimasta a casa?» chiedeva una voce femminile.
«Maria oggi non tanto si sentiva».
Riconoscendo quelle voci, Viorica fece un profondo respiro e aprì. Sulla soglia c’erano i figli dell’anziana signora e
la moglie di uno dei due, mentre tre ragazzini con gli abiti
della domenica correvano a sfottersi per le scale.
La donna, una bruna insipida ma ben pittata, tornò indietro e afferrò la ragazzina, che indossava calze ricamate e una
giacchetta con le spille. Con uno strattone la trascinò giù per
le scale. Infine la spintonò sul pianerottolo e le ripeté di non
fare la scema con i cugini.
«Buongiorno, Viorica», disse il figlio maggiore della malata senza guardarla. L’altro fratello accennò un saluto e di
sottecchi le spiò i fianchi avvolti nel plaid. La moglie di lui
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passò senza fiatare. La ragazzina sbuffò e i cugini si affrettarono a correrle dietro.
Confusa a trovarseli sbarbati e profumati in piena notte,
l’ucraina si ravviò i capelli e lasciò passare la processione. Si
chiese perché i figli venissero sempre insieme a fare visita alla
madre.
E la sua confusione aumentò quando, due ore dopo, si
aggirava per la stazione di Squinzano, deserta salvo due vecchi e una tossica scheletrica che attraversava i binari in cerca
di spiccioli.
In mano Viorica aveva un biglietto per Lecce città e un
foglio con un nome e un indirizzo a lei noti. Quando salì
sul treno realizzò di essere stata appena cacciata di casa. Una
domenica d’agosto. E di aver finito le sigarette.
Fece allora l’unica cosa che chiunque al posto suo avrebbe
fatto in una situazione che si prospettava disperata: aprì lo
zaino, prese la scatola di biscotti Maria, mandò a fanculo le
scaramanzie e mangiò il biscotto rimasto.
Lina Magnano si affrettò. Era in grosso anticipo per la
messa delle dieci ma voleva fare le cose con calma, andare a
trovare suo marito al cimitero e in chiesa a confessarsi.
Alle otto e trentadue uscì sotto il cielo uggioso di fine
agosto.
Suo figlio Santo era in camera a leggere quando capì d’essere rimasto solo. Si era svegliato alle cinque, o per meglio
dire si era alzato, dato che di notte non dormiva mai granché,
alternava colpi di sonno a lunghi pensieri.
Già intorno ai trent’anni Santo Magnano aveva sviluppato l’insonnia del cattivo dormitore: si coricava a orari diversi, si svegliava in letti diversi o non si coricava affatto.
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Aveva sempre avuto una natura irrequieta, forse il presagio
di quel che gli sarebbe accaduto dopo. Sua madre si era
convinta che fossero stati proprio i suoi peccati di gioventù
ad averlo ridotto in stampelle. Invece per lui una malattia
era una malattia, cose che capitano come i guasti alle macchine. E Dio non c’entrava con il guasto di Santo, che a
dispetto del suo nome era sempre stato ateo. Per lui la fede
era un’ancora a cui si aggrappa chi ha una vita monca o
infelice e Santo non era mai appartenuto a questa categoria. Morbo di Paget a parte, aveva avuto una vita così soddisfacente da conservare anche nella disgrazia un aplomb
da gentiluomo che lo faceva sentire tanticchia superiore a
tutto. Era nato con la camicia ed era cresciuto a debita distanza dalle cose più mortali e sporche. Aveva avuto amici
adulatori con cui passare i pomeriggi alla villa, ad ascoltare
i dischi rari che all’epoca, tra la fine degli anni Settanta e
i primi Ottanta, solo un giovanotto ricco come lui poteva
farsi mandare dall’estero. Aveva avuto le auto di lusso e i
cavalli di proprietà e tutte le donne con cui, a costo che in
paese lo dessero tacitamente per ricchia, non si era voluto sposare. Aveva girato mezzo mondo, ma nonostante le
agiatezze era diventato un brav’uomo comunque, giusto un
poco altezzoso. Quando il padre, prima di morire d’infarto, l’aveva portato a Milano da un luminare dell’ortopedia,
Santo aveva guardato dall’alto in basso pure lui, il dutture.
E non aveva battuto ciglio a sentir parlare della malattia
cronica e incurabile che poteva mangiargli le ossa e con il
passare degli anni renderlo un mostro. Il suo morbo era
un cavallo impazzito. Ma neanche da malato Santo si era
scomposto, né aveva guadagnato la fede: forse le sue ossa si
sarebbero fatte di schiuma, ma la sua disgrazia non era una
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buona ragione per andare a scomodare un dio. Nonostante ormai si coricasse alla stessa ora e nello stesso letto da
più di quindici anni, il galantuomo non aveva trovato una
brutta morte nella nuova vita. Certo, per strada s’era perso
le gambe.
E non aveva ritrovato il sonno.
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Alle nove e zero cinque Felice indossò la stoletta viola, entrò nel confessionale e chiuse dietro di sé la pesante tenda di
velluto color vinaccia. Mentre si piegava per sedersi, si resse il
ventre fra le mani e sentì la stoffa della camicia tirare. Commise allora peccato di bestemmia citando gli antenati del suo
sarto, razza di farabutto che gli aveva mentito quando aveva
detto d’avergli allargato le camicie da sotto le braccia. Come
no; e che, nel frattempo lui era ingrassato?
Sbuffò quando finalmente si mise comodo: detestava il
confessionale di santa Caterina, un brutto affare pomposo
d’impianto ottocentesco in legno di noce, che dentro gli
sembrava più angusto di un cesso pubblico e fuori era più
imponente dell’altare. Stonava con il resto della parrocchia,
che pure se di antica costruzione e in pietra leccese, di barocco aveva solo il fregio del rosone. E non dimentichiamoci la statua della santa, la cui copia avevano collocato
sul lato destro della chiesa, di modo che guardasse l’altare
come i fedeli.
Grattandosi la pelata, il prete scorse attraverso la grata la vecchia di cui in realtà vedeva a malapena i capelli, trattenuti dalle
forcine e coperti da un fazzoletto da naso, o così gli pareva.
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Sapeva chi era e la rimproverò bonariamente: «Lina Magnano, cara sorella, sedetevi e lasciate perdere l’inginocchiatoio, quante volte ve lo devo dire? Va bene che Matteo dice:
“Entrate per la porta stretta, poiché larga è la porta e spaziosa
la via che mena alla perdizione”, ma non dobbiamo mica esagerare, prendete la sedia alle vostre spalle e accompagnatevela
dietro la tenda».
«Troppo buono con me, padre, a citare l’Apostolo, ma
preferisco stare inginocchiata».
«Vi ho fatto portare la sedia apposta, sorella».
«Che mi verrebbe così comoda con l’artrite, ma sarò sempre in ginocchio al cospetto di Nostro Signore, e così d’ora
in poi vorrei ricevere la comunione, scusate se ogni tanto
insisto».
Padre Felice tossicchiò. Insisteva sulle cose sbagliate, la
rompicoglioni.
«Questo non è possibile, ci mancano gli speciali inginocchiatoi».
«Ma alla messa di Santa Maria di Leuca, il Papa…»
«Sorella, non vi angustiate più per questo e procediamo.
Parlare di cose materiali svilisce il momento della confessione», bisbigliò severamente il prete, «ma se proprio volete faccio io una rivelazione a voi, così la finiamo. Abbiamo ordinato un inginocchiatoio al nostro fornitore di arredi sacri…»
«Quello di Trepuzzi?»
«A me pare di Galatina», rispose il prete, scornato. «E ora
vogliamo continuare?»
La testa con il fazzoletto annuì pentita e rimase in ascolto.
Padre Felice ringraziò il Cielo e cominciò: «Nel nome del
Padre, del Figlio e dello Spirito Santo».
«Mi perdoni, perché ho peccato».
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«Da quanto non vi confessate, sorella?»
«Da ieri l’altro».
«E cosa sarebbe?»
«Avantieri sarebbe, padre».
«Eh sì, già. Volevo dire: e in due giorni cosa vi accadde?»
«Ieri, il fattaccio mi capitò di mattina. Incontrai la Ferruzzi al supermercato. E per questo non venni più in chiesa».
«Ci siete mancata», mentì padre Felice. Quella parrocchia
del cavolo pullulava di perpetue e comari peggio di un ospizio.
«Perdonatemi, è stato perché ho fatto certi brutti pensieri
sulla vedova».
«Le avete di nuovo augurato di morire?»
«Io… S-sì, padre, ma che c’entra?» protestò Lina Magnano, che avvertì un bruciore familiare all’altezza delle ginocchia, «ho chiesto che morisse in quanto noi tutti dobbiamo
morire».
«Sorella!»
«Per andare nel Regno dei Cieli».
«Ah, bene. Ma senza augurare le disgrazie altrui, che è
peccato mortale. C’è altro?»
«Io… No, no».
Contrariato, Felice si schiarì la voce. La vecchia non aveva
nulla da dirgli su quello che più gli premeva? Possibile che
non ne avesse ancora parlato al figlio? Aveva passato anni a
convincerla e adesso che era fatta perdevano tempo. Le prescrisse un Atto di Dolore e cercò la maniera più appropriata
per chiederglielo. Una roba che non la offendesse, ché bisognava tenersela ancora buona, Lina Magnano.
«E comunque la vedova Ferruzzi non sa della vostra
grande generosità, sorella. Per questo non dovete litigare
più con lei».
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«Ma mi ha chiesto di mettermi in casa una donna dell’ovest,
’na straniera!»
«Non è straniera agli occhi di Dio, ma solo ai nostri mortali. Voi se potete accontentatela, fate una buona azione in
più, anche se già sapete d’esservi guadagnata il paradiso con
il vostro gesto più magnanimo».
Lina Magnano gioì a questo apprezzamento e la sua testa
con il fazzoletto tremolò d’eccitazione.
«Quando morirò, vedrete voi se casa mia…» bisbigliò con
aria cospiratoria. «Tutti a Comasia ne resteranno stupiti!»
«Però voi non lo fate per apparire grande agli occhi degli
altri, ma più umile al cospetto di Dio».
«E che certo! Oggi a pranzo ne parlerò a Santino», promise la vecchia. «Ricordatemi voi com’è che devo dire, o forse
me lo dovrei appuntare».
Padre Felice glielo ripeté e le ricordò pure del contratto,
le chiese quando preferisse vedersi col notaio. In questi casi
la premura non era mai abbastanza, aggiunse. E se suo figlio
si fosse mostrato contrario all’idea, sarebbe andato di persona a parlargli, e se ancora non fosse stato sufficiente avrebbe
trovato lui il modo. Prete e vedova fissarono la data di lì a un
mese. Padre Felice tirò fuori la sua agenda e la annotò, mentre dettava a Lina Magnano cosa dire al figlio. Sbrigate queste faccende spirituali, il prete assolse l’anziana e la benedì.
La vedova uscì e si diresse alle prime panche in attesa della
messa.
«Cavolo, mi spiace che sia morta la vecchia», esclamò Sonia
L’vovna Zarkovskaja. «Neanche il tempo di abituarsi, eh?»
Viorica annuì.
L’inferma aveva tirato le cuoia tra il tramonto e l’alba, e
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quando i figli erano andati a trovarla il mattino dopo era più
rigida e fredda del solito.
«Mamma dorme?» le avevano bisbigliato, nonostante la
brutta cera della malata, le sue guance esangui, le dita grigie.
Mezza addormentata, Viorica aveva risposto di sì. Certo che
dormiva.
Tre adulti circondavano il letto della vecchia e in attesa
che aprisse gli occhi la fissavano ammutoliti. Dopo pochi
minuti, le loro voci erano tornate normali e poi forti. Non
accadeva nulla, “mamma” non sembrava aversene a male del
chiacchiericcio, e poi era ora che si svegliasse. Ma lei non
dava alcun segno di temere il disturbo.
Solo allora il figlio maggiore si era insospettito e aveva
chiesto uno specchio alla moglie.
«Quale specchio? Dove te lo vado a fare uno specchio?»
Il cognato s’era intromesso: «Milè, uno specchietto. Uno
piccolo da borzetta!»
La donna aveva perlustrato la sua borsa dando le spalle
a Viorica, quasi che potesse spiarci dentro. Al che quest’ultima, scusandosi con un gesto, se n’era andata in bagno a
rivestirsi.
Quando era tornata aveva visto il figlio maggiore singhiozzare con in mano un portacipria Chanel. In sua assenza, figli e
nuora lo avevano sventolato sotto al naso rugoso della madre
malata per vedere se respirava. Ma quelle narici irrigidite non
cacciavano più aria, e da lì tutti a piangere e a incazzarsi con
Viorica perché la vecchia era andata, stecchita. La guardavano
inorriditi e disgustati, persino i tre ragazzini che fino ad allora
erano rimasti a fare roba tra loro. Le chiedevano com’era possibile che lei non si fosse accorta… O si era accorta e aveva fatto
finta di niente? Da quanto “mamma” era morta?
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Viorica si era affannata a discolparsi a gesti e monosillabi,
ma era stato inutile: i parenti della defunta avevano continuato a lanciarle sguardi torvi finché non avevano deciso di
sbarazzarsi di lei prima che del cadavere.
Le avevano dato cinque minuti per raccattare le sue cose,
dopodiché il minore aveva lasciato la moglie col cognato per
accompagnarla alla stazione, mettendola in macchina come un
pacco e guidando senza una parola per le strade di Squinzano.
Dopo aver parcheggiato, le aveva messo una mano sul
ginocchio e in un’impavida carezza era risalito tra le cosce
carnose e senza calze, come se palparla fosse stato suo diritto. Viorica non si era mossa, ma lo aveva guardato male e
in modo così ostinato che lui aveva tolto la mano, le aveva
aperto la portiera e l’aveva fatta scendere. Poi si era chiuso
nella sua Opel rossa ed era scoppiato a piangere con la testa
sul volante e la macchina in sosta vietata.
Un’ora dopo Viorica era da Sonia L’vovna Zarkovskaja,
titolare dell’agenzia di servizi I sogni di Sonia.
«Se c’è qualche parola che in russo ti sfugge dimmelo»,
continuò Sonia.
«No, stavo solo pensando», rispose Viorica. Si grattò il
braccio e tirò un sospiro.
Sonia Zarkovskaja prese un fascicolo dal cassetto. Lesse a
bassa voce: «Viorica Kirilenko. Ucraina. Stato: nubile. Nata
a Rovne il 05/06/1967, residente con sua madre Sofia Cervenka a Poltava…»
«Nata a Rivne, vicino Kiev», corresse Viorica.
«Fa lo stesso», sbottò la Zarkovskaja, piuttosto offesa.
«Dal 1992. Senza padre e senza marito», e qui trattenne a
stento un sorriso. «Un figlio di 13 anni, Sergij», concluse.
«Sì».
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«In Italia dal 30 giugno di quest’anno… A proposito, a
italiano come sei messa?».
Viorica scosse la testa. Aveva imparato giusto qualche parola, disse.
«Non è abbastanza, sei qui da quasi due mesi, com’è possibile?»
«La signora non aveva più la televisione, io non…»
Sonia Zarkovskaja si allargò sulla poltrona di pelle nera,
la cosa più imponente di tutto il suo ufficio. Indossava un
paio di pantaloni da tuta, scarpe gialle con il tacco di gomma
rinforzato e una maglietta blu a maniche corte con su scritto
Alpitour travel più un numero di telefono. Al collo portava
una collana di corallo e due orecchini le foravano i grassi
lobi. Viorica le guardò il petto da matrona e la invidiò.
Nella situazione in cui era avrebbe invidiato una vita
qualsiasi: la sua le aveva dato un figlio, e un compagno che,
dopo averla riempita di botte, l’aveva mollata in tempo per
infinocchiare una ragazza più giovane e metter su famiglia a
Kiev. E dire che pure Viorica prima di trasferirsi a Poltava
proveniva dai dintorni di Kiev.
Non aveva avuto niente dalla vita, ma come tutti al mondo credeva di meritarsi qualcosa per il semplice fatto di esistere. Figlia a sua volta di una ragazza madre, era nata povera
e vissuta povera, foderando di cartone le scarpe sfondate e
lavorando la terra pur di mangiare cavoli e patate dal suo
orto. A diciannove anni aveva fatto il suo secondo errore,
se si contava la nascita: era stata abbindolata dal sogno romantico. Aveva conosciuto Ivan all’ospedale di Poltava, dove
prestava servizio come infermiera ai tempi del Čornobyl’s’ ka
katastrofa, il disastro di Černobyl. Mentre tutti morivano
per le radiazioni come mosche sotto l’insetticida, le donne
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abortivano dietro minaccia dei mitra e i bambini morivano
di leucemia, Viorica veniva affabulata dall’amore tra cancro
e soldati, divieti e barricate. Snella e fresca e ingenua, ecco
com’era, fortunata a essere in vita ma tanto stupida da sprecarla nel modo peggiore. Ivan era un ragazzo aitante, un tipo
allegrotto dai capelli rossi e con un paio di baffi che si spuntava ogni giorno: ma a distanza di vent’anni e un figlio, la
loro storia non valeva neanche la pena d’essere ricordata.
Eppure, nonostante gli errori grossolani che aveva fatto, le
uniche cose che Viorica pretendeva erano una casa con due
stanze e un barattolo a basso prezzo di crema per il corpo.
Pretendeva un lavoro per comprarsi un paio di calze sane
d’inverno e un videogioco a Natale per Sergij. Invece era finita a cambiare pannolini e sciacquare merda dalle padelle. A quarant’anni non aveva neanche pensato di avvicinare
qualche pappone per essere portata in Italia. Delle sue parti
conosceva le cerbiatte dei giri sporchi, e in questo Paese ci era
venuta per un impiego onesto, così diceva. Ma se parti dal
basso e ti accontenti di poco finirai per invidiare una donna
antipatica a capo di un’infima agenzia e con indosso la maglietta di un’altra agenzia, ecco che farai. E solo perché lei ha
una collana che tu non potresti mai comperarti.
L’ucraina contò fino a dieci e fece la fatidica domanda:
«Dove andrò adesso?»
Sonia scosse la testa e aprì un palmo lasciando andar via
l’aria.
«Qua non c’è nulla per te. Sei troppo inesperta, non parli
la loro lingua e la tua vecchia è crepata appena ti ha vista.
Non è un bel curriculum, e qui le cose migliori se le beccano
le referenziate».
A queste parole Viorica iniziò un pianto sommesso.
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Sonia L’vovna si alzò dalla sua poltrona, le batté con comprensione la spalla e scomparve per cinque minuti. Quando
tornò aveva un bicchierino di caffè in mano.
«Bevi», ordinò.
Viorica accettò il bicchierino bollente. Sonia tirò fuori
una bottiglia di Romanoff da un secondo cassetto. La aprì e
piazzò la vodka sul tavolo.
«Meglio corretto, anche se questa è calda come piscio».
L’ucraina corresse il caffè, che bevve d’un fiato mormorando «Nasdrovie». Pochi secondi dopo le bruciava la gola
ma non le veniva più da piangere. Sonia intanto blaterava di
un’associazione religiosa.
«Cose di Chiesa?»
«Esatto. Conosco alcune donne che fanno volontariato, le
chiamo subito».
«Ma è domenica».
«Non è certo colpa mia. E poi qui non ho posto per farti
dormire».
«Ma io non sono cattolica».
«Però sei cristiana».
«Ortodossa».
«Che è come dire cristiana», incalzò esasperata Sonia L’vovna. «L’importante per ’ste quattro bigotte è essere cristiani,
o non ci arrivi?»
«Sì, certo. Cristiana».
Sonia annuì, aprì la sua agenda e prese un post-it rosa
con una serie di numeri. Compose il primo e guardò Viorica
Kirilenko.
«Abbi fede», le disse.
«Che stai facendo? Preghi?»
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Lina Magnano era accoccolata sul pavimento, e alla vista
del figlio trasecolò.
«Gesù, mi hai spaventato!» disse. Si rialzò a fatica. In
pugno stringeva alcune posate d’argento che aveva pescato
dall’ultimo cassetto della credenza. Tornò in cucina, immerse le posate in acqua e iniziò a spazzolarle con una spugnetta
consunta.
Santo si guardò intorno. Nella sala da pranzo la tavola
era apparecchiata come ai tempi in cui alla villa c’erano i
domestici a servirli, Caterina e Salvatore. Due tovaglie stirate a mano sul pesante tavolo da quattordici persone, la più
larga di lino grezzo e un’altra di lino fine ricamato bianco su
bianco. Un mazzo di rose finte e sbiadite, comprato per fare
economia sui fiori del centrotavola, era sistemato in un vaso
di cristallo ingombrante, e bicchieri di cristallo e segnaposto d’argento erano piazzati ai capotavola. C’erano tovaglioli
di lino strozzati in portatovaglioli e piattini d’argento per il
pane, vuoti ché pane non ce ne sarebbe stato. I tessuti erano
consunti e ingialliti, l’argento ossidato. La vecchia asciugò le
posate e le sistemò a tavola.
«Ci stiamo chiedendo se c’è un’occasione speciale?» mormorò.
«Abbiamo ospiti?»
«Io e te, cuore a cuore come sempre».
«Ma tu sei nata a gennaio e io a giugno».
«Che stai dicendo?»
«Non è il compleanno di nessuno dei due».
«E che allora?» disse la madre con aria offesa, «È domenica, oh, e bisogna santificare le feste».
«È domenica, e l’unica differenza dagli altri giorni è che
mi fai il brodo».
«E indovina oggi che si mangia?»
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«Brodo».
«Ma sei un veggente! Fosse che mi stai diventando devoto
a santa Lucia, colei che ci fa vedere lontano?» sentenziò la
madre, intenta a travasare un brodo di carne torpido e grasso
in una pietanziera di porcellana.
Il figlio depose le stampelle e si sedette. Prese dalla tasca
le pillole e le sistemò vicino al bicchiere, lo riempì di acqua
e bevve.
«Mi dici almeno perché hai tirato fuori i calici da vino?»
«Perché mi andava, ché così mi sento meno sola».
«Sei sicura che è per la solitudine? Non è che il prete oltre
all’ostia ti fa dare una botta al santo calice quando ti comunichi?»
«Come no, mò mi alcolizzo! Ma tu guarda che figlio spiritoso. Versati il brodo ché sennò si fredda».
Santo prese la zuppiera e un vapore caldo gli tappò le narici.
«Qua stiamo a fare la faccia del brodo».
«Il brodo fa bene. È un piatto umile, puericciu».
Santo guardò la madre che si sedeva all’altro capo del tavolo.
«Non ce la faccio a porgerti la zuppiera fino a capotavola».
«Con quelle braccia così forti e muscolose?»
«Se pari il colpo posso sempre lanciartela. Quel che pigli,
pigli».
«E insomma, Santo Magnano sbergugnatu, nu pocu di rispetto per tua madre!»
«È che ti voglio bene, su, mettiti qua vicino a me, così ti
servo io».
Lina dal suo posto fece una smorfia imbronciata. «Ma
io voglio stare all’altro lato della tavola, come facevamo una
volta!» disse.
«Una volta laggiù ci stava papà, io stavo qui, e intorno a
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noi c’era la gente così». Santo fece un gesto che significava
“folla”, e per un po’ madre e figlio se ne stettero in silenzio.
Era come se pensassero ai bei vecchi tempi ognuno per sé,
quando era vivo Francesco Magnano e sia i comasiani che
i forestieri venivano a porgere visita. Tempi di sogni innocenti, in cui Beethoven era un compositore per intellettuali
che la domenica si beccava su Raitre, e non il disco rotto
che suonava giorno e notte da un piano all’altro della villa.
Quando le finestre…
«Preghiamo, forza», annunciò la vedova, che si spostò con
un gran baccano di sedie.
Santo congiunse le mani in preghiera per accontentare la
madre e mangiarono in pace, fino al caffè.
Quando Lina tornò a tavola con il caffè, lo trovò in piedi, le braccia puntate sul tavolo e le gambe tremanti. Con il
cuore che le piangeva ogni volta che vedeva il figlio ridotto
in quello stato, posò il vassoio e disse: «Ma che ci fai alzato?
Settate, settate, ché ti devo dire una cosa importante. E beviti
il caffè».
Il figlio scansò bruscamente la sedia e si mise diritto.
Guardò la madre con gli occhi cerchiati dal poco sonno.
«Mamma, viviamo soli da quindici anni, e di anni io ne ho la
bellezza di quarantotto, non sono proprio di primo pelo».
«Che mi dici? Che è quest’altra fesseria che tiri fuori?»
«E neanche tu sei una ciliegia, come si suol dire».
«E be’, be’, beati gli ultimi che saranno i primi…»
«Hai settantacinque anni», scandì Santo Magnano, che si
reggeva in piedi con piglio orgoglioso.
«Essì, e allora?»
«E allora se pensi che io non abbia già capito che mi devi parlare di qualcosa, con la tavola bella apparecchiata e il resto…»
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«Allora l’avevi capito, eh? E c’era bisogno di tirare in ballo
la mia età?»
«Era per dirti che ti conosco, che mi sono alzato a prendere il Lafroig e che quando torno mi aspetto che tu me la
dica».
«Il Lu Foirg?»
«Il whisky», disse lui dal mobile bar. Ci poggiò la stampella destra e con la mano libera lo aprì, scansò le bottiglie
impolverate e si prese da bere, avendo cura di fare un’operazione alla volta. Tornò a tavola con un bicchiere di liquore
ambrato e si risedette.
Per ordinare bene i ragionamenti, Lina Magnano aveva
attaccato la pasta di mandorle, pur sapendo che non avrebbe
dovuto mangiarla, non le faceva bene alla glicemia. La succhiò un po’ tra i denti finti, dopo averne pucciato un pezzo
nel caffè. «Io voglio andare in paradiso», esordì.
Santo per poco non si strozzò col whisky e prese a tossire.
La madre iniziò a dargli dei colpetti sulla spalla, finché lui
non le intimò di smetterla ché gli faceva peggio.
«Che significa?»
«Significa che se mi vuoi bene (e vuoi andare in paradiso
pure tu, sia chiaro), questa nostra casa la dobbiamo intestare
alla parrocchia. È da un bel po’ che ci penso e moi moi mi
so’ decisa».
«Come? Casa nostra alla parrocchia?»
«Alla parrocchia, sì. Alla Chiesa».
«Alla parrocchia, alla Chiesa o tipo, non so… al Papa?»
«Ma no! Aspetta un attimo», rispose Lina, e si cavò di tasca un foglio piegato in quattro che porse al figlio. Il quale lo
lesse tenendolo in punta di dita, un filo schifato a riconoscere
il nome sulla prima riga.
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Il sottoscritto Felice Del Mastro, codice fiscale n° DLMFLC49E25G751Q, legale rappresentante della parrocchia di Santa Caterina, con sede nel comune di Comasia, nella Diocesi di
Lecce, ente ecclesiastico civilmente riconosciuto con decreto del
Ministro dell’Interno in data 5 novembre 1986 e iscritto nel registro delle persone giuridiche tenuto presso l’Ufficio Territoriale
del Governo di Lecce e avente finalità di religione e di culto,
Dichiara
di ricevere quale erogazione liberale ai sensi e per gli effetti
dell’articolo 65, comma 2, lett. A) del Test Unico delle Imposte
sui redditi (D.P.R. 22.12.1986, N. 917) la proprietà immobile
di…
Incredulo e pallido, Santo Magnano si figurò Villa Magnano, le loro generalità e le loro firme in fondo a quel documento. Rabbrividì.
«E questo che cavolo è?» domandò buttando il foglio sulla
tovaglia e bevendoci su un altro sorso.
«Un documento con cui possiamo donare Villa Magnano
alla Chiesa».
«Alla tua morte?»
«Da subito, e che aspettiamo a fare che muoio? Perché noi
qui ci continueremmo a vivere», disse Lina Magnano con una
pazienza che irritava il figlio. Quindi trasse di tasca un altro
foglietto che stavolta lesse da sola, impermalita: «Cedere la
nuda proprietà con usufrutto a nostro nome, che significa…»
«Mamma, lo so che vuol dire. Che quando moriamo casa
nostra va nelle tasche di qualcun altro».
«Nelle tasche della Chiesa, e di chi altro? Ché figurati tu
se quel sant’uomo…»
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«Nelle tasche di quel sant’uomo, che non aspetterà di farci passare a miglior vita per sbarazzarsene, o nell’attesa morirebbe anche lui. Ma intanto la casa, la proprietà, la terra,
chissà a chi la darebbe».
«Ma alla Chiesa la darebbe, non è mica per suo interesse,
è per l’interesse di Dio!» insistette Lina.
Santo strinse gli occhi e contrasse le mascelle.
«Tu non ragioni, mamma, non ragioni più».
«Ma a te che ti costa, scusa? Vivresti qua».
«Vedrai che appena firmiamo lui vende tutto, anzi…»
«Ha detto che non ci farebbe niente, e dopo che anche tu ci
avrai vissuto, su questo terreno sorgerà una cosa ecclesiastica».
Ma Santo non udiva, e se avesse potuto avrebbe fatto
avanti e indietro per la sala a passi larghi. Invece non poteva
perché era guasto di gambe.
«Se firmiamo, il prete vende la casa. Ne sono sicuro. Casa
nostra, il terreno, questa roba ce la invidia tutta Comasia e
fa in modo che ci rispettino ancora. Persino i delinquenti ci
rispettano: è mai venuto qualcuno a rubare qua? È una follia.
Tu a quell’uomo lo rendi già ricco di tuo, senza che gli dai
anche casa nostra».
La vecchia si premette le mani sul petto.
«Io? Per qualche soldino che gli lascio ogni tanto?»
«Ogni mese gli metti in mano mezza pensione».
«Ed è un peccato voler fare del bene? Signore», strillò a
quel punto Lina, «io faccio del bene e mio figlio mi odia! Padre Felice l’aveva detto che tu non saresti stato d’accordo».
«L’aveva detto, eh? Perché è stato lui a metterti in testa
’sta cosa?»
«A tua madre nessuno mette le cose ind’u capu! Ascolta, io voglio morire in pace, e con questo gesto voglio dare
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l’esempio a Comasia, di che tipo di gente siamo».
«Tu per il momento devi dare a me il tempo di capire
meglio», rispose Santo, e prima che la madre potesse reagire
agguantò i fogli. Lei lo guardò con occhi duri, che subito
cambiarono. «Quindi», esclamò, «tu vuoi che io vada all’inferno!» e iniziò a piangere.
Santo Magnano aprì un paio di volte la bocca a vuoto.
«Mamma, fammi chiamare Vittorio Croce, il notaio di
papà. Ti ricordi del signor Vittorio?» le disse con tono più
gentile, massaggiandosi la fronte. «Tempo due settimane e
con lui aggiustiamo tutto».
«Iiih! Vittorio Croce c’ha… iiih… ottant’anni, c’ha! Ed è
malato! Ora con lui ci sta il figlio che non mi sembra tanto
cosa».
«E allora finché il vecchio Croce si ricorderà di noi ci vorrà più tempo».
«E se muoio prima? Figlio ingrato! Mi farai morire tu,
prima!»
«Smettila, ti prego, ti prometto che moi moi non muori».
La faccia di Lina era diventata tutta rossa dallo sforzo di
cacciar lacrime, operazione che non le veniva un granché,
ragion per cui si copriva parte del viso con un fazzoletto da
naso e si strizzava gli occhi. Santo prese la seconda dose di
antidolorifici, la ingoiò con il whisky e aspettò che la manfrina di lei avesse termine e che a lui sbollissero i nervi.
Fu allora che arrivò la chiamata.
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