XXX Convegno SISP Università degli Studi di Milano 15

Transcript

XXX Convegno SISP Università degli Studi di Milano 15
XXX Convegno SISP
Università degli Studi di Milano
15-17 settembre 2016
Sezione 11:
Metodologia della ricerca
Chairs: Vincenzo Memoli, Michele Sapignoli
Panel 11.4:
Domande e metodi. L'approccio filosofico alla politica.
Chair: Paola Russo
Discussant: Sandro Landucci
Alfonso Di Prospero
Note per un'epistemologia del pluralismo.
Relativismo, gnoseologia e intersoggettività del sapere.
Il problema del relativismo è trasversale a molti ambiti di studio, comportando in questo modo la
possibilità di guardare ad esso da una pluralità di prospettive di analisi che rendono plausibili di
volta in volta risposte e punti di vista tra loro molto diversi.
In questo intervento – in cui difenderemo una posizione che sarebbe poco corretto definire
relativista, e che per questo semmai rende preferibile parlare più genericamente di “note” sul tema
del “pluralismo” – partiremo da considerazioni che riguardano la gnoseologia e la logica, hanno
1
implicazioni importanti per la psicologia e l'ontologia, e dovrebbero aiutarci infine – sulla base di
tutte queste premesse – a sviluppare delle ipotesi rilevanti per la discussione del significato etico
delle questioni che il relativismo pone. Naturalmente quello che qui potremo cercare di fornire sarà
solo uno schema di ragionamento – dovendo tralasciare per ragioni ovvie di sintesi e di competenza,
aspetti e dimensioni del problema che meriterebbero invece di essere considerati anche in
discussioni necessariamente rapide come questa – ma sarà soprattutto la “logica” interna all'ipotesi
che vorremmo proporre che farà da criterio per selezionare gli argomenti che sarà utile richiamare.
Può fare da avvio alle nostre riflessioni una pagina di Italo Calvino, che ha vissuto alcuni anni della
propria infanzia in Liguria, e descrive in questo modo il sentimento psicologico che ha sviluppato
verso i paesaggi tipici della costa ligure:
Se allora mi avessero chiesto che forma ha il mondo avrei detto che è in pendenza, con dislivelli
irregolari, con sporgenze e rientranze, per cui mi trovo sempre in qualche modo come su un
balcone […] e così anche adesso se mi chiedono che forma ha il mondo, se chiedono al me
stesso che abita all'interno di me e conserva la prima impronta delle cose, devo rispondere che il
mondo è disposto su tanti balconi che irregolarmente s'affacciano su un unico grande balcone
che s'apre nel vuoto dell'aria, sul davanzale che è la breve striscia di mare contro il grandissimo
cielo (Calvino 1994: 89)
L'idea espressa da Calvino è molto intuitiva: un essere umano ha un percorso biografico che lo
porta a fare certe esperienze. Queste esperienze possono in seguito diventare una sorta di modello
che verrà utilizzato per rapportarsi a tutte le nuove esperienze che la persona farà.
Non è difficile trovare conferme a questa idea nella letteratura sociologica. Basti pensare ai classici
studi in cui Durkheim ha descritto la cosmologia delle tribù che, in Australia, attribuiscono al
mondo una struttura che è modellata in realtà secondo la forma del loro accampamento (Durkheim
1981).
2
Possiamo considerare queste concezioni ingenue e grossolane, ma in realtà la struttura logica cui
obbediscono è quella di un tipo di inferenza – la generalizzazione induttiva – che noi stessi siamo
continuamente portati ad utilizzare in maniera più o meno spontanea ed immediata.
Se si considerano tutte le difficoltà che l'epistemologia del '900 ha dovuto affrontare nella
discussione sull'induzione – scorrendo nomi come quelli di Popper, Reichenbach, Carnap,
Goodman, Hempel – capiamo che una effettiva comprensione del suo funzionamento è
assolutamente molto al di là da venire. Per questa semplice ragione, quando ci troviamo ad
applicarla noi stessi, dovremmo pensare che la “fallibilità” che essa implica può essere il motivo
che ci porterà a sbagliare nelle nostre valutazioni, anche lì dove esse ci sembrano più certe e persino
ovvie. È molto interessante però la possibilità di guardare al dibattito sull'induzione da un punto di
vista che è abbastanza diverso da quello che è stato dominante per buona parte del '900.
Prima di procedere in questa direzione è però necessario premettere che un'obiezione ovvia che può
muoversi al nostro discorso è che l'induzione è – essa stessa – in realtà bisognosa di una
giustificazione teorica che una parte importante dell'epistemologia del '900 non sarebbe disposta a
concedere come legittima. Se non siamo in grado di definire lo status di accettabilità o meno delle
procedure induttive, che tipo di portata euristica può avere il riferimento all'induzione nella
trattazione di tematiche controverse come quelle connesse al relativismo?
Il punto di vista che qui si difende è perciò quello di utilizzare a monte una descrizione diversa di
ciò che ci si deve attendere da una teoria verosimile dell'induzione.
Si può partire dall'osservazione che si riconosce in genere (ad esempio, Musgrave 2011: 215) che
l'inferenza induttiva è di tipo non-monotono. Questo significa che se in un istante t-1 l'evidenza
iniziale che fa da premessa per l'inferenza contiene una informazione E-1 (“Questo è un cigno
bianco”), la conclusione che – per induzione – possiamo ricavare è che (C-1) “Tutti i cigni sono
bianchi” (per ragioni di semplicità qui non si farà riferimento alle molte variazioni che questo
schema ha ricevuto, per esempio per accogliere valutazioni e descrizioni di tipo probabilistico); se a
3
t-2 l'evidenza che si aggiunge (senza contraddire quella contenuta in E-1, dato che entrambi i
contenuti di osservazione, quello in t-1 e quello in t-2, sono assolutamente compossibili) è che (E-2)
“Questo cigno è nero”, veniamo a disporre di una evidenza iniziale uguale a E-1 + E-2. Ora, dato
che l'inferenza induttiva è tipicamente non-monotona, l'evidenza complessiva E-1 + E-2 può
comportare conseguenze diverse da quelle che si potevano ottenere dalla sola E-1. Soprattutto,
queste nuove conclusioni possono essere logicamente in contraddizione con quelle che venivano
ottenute a partire dalla sola E-1 (“Tutti i cigni sono bianchi” versus “I cigni sono a volte bianchi e a
volte neri”: si noti che anche una definizione di tipo probabilistico del grado di conferma, dovrebbe
comunque comportare una variazione della misura della conferma a seguito dell'acquisizione della
nuova informazione, consentendo così di vedere affermato anche per questa via il carattere nonmonotono dell'inferenza). La differenza rispetto alle logiche monotone è che una certa conclusione
(nel nostro caso C-1) che è stata tratta rispettando perfettamente lo schema dell'inferenza, può
essere appunto contraddetta, in seguito, a motivo dell'acquisizione di nuova informazione. Il
confronto che si può fare è con lo schema da applicare per effettuare i classici sillogismi descritti da
Aristotele: “Tutti gli uomini sono mortali”, “Tutti gli ateniesi sono uomini”, quindi “Tutti gli
ateniesi sono mortali”. In questo caso, se la premessa maggiore e la premessa minore sono vere, ne
segue che – qualunque nuova informazione dovesse aggiungersi in seguito, purché il contenuto
delle premesse non venga contraddetto, cioè dimostrato falso – allora la conclusione derivata
inizialmente (“Tutti gli ateniesi sono mortali”) potrà comunque continuare ad essere considerata con
sicurezza vera.
In effetti negli ultimi decenni c'è stato un notevole interesse intorno ai tentativi di formalizzare le
varie tipologie possibili di ragionamento non-monotono (senza che però l'attenzione si sia
concentrata a sufficienza sul problema dell'induzione, analizzato in filosofia della scienza ancora
prevalentemente secondo un paradigma probabilistico di derivazione bayesiana). Quello che qui ci
interessa notare è che un simile strumento concettuale sembra adatto a cogliere alcune intuizioni di
4
fondo del relativismo – senza però di fatto costringerci ad accettare quelle che sono le conseguenze
più paradossali che il relativismo sembra implicare.
L'ontogenesi dell'intersoggettività.
Prima di poter arrivare a spiegare il senso di quest'ultima – impegnativa – affermazione, dobbiamo
introdurre alcuni altri importanti strumenti teorici. Per Piaget, il bambino nella prime fasi del suo
sviluppo esegue la sua attività cognitiva secondo uno schema del tutto sincretico, per il quale prende
“la propria percezione per assoluta” (Piaget 1958: 237). “Dapprima due oggetti appaiono
simultaneamente nella percezione del bambino od anche due caratteri sono dati insieme nella
rappresentazione. D'allora in poi il bambino li percepisce o li concepisce come legati o meglio come
fusi in un unico schema” (Piaget 1958: 239). Per Piaget, “lo spazio [...] è l'attività stessa
dell'intelligenza, in quanto questa coordina gli uni agli altri i quadri esterni” (Piaget 1973: 235), “il
tempo, come lo spazio, si costruisce a poco a poco ed implica l'elaborazione di un sistema di
rapporti” (Piaget 1973: 359). Quella iniziale è una condizione di “fenomenismo senza coscienza di
sé, dato che i quadri (tableaux) mobili che il soggetto percepisce sono da lui conosciuti solo in
relazione con la sua attività elementare. All'estremo opposto […] l'universo è invece costituito in
una struttura che è insieme sostanziale e spaziale, causale e temporale” (Piaget 1973: 3). Un punto
su cui dovremo tornare è che “un universo senza oggetti è un universo in cui l'io viene assorbito nei
quadri esterni, perché non conosce ancora se stesso, ma in cui questi quadri si incentrano sull'io,
perché non lo comprendono come una cosa tra le altre” (Piaget 1973: 6).
L'idea di fondo che qui si propone è che la nozione di intersoggettività – o più esattamente il
vincolo psicologico-cognitivo che porta a cercare il consenso (in senso ampio) da parte degli altri, e
che gli esseri umani sentono di dover porre alla propria attività cognitiva in maniera così evidente –
5
sia da considerarsi essa stessa il risultato di un apprendimento che il neonato e poi il bambino
compiono nei primi anni di vita, potendo arrivare solo dopo un lungo percorso a quella che Piaget
chiama “reciprocità razionale”. È intuitivo considerare anche questo apprendimento come frutto di
generalizzazioni induttive – dovute al fatto che il bambino effettivamente esperisce la grande
portata conoscitiva che il rapporto con gli altri e la comunicazione possono possedere. Se si imposta
però la questione in questi termini – che vanno nettamente nella direzione di quella che oggi è
chiamata “naturalizzazione” dell'epistemologia – il requisito del consenso intersoggettivo (sia nella
sua dimensione psicologica sia in quella epistemologica) può essere posto su basi diverse da una
postulazione che si limiti ad affermarne l'autoevidenza a priori o in generale il radicamento (in
qualche forma) in quella che sarebbe una modalità generale ed intrinseca di funzionamento della
gnoseologia.
Si tratterebbe semmai di fare appello alle esperienze passate di socializzazione che l'individuo
(bambino o adulto che sia) ha effettuato e che lo hanno portato (legittimamente) a supporre che il
giudizio degli altri intorno a lui sia (più o meno approssimativamente) lo strumento più rapido e più
ovvio (perlomeno tra quelli concretamente disponibili) per reperire conoscenze.
Vediamo quindi come le obiezioni che autori come Popper rivolgono alle epistemologie induttiviste
sono comunque legate ad un modo sostanzialmente diverso di intendere il quadro della teoria
complessiva entro cui porre le loro riflessioni (in difesa o di critica) riguardo all'induzione. Il
presupposto che percorre tutta l'opera di Popper (in particolare 1970, 1972) è che l'inferenza
induttiva sarebbe accettabile se portasse a risultati condivisibili per principio dalla comunità
scientifica. Con questo si vede quanto la sua impostazione sia ancora legata a quella classica del
neopositivismo: entrambi i punti di vista infatti considerano il requisito dell'intersoggettività di
principio del sapere (o perlomeno della conoscenza scientifica) come un presupposto inderogabile.
È in effetti molto significativo che le teorie che prendono piede in seguito alle critiche di Popper al
neopositivismo,
vadano
verso
direzioni
che
6
–
insistendo
su
problemi
come
quello
dell'incommensurabilità tra teorie – si trovano a dover fare i conti (almeno indirettamente) proprio
con le questioni che qui stiamo ponendo. Se le posizioni di Kuhn (1978) hanno l'effetto di ancorare
il requisito di intersoggettività alla dimensione storica e necessariamente situata delle comunità di
ricercatori che riescono a formulare il paradigma dominante, Feyerabend (1979), con il suo
“anarchismo” va – sul piano della descrizione delle possibili conseguenze concrete – ancora (e di
molto) oltre le ipotesi che qui ci proponiamo di esaminare riguardo alla natura e alla rilevanza della
condivisibilità in generale delle procedure per acquisire contenuti di conoscenza.
Dal nostro punto di vista, è sufficiente sostenere che i criteri di intersoggettività che sono di volta in
volta adottati dipendono dal contesto delle conoscenze empiriche di partenza di cui dispongono i
soggetti epistemici e insieme dalle procedure di tipo induttivo che su questi contenuti sono
applicate.
In un tale quadro teorico, si può far valere – contro una posizione come quella di Popper – che
basando lui stesso la sua argomentazione su esempi di inferenze induttive fallite condotte in passato
da altri soggetti epistemici, sta effettivamente utilizzando proprio una forma di ragionamento
induttivo (per esempio, Fraioli 2002, Hesse 1974): anche i criteri alternativi di selezione delle
ipotesi proposti da Popper (1970) sono esposti ovviamente allo stesso tipo di obiezione che da lui
sono portate contro l'induzione, così come ogni tipo di inferenza che abbia carattere ampliativo. Il
carattere comunque nomologico e generale delle proposizioni che utilizziamo per esprimere le
nostre conoscenze sul mondo (carattere certamente non assoluto, ma comunque neppure
semplicemente residuale) obbliga in ogni caso a confrontarsi comunque con problemi del tutto
simili a quelli relativi all'inferenza induttiva (Alcaro 1986), mentre le tesi di Popper sul carattere
sempre solo congetturale delle nostre conoscenze rischiano di non riuscire a distinguersi da forme
troppo estreme di scetticismo. Il modo in cui invece qui concepiamo l'induzione permette di evitare
queste difficoltà – e insieme quelle individuate da Popper. Il motivo è che gli esempi di induzioni
fallite sono relativi a insiemi di “evidenze iniziali” diversi di volta in volta: nel nostro attuale
7
insieme di evidenza iniziale, un tale tipo di esempi ex hypothesi non può essere prodotto (non da
noi, se si parla in riferimento al nostro proprio campo epistemico), dovendocisi semmai limitare ad
affermare la genericità ed indeterminatezza di molte delle conoscenze che pure (anche se in forma
parziale) possediamo. Così come il requisito dell'intersoggettività del sapere – nella nostra ipotesi di
lavoro – è il frutto di un processo di costruzione induttiva, così lo sarebbero di fatto anche le varie
conoscenze che abbiamo sviluppato che ci permettono di comprendere che cosa significa quando si
dice (per esempio) che il navigatore greco Pitea di Marsiglia nei suoi viaggi si spinse abbastanza a
Nord da osservare paesi in cui il sole “non tramonta”, venendo per questo preso per bugiardo o
visionario dai Greci della sua epoca che non avevano alcuna informazione sul comportamento
apparente del Sole nelle regioni più vicine al Polo. L'esempio (dovuto a Popper) mostra solo che ci
fidiamo (implicitamente) delle nostre inferenze induttive abbastanza da utilizzarle per mettere in
discredito quelle effettuate da soggetti che vivevano nel Mediterraneo al tempo di Pitea – ma questo
è sostanzialmente coerente con una concezione non-monotona dell'induzione. Ci è possibile
prevedere che altri soggetti epistemici (diversi da noi) in futuro entreranno in possesso di
informazioni che gli permetteranno di smentire molte delle nostre attuali convinzioni più radicate:
questa circostanza può obbligarci a rendere in varia misura indeterminato il contenuto di queste
nostre convinzioni (nella misura in cui riusciamo ad essere davvero sinceri nel nutrire dei dubbi
intorno ad esse – mancando i quali sarebbe implicato che non prevediamo seriamente che qualcuno
al riguardo in futuro potrà smentirci).
Implicazioni e prospettive di riflessione.
Le conseguenze che si possono trarre da questo particolare approccio in merito alla tematica del
relativismo sono molte. Ad esempio, già sullo stesso piano semantico, può osservarsi quanto segue.
8
Se si parte da una epistemologia (diciamo, implicita e pre-analitica) che accetta come vincolante il
presupposto dell'intersoggettività come necessità intrinseca al pensiero, i giudizi o i comportamenti
che implicano (anche in modo indiretto e non dichiarato apertamente) una svalutazione dei modelli
di azione diversi dal proprio, sono effettivamente suscettibili di creare un danno più o meno grave ai
modelli che di fatto (anche se solo implicitamente) stanno mettendo in discussione. Se un attore
sociale A si impone dei limiti nell'azione che un attore B non si pone (per ragioni culturali, morali,
religiose etc.), ne può facilmente derivare, a seconda dei casi, che anche se B non fa alcun tipo di
dichiarazione lesiva della credibilità e quindi della legittimità dei comportamenti di A, è comunque
implicito nella situazione che – se l'epistemologia di partenza richiede e considera come valore di
riferimento una intrinseca intersoggettività del pensiero umano – che le azioni di B (fino a quando B
continuerà ad adottare modelli differenti da A) costituiranno oggettivamente un pericolo per chi
vuole difendere la credibilità e quindi in generale la capacità di “tenuta” dell'insieme delle credenze
proprie di A. In questo senso, può spiegarsi facilmente l'estrema resistenza opposta all'applicazione
di modelli diversi dal proprio, anche da parte di altri attori che conducono del tutto
indipendentemente le proprie attività e anche quando essi siano messi in atto senza nessuna
intenzione offensiva. Se invece l'epistemologia di riferimento è ricalcata sul tipo di presupposti
propri del ragionamento non-monotono ed induttivo, viene a mancare – a monte – uno dei
presupposti essenziali perché la nostra controparte possa sentirsi minacciata riguardo all'integrità
dei suoi universi simbolici di riferimento. Al tempo stesso – si deve notare – si danno comunque gli
strumenti teorici per spiegarsi il costituirsi di uno spazio simbolico-cognitivo fatto di significati – in
varia misura – condivisi, che sono senz'altro necessari per la comunicazione e l'integrazione
sociale.
Una certa astrattezza di questo schema di ragionamento può essere di molto attenuata se si ha la
pazienza di cercare di fare “mente locale” a questa nuova situazione concettuale. In effetti uno dei
vantaggi che si può ottenere da un paradigma epistemologico di tipo induttivista, è che – se da un
9
lato porta a legittimare una certa misura di relativismo – dall'altro però non ci lascia affatto privi di
una base logico-cognitiva abbastanza solida per poter affrontare le problematiche che invece una
forma di relativismo tout court rischia di rendere del tutto insolubili. Così per esempio, tornando al
problema lasciato in sospeso poche righe fa, partendo da un primato che proceduralmente deve
riconoscersi alle “evidenze iniziali” che il singolo soggetto epistemico si trova ad avere a
disposizione, diventa chiaro che la stessa questione – fondamentale – su quali possano essere le
condizioni che possono portare un certo attore sociale a riconoscersi in una concezione della
conoscenza che non sia (eccessivamente) legata ad una richiesta di consenso intersoggettivo, andrà
posta facendo riferimento alle esperienze da cui quell'attore effettivamente parte: se esse
giustificano o meno – dal punto di vista di un soggetto che si trova a disporre delle sue conoscenze
ed esperienze – l'adozione di un punto di vista che – sul piano anche delle assunzioni psicologiche
più profonde – sia tendenzialmente più flessibile riguardo al requisito di intersoggettività del sapere
che l'essere umano sembra pure essere portato in maniera così decisa a far valere.
Si deve osservare che – con tutto questo ragionamento – non si vuole ovviamente sminuire il rilievo
che – in senso psicologico ed epistemologico – la condivisibilità di principio della conoscenza
sicuramente ha. Si vuole semmai porre una tale assunzione su basi di tipo empirico e non a priori,
anche se certamente le stesse esperienze che gli esseri umani fanno sono tali da condurli verso una
versione od un altra della stessa richiesta di intersoggettività del sapere (che però – per questa via –
sono da considerarsi ottenute sostanzialmente a posteriori – anche se a partire da esperienze che –
in concreto – tutti sappiamo essere – almeno in qualche misura – universalmente condivise).
Un'ulteriore conseguenza che può derivarsi da queste riflessioni può essere espressa attraverso il
riferimento a quello che Gregory Bateson chiama “deutero-apprendimento”. Per Bateson:
L'Apprendimento zero è caratterizzato dalla specificità della risposta, che – giusta o
sbagliata che sia – non è suscettibile di correzione.
10
L'Apprendimento 1 è un cambiamento nella specificità della risposta, mediante
correzione degli errori di scelta in un insieme di alternative.
L'Apprendimento 2 è un cambiamento nel processo dell'Apprendimento 1, per esempio
un cambiamento correttivo dell'insieme di alternative entro il quale si effettua la scelta
(Bateson 1989: 319)
Dato che Bateson accetta almeno una forma fondamentale di associazionismo – e anzi dà una
particolare importanza alla presenza di “ridondanze” nell'ambiente, che rendono di fatto possibile la
comunicazione ma possono essere interpretate solo, si noti, seguendo una logica di base di tipo
induttivo – possiamo provare a collegare la sua impostazione teorica con quella che qui
proponiamo. Osserva Marco Deriu (2000: 65-66) che “per Bateson “il concetto di 'io' si forma al
livello di deutero-apprendimento (apprendimento 2), mentre il passaggio tra l'apprendimento 2
l'apprendimento 3, in cui una persona impara a percepire e a muoversi in termini di insiemi di
contesti, segna anche la perdita di rilevanza dell''io' personale che non fungerà più da 'argomento
cruciale', nella segmentazione dell'esperienza”.
Questo tipo di osservazioni – che si riconnettono direttamente a quanto Bateson scrive in
Pianificazione sociale e deuteroapprendimento (Bateson 1989) e rimandano contemporaneamente
al processo che abbiamo visto descritto da Piaget come acquisizione del decentramento – ci portano
anche ad affrontare le questioni che sono poste da Bauman (2002), che esamina tre punti, tutti e tre
qui ugualmente rilevanti.
1) Nella modernità “liquida” è “indispensabile [la] correzione dell''apprendimento di primo grado'
che, di per sé, formerebbe una mentalità fossilizzata e incapace di cambiare orientamento quando la
situazione lo richieda”: nei termini di Piaget, sarebbe una mentalità eccessivamente 'sincretica',
nella nostra prospettiva teorica, sarebbe basata ancora sull'applicazione di metodi di
generalizzazione induttiva sostanzialmente elementari e non riflessivi, cioè non giunti al livello in
11
cui si riescono a compiere – sulla base delle passate esperienze di applicazione del ragionamento
induttivo – “meta-induzioni” in grado di guidare in maniera più efficace (attraverso le varie versioni
che possono essere di fatto accessibili al soggetto di quelli che tecnicamente sono i “canoni”
dell'induzione di Mill) le inferenze (induttive) da compiersi al presente. Riguardo alle molte
questioni poste dalle indagini sul relativismo, è essenziale osservare che – secondo un approccio
induttivista – si può effettivamente passare da un livello 1 ad un livello 2 solo se sono state fatte
concrete esperienze (nella variazione dei contesti nel corso del proprio agire e nella possibilità
effettiva di orientarsi secondo una logica efficace tra di essi) che motivino – dal punto di vista
dell'attore – questa evoluzione.
Si tratta, in un certo senso, di induzioni-su-induzioni. Questo concetto è importante perché ci
permette di svolgere le seguenti considerazioni: 1) l'apprendimento più complesso (di livello 1+2) si
innesta su quello più semplice (di livello 1), presupponendolo, 2) per chi si trova ancora al livello 1
(se si rispetta il criterio di non-monotonicità e quindi il principio di relatività del sapere rispetto
all'evidenza iniziale di cui effettivamente il soggetto dispone) l'apprendimento può esserci solo
partendo da informazioni già presenti al livello 1, 3) quindi chi vuol trasmettere una informazione
ad un tale soggetto deve tener conto di questi vincoli, 4) nel nostro caso, se intendessimo
trasmettere un'informazione relativa alla soggettività del sapere (cioè al suo essere regolato da
principi di tipo non-monotono) ad un interlocutore che continua ad essere legato alla sola propria
percezione delle cose, ci troveremo a dover fare riferimento ad un sapere di livello 2, utilizzando
strumenti concettuali che ricadono entro il livello 1 (dato che il nostro interlocutore identifica come
sapere i contenuti che apprende rimanendo su di un livello 1). Il rischio principale è quello di
produrre un tipo di situazione che Bateson definisce di “doppio legame”: dovremmo “insegnare”
all'interlocutore contenuti di livello 2, ma di fatto il decentramento (nel senso di Piaget) che
vorremmo insegnargli, sarebbe – nella migliore delle ipotesi – solo apparente, mentre il “contenuto”
di ciò che diciamo (affermando il valore dell'autonomia e della capacità di orientarsi da sé) sarebbe
12
in netta contraddizione con il modo in cui lo diciamo (che non esprime rispetto per chi, esercitando
la propria autonomia, eventualmente dissente da noi).
2) Quanto ora detto si presta per analizzare – secondo una prospettiva logica più specifica – il
secondo punto sollevato da Bauman: l'apprendimento 2 ha “valore di adattamento solo nella misura
in cui [si possa avere] il diritto di aspettarsi che i fenomeni peraltro contingenti si sistemeranno
secondo una forma determinata; quindi l'utilità o la dannosità delle abitudini acquisite non dipende
tanto dallo zelo e dai talenti […] ma dalle caratteristiche dell'ambiente nel quale [si] vive” (Bauman
2002: 158).
3) Infine “la situazione che esige un apprendimento di terzo grado può avere e, secondo Bateson,
spesso ha, conseguenze patogene, che conferiscono alla personalità tratti schizofrenici” (Bauman
2002: 158). È interessante però che Bauman veda in maniera positiva anche le possibilità offerte
dall'apprendimento terziario, visto come “apprendimento a violare la conformità alle regole, a
liberarsi dalle abitudini e a prevenire la loro formazione, a ricostruire esperienze frammentarie in
modelli precedentemente sconosciuti e nel contempo a considerare accettabili tutti i modelli solo
'fino a nuovo avviso'” (Bauman 2002: 159). Se si considerano i due lati del problema: i. il rischio di
formazioni patogene, ii. la possibilità di una costruzione innovativa di “modelli prima sconosciuti”,
si può forse vedere quali sono – in prospettiva – le possibilità di utilizzo di una teoria
epistemologica che da un lato “spieghi” verosimilmente al soggetto quello che avviene (attraverso
una descrizione dei processi di pensiero di cui si suppone, qui, che dovrebbe essere improntata
all'induttivismo), riducendo quindi i rischi psicologici collegati ad un eccessivo disorientamento,
dall'altro si presti come base concettuale per formulare modelli propositivi di azione, potendosi così
procedere verso forme più avanzate di organizzazione sociale, in cui la diversità possa essere
accolta senza comunque creare sconcerto. È essenziale – per comprendere la prospettiva precisa
entro cui qui ci si pone – che (diversamente da quanto teorizzato nelle impostazioni che sono
effettivamente di tipo relativista) qui facciamo nostro il punto di vista di Piaget, per cui è
13
l'oggettività il senso ultimo del progressivo differenziarsi e coordinarsi dei diversi schemi che si
acquisiscono: la complessità cioè non conduce verso il rifiuto di fare affermazioni, ma solo verso
una maggiore disposizione e capacità di far proprie differenti prospettive su di uno stesso possibile
contenuto di affermazione.
Tutte queste riflessioni ci conducono verso un ultimo punto. Ci si può chiedere, intanto, con quali
tipo di strumenti offerti dalla teoria sociologica ci si possa rivolgere al compito di chiarire più “in
concreto” le implicazioni derivabili da questa impostazione. Da un lato, si può richiamare qui il tipo
di relativismo espresso da Berger e Luckmann (1969). Dall'altro, soprattutto, si ritiene che uno
strumento molto utile di analisi possa essere rinvenuto nel concetto di “autoreferenzialità” che
Niklas Luhmann mette al centro della sua indagine sui “Sistemi sociali” (Luhmann 1990). L'idea è
che un sistema sociale “legga” ciò che avviene nell'ambiente solo riducendolo entro meccanismi
autopoietici che sono interni al sistema stesso. In questo senso, le “semantiche” di cui una società si
munisce sarebbero funzionali in genere a svolgere compiti interni al sistema stesso. I punti che
possiamo ricavare da questa premessa sono essenzialmente due. 1) Si può pensare in effetti di
disporre per questa via di una teoria sociologica – quella di Luhmann, estremamente sviluppata e
articolata – in grado di cogliere alcuni degli aspetti delle idee che qui abbiamo espresso: in
particolare quello che può essere definito della relatività-al-sistema dei prodotti elaborati nel corso
dell'autopoiesi.
2) Si vorrebbe qui sostenere che i meccanismi di differenziazione sistemica che portano ad una
maggiore complessità – e che sono ben visibilmente in azione all'interno dell'odierna società
occidentale – possono essere intesi come legati a dinamiche (“autoreferenziali”) che sono
essenzialmente interne al sistema stesso. La differenza dei vissuti – legata sin dall'inizio della
modernità alla divisione sociale dei ruoli – è oggi abbastanza amplificata (per cause che ormai
vanno ben oltre la semplice differenziazione del lavoro) da portare ognuno a vedere questa
differenza tra sé e l'altro (anche se l'altro è un soggetto interno a quella che viene considerata la
14
“propria” società). Se però la capacità di orientarsi tra queste differenze dipende non solo da una
semplice trasmissione dal passato di modelli culturali che sono efficaci nel dare il “senso” degli
avvenimenti, ma anche dalle logiche che – nella dimensione gnoseologica – consentono l'effettiva
costruzione dei modelli in questione (che siano o no orientati verso un maggiore “progressismo” o
verso una maggiore “conservazione”), ne segue che il riconoscimento della rilevanza dei principi
epistemologici che qui sono stati discussi sarebbe necessario (in una qualche forma, che qui non ci
assumiamo l'onere di volere determinare in una maniera più specifica, per ragioni ovvie di prudenza
teorica) per consentire il corretto funzionamento interno al sistema (o i sistemi) della società
occidentale. È legittimo quindi sostenere che la “semantica” che l'Occidente produce in merito alla
questione dei rapporti da avere con tutti i vari modelli che l'umanità ha elaborato al di fuori del
perimetro culturale e simbolico dell'Occidente medesimo, sia da spiegarsi – almeno per una parte
della sua genesi – come l'effetto di necessità interne al funzionamento della società occidentale
stessa. Spesso Luhmann, quando si sofferma sul carattere “autoreferenziale” delle semantiche
prodotte dai sistemi sociali, adotta un linguaggio che – per esprimere quello che al sociologo appare
come il carattere in qualche modo “illusorio” di tali semantiche – finisce per dare spazio ad una
sorta di distanziamento (se non di delegittimazione, a seconda dei casi) in relazione a queste
semantiche. Nel nostro caso, in realtà, l'effetto sarebbe – a nostro avviso – abbastanza diverso, dato
che si dovrebbe arrivare a pensare che il rispetto delle diversità svolge funzioni importanti per lo
stesso funzionamento fisiologico delle società occidentali. Per valutare in maniera più precisa le
conseguenze di questo approccio, sarebbe naturalmente necessario procedere in un'analisi molto più
dettagliata delle riflessioni che qui si sono proposte.
15
Bibliografia
Alcaro, M., Filosofie democratiche, Dedalo, Bari, 1986.
Bauman Z., Il disagio della postmodernità, tr. it. Mondadori, Milano, 2002.
Bateson G., Verso un'ecologia della mente, tr. it. Adelphi, Milano, 1989.
Berger P., Luckmann T., La realtà come costruzione sociale, tr. it. Mulino, Bologna, 1969.
Calvino I., “Dall'opaco”, in Romanzi e racconti. Volume terzo, Mondadori, Milano, 1994, pp. 89101.
Deriu M., “Il pensiero del vivente e la vita di un pensiero”, in Deriu M. (a cura di), Gregory
Bateson, Mondadori, Milano, 2000, pp. 1-104.
Durkheim É., Forme elementari della vita religiosa, tr. it. Edizioni di Comunità, Milano, 1981.
Feyerabend P., Contro il metodo, tr. it. Feltrinelli, Milano, 1979.
Fraioli M., “L'epistemologia evolutiva di Popper”, in Albanese L., De Pisi E., Fraioli M., Popper e
l'evoluzionismo, Armando, Roma, 2002, pp.101-176.
Hesse M., The structure of
scientific inference, University of California Press, Berkeley-Los
Angeles, 1974.
Kuhn T., La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino, 1978.
Luhmann N., Sistemi sociali, tr. it. Mulino, Bologna, 1990.
Musgrave A., “Popper and hypothetico-deductivism”, in D. Gabbay, S. Hartmann, J. Woods (a cura
di), Inductive logic, Elsevier, Amsterdam, 2011, pp. 205-234.
Piaget J., Giudizio e ragionamento nel bambino, tr. it. Nuova Italia, Firenze, 1958.
Piaget J., La costruzione del reale nel bambino, tr. it. Nuova Italia, Firenze, 1973.
Popper K. R., Logica della scoperta scientifica, tr. it. Einaudi, Torino, 1970.
Popper K. R., Congetture e confutazioni, tr. it. Mulino, Bologna, 1972.
16