Lettera – Psicoanalisi e contemporaneità
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Lettera – Psicoanalisi e contemporaneità
Lettera rivista di clinica e cultura psicoanalitica Lettera rivista di clinica e cultura psicoanalitica n. 2 – 2012 PSICOANALISI E LEGGE Lettera Sommario rivista di clinica e cultura psicoanalitica comitato scientifico Laura Bazzicalupo (Università di Salerno), Giovanni Bottiroli (Università di Bergamo), Pierre Bruno (APJL – Parigi), Fulvio Carmagnola (Università di Milano-Bicocca), Simona Forti (Università del Piemonte Orientale), Costantino Gilardi (Association Lacanienne Internationale – Torino), Patrick Landman (Espace Analytique – Paris), Paola Mieli (Après-Coup Psychoanalytic Association – New York), Isabelle Morin (APJL – Bordeaux), Michel Plon (CNRS – Paris), Gérard Pommier (Espace Analytique – Università di Strasburgo), Massimo Recalcati (Associazione Lacaniana Italiana – Milano, Università di Pavia), Rocco Ronchi (Università dell’Aquila), Pieraldo Rovatti (Università di Trieste), Sarantis Thanopulos (Spi – Napoli), Silvia Vegetti Finzi (Università di Pavia). 1 Editoriale Giovanni Mierolo (coordinatore), Arianna Marfisa Bellini, Battistina Bertino, Federico Chicchi, Giorgia Fracca, Monica Manzotti, Antonella Ramassotto, Giancarlo Ricci. 5 monografia segreteria di redazione 7 comitato di redazione Federico Chicchi (coordinatore), Arianna Marfisa Bellini, Daniele Benini, Doriana Di Dio, Micaela Riboldi, Claudia Rubini. traduzioni Costanza Costa, Giorgia Fracca, Anna Zanon. La redazione della rivista ha sede in via Irnerio 16 – 40126 Bologna Tel. 051 0452417 [email protected] www.alidipsicoanalisi.it/rivista-lettera Tutti i diritti riservati © 2012 et al. S.r.l. via Aristide de Togni 7 – 20123 Milano Prima edizione: marzo 2012 ISBN 978-88-6463-074-8 Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei titolari dei diritti e dell’editore. Progetto grafico della copertina di Davide Fornari In copertina: fotografia di Mariella Guzzoni www.etal-edizioni.it La Legge e le leggi Gérard Pommier 20 Padre e Nomi-del-Padre Pierre Bruno 34 La legge, il nome, il numero Federico Leoni 42 La relazione con l’altro e le radici soggettive, psicologiche del senso di legalità Sarantis Thanopulos 55 Metapsicologia della trasgressione Silvia Lippi 67 La legge al tempo dell’evaporazione del padre Marco Bouchard 84 Una legge “materna”? Luigi Cavallaro 100 Istituzioni e legge Giovanni Mierolo 111 Il disabile “fuorilegge” Franco Lolli Editoriale 117 Atto analitico, atto giuridico: paradossi, aporie, contraddizioni Paola Mieli 136 Contraddire il potere: ambivalenze della legge Laura Bazzicalupo 147 La democrazia non è da tutti Bruno Moroncini 159 formazione dello psicoanalista 161 La trasmissione della psicoanalisi Isabelle Morin 168 Desaparecido Aldo Becce 185 rsicoanalisi implicata 187 Avvocato! Alessandro Melano 190 L’adolescente tra etica e legge Maria Cristina Calle 198 Quell’andarsene nel buio dei cortili Maria Vittoria Lodovichi 205 Dal furor sanandi al furore della classificazione Giancarlo Ricci 211 recensioni 229 233 omaggio a zanzotto 237 carlo viganò double textures psicoanalisi e legge. alcune note C’è un sottile filo che unisce il tema monografico del precedente numero di lettera, I legami e l’inconscio, e questo dedicato a Psicoanalisi e legge. I “legami” sono tali proprio perché rispondono a una legge, così come l’“inconscio” è strutturato da una legge particolarissima, mai completamente pronunciabile ma sempre in atto e al lavoro. Accostare “psicoanalisi” e “legge” è impresa monumentale. Questo dossier monografico è una prima testimonianza, certamente non esaustiva. L’intento è di disegnare alcune frontiere, adiacenze e intersezioni. Il contributo di ciascun autore – psicoanalista, psichiatra, giurista, filosofo, storico del diritto o magistrato – ci sembra apra una via nuova, originale, spesso preziosa. Il significante legge viene chiamato in causa e “messo al lavoro” in due accezioni apparentemente distanti. Nella prima come istanza in atto nella vita psichica dell’individuo ovvero, semplificando, in quanto legge delle logiche e del funzionamento dell’inconscio. Si tratta della legge della parola le cui numerose implicazioni giungono anche a istituire la legge del desiderio, la sua facoltà. Nella seconda accezione, quella corrente, la legge può riassumersi come quel complesso sistema simbolico il cui esercizio normativo regola i funzionamenti giuridici e le condizioni di diritto nella società. Dal confronto tra queste due distinte polarità, che in definitiva tessono la dialettica tra individuo e società, tra caso singolo e criterio universale, riscontriamo una fecondità di idee e di pensiero. Fecondità 2 lettera sia per una riflessione relativa al diritto nelle sue vaste implicazioni sociali sia, per la psicoanalisi, nella sua pratica particolare e singolare. Nell’implicito dialogo che scaturisce tra i differenti contributi qui pubblicati, si delineano alcuni temi caldi che attraversano l’attualità: la giustizia psichica e l’equità, i paradossi del diritto nell’epoca in cui sembra vacillare il confine tra lecito e illecito, il funzionamento delle istituzioni (Giovanni Mierolo), le trasformazioni epocali percepite dai soggetti sociali come vacillamento di diritti acquisiti o addirittura come trasformazione del concetto stesso di democrazia (Bruno Moroncini). Tenere conto, nelle sue impercettibili o macroscopiche implicazioni, che l’individuo è immerso storicamente nella società, ossia in un sistema giuridico governato da una legge simbolica perennemente all’opera, interroga la pratica clinica, quantomeno quella psicoanalitica, in modo ampio e denso (Gérard Pommier). La psicoanalisi si occupa del caso singolo, ossia della vicenda di una soggettività unica, singolare e complessa. La sua pratica si imbatte in una legge la cui natura pulsa nel cuore dello psichismo, nelle logiche dell’inconscio, nella tessitura della soggettività, nelle formazioni sintomatiche che attraversano o abitano la vita psichica dell’individuo. Certo, “il reale è senza legge” avverte Lacan, e lo afferma proprio quando annota che la clinica è “il reale in quanto l’impossibile da sopportare”. Probabilmente istituire il diritto positivo, per gli umani, sarebbe il tentativo di fronteggiare e governare questo reale e auspicare che vi sia, in qualche modo, un esito di giustizia (Federico Leoni). Sappiamo che le cose sono ben più complesse e che nella trialità tra legge, diritto e giustizia si annodano ulteriormente, nella prospettiva aperta dalla psicoanalisi, l’etica e la verità. Queste ultime, nella nostra epoca che si compiace festosamente del declino del padre, possono risultare anacronistiche, superflue o inutili. Ma nella conduzione di un’analisi se l’atto analitico ha la stessa stoffa dell’atto giuridico (Paola Mieli), significa che per lavorare alla soggettivazione di una propria verità storica occorre l’assunzione di una posizione etica. La psicoanalisi è un “lavoro di civiltà” (Kulturarbeit), proclama Freud proprio negli anni che precedono la svolta tragica che annienterà l’Europa. Poco prima aveva formulato una particolare istanza di legge inventando il concetto di Super-io, ritrovandone poi alcune implicazioni sociali nei legami istituzionali, per esempio in Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921). Nella sua puntuale elaborazione, Lacan editoriale 3 riprenderà i fili che tessono la soggettività avanzando un’elaborazione decisiva intorno alla dialettica tra legge e godimento, tra legge e desiderio, tra legge e pulsione di morte. In particolare il suo Kant avec Sade (1963) rimane, a proposito di questa dialettica, un testo imprescindibile. Tuttavia è soprattutto il tema del padre, del Nome-del-Padre, a imporsi, per le sue ampie implicazioni simboliche (Pierre Bruno) e per la riformulazione della struttura edipica (Marco Bouchard), come fondamento teorico e caposaldo clinico della psicoanalisi. L’attualità di questa monografia potrebbe riassumersi in una domanda: nell’era dell’evaporazione del padre, ossia quando il concetto di legge da esso implicato subisce un forte indebolimento, che ne è della soggettività? Come si coniugano nei vari contesti sociali, soggettivi e nella relazione con l’altro (Sarantis Thanopulos) le logiche dell’identificazione e l’assunzione di un’identità? E ancora: nella gamma che va dalla sconfessione del padre alla sua messa a morte (Franco Lolli), dall’ambivalenza delle norme (Laura Bazzicalupo) alla logica della trasgressione (Silvia Lippi), che ne è oggi del sintomo e delle formazioni dell’inconscio? Tra le tante, evochiamo almeno due distinte derive. La prima è quella che si fa strada nella tendenza sociale, sempre più diffusa, che consiste nel promuovere una concezione materna di legge (Luigi Cavallaro): gli effetti sul piano clinico trovano facile riscontro in una sorta di “aggiramento” della castrazione che conduce a esiti devastanti e a patologie di distruzione. È il trionfo del “godimento smarrito”. La seconda deriva: se “tutto è possibile”, ossia se la funzione della legge incontra il tempo di una sospensione o di un eclissamento, ecco affacciarsi il tema della perversione nelle sue varie forme e coniugazioni, spesso socializzate, approvate, addirittura acclamate. Certo, l’imperativo del consumo obbedisce qui a una legge di mercato. Ma è una legge che enfatizzando la facile bandiera della libertà erotizza perversamente il compiacimento narcisistico, l’autosufficienza cinica e autoreferenziale, l’obbligo al consumo di nuove e immediate forme di godimento. A discapito del desiderio. Non ritroviamo in tutto ciò il vessillo di una perversione eretta a sistema? Questa interrogazione ci spinge vorticosamente verso il centro della nostra contemporaneità. Giancarlo Ricci Monografia La Legge e le leggi Gérard Pommier Sulla nostra umanità regna una Legge senza riserve: quella del divieto dell’incesto, in qualsiasi epoca e sotto qualsiasi latitudine. Questo divieto è una pratica “spontanea” più che una legge. L’inconscio detta questa proibizione: essa s’impone senza enunciarsi, sulla stessa modalità dei passaggi all’atto. È una legge che cammina di pari passo alla cultura stessa.1 Evidentemente non cade dal cielo, e non assomiglia neanche alle leggi della natura.2 È una legge strutturale, che significa che non è un dato, ma che risulta da diverse costanti la cui congiunzione è ciò che fa legge. Non è dunque “originaria” e non la si può considerare come una causa. Questa è la ragione per cui questa legge, pur fondamentale, non fa parte dei Dieci Comandamenti, né di alcun sistema legislativo conosciuto. Grazie all’antropologia strutturale e a Claude Lévi-Strauss, ora la sua universalità è riconosciuta, ma se non la si ricolloca nella struttura che la fa apparire, non è certamente La Legge. “Il divieto dell’incesto” è solo la parte visibile di un insieme più vasto: è già una conseguenza dell’uccisione del padre primitivo e del totemismo.3 Che cosa succede all’alba della storia dell’umanità, Mariella Guzzoni Double Texture #2 2010 gelatin silver print edizione di 5, 20 × 30 cm dal ciclo Double Textures 1 Fino a un periodo recente, non esisteva una repressione specifica dell’incesto, perché si supponeva che la rimozione di ciascuno fosse sufficiente affinché fosse rispettata questa legge. 2 Per esempio le leggi di gravità o della termodinamica ecc. 3 Questo totemismo è contestato bizzarramente dallo stesso Lévi-Strauss. Constata l’universalità del risultato (il divieto dell’incesto), ma contesta la sua causalità strutturale 8 Gérard Pommier così come alla nascita di ogni bambino? Nei suoi incubi, il lattante rischia di essere annientato da mostri divoranti. O al contrario, nelle pratiche ufficiali attestate nella nostra cultura, bisogna divorare e castrare una figura paterna (come le Menadi, o come il sacrificio di un toro, totem di Giove, o ancora mangiare l’ostia nella comunione cristiana). Bisogna mangiare il padre, scenografia che perde la sua dimensione drammatica, se consiste solo nel prendere il suo nome (totemico). Perché un cannibalismo simile? Il fatto è che il “desiderio del padre” non manca mai: è il nocciolo della violenza psichica di cui prima o poi parlano tutte le isteriche. Questo desiderio è omicida perché incestuoso. L’incesto uccide prima dell’inizio della propria vita: fare l’amore con il proprio genitore sarebbe lasciare il proprio posto di bambino e agire come un adulto, ma prima della propria nascita. Sarebbe quindi meglio finirla con il padre, ma poiché questo padre è allo stesso tempo colui che fa nascere il desiderio, il fantasma parricida spinge a identificarsi in lui: quindi per incorporazione cannibalica. La prima scena del primo atto del complesso di Edipo resta spesso nell’oscurità: l’interdetto dell’incesto riguarda in primo luogo l’incesto con il padre, e il suo assassinio ne è il correlato immediato. L’interdetto dell’incesto con la madre non è che un episodio terminale, oltretutto desessualizzato. È logico! Per giocare questo secondo atto, bisogna innanzitutto uccidere il padre, prima di avere, dall’alto della sua identificazione, delle pretese sulla madre! Il terzo atto è quello meno divertente: giacché la colpa derivante dal parricidio proibisce il godimento, di colpo il bambino sogna sì di sposare la madre, ma senza avere la minima idea del rapporto sessuale.4 È qualcosa d’inestricabile: ha inizio la nevrosi. In fondo, il divieto “Non giacerai con tua madre” viene dopo il disconoscimento di “Devi uccidere tuo padre”. Non sono certo cose da scrivere in una legge! D’altronde, ciò non è scritto da nessuna parte se non nella storia di Edipo, ma a titolo narrativo: è una descrizione, una constatazione che non pretende di scrivere una Legge. La Legge maiuscola s’impone senza poter essere enunciata. Certo la Legge obbliga, ma sotto l’effetto di contraddizioni tali da presentarsi in una certa indeterminazione. Precipita e s’impone agli (il festino dell’orda primitiva descritto in Totem e tabù). Si veda Il totemismo oggi (1962), et al./ edizioni, Milano 2010. 4 Inesistente nella sessualità infantile, se non sotto forma d’una violenza. La Legge e le leggi 9 uomini partendo da un’angoscia diffusa: quella del divieto dell’incesto che procede dal nodo edipico e appare come un fatto universale più che una legge, che viene promulgata prima di essere rispettata. Ma non è così. Si tratta di un editto mai promulgato, impronunciabile, correlativo all’esistenza umana allo stesso titolo dell’aria respirata. Se l’angoscia dell’incesto paterno precipita e si presenta come una Legge, ignoriamo in cosa consista se non “che c’è la Legge”. Non si tratta del divieto dell’incesto in sé (è un semplice fatto), non è neanche il divieto del parricidio (è già stato commesso) e non è neanche la proibizione dell’incesto materno (che è diventato impossibile). La Legge risuona come un insieme vuoto, che accompagna qualsiasi atto e non ne concerne nessuno in particolare. S’impone dall’alto di questo spostamento costante: ce ne si rende conto prendendo conoscenza dei “sette peccati capitali”. Eppure la Legge non può concernere dei peccati così banali come l’invidia, la gola o la pigrizia! Ne deriva l’idea che la Legge si riduca al divieto stesso: a questo sentimento latente “che non bisognerebbe”, che infiltra qualsiasi atto, in fondo sempre di troppo, sempre intaccato dalla hýbris. Dopotutto, chiunque agisca in suo nome uccide suo padre e farebbe meglio a stare buono se non vuole scatenare il phthonos, la gelosia degli dei. Ma fino a che punto bisogna starsene buoni? A ben guardare, parlare è già un atto, ed è anche l’atto che determina tutti gli altri. Il divieto dell’incesto è certamente “un fatto” coestensivo all’esistenza umana, ma se questo divieto concerne per prima cosa l’incesto con il padre, bisogna ancora che il padre sia identificato, che porti un nome appropriato, atto a spiritualizzarlo, totemizzarlo, e soprattutto a identificarlo. Non è il caso dell’incesto materno. Il divieto dell’incesto suppone dunque la nominazione del padre, il suo esorcismo: è un fatto di parola. La Legge è allora coestensiva all’atto di prendere la parola nel suo nome, in un nome preso dal padre. In fondo, portare il suo nome è portare la Legge senza sapere dove si va, ma essendone costretto (come un non vedente, come Edipo). Da questo groviglio di ragioni mescolate, la storia di ognuno mette l’accento su di un aspetto o sull’altro, ma in ogni caso ne emerge una sola costante: la colpa. Poco importa la colpa di cosa, che si tratti del desiderio parricida, della concupiscenza carnale, del possesso materno, poco importa. La colpa fonda La Legge nella sua vasta indeterminazione e in tutta la sua ampiezza: sotto la sua influenza, ognuno 10 Gérard Pommier si sente colpevole prima di sapere di cosa, o forse assolutamente di niente. È il caso di diversi pii personaggi della Storia Sacra che non finivano mai di confessarsi e di chiedere perdono, quando erano in mezzo al deserto o chiusi nei monasteri. Non avevano commesso il benché minimo atto peccaminoso, d’altronde non ne sarebbero stati neanche capaci, se per caso fossero stati avvicinati da una figura di Satana (per esempio una donna). Conta solamente la colpa, senza che sia necessario precisarne la causa. D’altronde, le Sacre Scritture si sono ben guardate dal precisare la natura del peccato. L’uomo è un peccatore, punto. Nel dettaglio si vedrà di giorno in giorno, secondo le età della vita. Ecco il fondamento solido della Legge maiuscola: la colpa, in primis quella del parricidio.5 In fondo, il solo riferimento “serio” dell’Etica è l’inconscio, nel senso che fa serie, spinto dalla ripetizione. La colpa fa Legge: interiorizza per ogni soggetto la conseguenza del suo desiderio parricida, ovvero il senso del Bene e del Male. A causa del suo desiderio inconscio, ogni uomo si appropria da solo di questa opposizione, contrariamente agli animali che discriminano solo il Buono ed il Cattivo. Gli umani conoscono anche il Bene e il Male. La legge etica non è sempre buona per la specie. Per esempio alcuni divieti sessuali religiosi vanno contro la riproduzione dell’umanità, o semplicemente contro il suo piacere. In nome del Bene, dunque della sua Etica, un uomo può fare il Male o ciò che non è buono per lui. Un samurai deve suicidarsi, per esempio, se il suo sovrano è vinto in guerra. Ma guardiamo più da vicino il nostro Decalogo, e soprattutto l’ordine in cui viene enunciato. Il primo dei comandamenti della Legge concerne il riconoscimento di un Dio unico senza immagine e senza nome… insomma colpito da un Tabù! Così viene riconosciuto! È il nostro caro papà eternizzato e spiritualizzato fino alla punta dei capelli. E qual è il quinto comandamento? “Non ucciderai”… Ma è già fatto! A meno che questo comandamento non concerna qualcun altro che non sia il padre, perché per lui è finita. La formula disconosciuta della Legge Mosaica, “Non ucciderai”, esorcizza la positività di un desiderio di assassinio già compiuto a monte, e sul punto di perpetuarsi a valle, laggiù nella casa degli uomini. 5 Che è stata considerata dal diritto francese come la chiave di volta del codice penale fino al 1972. La Legge e le leggi 11 La fondazione della Legge non si enuncia in un ordine qualsiasi: per prima cosa, il padre diventa invisibile e innominabile, in breve cade nell’oblio. E quindi, di conseguenza, siete colpevoli e avrete il senso del Bene e del Male, prima per dei semplici fantasmi, poi vieppiù se commettete un delitto. Se il primo Comandamento prescrive l’amore di un Dio unico, ma senza immagine e senza nome, spiritualizzato, eterizzato, interdetto; se è proprio il padre morto, allora il secondo comandamento che vieta l’uccisione arriva troppo tardi. Così la Legge si fonda sulla base del solo fantasma parricida, che in effetti è autonomo, interno alla struttura, mentre non è successo niente. Allora il soggetto si sente colpevole anche quando è del tutto innocente. Tra l’altro teniamo presente che chiunque abbia il senso del comico apprezzerà molto gli esegeti freudiani che pretendono che “il padre fondi la Legge”. Naturalmente, dal profondo della sua Eternità, il Padre non decreta niente. È quando il figlio fantasmatizza la sua morte che, per reazione, la sua colpa inconscia aggancia l’Etica. La colpa del parricidio proibisce ciò per cui è stato fantasmatizzato. La Legge nasce dall’interno, figlia del desiderio stesso. Per i comuni mortali, l’aggressività e la violenza s’inibiscono da sole, dall’interno: il braccio che stava per picchiare ricade spontaneamente. Ciò nonostante, la mano degli uomini è quasi sempre armata. In ogni momento il cittadino della città greca era pronto alla guerra civile. Per strada, quando guardiamo camminare la maggior parte delle persone, vediamo che sono mentalmente armate. Si spostano come eroi di un film d’azione. Tutte le culture, quasi senza eccezione, valorizzano il guerriero, colui che uccide. Ma lo potrebbero fare senza l’ordine del padre, senza un pretesto ideale, politico? Anche la violenza cieca delle periferie è governata dalla legge delle bande, la legge del taglione, in breve, da una legge. La legge inconscia, Etica, proibisce l’omicidio ma è sempre sul punto di essere trasgredita. E, infatti, lo è quotidianamente: i massacri di massa, i crimini individuali segnano la storia senza interruzione. Certo! Il fantasma parricida fonda un’etica inconscia del Bene e del Male. Ma, sicuramente, si direbbe che questa Legge non riguarda il fratello. È un’Etica Spirituale completamente fuori dal mondo. Gli assassini hanno spesso dei principi morali, delle regole di comportamento, il senso dell’onore, delle buone ragioni per agire. Eichmann si è presentato al processo per genocidio come un uomo di dovere. Sì, l’Etica della Legge punta molto in alto, troppo in alto, non 12 Gérard Pommier ha i piedi per terra, e per quel che riguarda la vita terrena non ferma mai il braccio degli assassini che a essa spesso fanno appello. Per la vita mondana, a essa bisogna aggiungere le leggi, la repressione che esercitano la società e la polizia, come se la Legge inconscia non fosse servita che a scatenare un desiderio di trasgressione. È come se la Legge Etica portasse in sé il suo contrario trasgressivo. Dobbiamo forse arrivare a quella stupida credenza secondo cui il desiderio sarebbe la conseguenza dell’interdetto?6 Ma il desiderio non è così stupido! Se la legge dell’inconscio, che decide del Bene e del Male, ha avuto delle conseguenze omicide mai smentite durante tutto il corso della Storia, è perché si dispone su due livelli, di cui il secondo contraddice il primo. La legge dice: “Non ucciderai ”, ma non dice chi! Senza alcun intervento della polizia e del suo stesso movimento, il fantasma parricida genera colpa, un interdetto del godimento materno conseguente all’assassinio del padre, crimine che tuttavia è già stato commesso! È un’etica spontanea che procede da una rimozione autonoma. Ma l’uccisione non genera solo la colpa! Scatena anche un amore folle: il Padre Morto è il più grande successo delle Love Stories, certificato ogni giorno nelle Chiese di tutto il mondo. Ma, ahimè, questo amore del padre scatena la rivalità dei fratelli, feroce, permalosa, senza perdono: omicida. Se tutti i fratelli hanno lo stesso padre, unico ed eterno, è anche vero che si fanno prendere dalla gelosia, ed è anche vero che si uccidono gli uni con gli altri. Allora qui bisogna chiamare la polizia, bisogna ricorrere a una repressione esercitata da un potere politico. La rimozione differisce totalmente dalla repressione, che è la sola soluzione pratica ai disordini umani proposta da Spinoza nella sua Etica (così male nominata). La legge morale non è un prodotto imposto dall’esterno: è il frutto dell’inconscio. Passando da una generazione all’altra, questa etica spontanea si metamorfizza in repressione. I padri vogliono trasmettere i loro ideali, e finalmente impongono ai loro figli la loro etica spontanea che così diventa un obbligo morale esteriore, rigido, regolamentato e a volte soffocante. La “repressione” è un avatar della trasmissione transgenerazionale. Volere trasmettere il proprio senso intimo del Bene e del Male, imporre Come se, per esempio, il desiderio della madre fosse provocato dall’interdetto paterno. In realtà, il desiderio è allucinatorio dall’inizio della vita, e diventa sessuale solo dopo il complesso di Edipo. Non è un interdetto paterno che lo fa nascere. 6 La Legge e le leggi 13 la propria Etica, significa uccidere la sua spontaneità e, in ogni caso, farne un oggetto di trasgressione.7 La rimozione è interna, la repressione esterna. È la differenza tra “la Legge” e “le leggi” che regolamentano il diritto tra i fratelli, sempre pronti ad ammazzarsi, ciascuno pensando di farlo in piena giustizia, in nome di un amore del padre supposto, e fare di lui il preferito al quale tutto è permesso, anche l’omicidio. Insomma, in questo rimbalzare da un piano all’altro, la Legge del padre spinge all’uccisione del fratello. Sotto l’occhio onnivedente del Padre eternizzato, Caino uccide Abele. Perché un preteso dio d’amore spinge i fratelli all’omicidio? La gelosia ne è la causa, fa del fratello un nemico: l’amore del padre porta in sé l’odio del fratello e il cristianesimo ha tentato di rimediare a questo disastro. “Amatevi l’un l’altro, perché vostro padre vi ama!”. Secondo Anders Nygren, l’etica cristiana innova invitando ad amare il proprio nemico. Nel suo libro Eros et Agape, Nygren dimostra che l’amore cristiano, Agape, rompe con l’amore platonico, Eros. L’Agape viene dall’alto: scende da Dio verso l’uomo, il quale non può che sottomettersi. In questo contraddice l’Eros platonico, sforzo ascendente dell’uomo verso Dio. L’amore discendente dal padre ha dunque delle conseguenze fratricide che il caro Eros ignora.8 Anche l’Agape ama, ancora prima, il nemico detestato: se abbiamo lo stesso padre, allora il fratello è un nemico. Come scrive Nygren: “L’amore del prossimo, per sua natura, è già fondamentalmente amore per il nemico”. In questo è fedele a san Matteo quando dice: “Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori al fine di diventare figli del padre che è nei cieli”. In fondo, la Chiesa invita le sue pecorelle a un eccidio amoroso, che procede dal loro comune amore del padre. È ciò che è successo. Dal momento in cui un fratello si avvicina ed entra nel nostro campo, si accumulano le cortesie (scusa, ti prego, dopo di lei, mille scuse, per favore ecc.). Ecco altrettanti segnali di un’aggressione rientrata. Anche un semplice “Buongiorno” rinnega cortesemente una maledizione girata nel suo contrario, esorcizzata. Il simile pone dei problemi 7 Mettere fine a questo genere di repressione imposta è un obiettivo lodevole, ma pertanto non guarirà la nevrosi che risulta dalla rimozione. Contrariamente a ciò che aveva immaginato Wilhelm Reich. 8 Eros conosce anche la gelosia, ma è quella del rivale sessuale e non quella del fratello. 14 Gérard Pommier che minacciano sia la sua sopravvivenza che la nostra. Prima ci assomiglia e come noi reclama un amore esclusivo. Poi non ci assomiglia e si presenta a occhio nudo come una pienezza globale e nella sua compattezza non sembra che soffra della stessa divisione interiore che ci tormenta. Infine, quando gli parliamo, grazie a lui il nostro pensiero diventa conscio, come se ne fosse il padrone: gli dobbiamo veramente tanto! Se facciamo la somma, il nostro prossimo prende un posto iperbolico e assomiglia presto a un persecutore. Quando i bambini giocano, di solito si uccidono reciprocamente, e i loro giochi impongono che ci sia un vincitore e un vinto. Ebbene sì, comincia male per l’altro, che sembra sempre di troppo. Quando lo guardiamo nel volto, faccia a faccia, vediamo l’altro guardarci. Ci vede come noi non ci vediamo: è imbarazzante! Così la vergogna viene facilmente smascherata nella nostra intima differenza. È questo sguardo su di noi che bisognerebbe far cessare: questo svelamento della nostra differenza da noi stessi, che ci “fulmina con lo sguardo”! Dall’inizio, e ancora a ogni istante, ho respinto da me l’eccesso della mia pulsione, nel momento in cui venivo travolto dal suo godimento. Troppo, è troppo, così che il mondo esterno si è riempito di una minaccia sottile: freme di ciò che avrebbe potuto annientarmi. Ignoro l’origine di questa minaccia, tranne quando incrocio uno sguardo, in cui “io” mi vedo tremante: uno sguardo di cui interrogo subito l’intenzione. Ecco perché “io” incontra così spesso il suo nemico! Il nemico è investito da un godimento rigettato, da una parte di me: è proprio ciò che dimostra l’erotismo, che ha fatto delle donne le vittime degli uomini, l’oggetto del loro desiderio pieno d’odio.9 Lévinas parla dell’etica pacificante del volto, ma scrive anche: “Il prossimo è l’unico essere la cui negazione non può annunciarsi che totale: un omicidio”.10 O ancora: “Il prossimo è il solo essere che posso voler uccidere”, e questo perché “ciò che in lui sfugge alla comprensione, è l’essere stesso”. Ma è piuttosto la comprensione di noi stessi che è messa a nudo sotto il suo sguardo, fino a vergognarcene. Lui al contrario sembra che capisca molto bene! È questa sottomissione Nel suo Seminario del 1969 (Jacques Lacan, Le Séminaire. Livre xvi. D’un autre à l’Autre, Seuil, Paris 2006), Lacan sottolinea che “il prossimo è l’imminenza intollerabile del godimento”. 10 Emmanuel Lévinas, Entre Nous. Essais sur le penser-à-l’autre, Grasset, Paris 1991, pp. 17, 20-22. 9 La Legge e le leggi 15 del nostro corpo segreto, quello che ci incolla alla pelle, che genera odio. Il suo sguardo ci obbliga a riprenderci ciò che nella solitudine respingiamo di noi stessi. La pupilla, la sua: il buco nero del suo sguardo riflette ciò che di noi stessi rifiutiamo di affrontare, ci obbliga a riprenderci ciò che non vogliamo vedere di noi stessi: è seccante! È l’inconscio della rimozione originaria, quella di un corpo sempre in eccesso, che lo sguardo dell’altro smaschera e richiama sulla scena: “Guardatelo come è nudo!”. Lévinas aggiunge che posso voler uccidere l’altro, ma solo se non ho incontrato il suo volto. “Non l’ho guardato in faccia, non ho incontrato il suo volto. La tentazione della negazione totale che misura l’infinito di questo tentativo e della sua impossibilità, è la presenza del volto. Essere in relazione con l’altro faccia a faccia è non poter uccidere”. Possiamo concederlo volentieri: è vero che il volto dell’altro ci dà il mondo delle cose. Le cose diventano consce solo quando le invochiamo, o, come dice la Genesi, quando sono nominate. Altrimenti le cose ci aspirano come delle Sirene. Ogni cosa che vediamo canta, e può naufragare fuori di noi. Bisogna esorcizzarla nominandola. E chi potrebbe nominare le cose senza che qualcuno l’ascolti? Questo ascoltatore, aliquid Ens, questo essere qualunque, è preso nelle nostre stesse sensazioni, catturato dagli stessi canti delle Sirene, e quando ci ascolta, legittima il loro esorcismo grazie alla sua stessa presenza. Parlare a qualcuno calma l’angoscia. La notte delle cose indietreggia quando è invocata: l’Essere stesso si mostra quando si rivolge la parola. In questo senso Lévinas scrive: “L’essere come tale (e non come incarnazione dell’essere universale) non può essere che in una relazione in cui lo si invoca. L’essere è l’uomo e l’uomo è accessibile in quanto prossimo. Come volto”. Il volto mostra la convergenza delle pulsioni che salgono alla testa, straripano e si precipitano per il buco dello sguardo, che cerca con gli occhi il simile dell’invocazione, quello a cui si rivolge la voce. La presenza dell’altro buca lo spazio: si espone all’aggressione, se non all’omicidio, certamente (ma perché?). E tuttavia, il suo volto lo proteggerebbe (ma ancora una volta, perché?). “Vedere un volto” scrive Lévinas “è già ascoltare ‘non ucciderai’”. Tuttavia, la vicinanza dell’altro spossessa, una dissimmetria instaura la sua superpotenza. In realtà, allo stesso tempo un altro qualsiasi è più grande di me, scopre il mio pensiero, e dovrei prendermela con lui, io che, se lascio andare, 16 Gérard Pommier divento presto suo ostaggio. In modo tale che questo “non ucciderai” assomiglia a un disconoscimento. La nobile etica nasconderebbe forse una colpa anticipata: “non ucciderai… colui che muori dalla voglia di sopprimere”? Questa Etica così elevata di Lévinas corrisponde all’esperienza? Un uomo sarebbe incapace di uccidere colui di cui ha visto il volto? L’omicidio deve essere commesso prima di aver incrociato lo sguardo? Pensiamo piuttosto che lo sguardo, almeno nella sua imminenza, spinga a uccidere. Insomma, l’esperienza dice piuttosto che bisogna uccidere prima che sia vista la nostra oscenità. Questo scontro dello sguardo si verifica poco durante una guerra, dove la maggior parte degli atti omicidi sono perpetrati a comando. Non succede quasi mai che un soldato rifiuti di uccidere un nemico, anche se lo guarda. Tuttavia, nelle foto della Seconda guerra mondiale, si vedono delle immagini di soldati che uccidono frontalmente delle madri con in braccio i loro figli. Durante le guerre civili, i soldati non agiscono a comando, ma, ancor peggio, sempre occhi negli occhi. Qui lo statuto di simile è già stato tolto al nemico e lo sguardo non si oppone alla sua eliminazione. Allo stesso modo popoli colonizzati, razze cosiddette inferiori, o ancora, nell’ambito di una stessa società, classi sociali differenti che sono già state mentalmente eliminate dall’umanità. Le persone abbienti non si accorgono delle sofferenze di coloro che sfruttano: non li considerano come fratelli e non ci pensano neanche. I loro sguardi non li imbarazzano. Possiamo anche notare che il braccio di un assassino non è mai fermato dallo sguardo della sua vittima, nei crimini passionali o nei crimini a scopo di rapina. E infine, se incontro un nemico personale, insomma un vero nemico, uno che mi ha fatto soffrire, forse che il suo volto, in una situazione di confronto estremo, m’impedirebbe di ucciderlo? Da sempre, i simili vengono assassinati gli occhi negli occhi. Infine, la regola etica di Lévinas, che vorrebbe che lo sguardo inibisca l’atto criminale, sembra concernere solo il condannato a morte. I fucilati, gli impiccati, i giustiziati con la sedia elettrica hanno sempre gli occhi bendati, come se, a volto scoperto, il boia non potesse fare il suo lavoro. È un’eccezione veramente notevole, poiché in questo caso il crimine si perpetra in seguito a un giuramento: insomma, in nome della Legge! È ciò che denuncia lo sguardo del condannato, poiché in nome della Legge non si dovrebbe avere il diritto di uccidere nessuno. La Legge e le leggi 17 È la Legge che spinge al crimine. La Legge dell’inconscio, certo, la legge del padre, esorbitante, insensata, contro la quale la coscienza impone a mala pena i suoi diritti. Solo il crimine individuale appartiene all’umanità. La stessa Medea, che uccise i suoi teneri bambini, fu perdonata dagli dei. Come mostra bene la storia, i fratelli si uccidono tra loro dal momento in cui si presenta l’occasione e, quando non lo fanno effettivamente, ci pensano costantemente. Glielo impedisce solo la potenza delle leggi minuscole. Ma da dove deriva la loro legittimazione? Poiché non è solo la forza armata che dà loro la potenza coercitiva. Non è neanche perché, come calcolò malignamente Spinoza (e anche Nietzsche), l’interesse comune era di stabilire una regola di fronte ai disordini, perché, per esempio, se il fratello uccideva il fratello secondo il proprio desiderio, alla fin fine la Città sarebbe stata spopolata e si sarebbe indebolita. Triste concezione dell’etica in effetti, poiché allora il Bene e il Male sarebbero ridotti alle dimensioni del Buono e del Cattivo. No, esiste una legittimità delle “piccole leggi”, quelle che comandano una repressione che non è solo quella della polizia. Queste “piccole leggi” possiedono una legittimità che deriva loro dal Principe della Città, dal potere politico, ovvero al secondo grado di una certa rappresentazione paterna. Qui non importa sapere se colui che detiene il potere l’ha acquisito con la forza, per via ereditaria o per via elettorale. Esaminiamo soltanto come lo esercita una volta che l’ha conquistato, quando è un altro uomo. Poiché non succede mai che eserciti il potere in nome suo, per se stesso, compresi anche i casi della tirannia più estrema. Già nello Spirito delle Leggi, Montesquieu considerava che la tirannia fosse una forma limite di governo che non s’incontrava quasi mai nella storia dell’Umanità (se non, scrisse, in un Oriente mitico). No, colui che detiene il Potere diventa un altro uomo: si sdoppia nel momento della sua investitura. Rappresenta subito qualcos’altro rispetto a ciò che è, e governa in nome di un Ideale culturale. È lo spirito del padre morto che ormai comanda la sua mano. L’Ideale può variare molto, qui la Libertà, là il regno di Dio, altrove l’Uguaglianza ecc. Ogni volta, le “piccole leggi” sono promulgate e legittimate in nome di un Ideale. In conclusione, il parricidio “intrafamiliare” assiste alla nascita di un’Etica del Bene e del Male inconscia, mentre lo Spirito dello stesso 18 Gérard Pommier padre morto s’incarna poi nel potere politico di una certa cultura, e questo Spirito del Padre legittima le leggi che reggono il rapporto tra fratelli. Tra “La Legge” e “le leggi” s’instaura non solo lo stesso rapporto che s’instaura tra rimozione e repressione, ma anche lo stesso rapporto che s’instaura tra le due figure del complesso paterno, quelle che sono scisse dall’ambivalenza, quando l’una resta endogama (è il padre del complesso di Edipo) mentre l’altra è esogama (è il Principe del potere politico). Questa scissione segue la linea di frattura dell’ambivalenza nei confronti del padre: una figura del padre (il papà) è amata in famiglia, in quanto padre vivente, sessuale, mentre un’altra figura paterna, castratrice e violenta, s’incarna fuori della famiglia sotto la forma di un animale fobico, d’un totem, o… di un capo politico. Questa scissione del complesso paterno si mette quasi sempre in tensione, tra il suo polo familiare e il suo polo politico che regna in nome di un Ideale, dello Spirito del Padre Morto.11 In fondo, questa tensione che s’instaura tra lo spazio endogamo e quello esogamo rinchiude a chiave l’inconscio, e, in questo senso, la politica mette in scena una chiave costante dell’inconscio, utile finalmente alla rimozione (si può fare a meno della psicoanalisi, ma non della politica). Esiste un fossato tra il papà della famiglia e la figura paterna del capo politico. Questo abisso separa il padre vivente dalla sua spiritualizzazione ideale. Nelle prime pagine della Politica, Aristotele ha mostrato che la Città non era una famiglia ingrandita, un raggruppamento di famiglie. Ben di più, la Città e il suo capo politico precedono e sono più importanti di ciascuna famiglia che, senza la direzione del Principe, andrebbe in frantumi. “Il tutto è più importante di ciascuna delle sue parti”, scrive Aristotele. E in effetti, senza la presenza esogama degli Ideali del padre morto (il politico), i padri viventi perdono la loro legittimità. La patria potestas romana si legittimava facendo un’equivalenza tra il padre e Dio.12 In via eccezionale, può capitare che una certa cultura non abbia nessun capo, che non riconosca nessun Principe, e che viva allora come un semplice insieme di famiglie, di tribù che riconoscono solo “la Legge” e che rinnegano “le leggi”. Allora il risultato è la catastrofe dei Sono I due corpi del re, per riprendere qui il titolo della celebre opera di Ernst Kantorowics, I due corpi del re: l’idea di regalità nella teologia politica medievale (1957), Einaudi, Torino 1989. 12 Questa è la ragione per cui, fino a oggi, le famiglie sono state consacrate dal Principe, in cerimonie speciali (matrimonio, pacs ecc.). La Legge e le leggi 19 fratricidi ripetuti, delle vendette, dei delitti d’onore, ovvero per niente. Questo è stato, ed è ancora, il caso della società còrsa, il cui potere politico fu quasi sempre extrainsulare, e mai considerato legittimo dagli autoctoni dell’Île de Beauté, che vivono di giorno in giorno nella fraternità armata. Recentemente è stato il caso della ex Iugoslavia, quando il potere federale andò in frantumi dall’oggi al domani: ne è seguita una guerra fratricida per quasi una decina d’anni. È anche il caso delle Mafie che sembrano costituirsi come delle grandi famiglie, ma che forse sono i soli gruppi umani che corrispondono alla Tirannia descritta da Montesquieu. Per fortuna, un Ideale quasi sempre inconscio legittima il potere politico. Delle leggi comuni, fraterne, si erigono legalmente sulla china mortifera. A buon diritto, perché l’odio del fratello metastatizza: deraglia all’infinito, contagioso. Nel suo libro El prójimo, Isidoro Vegh13 cita un passaggio del Talmud che mostra una sorta di contaminazione di prossimo in prossimo della pulsione, del suo eccesso, e dunque della sua devastazione. Un rabbino si ammala, e il rabbino che lo va a visitare gli chiede se le sue sofferenze gli giovano. “No, risponde il primo. Non mi giovano più delle ricompense che promettono.” Il secondo si ammala a sua volta, e un terzo gli pone la stessa domanda. Avendo ricevuto una risposta identica, si ammala anche lui. La compassione dà al contagio il suo ritmo espansivo. L’amore per il prossimo genera l’odio senza fine. Ma questa potenziale violenza è la molla della parola. È il combustibile dello speech act. Parliamo abbastanza di rado per dire qualcosa di particolare, per comunicare un messaggio specifico. Parliamo soprattutto per bruciare questo combustibile esplosivo. La parola è sacrificale, è un potlach. La superpotenza della presenza altrui è un “dire-prima del-detto”: ci obbliga a parlare come se fossimo civilizzati. E di colpo lo diventiamo. 11 Isidoro Vegh, El prójimo: enlaces y desenlaces del goce, Paidós, Barcelona 2002. 13 padre e nomi-del-padre Padre e Nomi-del-Padre* Pierre Bruno il padre nelle sue differenti dimensioni metaforiche Nel maggio 1957, tra il Seminario iv. La relazione d’oggetto, e il Seminario v. Le formazioni dell’inconscio, Lacan scrive L’istanza della lettera nell’inconscio.1 Questo testo contiene pochissimi riferimenti espliciti alla questione del padre, ma vi si possono comunque reperire molte connessioni con quest’ultima, a partire dalla distinzione che Lacan fa tra lettera e significante. In effetti, la lettera, contrariamente al significante, è in rapporto con il nome proprio – in quanto leggibile trans-linguisticamente – e dunque con la questione della nominazione. Nel seminario Le formazioni dell’inconscio (1957-1958), Lacan cerca di analizzare il rapporto tra l’inconscio e la struttura della parola. Da qui si sviluppa quello che, per questo seminario, sarà uno dei fili conduttori, ovvero la metafora come molla principale che struttura l’inconscio e come primario effetto del significante. Nel corso della sua elaborazione Lacan costruisce la metafora principalmente in relazione alla funzione del padre. Da quest’articolazione densa e complessa possiamo estrarre e prendere in considerazione tre affermazioni. Prima affermazione: “il padre morto è il Nome-del-Padre”.2 Per * Questo testo è il frutto di un lavoro collettivo. In particolare hanno partecipato alla sua stesura: Sophie Aouille, Catherine Bruno, Pierre Bruno e Sabine Callegari. La traduzione dal francese è di Sabine Callegari. 1 Jacques Lacan, L’istanza della lettera nell’inconscio o la ragione dopo Freud (1957), in Scritti, Einaudi, Torino 2002, vol. i, pp. 488-523. 2 Id., Il seminario. Libro v. Le formazioni dell’inconscio (1957-1958), Einaudi, Torino 2004, p. 148. 21 Lacan, è esattamente ciò che esprime il mito necessario al pensiero freudiano, il mito di Edipo: “se vi è qualcosa che fa sì che la legge sia fondata nel padre, bisogna che ci sia l’uccisione del padre. Le due cose sono strettamente legate – il padre in quanto promulgatore della legge è il padre morto […]”.3 Dicendo questo Lacan definisce il Nome-delPadre come ciò che autorizza il testo della legge, come riaffermerà in seguito, concludendo che l’Edipo e la funzione del padre sono una sola e medesima cosa. Seconda affermazione: “Il padre è una metafora”.4 Lacan prende così in contropiede coloro che, numerosi nel 1957, considerano il padre del complesso di Edipo come il padre della realtà, e denuncia “il punto di vista ambientalista”5 che consiste nel pensare la carenza paterna a partire dalle modalità della sua presenza all’interno della famiglia. Secondo la stretta definizione di metafora, la funzione essenziale dell’intervento del padre nel complesso d’Edipo, invece, è di essere un significante sostituito a un altro significante, ovvero al significante materno in quanto primo significante nella simbolizzazione tra il bambino e la madre. La metafora paterna ha per effetto di produrre il significato del significante fallico, che viene al posto della x, quell’x enigmatica del desiderio materno al quale rinvia l’alternanza di presenza e assenza della madre. Si può vedere come il bambino, che intravede la x immaginaria del desiderio materno, se ne faccia il fallo; questa via immaginaria, fonte di fissazioni, deve però essere superata dalla via simbolica, o meglio metaforica. Soltanto nella misura in cui il bambino varca questo “punto nodale”6 che consiste nell’accettare la privazione del fallo operata dal padre sulla madre, per il soggetto potrà porsi la questione della scelta: essere o non essere il fallo. Questione determinante in ciò che lo impegnerà nella via della nevrosi, della psicosi o della perversione. La terza affermazione riguarda l’omosessualità maschile: “pur presentando rapporti molto stretti con la madre, la situazione [in cui si trova l’omosessuale] ha la sua importanza solo rispetto al padre”.7 Sovversiva, questa affermazione, lo è prima di tutto rispetto al mes Ibidem. Ivi, p. 176. 5 Ivi, p. 169. 6 Ivi, p. 187. 7 Ivi, p. 215. 3 4 22 pierre bruno saggio freudiano che accentua l’eziologia materna dell’omosessualità maschile, mentre Lacan vi introduce il lato del padre. La sua tesi si schematizza così: se l’omosessuale accorda, presso il partner sessuale, un valore preminente a quell’“oggetto benedetto” che è il pene, è perché la madre, in un momento decisivo, si trova ad aver fatto la legge per il padre, cosa che ha messo in questione il sapere se, veramente, il padre ce l’ha o non ce l’ha: “Che mostri di averlo”8 potrebbe quindi essere ciò che viene domandato al partner sessuale. Il punto decisivo di questo momento per la determinazione dell’omosessualità maschile, momento in cui la madre ha fatto legge per il padre, può essere colto anche nello scritto dell’aprile 1958, La giovinezza di Gide, in cui Lacan parla in questi termini della madre dello scrittore: “le donne fanno di questa famiglia un feudo di calvinisti e un parco di madrinaggio morale”9 e, più avanti: “Cosa è stata per questo bambino la madre, e quella voce per cui l’amore si identificava con i comandamenti del dovere?”.10 A questa posizione della madre rispetto alla legge fa riprova “la cova del padre”11 (del concorso di aggregazione) con la “venerazione filiale”12 per il padre che ne consegue, che rinvia alla questione dell’oggetto benedetto, il pene. Di fatto il figlio è covato come l’oggetto prezioso che avrebbe il fallo, mentre il padre è oggetto di venerazione, da leggersi come una difesa che permette di non aprire la questione sul sapere se ce l’ha o meno. Si è in diritto di concludere che, regolarmente, ciò che conta non è il padre nella sua realtà empirica, ma il padre in quanto nome. due apparizioni del padre morto Nel settembre 1958 (data supposta della prima redazione dello scritto Per un congresso sulla sessualità femminile) Lacan dà un colpo di frusta a Melanie Klein sottolineandone “la negligenza – quando include nel corpo della madre i più originali fantasmi edipici – circa la loro padre e nomi-del-padre provenienza dalla realtà supposta dal Nome-del-Padre”.13 Di fatto, per Lacan, la realtà dei fantasmi che riguardano l’interno del corpo materno, la famosa incorporazione dell’oggetto cattivo, rimane inspiegabile se non si tiene conto dell’azione del Nome-del-Padre posta in termini strutturali e non genetici. Nel seminario Il desiderio e la sua interpretazione (1958-1959), che ha come obbiettivo principale quello di “ridare il suo senso alla funzione del desiderio nell’analisi e nell’interpretazione analitica”,14 Lacan riprende il grafo, detto “del desiderio”, che aveva elaborato nel corso del seminario precedente. Dei differenti esempi trattati con questo approccio, ne riprendiamo due, per ciò che apportano di fondamentale rispetto alla funzione del padre; si tratta di esempi strettamente correlati tra loro in quanto consistono in due apparizioni del padre morto. Riprendiamo il desiderio del padre morto che Lacan commenta in Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio. “Un sogno riferito da Freud nel suo articolo: Formulazioni su due principi dell’accadere psichico, contiene questa frase, legata al patetico su cui si sostiene la figura di un padre defunto come quella di uno spirito: non sapeva che era morto.”15 Il modo in cui Freud tratta il testo di questo sogno consiste nell’aggiungere, all’enunciazione del figlio secondo la quale il padre non sapeva che era morto, “secondo il suo voto”, che vuol dire che egli, il padre, non sapeva che il voto del figlio fosse che egli morisse. Lacan propone di prendere questo sogno come una metafora: l’elisione significante del termine “secondo il suo voto” equivarrebbe alla sostituzione di uno zero al termine mancante. Da questa sostituzione sorge un significato, che va concepito come “una delle forme più essenziali del vissuto umano”,16 quella che ha sempre portato gli uomini a cercare di parlare con le ombre, parola che qui prende il suo valore da ciò che non dice, ovvero che “l’essere amato del regno delle ombre, non può letteralmente dirgli niente di ciò che è la verità del suo cuore”.17 Con ciò Lacan si pone la questione rispetto a ciò che, nel sogno, si Jacques Lacan, Appunti direttivi per un congresso sulla sessualità femminile (1958), in Scritti, cit., vol. ii, p. 725. 14 Id., Le Séminaire. Livre vi. Le désir et son intérpretation, lezione dell’11 marzo 1959, inedito. 15 Id., Sovversione del soggetto e dialettica del desidero nell’inconscio freudiano (1960), in Scritti, cit., vol. ii, p. 804. 16 Id., Le Séminaire. Livre vi, cit., lezione del 26 novembre 1958. 17 Ibidem. 13 Jacques Lacan, Il seminario. Libro v, cit., p. 214. Id., La giovinezza di Gide o la lettera e il desiderio (1958), in Scritti, cit., vol. ii, p. 744. 10 Ivi, p. 747. 11 Ivi, p. 744. 12 Ibidem. 8 9 23 24 pierre bruno presenta dal lato del soggetto come dolore e ne interroga il senso. Il soggetto, dice Lacan, che ha visto morire suo padre tra i tormenti di una malattia senza via d’uscita, si è accostato più vicino al “dolore dell’esistenza quando nient’altro che questa stessa esistenza lo abita, e quando tutto, nell’eccesso della sofferenza, tende ad abolire quel termine inestirpabile che è il desiderio di vivere”18 – è ciò che contiene l’esclamazione me funai, questo “non essere nato”, che è l’ultima espressione del dolore dell’Edipo re. Ma, afferma Lacan, ciò che il soggetto non può affatto vedere “è che nell’assumere il dolore del padre senza saperlo, ciò a cui mira, è mantenere di fronte a lui nell’oggetto l’ignoranza che gli è assolutamente necessaria, quella che consiste nel non sapere che è meglio non essere nato”.19 Quest’ignoranza è necessaria al soggetto per velare il contenuto più segreto del suo voto che Lacan ricostituisce a partire dal sapere psicoanalitico dell’Edipo: “Il contenuto di questo voto, è il voto della castrazione del padre, vale a dire il voto per eccellenza che al momento della morte del padre fa ritorno nel figlio, in quanto tocca a lui essere castrato”.20 Dunque, osserva Lacan, l’ignoranza del soggetto, che egli mantiene e con la quale si sostiene, è quella del desiderio del sogno: desiderio di morte che consiste precisamente nel non svegliarsi al messaggio che annuncia che, con la morte del padre, è egli stesso raffrontato alla morte. Per Lacan il padre, quando è vivo, protegge il soggetto dall’affrontare qualcosa che è al cuore del dolore di esistere e che costituisce il perno di ciò che Freud ha scoperto nella tragedia e nel complesso di Edipo, ovvero la significazione della castrazione. È risaputo che Freud, ne L’interpretazione dei sogni, pone la questione dell’enigma del desiderio di Amleto. Lacan la riprende, domandandosi cosa impedisca ad Amleto di compiere l’atto annunciato dallo spettro di suo padre; cosa che fa dell’opera di Shakespeare la “tragedia del desiderio”.21 Egli procede con “un metodo di raffronto, di correlazione tra le differenti fibre della struttura”22 per cercare di articolare, in ultima analisi, “ciò che vuol dire desiderio” per come è assunto nella posizione fondamentale di Amleto in rapporto all’atto: Jacques Lacan, Le Séminaire. Livre vi, cit., lezione del 10 dicembre 1958. Ivi, lezione del 4 marzo 1959. 20 Ivi, lezione del 10 dicembre 1958. 21 Ivi, lezione dell’11 marzo 1959. 22 Ivi, lezione del 4 marzo 1959. padre e nomi-del-padre 25 atto che non ha nulla a che fare, come sottolinea Lacan, con l’atto edipico derivante dal conflitto con il padre. In virtù del fatto che il dramma edipico qui si apre all’inizio e non solo alla fine – aggiunge Lacan – Amleto conosce l’insopportabile, la maledizione, il crimine di esistere. “Ciò davanti a cui si trova Amleto nel suo essere o non essere, è l’incontro con il posto preso da ciò che gli ha detto il padre […], l’incontro con il posto preso dal peccato dell’Altro […] in fin dei conti, gliela deve fare pagare, ma nelle condizioni in cui si trova, egli stesso è trafitto dal colpo.”23 Se si esaminano queste condizioni in termini di struttura, si vede che Lacan ne districa una prima fibra, che consiste nel rapporto dei personaggi al sapere: in Amleto, a differenza del rapporto con il sapere su cui si annoda il dramma di Edipo, il padre sa molto bene che è morto ed è lui che va a dire a suo figlio che lo sa, e lo sa così bene che entrambi sanno; questo è il punto in cui Lacan situa la fonte delle difficoltà di Amleto nell’assunzione del suo atto, poiché lui, Amleto, è colui che non sa ciò che vuole e dovrà, come tutti gli uomini confrontati con la questione del desiderio, situarlo, (ri)trovarne il posto; tutto questo a sue spese. A questo livello dell’analisi possiamo fare le seguenti osservazioni: l’esatto rapporto tra la funzione della rivelazione e la già citata problematica assunzione dell’atto da parte di Amleto ci rimane abbastanza oscura. Cogliamo bene ciò che fa di Amleto, come dice Lacan, “una variante dell’Edipo tanto sorprendente nel suo carattere di variante”; variante in effetti, poiché di fronte all’atto, Edipo non vacilla, egli lo ha compiuto prima ancora di pensarci, senza saperlo. Situiamo, di conseguenza, la funzione essenziale della rivelazione da parte del padre della verità sulla sua morte, e la funzione di questo sapere che viene qui a levare un velo. A questo proposito un termine di Lacan ci interpella: quello di “sicurezza” del soggetto quando compara questo velo a quello al quale noi psicoanalisti ci rapportiamo, nel tentativo di articolazione del sapere inconscio di fronte alla resistenza che incontra.24 “Deve avere qui qualche funzione essenziale, io dirò per la sicurezza del soggetto in quanto soggetto che parla.”25 Ne deduciamo 18 19 Ibidem. Ivi, lezione dell’6 aprile 1959. 25 Ibidem. 23 24 26 pierre bruno dunque – e lo chiariremo al termine di quest’analisi dell’Amleto – che c’è nella funzione paterna un versante che assicura la sicurezza del soggetto, versante che, per il fatto di non essere stato assicurato nella storia soggettiva di Amleto, ha condotto alla sua perdita. Una seconda fibra essenziale della struttura, introdotta da Lacan, è quella del desiderio della madre, già messa in primo piano dallo spettro stesso quando indirizza a suo figlio questo comandamento ambiguo: interrompere la lussuria della regina con Claudio, ma senza lasciarsi andare a eccessi di pensiero nei suoi confronti. Questa fibra essenziale viene enunciata da Lacan così: “ciò con cui Amleto ha a che fare, per tutto il tempo, è un desiderio […] ben lontano dal suo, è il desiderio non per sua madre, ma il desiderio di sua madre”.26 In effetti, poiché è palese che l’atto dell’omicidio si scontra in Amleto con il suo desiderio, se questo desiderio fosse stato quello per la madre, desiderio edipico come Freud l’ha scoperto in quanto scatenante la rivalità con il “possessore” della madre, questo desiderio avrebbe dovuto, al contrario, sostenere il compimento dell’atto. Allo stesso modo, in un altro registro, non c’è conflitto morale alla base del vacillamento di Amleto, poiché con ogni evidenza l’assassinio, di cui il padre morto apparso dall’aldilà (il padre simbolico dunque) materializza il comandamento, non è solamente dal lato della legge, è la legge stessa. Il problema che impedisce ad Amleto di agire non è dunque in questo punto, ma in un punto che Lacan definisce “il parossismo dell’opera”27 nel dialogo tra Amleto e sua madre. Questo dialogo che, in qualche modo, riproduce la forma del grafo del desiderio, segue il movimento d’ascesa della domanda di Amleto – il giuramento fatto con sua madre di rinunciare alla lussuria nel nome della dignità e della legge del lutto – e quindi una caduta, la caduta di questo giuramento davanti a ciò che sa essere la necessità fatale del desiderio della madre, desiderio sessuale, genitale, dell’ordine di ciò che Lacan chiama brutalmente “le con béant ”.28 Nel punto preciso in cui Amleto si lascia andare, acconsentendo al desiderio di sua madre, il suo desiderio svanisce. È proprio questo il punto, sul quale Lacan mette particolarmente l’accento, che fa di Jacques Lacan, Le Séminaire. Livre vi, cit., lezione del 18 marzo 1959. Ivi, lezione dell’8 aprile 1959. 28 Ivi, lezione del 18 marzo 1959. padre e nomi-del-padre 27 Amleto il dramma del desiderio, quello del soggetto primordiale della domanda, preso com’è nel rapporto di dipendenza dal desiderio dell’Altro, qui l’Altro materno. In altri termini, non può strutturarsi per Amleto “quel rapporto del soggetto con se stesso che si chiama desiderio”,29 preso com’è nel circuito che mira sempre al significato dell’Altro, in questo caso il messaggio della madre che, in sostanza, direbbe: “io sono come sono, un desiderio genitale sempre aperto”. Comunque, quale che sia la forza di questo accento drammatico nel rapporto con la madre, il dramma del desiderio di Amleto non può pensarsi al di fuori dell’ombra del padre, o, più esattamente, va pensato nell’annodamento del rapporto al desiderio della madre e al sapere del padre rispetto alla sua propria morte. Qui si trova introdotta da Lacan la terza fibra strutturale di Amleto, quella del lutto, e non di un lutto qualunque, un lutto sul fondo del crimine. Addirittura, in Amleto, si tratta di una serie di lutti. A un primo livello, Lacan legge questa serie mortale dal lato “dell’esigenza mitica”30 freudiana, nel quale risiede il senso del mito di Edipo: la necessità che l’uccisione del padre dell’orda riappaia sempre e che allo stesso tempo si concepisca come il termine ultimo, l’orizzonte, la barra terminale del problema delle origini. A questo livello si situa il rapporto della legge primitiva al crimine primigenio, “quando l’eroe tragico, Edipo, che è virtualmente ciascuno di noi in un qualche momento della propria esistenza, quando riproduce il dramma edipico […], in certo qual modo […] rinnova sul piano tragico, una sorta di bagno lustrale, la rinascita della legge”.31 Così Edipo ripercorre, a sua insaputa, il percorso che va dal crimine alla restaurazione della legge e alla punizione, che assume egli stesso, in quanto il dramma si completa attraverso la sua castrazione. Tutta la dissimmetria tra il dramma di Edipo e quello di Amleto risiede in questo termine “a sua insaputa” che comporta, in fin dei conti, che l’enigma di Edipo non riguardi semplicemente il fatto che il soggetto abbia desiderato l’assassinio di suo padre e di possedere sua madre, ma che questo sia inconscio – così come è inconscio ciò che Freud chiama il declino dell’Edipo, la cui chiave risiede nel complesso di Ivi, lezione del 13 maggio 1959. Ivi, lezione del 29 aprile 1959. 31 Ibidem. 26 29 27 30 28 pierre bruno castrazione, conseguenza del lutto del fallo. Questo lutto del fallo è ciò che Lacan ha magistralmente riformulato sotto l’egida della metafora paterna, che instaura, nel registro generale dell’interdetto, una dissociazione, sotto la forma del fallo: “o il soggetto non lo è o il soggetto non lo ha”.32 Rispetto a Edipo dunque, ciò che è in gioco in Amleto è un altro rapporto al sapere, dunque all’inconscio, “un rapporto che è quello del soggetto alla verità”33 ultima fibra strutturale introdotta da Lacan. Per ciò che riguarda il sapere, il padre sa che è morto e lo fa sapere a suo figlio, sono dunque entrambi soli a sapere. È in questo quadro che si produce per Amleto un dramma rispetto alla verità, in una discordanza tra l’enunciazione e l’enunciato del padre morto. Da un lato, a livello dell’enunciazione, ciò che dice il fantasma a proposito del crimine e delle sue conseguenze – sapendo che, come sottolinea Lacan, “è generalmente risaputo che un morto non sa mentire”34 – è indubbio. Ma dice: “il tradimento è assoluto, non c’è nulla di più grande, di più perfetto del mio rapporto di fedeltà a questa donna. Non vi è nulla di più totale del tradimento di cui sono stato oggetto”.35 Così, a livello dell’enunciato, tutto ciò che afferma come verità (buona fede, fedeltà, voto) è posto per Amleto, non soltanto come revocabile, ma come irrimediabilmente revocato. “L’annullamento assoluto si sviluppa a livello della catena significante ed è qualcosa di completamente differente dalla mancanza di qualcosa che garantisce. Il termine garantito è la non-verità.”36 È da qui, da questa rivelazione paterna, che lo spirito di Amleto entra in una sorta di stupore. Lacan si dedica, di conseguenza, al mistero, così poco risolto dai commentatori del testo, della curiosa scelta fatta da Shakespeare sulla modalità del crimine: la fiala di veleno versata nell’orecchio del padre, del padre Amleto, ricordandoci che padre e figlio portano lo stesso nome. Lacan conclude, dunque, che vi è qui una struttura che non è soltanto fantasmatica, ma di natura tale da far luce sull’intenzione di Shakespeare nella relazione strutturale tra il desiderio e questa rivelazione, poiché “se vi è qualcuno che è avvelenato dall’orecchio, è Amleto, e qui, ciò che fa la funzione Jacques Lacan, Le Séminaire. Livre vi, cit., lezione del 17 giugno 1959. Ivi, lezione del 20 maggio 1959. 34 Ibidem. 35 Ibidem. 36 Ibidem. 32 33 padre e nomi-del-padre 29 di veleno è la parola del padre”.37 La chiave della tragedia consiste dunque nella totale identificazione dell’eroe al suo nome, Amleto è Amleto, ed è perché suo padre è stato già Amleto che si risolve la questione della relazione singolare di Amleto al suo desiderio, ovvero che venga abolito. Si chiarisce, allora, ciò che abbiamo lasciato in sospeso a proposito dell’assunzione problematica da parte di Amleto del suo atto: avvelenato, mortificato com’è dall’identificazione immaginaria ad Amleto padre, impedendo che la funzione paterna assicuri ciò che potremmo definire “la sicurezza del desiderio del soggetto”, di conseguenza fa da ostacolo a che il desiderio giochi la sua funzione, che è quella che permette al soggetto di contarsi, di designarsi senza svanire. Per concludere su questo punto fondamentale che implica la garanzia, non soltanto della verità, ma del soggetto stesso, senza dubbio possiamo riprendere la formula di Lacan che, a proposito di Amleto, mette in questione il padre simbolico in quanto tale: “Dio è scaltro, sicuramente egli è onesto. Possiamo dire altrettanto del padre?”.38 Ci si può allora domandare come l’atto divenga possibile e per quale errore Amleto arrivi a uscire dall’identificazione immaginaria al padre e da ciò che ne consegue, ovvero l’impossibilita del suo lutto. La scena del cimitero tra Amleto, Laerte e Ofelia morta è decisiva a questo proposito. A partire dall’approccio freudiano di Lutto e melanconia, possiamo dire che il lutto del padre non può compiersi poiché questo non si è costituito come oggetto (in effetti, il soggetto, preso in un lutto impossibile, come il soggetto melanconico, non sa che cosa ha perduto). Se a questo uniamo la tesi di Lacan secondo cui il padre non può costituirsi come oggetto se non dal punto in cui il soggetto scopre la possibilità di amare un oggetto esterno, non endogamo, capiamo che il padre assume per Amleto il suo statuto di oggetto nel medesimo movimento attraverso il quale Ofelia si costituisce per lui come oggetto perduto. Questo doppio movimento di lutto si opera in un rapporto passionale, prima tra Amleto e Laerte (una folle gelosia coglie Amleto, nel cimitero, quando assiste alle manifestazioni eccessive del lutto da parte di Laerte che stringe il cadavere della sorella), poi tra Ofelia e Amleto, quando lui stesso la stringe: “si precipita verso Laerte, dopo avere emesso un vero ruggito, un grido di guerra nel quale dice la cosa Ibidem. Ibidem. 37 38 30 pierre bruno più inaspettata: chi innalza simili grida di disperazione per la morte di questa fanciulla? Colui che grida sono io, Amleto il danese”.39 Vi è dunque un’identificazione, simbolica questa volta, e, attraverso questa, una filiazione. Così la analizza Lacan: “è nella misura in cui qualcosa, S̸, è in un certo rapporto con a che si opera bruscamente quest’identificazione che gli permette per la prima volta di ritrovare il suo desiderio nella sua totalità”.40 Per rispondere dunque alla questione iniziale – a partire da quale momento, in quale movimento, Amleto può uccidere Claudio? – Lacan ci dice che Amleto può riappropriarsi del suo desiderio nel momento in cui Ofelia si costituisce come l’oggetto causa di desiderio, ed egli può fare il lutto del padre. L’ultimo movimento è quello del lutto narcisistico, per il quale Amleto ucciderà Laerte, suo rivale, e infine Claudio, rivale del padre, non per conformarsi alla parola del padre ma come un atto ripreso a proprio conto. Amleto acconsente alla sua morte narcisistica nel momento in cui accetta la farsa costituita dal duello truccato contro il suo amico Laerte, nel quale lui, Amleto, si presenta come campione di Claudio: “al di là della parata del torneo della rivalità contro colui che gli è simile ma migliore, il suo stesso io così come può amarlo, al di là di questo, si gioca il dramma della realizzazione del desiderio di Amleto, il fallo si trova in questo al di là. […] Laerte mon fleuret ne sera que fleurette auprès du votre […] sono le condizioni stesse in cui il duello è ingaggiato; ovvero che Amleto non ha alcuna chance di vincere […]. Precisamente nel gioco di parole di Amleto vi è, in ultima analisi, identificazione del soggetto al fallo mortale”.41 Possiamo ora chiudere il cerchio, con ciò che sembra per Amleto l’impasse definitiva – ovvero l’avvelenamento attraverso la parola di suo padre – e operare una distinzione fondamentale tra Φ, S(A̸) e Nome-del-Padre. In effetti dal momento in cui non vi è più sapere garantito, Amleto passa all’atto accettando una farsa, un duello truccato, cosa che pone, in croce, la questione sullo statuto di tale sapere garantito nel quale è chiamata in causa la funzione paterna, e ci conduce a distinguere Φ e S(A̸): in effetti il padre simbolico può mettere in funzione la significazione del fallo, ma il fallo non può garantire la Jacques Lacan, Le Séminaire. Livre vi, cit., lezione dell’11 marzo 1959. Ibidem. 41 Ivi, lezione del 22 aprile 1959. 39 40 padre e nomi-del-padre 31 significazione ultima del discorso dell’Altro, o la risposta ultima, per il soggetto, alla questione del suo essere. S(A̸), questo non vuol dire che tutto ciò che succede a livello di A non vale nulla, ovvero tutta la verità è ingannevole […]. S(A̸) vuol dire questo: se A è, non un essere, ma il luogo della parola, S(A̸) vuol dire che in questo luogo della parola […] manca qualcosa. Qualcosa che non può che essere un significante vi fa difetto. Il significante che fa difetto a livello dell’Altro, e che dà il suo valore più radicale a questo S(A̸), è quello che posso dire essere il grande segreto della psicoanalisi […], non c’è Altro dell’Altro”.42 Questo ci permette di dire anche che in nessun caso il Nome-del-Padre può essere posto come Altro dell’Altro, e ci permette di evitare, allo stesso tempo, la lettura erronea che potrebbe essere fatta della conclusione, già citata, che chiude lo scritto Una questione preliminare ad ogni trattamento possibile della psicosi: “il Nome-del-Padre, cioè il significante che nell’Altro, in quanto luogo del significante, è il significante dell’Altro, in quanto luogo della legge.43 la colpa verso il padre e la colpa del padre A differenza dei due precedenti, non possiamo dire del Seminario vii, L’etica della psicoanalisi (1959-1960) che sia centrato attorno alla questione del padre e la sua funzione. A ogni modo – e abbastanza logicamente nella misura in cui il registro dell’etica è indissociabile dall’universo che l’esperienza analitica ha approfondito come universo della colpa – possiamo isolare un filo che attraversa tutto il seminario e incrocia la questione della colpa con quella del padre. Una delle dimensioni della colpa è quella designata dal grande mito freudiano nell’uccisione originaria, realizzata contro il padre, alla quale si collega la complessa problematica della genesi del Super-io; complessa per ciò che implica, non solo rispetto alla funzione del padre, ma anche ad altre nozioni più oscure come l’aldilà del principio di piacere e l’istinto di morte. Se ci si collega alla lettura che Lacan fa di Antigone – che egli quali Ivi, lezione dell’8 aprile 1959. Jacques Lacan, Una questione preliminare ad ogni trattativa possibile della psicosi (1957), in Scritti, cit., vol. ii, p. 579. 42 43 32 pierre bruno padre e nomi-del-padre fica come “punto di svolta”44 in materia di etica – per ciò che apporta alla questione paterna, possiamo dire che vi sono declinate, come causali del dramma, due articolazioni della colpa del padre. In primo luogo, Antigone, in quanto figlia nata dall’incesto, si inscrive nella maledizione di Edipo, anche se questa, in ultima istanza, ricade sui figli di cui uno è Polinice, per la cui sepoltura Antigone non cede in nome del fatto che questo fratello amato ha per lei il carattere unico di “essere legato allo stesso padre, il padre criminale del cui crimine Antigone sta subendo le conseguenze”.45 Può essere che convenga, a questo punto, domandarci dove si colloca, nel registro dell’etica, la colpa di Edipo: è quella di aver realizzato un crimine contro un uomo che non sapeva essere suo padre, o consiste nel punirsi, e in seguito punire la sua discendenza, di una colpa che non ha moralmente mai commesso? Senza dubbio possiamo trovare un abbozzo di risposta in un verso, che Lacan non manca di far notare, in cui si trova enunciato letteralmente: “Padre mio, perché mi avete abbandonato?”. L’altra versione della colpa del padre è incarnata da Creonte, quella che il significante greco designa come amartia, errore e, come aggiunge Lacan, “con un’inflessione in senso etico, errore di giudizio, potremmo interpretare”.46 Questo errore di giudizio trova consistenza nel rapporto di Creonte con la legge, che si rivela nel suo ostinato divieto di sepoltura di Polinice, “la legge senza limiti, la legge sovrana, la legge che deborda, passa il limite”47 – e si prolunga fino a condurre alla catastrofe finale, anche se Creonte sembra rettificarla, tornando sui suoi passi, rivedendo i suoi ordini, ma troppo tardi. Antigone, morta vivente, si è impiccata, fatto che conduce alla morte del figlio di Creonte, Emone, fidanzato di Antigone, quando, folle di dolore, esce dalla tomba: “si precipita sul padre, lo manca e poi si uccide”.48 L’ultima dimensione della colpa del padre nell’etica della psicoanalisi sopraggiunge alla fine del seminario, quando Lacan riprende la questione della genesi del Super-io, del Super-io edipico: “che nasca 44 Jacques Lacan, Il seminario. Libro Torino 1994, p. 309. 45 Ivi, p. 351. 46 Ivi, p. 327. 47 Ibidem. 48 Ivi, p. 340. vii. 33 al declino dell’Edipo vuol dire che il soggetto ne incorpora l’istanza”.49 Lacan l’annoda con la concezione freudiana del lutto – e più precisamente al lavoro del lutto che si applica a un oggetto incorporato al quale il soggetto non vuole tanto bene – per concludere: “se incorporiamo il padre per essere così cattivi con noi stessi è forse perché abbiamo, a questo padre, molti rimproveri da fare”.50 Lacan precisa la natura di tali rimproveri, che si inscrivono nella privazione del fallo inflitta al bambino dal padre, “ovvero il padre immaginario, il padre che lo ha, lui il ragazzo, così mal fatto”; privazione che porta avanti il lutto del padre immaginario, “ossia di un padre che sarebbe veramente qualcuno”; e che sarà il fondamento dell’immagine provvidenziale di Dio. Dunque, conclude Lacan: “la funzione del Super-io, in ultima analisi, nella sua prospettiva ultima, è odio di Dio, rimprovero a Dio di aver fatto così male le cose”.51 Tornando alla questione della colpa così come l’etica la mette in primo piano, e della colpevolezza come messa in luce dall’esperienza psicoanalitica, Lacan dà il suo statuto a ciò che chiama, per l’uomo comune, “esercizio del suo senso di colpa, riflesso del suo odio per il creatore, quale che sia – poiché l’uomo è creazionista – che l’ha fatto tanto debole e creatura insufficiente”.52 L’etica della psicoanalisi (1959-1960), Einaudi, Ivi, p. 385. Ibidem. 51 Ivi, p. 386. 52 Ivi, p. 388. 49 50 La legge, il nome, il numero La legge, il nome, il numero Federico Leoni Adamo diede un nome a tutte le cose, e questo è il suo diritto di sovranità sull’intera natura, la sua prima appropriazione di essa, ovvero la creazione della natura stessa da parte dello spirito […]. L’uomo parlando si rivolge alla cosa come alla sua cosa, e vive perciò in una natura spirituale, in un mondo che è suo, e questo è l’essere dell’oggetto. Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Filosofia dello spirito jenese Sembra che la scrittura non registri null’altro che il debito. Clarisse Herrenschmidt, L’Écriture entre mondes visibles et invisibles il nome, il furto, l’omicidio L’enigma del nome e l’enigma della legge sono strettamente intrecciati. Nei suoi scritti giovanili, Hegel riflette sul primo gesto compiuto da Adamo, quello di nominare le cose e gli animali di cui Dio l’ha circondato. È con questo gesto che Adamo si appropria del mondo, sottraendo in particolare gli animali alla loro vita iniziale, “divina”, di creature appena uscite dalla mano del creatore, e iscrivendoli nell’ordine del mondo umano. Il che significa anche: nell’ordine umano del “servire” e nella logica del “lavoro”, dell’arare la terra, dell’offrire cibo, del riprodursi come gregge, e così via. Inizia, dice Hegel in quelle pagine, il mondo dello spirito, che non è altro che questa opera di asservimento della vita divina a significati umani e alla produzione e riproduzione di quei significati. La vita nominata è, in altri termini e in linea più generale, vita sopravvissuta e votata a sopravvivere a se stessa in un nome. La “sovranità”, suggerisce Hegel, è la struttura peculiare della legge che così si delinea, grazie al fondamento del linguaggio e all’azione specifica che all’interno del linguaggio pertiene alla nominazione. Ma senza comprendere il nesso tra il nome e la morte non si intende la struttura di questa legge e della “sovranità” che essa comporta. A rimanere sullo sfondo di queste considerazioni hegeliane è, infatti, l’idea romantica della vita naturale, l’idea di una vita originaria e imprevedibilmente “bramosa”, come si legge nella Fenomenologia dello spirito. Quando il toro riceve da Adamo il suo nome, esso entra nell’or- 35 dine dell’umano uscendo dal mondo della vita “inquieta” e selvaggia. La vita del bue, cioè del toro transitato attraverso il linguaggio e “appropriato” nel nome, sarà ora quieta e utile, ordinata e asservita. In una parola, sarà vita dimidiata, divisa da sé, spartita in due facce, una rivolta all’uomo che la nomina, al linguaggio che la definisce, al regno dello spirito che essa dovrà servire; l’altra assegnata all’ombra che persiste dietro la superficie illuminata dal nome; o come spezzata in due tronconi, uno dei quali sarà assegnato all’umano, l’altro consegnato, in forma di resto, di scoria innominabile, ai margini dell’umano, non più vita divina e intatta e non ancora vita spiritualizzata e cioè messa al lavoro (spirito e lavoro, come vedrà Marx traendo da Hegel le estreme conseguenze, sono, in questo senso, esattamente sinonimi). Il nome, quanto a lui, non muore. Ancora nella Filosofia dello spirito jenese si legge una sentenza definitiva; sentenza di morte, a saperla ben leggere: “il nome in sé è durevole, indipendente dalla cosa e dal soggetto”.1 In altri termini, il nome è l’identico per antonomasia; ed è in questo senso l’universale, ripeterà Hegel nella Fenomenologia dello spirito (si vedano le celebri pagine sulla “certezza sensibile”). Proprio per differenza da questa infinita riproducibilità tecnica del nome (il nome è il primo stampo, la prima produzione seriale e “industriale”, il primo mass medium), la vita originaria e incommensurabile apparirà come vita mortale. Beninteso la vita era mortale anche prima di incontrare il gesto di Adamo, ma non c’era nulla di “stabile” rispetto a cui misurare quella fine; sicché qualcosa finiva, ma nessuno ne faceva esperienza, da nessuna parte questo scollamento tra un nome eterno e un portatore deperibile poteva trovare consistenza. Ora, invece, questo scollamento diventa un’evidenza e un dato di fatto. Il nome le sopravvive, e da questo contrasto deriva che la vita nominata risulti vita finita. La morte è un effetto del nome. Il lavoro dello spirito non è che questa messa della vita al lavoro nella morte. Morte dialettica, non reale, commenterà Hegel nella Fenomenologia. Il che non è una consolazione, perché la morte reale è semplicemente accidentale, e chi muore solo realmente non sa di andare incontro alla morte e dunque non sta già sempre morendo, come invece accade a chi ha ricevuto il dono avvelenato del linguaggio. Costui non va semplicemente incon1 Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Filosofia dello spirito jenese (1803-1806), Laterza, Roma-Bari 1984, p. 25. 36 Federico Leoni tro alla morte, ma è già da sempre morto nel suo nome, e vivente solo a margine di esso, in una regione innominata e muta. Ma in questo mondo arcaico del nome e della legge del nome, la morte è presente sulla scena in altra forma ancora. Ne sono testimonianza tutti i miti più antichi, come Károly Kerényi ha mostrato nel suo magistrale saggio su La sacralità del pasto. “L’accensione del fuoco e l’uccisione dell’animale sono per l’uomo antico atti spaventosi, empi, sono irruzioni nella compagine divina, significano un taglio, uno smembramento sul corpo di ciò che è organicamente cresciuto, e sono perciò di carattere fondamentalmente sacrilego”.2 Nei termini hegeliani, si potrebbe dire che chi nomina un animale iscrivendolo nell’ordine dello “spirito” separa dalla grande stoffa della natura un ritaglio di vita, perciò stesso uccidendolo o mostrandolo nella sua costitutiva mortalità. Lo fa suo, sottraendolo al grande corpo della natura. Dunque commette una colpa e si ritrova nella posizione del debitore (le due cose sono una). Deve restituire il maltolto, pena l’ira degli dei. La legge del nome, nominando la vita uccisa (“bue”) e obiettivandola, ne fa anche un “bene” sottratto al patrimonio (o al matri-monio) originario. Il nome introduce, cioè, la possibilità inedita del furto e/o dell’omicidio. Il nome è il loro trascendentale, si direbbe nella lingua della metafisica classica. Un animale che sbrana la sua preda non “ruba” e propriamente non “uccide”, perché non ha modo di vedere, nel nome e in virtù della differenza che esso attesta tra il nome stesso e la vita originaria, l’oggettività della cosa rubata e l’oggettività del cadavere della bestia uccisa. La inghiotte senza residuo, piuttosto; e se c’è un residuo è un residuo innominato, dunque inesistente ai fini della sua esperienza della situazione. Solo l’uomo, che nomina, uccide e ruba, e cioè vive nella dimensione del debito; ovvero, potremmo dire chiudendo il cerchio, nella dimensione del lavoro e dello spirito, come poco fa dicevamo. La legge del nome è quindi ciò che introduce quella necessità della restituzione su cui si sofferma Kerényi, senza vederne la radice “archeologica”. Simmetricamente, Hegel vede bene questa radice archeologica, senza però ricavarne conseguenze rispetto alla sua filosofia della religione: per esempio, rispetto al tema, centrale nella sua interpretazione del passaggio da paganesimo a cristianesimo, della “risoluzione” Károly Kerényi, La sacralità del pasto, in Id., Miti e misteri, Einaudi, Torino 1950, p. 184. 2 La legge, il nome, il numero 37 dell’invidia degli dei, e della venuta al mondo di un dio che non invidia più, cioè che non assegna più ai mortali la posizione di coloro i quali lo hanno “offeso”, rubando evidentemente qualcosa di suo o attentando alla sua vita sovrana. La restituzione di cui parliamo, in ogni caso, non è che il ripristino della vita originaria: il frammento ucciso torna a far parte del tutto. L’uccisore, che proprio in quanto uccisore è un morto egli stesso (è un uomo “maledetto” in quanto si è posto da sé nella schiera degli attentatori al corpo della madre, ovvero si è sottratto alla continuità con quel corpo che ora gli sta di fronte come un oggetto o un bersaglio) torna così nelle grazie degli dei. Così la legge del nome parla di morte e circolarità, di un furto di vita e di una necessaria restituzione di quella vita. E ogni gesto umano, proprio perché oggettivante-appropriante, si dà a vedere come un gesto che distrugge il sacro e che deve dunque ricostruire il sacro, proprio per averlo distrutto e proprio per votarsi a distruggerlo nuovamente. Ogni gesto umano deve, cioè, in un modo o nell’altro, restituire ovvero sacrificare. Resta, peraltro, il fatto che il nome ha aperto una frattura insanabile tra la vita originaria e la vita “spiritualizzata” e messa al lavoro. Resta, cioè, qualcosa che è dell’ordine del resto: inassimilabile, refrattario a qualsiasi tentativo di “sanatoria”, insalvabile. L’elemento maledetto è perciò la fonte di un’infezione perenne. Implica la necessità logica della restituzione, e la necessità altrettanto inaggirabile del fallimento di ogni restituzione. La vita che l’uccisore restituisce alla natura è vita nominata e finita, strutturalmente impari alla vita innominata e infinita che il nome ha “ferito”. Il dislivello non potrà chiudersi mai. Allo stesso tempo, proprio perché il cerchio non si può chiudere e il debito non si può onorare, seguita a girare secondo una sua misura rigorosa, definita, ai nostri occhi quasi apollinea. L’impossibilità di rispondere del debito regola il debito rendendone possibile la restituzione (possibile in quanto impossibile, appunto). Ciò che si restituisce, è appunto questo: che non si può restituire. La restituzione è un atto puramente simbolico. A suo modo, è la restituzione di un nome, non di una cosa. È l’enunciazione di un atto, non la sua concreta realizzazione. Kerényi scrive ancora lucidamente: “Al pasto sempre si invocavano e quasi si invitavano gli dei o una divinità: essi ricevevano sempre la loro parte, almeno nella forma di una libagione di vino simbolicamente versata per terra”.3 La restituzione è Id., op. cit., p. 182. 3 38 Federico Leoni qui un simbolo, cioè coincide con l’iscrizione di un’azione nello spazio di un limite inaggirabile, in virtù del quale l’animale divenuto simbolico non agisce più, ma compie gesti muovendosi come in cerchio. vita senza debiti Una cosa è nominare, altra cosa contare. Sembra che la scrittura sia nata nel segno della necessità di conteggiare (gli armenti, per esempio, di ritorno alla stalla dopo il pascolo; oppure i sacchi di grano nei granai della Mesopotamia, e così via). A ogni pecora, o a ogni vacca che rientra, un sassolino viene aggiunto in una ciotola. A ogni pecora o vacca che esce, un sassolino viene tolto dalla stessa ciotola (o “bolla”: si veda il bel libro di Clarisse Herrenschmidt citato in esergo). La scrittura dunque non registrerebbe in origine la voce e il linguaggio, almeno in quest’area geografica e in questo tempo storico. La legge che qui si scrive è, a sua volta, molto diversa dalla legge della parola. In breve, si apre qui la possibilità di una restituzione esatta, perfetta, definitiva. Il cerchio, qui, finalmente è messo in condizione di chiudersi. Il che significa più esattamente: non si tratta più di un cerchio, ma di una linea. Non c’è più il corpo della madre natura, di cui ogni oggetto è la refurtiva indebitamente detenuta da un ladro e assassino. La nominazione ha dapprima reso disponibili gli “oggetti” che i sassolini poi conteranno. Senza nominazione, nessun conteggio. Serve avere il nome “pecora” e il nome “sassolino” per potere anche solo pensare di assegnare a ogni pecora un sassolino, e alla stalla la trascrizione “insiemistica” della ciotola. D’altra parte, se il nome ha consegnato il nominato alla morte, e ha consegnato il nominante al suo destino di debitore, il conteggio con i sassolini apre a una logica essenzialmente diversa e a una legge imparagonabile con quella della parola. Il nodo, in virtù del quale solo l’insanabile poteva essere sanato, solo l’uomo maledetto doveva e poteva, sacrificando, aspirare alla giustizia, si scioglie definitivamente. Il debito qui è già da sempre sanato, e la restituzione è ogni volta perfettamente calcolabile e garantita. A ogni pecora che esce, un sassolino in meno; a ogni pecora che torna, un sassolino in più. Ogni equazione, dalla più elementare alla più complessa, assume come risolta l’equivalenza dei suoi due membri. L’equazione scrive La legge, il nome, il numero 39 anzitutto un “uguale”. Dove e quando l’uguaglianza si verificherà, questo è in fondo insignificante, dato che si sta assumendo che essa è la vera variabile indipendente, da cui tutte le altre dipendono. Farla finita con il debito e con la colpa, questa è in fondo la promessa di quei lontani sassolini iraniani. Il futuro non è più il ripristino circolare del passato (circolare perché la restituzione, in quanto impossibile, torna sempre su se stessa). Il futuro è aperto e indeterminato, potremmo dire con parole che ci sono familiari e che suonano sempre virtuose e apprezzabili. I moderni, con i loro straordinari pallottolieri elettronici, sono “liberi” proprio in questo senso; nel senso cioè che sono assoggettati a una linea anziché a un cerchio, e che sono determinati da questo loro essersi già da sempre “sdebitati”. Nell’uno come nell’altro caso, a governare il senso delle leggi e a fissare una morale per gli uomini sono i segni che gli uomini suppongono di usare, e da cui sono semplicemente usati. Servirebbe in realtà un’archeologia complessa del debito e delle sue scritture, in luogo dello schema dicotomico e semplicistico ora adottato: nome versus numero, linguaggio versus aritmetica. Limitiamoci qui a notare, sul filo di queste due grandi modalità di iscrizione del debito e di frequentazione umana del segno, che la parola uccide, non i sassolini. Con i “calculi” la morte esce di scena, e con la morte esce di scena il dislivello incommensurabile tra il morto e il vivo, oltre che la logica stessa del debito che ne governa la differenza e ne determina le rispettive posizioni e significati. Si entra in una zona di indistinzione tra la morte e la vita, e contemporaneamente la colpa si “laicizza”. Il debito non riguarda più un’etica sacrificale ma un’aritmetica facilmente calcolabile. Dato che non c’è più la grande madre, a cui si ruba, o il padre e sovrano, che si uccide violando la madre, non ci sono che figli; e dato che non ci sono che figli, questi non possono, ovviamente, sentirsi figli. La forma di potere che Hegel chiamava “sovrano”, legandola o derivandola dall’azione trascendentale del nome, tramonta più o meno definitivamente. Ideologicamente, questo equivale al grande sogno umanistico, e poi illuministico, che le singole donne e uomini siano degli “assoluti” (Pico della Mirandola), dei “fini in sé” (Kant). Economicamente, questo significa che quelle donne e uomini, in quanto sono, appunto, strutturalmente “assolti” dalla relazione del nome, sono anche consegnati al destino di un consumo senza restituzione. Antropologicamente, si 40 Federico Leoni dovrà dire che l’umanità che abita il mondo muovendosi anzitutto nel medium della parola è un’umanità che forgia i suoi soggetti nella prova della morte e del debito come colpa ontologicamente insanabile. L’umanità che calcola il debito, supponendolo già da sempre pareggiato, cancella l’esperienza della propria morte e della morte dell’altro, e presuppone perciò la possibilità di un furto infinito in quanto la propria stessa vita di “restitutore” diviene, grazie alla potenza “aritmetica” del numero e alla struttura d’esperienza che ne deriva, linearmente infinita (il “cattivo infinito” di hegeliana memoria, il “consumismo” di cui si parlava negli anni sessanta, la società “liquida” di cui scrive Bauman). Ciò non significa, purtroppo, che non si muoia, in un’umanità di questo genere, o che non si sperimentino, in una qualche forma, la stretta al cuore della colpa e del debito. Semplicemente, è sempre un altro soggetto, è sempre un luogo ulteriore ed è sempre un futuro lontano, ad apparire tanto come colui che porta quanto come colui che sana quella colpa e quel debito. Il nostro inconscio non è più strutturato come un linguaggio, ma come un’aritmetica. O meglio: anche come un’aritmetica. Di qui l’allegria di naufragio del nostro tempo, e l’impressione che esso sia, felicemente o infelicemente, ex lege, consegnato a un perenne stato di eccezione. Al contrario: esso è schiacciato dalla legge. Solo, da una legge diversa e incommensurabile rispetto a quella del nome e di quella specifica forma di potere, la “sovranità”, che ne deriva. Il potere del nostro tempo non si scrive al futuro, come possibilità che il padre-sovrano o la madre-natura ci chiedano indietro la vita a saldo delle nostre colpe, ma si scrive propriamente fuori dal tempo. Se un tempo il presente era l’attesa di una restituzione rinviata al futuro prossimo e in quel futuro esso trovava la propria peculiare “consistenza”, oggi il presente è l’assoluto che non deve relazionarsi ad altro per “consistere”, poiché il pareggio è già da sempre assicurato. Il cerchio in cui agiva l’animale divenuto simbolico si traduce in una linea, o forse in un punto senza storia e senza orizzonte. Appunto questa è la nostra legge, non meno implacabile di altre, tanto da aver ridotto al silenzio e all’assenza di ogni reale capacità di presa sociale, politica, economica, la legge del nome e il potere del linguaggio. Ciò, peraltro, senza che la legge “sovrana” del nome cessi di reggere settori non esigui della nostra esistenza, generando stratificazioni e contaminazioni tra livelli di senso non facilmente go- La legge, il nome, il numero 41 vernabili. Altrove, nel luogo in cui la legge sovrana del nome poneva il cumulo mitico del patrimonio (o del matri-monio) a cui sacrificare e restituire, l’equazione ha già predisposto l’uguaglianza. È in quella terra di nessuno che oggi, come direbbe Heidegger, “si muore”: cioè, è in quella terra che muore il “si” impersonale del “si dice”. Terra in cui “io” o “tu” non possiamo morire e non possiamo trovare un senso al nostro morire, dato che “io” e “tu” continuano a morire nel solito vecchio luogo del nome. La vita stessa, infine, non ha più un luogo proprio, mancando ormai la differenza costitutiva di quella morte incombente di cui il mondo sacrale incontrava ovunque le testimonianze. Essa si presenta non più come quella vita strutturalmente “sopravvivente” che era la vita catturata nel nome e nel debito insanabile della propria restituzione, ma come una vita “assoluta”, di nuovo; e cioè, in questo caso, priva di rovescio e di alterità. Ciò ci dispone a pensare, appunto, la vita come assoluto e come valore fondante ogni altro valore, come ogni discorso pubblico oggi testimonia alla nausea. Salvo che, ancora una volta, questo è un effetto dei segni con cui noi scriviamo il debito cancellandolo, e una vita assoluta non è, in effetti, nulla più che uno spazio bianco o un piano perfettamente inospitale per quei soggetti “nominali”, cioè nominati e dunque nominanti, che noi continuiamo per certi versi a essere. Per bene che vada, questa vita assoluta diverrà il supporto di rivendicazioni meramente ideologiche; nell’ipotesi peggiore, essa sarà ciò che le nostre scritture producono di fatto, e di fatto ci assegnano come stanza e destino; il nostro nuovo assoluto, a cui ogni relativo dovrà essere, beninteso, accuratamente subordinato; o in cui ogni relativo dovrà essere, più esattamente, “tolto”. la relazione con l'altro e le radici soggettive… La relazione con l’altro e le radici soggettive, psicologiche del senso di legalità Sarantis Thanopulos l’anomia del desiderio e il senso di responsabilità L’essere umano nasce nell’anomìa, la mancanza assoluta di regole. Pur avendo la capacità di discriminare gli stimoli e di avere una distinta percezione delle cose, non è in grado di organizzare la sua esperienza sulla base di una sua differenziazione dall’ambiente che lo circonda e lo accudisce. Di conseguenza non può riconoscere le limitazioni cui soggiace la sua esistenza come regole che gli sono comunicate e imposte da un’autorità esterna. L’“altro”, colui che definisce con la sua presenza diritti, doveri e obblighi, è di là da venire. Per di più le limitazioni stesse non si configurano sul piano psichico come tali. La particolarità irripetibile dell’intesa primaria tra la madre e il bambino (basata sulla capacità di lei di identificarsi con i desideri di lui e di trovarsi sempre nel punto dove lui immagina di trovarla), trasforma il reciproco condizionamento (di cui il bambino nulla sa) in un mutuo regolarsi creativo, che non tiene conto di altro che dell’esigenza di entrambi che il gioco dell’incontro continui. Questo gioco, che è unico e irripetibile, fonda il luogo che sarà in seguito occupato dalle regole che rendono possibile la convivenza con l’altro, quando quest’altro sarà finalmente riconosciuto come tale. Crea, inoltre, la creatività del bambino (le soluzioni creative spontanee e intimamente personali con cui lui raccorda il movimento del suo corpo desiderante a quello della madre). La creatività che prende forma agli inizi della vita costituisce il nucleo originario, inaccessibile a ogni influenza esterna, della soggettività. 43 Il soggetto autoreferenziale delle origini, soggetto in divenire, è profondamente isolato, non comunicante in senso vero e proprio, come sostiene Winnicott.1 La sua relazione con il mondo che lo circonda è intensa ma silenziosa, una comunicazione tra sé e sé. Il desiderio che lo anima non conosce limiti alla sua soddisfazione che è immediata e piena, grazie alla continuità e all’efficacia della presenza materna. Tuttavia questo desiderio, la cui unica legge è l’onnipotenza, cresce a stretto contatto con il corpo materno e ne assume l’impronta. Questa impronta iscrive nel desiderio l’alterità che esso ancora ignora sotto forma di presentimento. L’altro che verrà è fin dall’inizio lì, in attesa di essere scoperto, nel luogo di un incontro che non è possibile se soggetto e oggetto (ancora misconosciuto) del desiderio non sono pienamente vivi e desideranti. Il fondamento primo delle regole è dunque un regolarsi che non conosce regole, perché è un movimento che crea arbitrariamente l’oggetto come parte di sé. L’alterità è vissuta e iscritta come estensione della propria soggettività cosicché la limitazione che la presenza di una soggettività altra determina non è mai solo restrizione delle proprie possibilità, è anche allargamento dei propri confini. La presenza dell’altro fa gradualmente irruzione nella vita del soggetto in coincidenza con il progressivo allentarsi delle cure materne. L’autoreferenzialità psichica del bambino si scontra con la sua impotenza biologica e il sentimento di onnipotenza si trasferisce nel gesto (suoni, movimenti, espressioni mimiche) attraverso il quale cerca di condizionare la madre, riconoscendo la sua separatezza da lui ma pretendendo di sottoporla al suo dominio. Il desiderio prende la forma di una passione spietata che non riconosce la soggettività del suo oggetto e odia tutte le sue manifestazioni. È l’odio la prima forma di riconoscimento del fatto che quell’altro, che è della nostra stessa materia, inizialmente considerato come nostra parte e successivamente trattato come possesso, esiste con modi di funzionamento propri che sono irriducibili al nostro desiderio. Se la madre (come normalmente accade) da una non rinuncia alla sua libertà e autodeterminazione ma dall’altra mantiene un costante interesse per il figlio, l’odio informa quest’ultimo che è proprio la soggettività odiata di lei che la rende viva e desiderabile. Il bambino scopre, in questo modo, che ama la madre 1 Donald Woods Winnicott, Comunicare e non comunicare. Note su due opposti, in Id., Sviluppo affettivo e ambiente: studi sulla teoria dello sviluppo affettivo (1957), Armando Editore, Roma 1970. 44 sarantis thanopulos per la stessa ragione per cui la odia: per la sua libertà e indipendenza senza la quale lei sarebbe un oggetto inerte nelle sue mani. La passione scopre di nutrirsi della cosa che la limita: la soggettività del suo oggetto. Preservare il suo oggetto dai suoi eccessi diventa la condizione necessaria della sua soddisfazione e persistenza ed è così che nasce il desiderio responsabile. La passione diventa la condizione del senso di responsabilità e viceversa. Il senso di responsabilità nei confronti di ciò che desideriamo è il principio etico per eccellenza e fonda il rispetto nei confronti dell’altro sulla godibilità effettiva della relazione con lui. L’alternativa al desiderio responsabile è la necrofilia, la riduzione dell’oggetto desiderato a cosa manipolata, priva di vita propria. la costituzione antinomica della soggettività Il gesto con cui il bambino cerca di catturare lo sguardo della madre e legarla al suo desiderio lo proietta per sempre in uno spazio relazionale, agganciando il suo destino a quello di un soggetto altro da sé. Il gesto del bambino deve farsi catturare dal gesto della madre perché lei diventi appropriabile ed egli si trovi definitivamente spostato dal nucleo originario autoreferenziale della sua soggettività. Esposto al rischio dell’alienazione, della caduta senza speranza nel campo altamente strutturato della soggettività materna, il soggetto in gestazione trova un equilibrio funzionale collocandosi in posizione isterica. S’identifica con la madre mantenendo, al tempo stesso, la propria differenza, fa suo il discorso di lei senza rinunciare al proprio. Usa l’identificazione con la soggettività materna per creare un’estensione potenziale, sperimentale della propria. Mettendo in tensione interna il suo e un altro modo di essere trasforma il suo essere nella mancanza, di cui comincia a rendersi conto, in apertura verso il mondo che lo circonda. L’identificazione isterica con la madre va di pari passo con la costituzione graduale di un senso di responsabilità nei suoi confronti; è attraverso l’assunzione sperimentale, in transizione, di lei nel suo modo interno che il bambino impara a conoscerla nella sua diversità e a proteggere questa diversità come garanzia di un incontro vero. Il processo di graduale modulazione tra amore possessivo che non si la relazione con l'altro e le radici soggettive… 45 preoccupa della soggettività del suo oggetto, e senso di responsabilità, è fondamentale nell’elaborazione del lutto: il primo, che rifiuta l’esistenza separata dell’oggetto come soggetto altro, prolunga l’esistenza psichica dell’altro come parte di sé e il secondo, che riconosce l’esistenza di una soggettività separata da sé, consente l’accettazione di un distacco graduale dall’oggetto desiderato. Il prolungamento dell’esistenza dell’oggetto dentro di sé rende possibile un’identificazione permanente (interiorizzazione) con una parte delle sue qualità. Il distacco dall’oggetto, nella direzione opposta, non è possibile senza l’accettazione che una parte significativa delle sue qualità sono sua esclusiva proprietà (esteriorizzazione del rapporto con il mondo che porta il soggetto decisamente oltre l’autoreferenzialità). Il lutto si compie quando una parte dell’oggetto è assunta stabilmente nel mondo interno del soggetto e un’altra resta definitivamente parte del mondo esterno accessibile all’uso e al godimento. La madre (oggetto primo) può finalmente essere compiutamente riconosciuta nella sua distinta identità che deve essere rispettata e protetta, ma a condizione che sia stata in parte interiorizzata. L’esistenza della madre interna rende realmente viva (profondamente coinvolgente) la relazione con la madre esterna (e con l’ambiente complessivo che essa rappresenta) e, viceversa, è una relazione realmente viva con la madre esterna che permette la costituzione di quella interna. Tra la madre interna (l’oggetto come parte di sé) e la madre esterna (l’oggetto di una relazione di desiderio) si mantiene un raccordo costante che tiene insieme due opposte prospettive: la relazione non differenziata con la realtà (l’essere in comunione parziale o totale con il mondo circostante) e la relazione differenziata con essa (essere attori consapevoli della propria individualità sulla scena del mondo). Questo raccordo è operato dall’identificazione isterica, che è insieme identificazione e relazione con l’altro. Essa è un ponte verso l’alterità che una volta compiuto si costituisce come struttura psichica permanente che unisce due opposte dimensioni della soggettività: quella autoreferenziale fondata sull’anomia del desiderio e quella che riconosce l’alterità e accetta le limitazioni che questo riconoscimento comporta. Questo è un punto fondamentale per la comprensione delle basi psicologiche del senso di legalità. A partire dal compimento del lutto originario e la costituzione dell’identificazione isterica come struttura psichica permanente ogni danno e perdita dell’oggetto (che si tratti di 46 sarantis thanopulos una persona cara, di un oggetto estetico, di un sodalizio, di un interesse collettivo) saranno elaborati nella vita successiva dell’individuo secondo due prospettive interdipendenti di riparazione: la riparazione di una ferita narcisistica che privilegia il danno del soggetto, e fa rivivere ciò che è perduto dentro di sé, e la riparazione dell’oggetto attraverso il suo ritrovamento o la sua riconfigurazione, che è sempre un rinnovamento, nel mondo esterno. Il nostro modo di interpretare la legalità si allontana dal cinismo o dall’ipocrisia sociale proprio dove diventa chiaro sia che il danno interno non è riparabile, se l’oggetto resta danneggiato nel mondo esterno, sia che la riparazione dell’oggetto è priva di validità se l’interesse narcisistico, autoreferenziale nei suoi confronti, resta ferito. Il senso di legalità è autentico se il soggetto riesce a soddisfare sia l’anomìa del suo desiderio (la passionalità delle sue azioni) sia il suo senso di responsabilità (l’azione che tiene conto del desiderio dell’altro). L’identificazione isterica crea dentro il soggetto un luogo intermedio, che è la cerniera della costituzione antinomica della soggettività, in cui la differenza tra sé e l’altro è insieme riconosciuta e sospesa. È qui che l’azione del soggetto acquista il suo significato. Il significato dell’azione richiede la presenza dell’altro perché il soggetto autoreferenziale non ha percezione della sua particolarità e il suo agire è impersonale. Sennonché il riconoscimento dell’altro diventa possibile solo dove l’identificazione con lui lo evidenzia come omogeneo alla materia della soggettività e come co-costitutivo di essa. La contemporanea identificazione e differenziazione con l’altro rende l’azione significativa perché da una parte estende l’esperienza soggettiva nel campo dell’universalità e dall’altra le conferisce il suo carattere particolare. L’azione significativa, azione dotata di un significato che è insieme personale e condivisibile, quindi non puramente esistenziale (manifestazione spontanea dell’essere che nulla intende comunicare), è un’azione sospesa nella sua effettività, nel suo effettivo compimento. Riprendendo la nota affermazione di Aristotele nella Poetica, che la poesia tragica descrive i fatti come potrebbero accadere (laddove la storia descrive ciò che è effettivamente accaduto), si può dire che l’azione del soggetto assume significato non dove il soggetto fa concretamente una cosa bensì dove l’azione diventa sperimentazione interna di una possibilità, decisione sulla propria posizione nel mondo. La soggettività può essere espressa attraverso quello che l’essere umano la relazione con l'altro e le radici soggettive… 47 effettivamente fa ma non è ciò che l’essere umano fa bensì il come lo potrebbe fare. Nella prospettiva di Aristotele è l’azione nella sua potenzialità, messa in scena dai poeti tragici (ma, potremmo aggiungere, da ognuno di noi nei nostri sogni), che dà accesso all’universalità, mentre i fatti presi nel loro reale accadere sono eventi singoli, accidentali. Sul piano del comportamento gli esseri umani ripetono schemi tipici della loro specie, privi in sé di significato soggettivo, ma si differenziano tra di loro diventando soggetti, invece che membri di una specie, quando sospendono la realizzazione impersonale, puramente fattuale delle loro azioni per farne il luogo dell’incontro con altre soggettività. Il luogo dell’incontro tra il particolare e l’universalità è il baricentro mobile della soggettività nel punto in cui la dislocazione che le imprime il legame con l’altro la rende per sempre eccentrica rispetto al suo nucleo originario isolato e non comunicante. L’universalità tragica, che non è l’universalità generica dei comportamenti umani ma ha la sua sede nel cuore di ogni singolo modo di essere, cambia il significato usuale del nemico e della fraternità. Il nemico non è un oggetto esterno che unisce i fratelli tra di loro e definisce la loro unione. Egli è, al tempo stesso, dentro e fuori la comunità dei fratelli, è co-costitutivo della loro relazione. Il senso di responsabilità che si stabilisce tra di loro è un derivato diretto della responsabilità nei confronti del nemico che si costituisce permanentemente come nemico-fratello. Il complesso psichico del fratello-nemico, che si costituisce nel rapporto con i fratelli di sangue ma ha le sue radici nei conflitti concernenti l’affermazione della propria identità nel rapporto con la madre, mette in crisi l’affascinante ma fuorviante lettura che Hegel fa di Antigone nell’Estetica, ponendo l’accento sul conflitto tra diritto di Famiglia e diritto di Stato. Antigone non è colei che onora i vincoli del sangue, gli dei inferi, in contrasto con Creonte che onorerebbe Zeus, la potenza che regge la vita pubblica, il bene comune. Il suo gesto di ribellione afferma, al contrario, l’essenza del nomos che definisce la possibilità stessa dell’esistenza di una comunità: il rispetto nei confronti del nemico in quanto fratello. La morte di Polinice restituisce alla città il cadavere non di un nemico ma di un fratello. L’atto di generosità che Creonte non compie, Antigone lo invoca come atto d’amore, indicando che l’odio deve servire l’amore. Il punto centrale di ogni senso della nomìa, della legalità, è il lutto nei confronti dell’og- 48 sarantis thanopulos getto amato e odiato. L’odio informa l’amore sulla necessità di riconoscere la diversità di ciò che ama, di imparare a rispettare ciò che gli è nemico. L’elaborazione luttuosa della perdita dell’altro desiderato, (perduto a causa della sua odiosa diversità) che da una parte lo trasforma in oggetto interno e dall’altra parte gli restituisce la sua esteriorità, afferma le ragioni del desiderio nella relazione con il fratello-nemico. Ciò che Antigone afferma sono le condizioni essenziali del senso di legalità: – si odia ciò che si desidera; – il nemico è sempre un fratello (un oggetto desiderato che fa permanere le ragioni del nostro desiderio in condizioni avverse); – il lutto del nemico trasforma la passione del possesso (il nucleo narcisistico della fraternità) in desiderio responsabile (la fraternità aperta ai nemici) che preserva il suo oggetto; – il desiderio è la condizione del senso di responsabilità e viceversa. la legge del padre Il padre è prima di ogni altra cosa garante del godimento, della possibilità del bambino di godere intensamente delle cose che l’ambiente mette a sua disposizione a partire dal corpo materno. Il godimento non ha nulla di minaccioso in sé: è un’esperienza di appagamento sensuale, psicocorporeo, il cui esito soddisfacente dipende da tempo, ritmo, intensità e profondità. Non è illimitato, ha un inizio è una fine. Dà senso all’esistenza, nella costanza e regolarità della sua realizzazione è radicato l’essere, il nucleo della continuità e autenticità della nostra esperienza. L’idea che l’evoluzione del bambino passa attraverso la rinuncia di godimento in sé porta a una concezione della sublimazione secondo la quale rinunciare a una quota consistente del piacere è la premessa necessaria per accedere a relazioni socialmente costruttive o, per dirlo in un altro modo, all’ordine del simbolico. In realtà, a pensarci bene, il processo di sublimazione non è rinuncia al piacere in sé (che mai è illimitato) ma alla sua realizzazione immediata, automatica e costante e, inoltre, segue il processo di separazione dalla madre. Quest’ultima non si separa dal figlio perché deve educarlo alla sublimazione del desiderio ma perché uscendo dall’identifica- la relazione con l'altro e le radici soggettive… 49 zione con lui, durata il tempo necessario di una quasi totale dedizione, si riappropria della sua libertà. Ciò accade in coincidenza con la sua percezione che il figlio sta diventando di una complessità cui non può rispondere come prima (con continuità e immediatezza). La non immediatezza della soddisfazione del desiderio (che avvia l’accesso del bambino al principio di realtà) è posta dalla madre sul piano di una reciproca libertà, che implica il riconoscimento della differenza e il riconoscimento dell’alterità. Questo processo di emancipazione materna dall’attaccamento iniziale al suo bambino, che modera ma non annulla la devozione, si incontra con il movimento di lui verso la costruzione di un desiderio responsabile nei confronti di lei che rispetta la sua soggettività. In contrasto con il godimento vero che fa della limitazione della sua ripetizione la condizione, a lungo andare, della sua effettiva realizzazione, esiste un godimento maligno che nega la libertà e la differenza e fa del partner un oggetto autoerotico. Qui il godimento non ha a che fare con il coinvolgimento psicocorporeo profondo, che dopo l’adolescenza trova la sua massima espressione nell’orgasmo; tende, invece, alla scarica in superficie. Non cerca un appagamento reale ma mantiene uno stato di eccitazione il più a lungo possibile. La natura di questa eccitazione è mortifera: deriva da una paura della vita dentro di sé e dentro l’oggetto del desiderio e serve a sostituire con un’artificiosa vitalità la vita stessa. La madre che non riesce a riconoscere la differenza e la libertà del figlio, trattandolo come protesi del proprio desiderio, non gli consente di dispiegare nei suoi confronti un desiderio spietato, “irresponsabile”, per arrivare, in un secondo tempo, a mettere insieme passione e responsabilità. Il figlio che sente la censura del proprio desiderio da parte della madre sviluppa un senso precoce di colpa che anticipa il senso di responsabilità e lo sostituisce falsificandolo. La relazione di godimento reciproco tra la madre e il figlio è indirettamente modulata dal padre. In questa relazione il padre è presente attraverso l’investimento erotico della madre nei confronti dell’uomo. Questo investimento è la cosa che allontana maggiormente la madre dal legame passionale con il figlio (nel quale convergono sia l’amore spietato con cui lui reagisce al loro distacco sia la tendenza di lei a ignorare la crescente autonomia di lui). Esiste un “altro” nel desiderio della madre (altro rispetto al bambino e altro rispetto alla madre stes- 50 sarantis thanopulos sa), corrispondente al “padre della preistoria personale” ipotizzato da Freud, che è nel cuore della spinta che la porta a ridurre l’intensità del suo investimento nei confronti del suo bambino. Il bambino s’identifica con questo altro nella madre, non ancora riconosciuto come “terzo”, per dare espressione alla propria crescente differenza rispetto al desiderio materno, lo usa come segno della differenza all’interno della loro relazione diadica. Identificandosi con la prefigurazione del padre il bambino inserisce nell’identificazione narcisistica con la madre (la prima reazione all’incombere della loro separazione) un rapporto differenziato accedendo in tal modo all’identificazione isterica. Senza la presenza di un padre capace di rivendicare e di conquistare una parte espressiva del desiderio della madre, l’identificazione reciprocamente isterica tra quest’ultima e il figlio, che mantiene insieme legame e libertà, diventa impossibile. Quando, e nella misura in cui questo effettivamente accade, il soggetto in gestazione resta prigioniero di una relazione priva di prospettive di differenziazione e il suo godimento si snatura. L’impedimento della relazione erotica incestuosa (indifferenziata) tra il bambino e la madre che il padre opera, sposta l’asse del complesso di castrazione dal rischio preedipico di una severa limitazione (intrusione) del desiderio del primo da parte del desiderio della seconda alla definizione edipica degli investimenti erotici, che trasferisce la realizzazione del desiderio incestuoso (nella sua versione indifferenziata che riguarda la madre e nella sua versione differenziata che riguarda entrambi i genitori) nel campo onirico. Separando il bambino dalla madre e procurando a quest’ultimo un’importante limitazione della passionalità del suo desiderio il padre diventa la figura della castrazione, cioè della limitazione diventata condizione, legge del desiderio. Conviene ricordare che il padre non impone in realtà la limitazione: conquistando l’amore che la madre è pronta a rivolgergli rende questa limitazione/castrazione inevitabile. Egli diventa espressione della castrazione dopo averla indirettamente determinata, perché è proprio l’assunzione della castrazione primaria del suo desiderio da parte del bambino che rende il padre riconoscibile. La legge della castrazione nella sua prima costituzione, intesa cioè come legge della differenziazione, compare come “legge del padre” non perché emana da quest’ultimo, fin dall’inizio l’autorità che la impone, bensì perché senza questa legge il padre non esisterebbe. La presenza del padre struttura tre relazioni, al posto di una, tra la relazione con l'altro e le radici soggettive… 51 cui una esogamica: la relazione erotica (coniugale) tra un uomo e una donna (i genitori) non consanguinei. L’ingresso in un triangolo di relazioni inserisce il bambino nella prima comunità della sua esistenza, che non è chiusa perché la relazione esogamica tra i genitori la apre all’esterno. Qui il soggetto in gestazione fa il suo incontro con le regole. Le regole al loro primo apparire (regolamentazione della circolazione del desiderio) concatenano il desiderio del soggetto al riconoscimento della differenza tra gli amanti (che istituisce lo spazio privato), alla molteplicità delle relazioni di desiderio (delle precedenze, sfasature e articolazioni da rispettare) e alla scelta esogamica dell’oggetto desiderato che apre definitivamente al godimento la strada per andare oltre il vincolo incestuoso di sangue. Il valore d’uso delle regole sta nel fatto che la concatenazione che imprimono al desiderio non lo porta alla sua alienazione ma alla sua civilizzazione, sublimazione, che se lo limita è per garantire che la sua soddisfazione rientri in un godimento pieno, compiutamente realizzato. Il significato etico della “legge del padre” alla sua origine sta nel fatto che nel campo della sua azione il rispetto progressivo della differenza dell’oggetto desiderato (fino al grado più alto, esogamico, della sua alterità) si costituisce come condizione della sua godibilità. Più la relazione con l’oggetto desiderato resta nel campo dell’incestuosità (più la sua differenza è misconosciuta e più il padre è emarginato) più le condizioni della sua godibilità vengono meno, perché, per le ragioni esposte in precedenza, esso non è sufficientemente vivo e desiderabile se non è pienamente presente in sé, compiutamente soggetto altro. È vero che nella fase iniziale indifferenziata della loro relazione (quando il padre resta relativamente estraneo) l’incontro erotico tra la madre e il bambino è molto intenso e vivo, ma è altrettanto vero che si tratta di una fase temporanea (corrispondente a uno stato di grande inermità biologica del soggetto) durante la quale la questione della differenza non è negata ma sospesa. Il bambino non è ancora integrato nella sua esperienza psicocorporea per reggere il confronto con la differenza della madre senza sentirsi annichilito nello sviluppo della propria distinta identità e gode della differenza di lei senza riconoscerla (appropriandosene come estensione della propria soggettività); a sua volta la madre, identificandosi con il desiderio del figlio, mette a freno il proprio non per abolire il suo modo personale di essere, che continua a determinare il suo godimento, ma per impedire 52 sarantis thanopulos che condizioni il godimento di lui. Si potrebbe parlare di una differenza in divenire che sorregge il godimento senza essere in primo piano. Il momento in cui il bambino è sufficientemente integrato per rivendicare la sua differenza è anche il momento in cui la madre, se la loro intesa funziona, recupera la propria disidentificandosi parzialmente da lui. Quando la differenza emerge nella sua realtà, la sua negazione tende a snaturare il desiderio e il godimento. Un movimento che spinge il bambino a imporre la propria particolarità è inevitabile, perché il bambino sta costruendo un suo senso d’identità ma cerca inizialmente di farlo a spese della madre (non potendo rinunciare ancora al possesso di lei). Tuttavia la persistenza alla negazione della differenza dell’altro non nasce nel bambino ma nella madre: com’è ben noto le madri possono sentirsi minacciate dall’emergente differenza del figlio se la loro identità femminile non è adeguatamente sostenuta dal legame erotico con il padre. La problematicità della relazione coniugale rende la posizione differenziante del padre difficile e allontana l’adesione alla sua legge da un modello ideale. Un grado di alienazione del desiderio come una certa mancanza del senso di responsabilità (entrambi corrispondenti a una certa invasività del desiderio materno) sono sempre presenti. Di conseguenza il senso di legalità associato alla presenza del padre è sempre infiltrato da un senso di legalità trasgressiva (che se eccessiva ipoteca la trasgressione della legalità che si sviluppa nell’adolescenza). Nella legalità trasgressiva, vista nella sua piena configurazione sicuramente morbosa, il padre, espressione inadeguata della castrazione necessaria, “legale”, del desiderio, perché zoppicante sul piano della relazione erotica coniugale, diventa per via di uno spostamento – in quanto figura in disparte, estranea – il capro espiatorio del rigetto originariamente rivolto alla madre alienante. La legge del padre è accusata interiormente di falsità (accusa che riflette l’inconsistenza del suo funzionamento a causa del suo fondamento abusivo su false premesse) e, al tempo stesso, è combattuta a oltranza come arbitrio privo di legittimità, come intollerabile sopruso. La legge vera diventa in questo modo la trasgressione della legge falsa, il che è l’opposto della trasgressione della legge vera, e questo tipo di trasgressione non si realizza con la disobbedienza. All’inganno si risponde con l’inganno, con l’adesione o la contestazione di facciata. In realtà dietro il fuoco di sbarramento nei confronti della figura paterna, che serve come di- la relazione con l'altro e le radici soggettive… 53 versivo, la legge veramente trasgredita è quella del proprio desiderio vissuto come pericolo per sé (perché espone al desiderio alienante dell’altro) e per l’altro (perché contraddice la logica alienante del suo desiderio che fonda la sua esistenza). Sia che si esprima come conformismo sia che si travesta da anticonformismo la legalità trasgressiva (nella sostanza “anoressica” e regno del godimento maligno) lavora per la morte del desiderio contraddicendo le leggi della vita. Anche quando lo sviluppo del soggetto segue strade del tutto fisiologiche l’articolazione tra desiderio passionale e senso di responsabilità non raggiunge mai un equilibrio definitivamente stabile (a causa della costituzione antinomica della soggettività che comporta un continuo ritorno della passione) ed è oggetto di una costante messa a punto. Se il padre mantiene il suo ruolo di oggetto differenziante, che richiama sempre al desiderio responsabile, si erge come argine nei confronti dei movimenti retrogradi verso la dimensione della passione pura che sfuma le differenze; al tempo stesso la sua posizione esogamica gli consente di favorire la socializzazione del desiderio (con estensione del divieto dell’incesto anche verso i fratelli). La socializzazione del desiderio segue la strada delle trasformazioni isomorfiche dell’oggetto erotico (progressivo trasferimento – ritrovamento delle qualità desiderate dall’iniziale oggetto incestuoso a oggetti sempre più esogamici) ed è in rapporto di sostegno reciproco con i processi di sublimazione e di simbolizzazione. La barriera, incarnata nel padre, contro gli investimenti endogamici prende la forma, immaginaria, della minaccia di una castrazione concreta. Questa minaccia è avvertita dal bambino come reale, ma la sua configurazione presuppone la funzione di un registro simbolico che consente la trasposizione di una frustrazione, limitazione effettiva del desiderio che ha una forma oscura e indefinita (prodotta dalla redistribuzione degli investimenti che promuove la presenza del padre sulla scena) a una minaccia di limitazione chiara e definita. Nel passo successivo il bambino approda all’accettazione di una limitazione reale del desiderio vissuta come realizzazione simbolica della castrazione immaginata. Si realizza così la seconda tappa di un processo in cui la limitazione del desiderio prima deve essere simbolizzata nella minaccia di una castrazione reale, per poi essere accettata come castrazione metaforica. Questo processo ha a che fare con l’istituzione di un’autorità, il padre, che trasforma la limitazione intesa come frustrazione del 54 sarantis thanopulos desiderio in limitazione intesa come regole della comune convivenza che vanno rispettate. Questo nuovo tipo di limitazione assegna al padre il ruolo di chi sancisce le regole e stabilisce le sanzioni necessarie per il loro rispetto. È un’evoluzione che porta il senso di legalità oltre il senso di responsabilità nei confronti dell’oggetto del desiderio verso il rispetto delle regole sociali. La nuova posizione del padre consente la sua costituzione come figura che sovradetermina la complessa istanza morale interna cui Freud ha dato il nome di Super-io (le cui radici stanno nell’investimento pulsionale dei genitori da parte del bambino e nella proiezione su di loro dei sentimenti ostili che le inevitabili frustrazioni di questo investimento determinano). L’introiezione del padre come struttura portante del Super-io conduce all’interiorizzazione del conflitto con le regole che detteranno da questo punto in poi i tempi e le modalità della socializzazione ulteriore del desiderio. L’assunzione interna delle regole (processo lungo e complesso che si compie in gran parte nell’adolescenza) è mediata dal senso di colpa, che non ha tanto a che fare con la riparazione dell’oggetto del desiderio, come Klein sostiene (questa riparazione è correlata, invece, al senso di responsabilità), quanto piuttosto con l’accettazione interiore dell’utilità delle sanzioni e della punizione per il bene della comunità. L’equilibrio tra senso di responsabilità e senso di colpa stabilisce la costituzione di un senso di legalità sano. Dove il senso di colpa invade il campo del senso di responsabilità l’adesione al rispetto delle regole esprime la repressione del proprio desiderio. Metapsicologia della trasgressione Silvia Lippi In geologia, la trasgressione è un movimento del mare che straripa verso le zone terrestri confinanti. Movimento che porta via tutto con sé: oltrepassamento, eccesso, eclissi – apparente – del limite che resta comunque presente. Pensiamo a una spiaggia: è difficile vedere la frontiera fra il mare e la costa, capire dove comincia l’uno e dove finisce l’altra. Il mare che oltrepassa la terra non elimina il punto di confine fra i due, semplicemente lo valica, lo nasconde, lo copre di acqua. Legge e trasgressione implicano lo stesso tipo di rapporto che c’è tra il mare e la terra: sebbene i due termini si presentino come antinomici, in realtà sono in stretta connessione. La trasgressione non è l’antitesi della legge, poiché la legge implica la possibilità della propria negazione. La legge non si annulla nel movimento che porta alla sua trasgressione: trasgredire la legge vuol dire (anche) affermarla. È quello che cercherò di dimostrare attraverso l’apporto di George Bataille e di Jacques Lacan. desiderio fedele, desiderio traditore Il desiderio, secondo Bataille, si rivela attraverso l’erotismo: “L’universo dell’erotismo è essenzialmente l’universo della violenza e della 56 Silvia Lippi violazione”.1 L’erotismo apre a un desiderio senza limiti, un desiderio che può condurre alla morte, morte dell’altro e di sé. L’erotismo è inevitabilmente trasgressivo, poiché il desiderio umano è eccesso: “[…] nella natura e nell’essere umano esiste un movimento che tende ad eccedere tutti i limiti e che non si può ridurre se non parzialmente”,2 continua Bataille. Il termine “eccesso” traduce l’hýbris dei Greci, la “dismisura” che caratterizza l’eros e l’epithumia di Platone. Il desiderio insiste, per struttura, nella direzione della dismisura: in quanto eccesso, violenza e distruzione, esso è anche autodistruzione, perdita, perdita di sé. Secondo Bataille l’eccesso che trasgredisce ogni forma di legge corrisponde all’idea di “godimento” (jouissance) di Lacan, ed è inevitabilmente in relazione con la morte: andare verso l’eccesso o verso la perdita – fino a quello che Bataille chiama “folle dispendio” ( folle dépense)3 – vuol dire andare incontro al godimento dell’Altro. La pienezza del godimento corrisponde al momento di perdita totale di sé. Godo solamente se, anche lui, l’Altro, gode: godo nel momento in cui mi annullo, mi eguaglio con il nulla, non esisto più come soggetto. Il mio godimento è anche la mia sparizione. L’effrazione – la trasgressione – apre la strada al godimento, ma in quale direzione? In che momento si può (finalmente) godere? E fin dove? La trasgressione implica necessariamente un pericolo per il soggetto? In altre parole, bisogna rischiare la vita per raggiungere il godimento agognato? All’inizio degli anni sessanta, Lacan considera la trasgressione come un’effrazione. Nell’Etica della psicoanalisi egli afferma: “[…] una trasgressione è necessaria per accedere al godimento e per ritrovare San Paolo, [possiamo dire] che è proprio a questo che serve la legge”.4 Lacan la pensa come Bataille quando questi considera il divieto come fondatore del desiderio: “Il divieto è là per essere violato”5 scrive ne L’erotismo. Secondo Lacan, il desiderio è imbrigliato, interamente preso, all’in1 Georges Bataille, L’Èrotisme, Les Éditions de Minuit, Paris 1957, p. 23. D’ora in poi, tutte le traduzioni dal francese sono le mie. [N.d.A] 2 Ivi, p. 46. 3 Georges Bataille, “La part maudite”, in Id., La Part maudite précédée de La Notion de dépense, Les Éditions de Minuit, Paris 1967. 4 Jacques Lacan, Le Séminaire. Livre vii. L’éthique de la psychanalyse (1959-1960), Seuil, Paris 1986, p. 208. 5 Georges Bataille, L’Érotisme, cit., p. 72. Metapsicologia della trasgressione 57 terno del linguaggio. Il desiderio, in quanto metonimia – spostamento all’interno della catena significante – non infrange il principio di piacere ma resta “al di qua”, come una barriera al godimento, afferma Lacan in Subversion du sujet et dialectique du désir.6 Per accedere al godimento ci vuole un “oltrepassamento” ( franchissement), ossia un’azione violenta che rompe la catena continua, orizzontale, del desiderio racchiuso all’interno del linguaggio. Il desiderio ha bisogno di un’effrazione, di una forzatura, di un salto nell’impossibile. Il desiderio ha bisogno della trasgressione. Per analizzare la trasgressione come effrazione – oltrepassamento – salto al di là del principio di piacere e prendo in considerazione un racconto di Georges Bataille, Mia madre. Qui una donna, trasportata da un desiderio violento e incestuoso per il figlio, finisce per suicidarsi. Nella prima versione del racconto, madre e figlio realizzano l’incesto carnalmente. La seconda versione è più ambigua: il lettore è piuttosto incline a pensare che madre e figlio non siano andati fino in fondo nel loro rapporto e che non abbiano consumato carnalmente il loro amore. Eppure le ultime parole della madre prima di suicidarsi lasciano pensare che qualche scambio sessuale ci sia stato: “Abbracciami, […] non pensarci più. Metti la tua bocca nella mia”.7 Anche quando resta al livello del fantasma, l’incesto è traumatico: madre e figlio, nel racconto si uniscono pericolosamente. La trasgressione del proibito spinge lontano i due personaggi: anche i rapporti sessuali che hanno con altre persone – queste si rivelano essere le stesse per i due, dato che la madre passa le sue amanti al figlio – non sono altro che la continuazione della loro totale e reciproca dipendenza. Ogni forma di separazione tra madre e figlio è violentemente negata: impossibile uscire dal loro amore univoco. Sono prigionieri di un fantasma incestuoso che implica l’idea di un godimento totale, radicale, senza incrinature. Al termine del racconto, la “trasgressione nel fantasma” si trasforma per la madre in “trasgressione reale” e quindi essa passa all’atto, si uccide. Essa gode del suo amore per il figlio fino all’ultimo: amore incestuoso – trasgressione pura – che conduce irrimediabilmente alla morte. Occorre precisare che il suicidio non è commesso dalla madre per 6 Jacques Lacan, Subversion du sujet et dialectique du désir, in Id., Écrits, Seuil, Paris 1966, p. 825. 7 Georges Bataille, Ma mère, Pauvert, Paris 1966, p. 204. 58 Silvia Lippi un suo senso di colpa,8 ma rappresenta piuttosto il completamento di un atto impossibile, la realizzazione dell’unione con l’Altro dell’incesto, unione che corrisponde, ripetiamolo, alla morte. Ovvero la morte è il segno di un amore senza compromesso, conservato nella purezza del suo atto radicale: “[…] Ti ho dato ciò che avevo di più puro e violento […]” sono le ultime parole della madre prima di morire. È il figlio che, alla fine, rifiutandosi di morire, si “separa” – finalmente – dalla madre: distaccandosi dall’amore di lei compie un tradimento! Continuando a vivere dopo la morte di quest’ultima, il figlio tradisce il desiderio dell’Altro, afferma il suo “no” nei confronti della madre, cambia il percorso del desiderio: “Adesso so” diceva la madre “[…] che sopravvivrai e che sopravvivendo tradirai una madre abominevole”.9 Il figlio passa dalla trasgressione della legge che vieta l’incesto al tradimento della Legge del desiderio dell’Altro; egli passa da una legge all’altra, negandole, una per una. Finirà tuttavia per ritornare alla prima legge, quella che proibisce il godimento e che impone la castrazione al soggetto. L’accettazione della castrazione contiene la forza del “no” del soggetto, non è una debolezza: il rifiuto della morte da parte del figlio dimostra che quest’ultimo non ha ceduto – ha trasgredito – al desiderio dell’Altro (materno). La purezza nel desiderio (la prima forma di trasgressione, la trasgressione della legge dell’incesto) è un segno di morte. Desiderio radicale e indice di sottomissione al desiderio dell’Altro: il desiderio dell’Altro diventa, paradossalmente, “rivale” del desiderio del soggetto. Nel desiderio puro, la morte è subita, precipitata in una passione senza resistenza né volontà, come osserva Maurice Blanchot, in Lo spazio letterario. Invece, al contrario, il desiderio impuro (la seconda forma di trasgressione, o “tradimento” del desiderio dell’Altro) è vivibile per il soggetto: esso rimpiazza l’incondizionata e mortale devozione all’Altro e al suo desiderio. Non c’è responsabilità etica nei confronti del desiderio dell’Altro: la fedeltà distrugge. Il desiderio del soggetto e il desiderio dell’Altro non devono diventare un monolito: ci vuole un distacco, una sconnessione, un taglio (coupure) e non un’omogeneità fra i due. Perché non cercare 8 Non condivido il parere di Gilles Ernst che paragona la madre del romanzo di Bataille a Fedra, l’eroina raciniana distrutta dalla colpa. Si veda Gilles Ernst, Georges Bataille. Analyse du récit de mort, puf, Paris 1996, p. 102. 9 Georges Bataille, Ma mère, cit., p. 205. Metapsicologia della trasgressione 59 allora di mobilitare, di mettere in movimento questo desiderio? Perché non provare a introdurre la differenza mediante la trasgressione della Legge del desiderio (dell’Altro)? Prendiamo l’amore, logicamente traumatico: se ci lasciamo andare a un amore forte e appassionato, ci abbandoniamo inevitabilmente alla sua forza distruttrice che finirà per avere un potere esclusivo su di noi. Il gioco dell’amore consiste tanto nel resistere a questa forza quanto nel lasciarsi invadere da essa. Dunque il godimento si effettua in quanto circoscritto da due forze opposte che premono simultaneamente: accettazione (lasciarsi invadere: la prima forma di trasgressione) e resistenza (dire di no: la seconda forma di trasgressione). È un godimento che torna, grazie all’antinomia, a far parte del campo del possibile. le due leggi Nel romanzo di Bataille Ma mére, i due protagonisti trasgrediscono due leggi differenti: la madre trasgredisce la legge simbolica,10 e il figlio trasgredisce la legge del desiderio dell’Altro. In Kant avec Sade (1963) Lacan sottolinea il legame ambiguo che esiste fra legge e desiderio: all’inizio, Lacan dichiara che i due termini sono la stessa cosa, poi, qualche pagina dopo, nel medesimo testo, li considera in opposizione l’uno all’altra.11 Non si tratta in realtà di una contraddizione, in quanto Lacan parla di due leggi distinte: la legge edipica ossia la legge del padre o legge simbolica che è in relazione, secondo Kant, alla “legge del patibolo”, e la Legge del desiderio dell’Altro o Super-io materno.12 Il desiderio è legato alla legge simbolica (la legge che blocca il godimento) e, nello stesso tempo, alla Legge del desiderio dell’Altro (la legge che comanda il godimento). Di conseguenza il desiderio è strutturalmente diviso dal fantasma che lo sostiene, fantasma che “accorda” 10 Il simbolico, l’immaginario e il reale possono essere definiti come le qualità “sintetiche” della struttura: essi costituiscono, secondo Lacan, le differenti dimensioni (dit-mensions) dell’esistenza. 11 “[…] la legge e il desiderio rimosso sono una sola e stessa cosa, è proprio ciò che ha scoperto Freud.” Jacques Lacan, Kant avec Sade, in Id., Écrits, cit., p.782. “[…] si dimostra così, da un altro punto di vista, che il desiderio è il lato opposto [envers] della legge.” Ivi, p.787. 12 “La legge del patibolo non è la Legge […]. La Legge è altra cosa, lo sappiamo, a cominciare da Antigone.” Ivi, p. 782. 60 Silvia Lippi desiderio (legge) e godimento (trasgressione): “un fantasma” osserva Lacan in Kant avec Sade “ben fastidioso […] che vi chiede di mettervi in regola con i vostri desideri”,13 ma che è anche un fantasma “in cui almeno un piede è nell’Altro”.14 In definitiva si tratta di un fantasma che include il godimento. Posizione intermediaria del desiderio: la trasgressione nel fantasma include la legge simbolica e la Legge dell’Altro, e questo vale anche per il fantasma sadiano.15 Contro il luogo comune che considera la perversione come una forma di violazione della legge del padre, l’opera di Sade si presenta come un tentativo di alleanza con lui. La figura del libertino assume i tratti di una figura paterna: la potenza del desiderio senza limiti viene, paradossalmente, a fare barriera alla legge dell’Altro (materno).16 Père-version17 scrive Lacan: sfida al padre ma che è anche un richiamo del padre, padre che protegge dalla madre, che separa dal godimento mortifero ossia dal godimento dell’Altro. Il perverso è al servizio della Legge dell’Altro, ma il “padre” gli viene in aiuto18 per ricostituire la barriera del desiderio. La trasgressione ha bisogno della legge per mettersi in atto e, nello stesso tempo, è la trasgressione a fondare la legge. E non solamente per il perverso: pensiamo all’assassinio del padre come “atto fondatore della legge” nel Freud di Totem e tabù. La legge simbolica del padre è “strutturale” per Lacan: ciò non significa che essa sia fissa e immutabile. È, infatti, una legge che può essere trasgredita nel fantasma. La legge simbolica non controlla tutto, qualcosa gli sfugge, giustamente, nel fantasma. Dall’assassinio del padre si origina la legge: la legge simbolizza la presenza del padre attraverso la sua morte. Il padre simbolico può esistere solamente in quanto “morto” grazie al nome (“il nome è l’assassinio della cosa”, dice Hegel). Il padre accetta di farsi uccidere nel fantasma: la trasgressione annulla e ricostituisce la legge, una legge che diventa così meno rigida, meno irremovibile. Jacques Lacan, Kant avec Sade, cit., p. 779. Qui Lacan parla di desiderio al plurale. Ivi, p. 780. 15 “[…] il desiderio è il lato opposto della legge. Nel fantasma sadiano, si vede come i due si sostengono.” Ivi, p. 787. 16 Catherine Millot, La Vocation de l’écrivain, Gallimard, Paris 1991, p. 140. 17 Jacques Lacan, rsi (Seminario inedito), 8 aprile 1975. 18 “[Il perverso] si difende, anche lui, a modo suo, dal suo desiderio.” Jacques Lacan, Subversion du sujet et dialectique du désir, cit., p. 825. Metapsicologia della trasgressione 61 limite e fuori dal limite nel fantasma Per Bataille la trasgressione è una rivolta contro l’ordine del mondo: l’ordine del lavoro e l’ordine sessuale che presumono una condotta ben organizzata e sottomessa a precise regole. L’erotismo non ha niente a che vedere con la sessualità animale, libera ma limitata al bisogno naturale che permette la continuazione della specie. Quest’attività naturale e finalizzata, accettata dalla società e dalla Chiesa, non interessa a Bataille: in un certo senso è il sesso che egli vuole trasgredire (il che non vuol dire sublimarlo, come preciserà Roland Barthes).19 Non è la trasgressione sessuale in quanto perversione che lo interessa: il sesso gli serve per andare “da un’altra parte”. Bataille cerca di andare al di là del godimento sessuale e della perversione. In Histoire de l’œil, il personaggio maschile principale afferma: […] non c’erano più dubbi: io non amavo ciò che si nomina abitualmente come “i piaceri della carne”, perché questi sono insipidi. Io amavo ciò che viene considerato “sporco”. Non ero assolutamente soddisfatto – piuttosto il contrario – del vizio abituale perché esso sporca solamente la depravazione e lascia intatta un’essenza elevata e perfettamente pura. Il vizio che io conosco sporca non solo il mio corpo e i miei pensieri, ma tutto ciò che immagino di degenerato, e soprattutto, l’universo stellato.20 Il desiderio è, per Bataille, desiderio del limite e desiderio di oltrepassarlo: la trasgressione oltrepassa il limite e non cessa mai di ricominciare a oltrepassarlo. Tuttavia essa non può andare al di là dell’“universo stellato”: la trasgressione non è altro che immaginazione e il limite non esiste al di fuori dello slancio che lo attraversa e lo nega. Il termine “trasgressione” proposto da Georges Bataille si contraddistingue nel portare “il limite fino al limite del suo essere”,21 cioè fino all’illimitato, che è ancora un’altra forma di limite. “La trasgressione” 13 14 Roland Barthes, La Metaphore de l’œil, in Critique. Hommage à Georges Bataille, Les Éditions de Minuit, Paris 1963, p. 776. 20 Georges Bataille, Histoire de l’œil, Gallimard, Paris 1979, p. 63. 21 Michel Foucault, Préface à la transgression, in aa.vv., Critique. Hommage à Georges Bataille, p. 755. Per Bataille, ispirato da Nietzsche, “essere” significa “esperienza”. Egli scrive a proposito dell’esperienza: “Io chiamo esperienza il viaggio in fondo al possibile dell’uomo”, in Georges Bataille, L’Expérience intérieure, Gallimard, Paris 1943, p. 19. 19 62 Silvia Lippi sottolinea Foucault in Préface à la transgression “è un gesto che vuole raggiungere il limite; ed è proprio là, in questa sottigliezza della linea, che si manifesta il fulmine del suo passaggio, ma forse anche la sua traiettoria nella sua totalità”.22 Il limite è insuperabile, o meglio, esso può essere superato, ma la linea che si supera è ancora la linea che si ritrova alla fine del movimento. In altre parole: limite e fuori-dallimite si congiungono nella trasgressione. Il lato “al di qua” e il lato “al di là” della linea di cui parla Foucault sono in contiguità e in continuità, nonostante la loro opposizione (non si può uscire dalla linea!). Secondo questa concezione, la trasgressione non è più, come ipotizzava Lacan negli anni sessanta, una forzatura o un’effrazione, ma un’azione continua che si afferma nel va e vieni del suo percorso, percorso che va dal limite all’illimitato e viceversa. La trasgressione è un eccesso che ha però la funzione di arresto nel suo movimento: “Creare” scrive Bataille in Vivre l’impossible “un possibile (umano) alla misura dell’impossibile”.23 Questo punto d’imbarazzo fra limite e illimitato, fra possibile e impossibile, lo ritroviamo nel racconto dei due fantasmi che Hans (nel famoso caso di Freud) riferisce a suo padre. A proposito del primo fantasma, Hans racconta che egli “trasgredisce” insieme al padre: entrambi passano sopra il cordone che blocca l’accesso al prato e che segnala la separazione dei due spazi, limite che non dovrebbe essere oltrepassato. Hans desidera che lui e suo padre siano “portati via assieme” (zusammengepackt) dal guardiano del parco. Il secondo fantasma è ancora un’altra forma di trasgressione: Hans e suo padre rompono un vetro del treno. Si tratta di un’irruzione, questa volta verso l’esterno: ancora una volta, padre e figlio, sono “presi assieme” (mitgenommen) dall’agente di polizia. Ma perché Hans, nel suo fantasma, ha bisogno del padre per trasgredire? Perché ha bisogno del limite per andare nel campo dell’illimitato? Lacan dice che è arrivato il momento, per Hans, di “[…] passare al regime del padre”,24 il tempo cioè, di dargli una funzione simbolica. Funzione che il padre di Hans non riesce a riempire in modo adeguato, ragion per cui, Hans non riesce ad uscire di casa. Uscire Michel Foucault, op. cit., p. 754. Georges Bataille, Vivre l’impossible, in Id., Romans et récits, Gallimard, Paris 2004, p. 371. 24 Jacques Lacan, Le Séminaire. Livre iv. La relation d’objet, Seuil, Paris 1994, p. 325. 22 23 Metapsicologia della trasgressione 63 di casa significa per lui andare direttamente fra le braccia della madre (desiderio “impossibile” di Hans, che persiste a livello inconscio). Hans non può uscire se la funzione paterna non si mette in atto, egli non può uscire senza la “protezione” del padre, protezione che va dal divieto all’identificazione.25 La protezione del padre si compie in due fasi che corrispondono al secondo e al terzo tempo dell’Edipo.26 Il padre è all’inizio colui che dice di no (secondo tempo): “non si può andare nel prato, non si può rompere il vetro”. Ma il padre è anche quello che dice di sì, che “permette” al figlio di identificarsi con lui e di prendere il suo posto nel fantasma (terzo tempo).27 L’identificazione al padre consentirà al figlio di compiere degli atti, cominciando dall’azione di uscire di casa senza aver paura di essere divorato dal desiderio della madre. Nell’identificazione, il padre è simultaneamente assente (morto) – il soggetto ha preso il suo posto – e presente: il soggetto agisce e firma i suoi atti con il suo nome. Il limite fuoriesce dal limite ed esplora, riducendo il pericolo – grazie alla presenza simbolica del padre – il campo dell’illimitato. Possibile e impossibile si danno la mano. La trasgressione nel fantasma di Hans è “protetta”, parziale, incompleta, grazie al padre del nome: padre che fa la legge ma anche padre come perno dell’atto trasgressivo del soggetto. 28 topologia della trasgressione Il caso di Hans attesta che il godimento ha bisogno della permanenza della legge per compiersi (la protezione del padre nel fantasma). Nel fantasma ci troviamo di fronte a due sequenze indissociabili in cui la seconda nega la prima, non direttamente ma frontalmente: si tratta, Si tratta di un’identificazione all’insegna della potenza dell’altro, identificazione parziale, che punta sul tratto della persona (ein einzigen Zug). Si vedano Sigmund Freud, Psychologie des foules et analyse du moi, in Id., Essais de psychanalyse, Payot, Paris 1981, p. 187 e Jacques Lacan, L’Identification (1961-1962), seminario inedito, versione Ali, Paris 2000, seminario del 13 dicembre 1961, p. 64. 26 Il primo tempo dell’Edipo è quello dell’attaccamento alla madre. 27 Ricordiamo che l’identificazione è legata al fantasma dell’assassinio del padre. 28 Al tempo stesso assente e presente, nel nome del soggetto, che firma gli atti con il suo nome (Nome-del-Padre). 25 64 Silvia Lippi infatti, di una contraddizione un po’ “spostata”. La prima sequenza riguarda il godimento e la seconda il suo divieto come abbiamo visto con il fantasma di Hans. La banda di Moebius può aiutarci a formalizzare questa struttura del fantasma. Il fantasma rappresenta la copula che unisce le due sequenze dell’Edipo: godere della madre, essere il fallo, realizzare l’incesto (prima sequenza) e opporsi a ciò che lo vieta, cercare di uccidere il padre, cercare di prendergli – avere – il fallo (seconda sequenza). Le due sequenze sono in contiguità e in continuità (pensiamo alla banda di Moebius). Il soggetto gode identificandosi alla copula, momento della trasgressione nel fantasma che corrisponde alla torsione della banda e che ricongiunge le due sequenze separate. Rendere manifesto il raccordo può rivelarsi pericoloso: la castrazione appare allora al soggetto. Per il nevrotico, è meglio lasciare le “cose” come sono, fissate al fantasma (all’origine del sintomo), un fantasma “comodo”, che ci lascia dormire e sognare la possibilità del rapporto sessuale. Da un altro punto di vista, interrogarsi sul raccordo è sicuramente utile al soggetto, alla maniera di un rito iniziatico. È questo che giustifica spesso il ricorso all’analisi. Il legame fra legge e trasgressione, limite e fuori dal limite, possibile e impossibile, prima e seconda sequenza del fantasma, è ripreso da Lacan nel seminario sull’identificazione: “Ciò che è permesso esiste perché c’è il divieto”, mi direte voi, contenti di trovare l’opposizione fra A e non-A, fra il bianco e il nero. Ciò che è permesso e il divieto […] si determinano l’un l’altro, strettamente, pur lasciando il campo aperto che, non solamente non è per loro escluso, ma li fa raggiungere e questo movimento di torsione […] dà la forma a ciò che sostiene il tutto, cioè la forma del desiderio. Per dirlo chiaramente il desiderio si costituisce in quanto trasgressione, […] anche se questo non vuole dire […] che si tratta solo di una questione di frontiera, di limite tracciato. Il desiderio comincia al di là della frontiera oltrepassata.29 Il desiderio, l’abbiamo visto, è sostenuto dal fantasma, fantasma che permette al soggetto di trasgredire la legge. I due versanti del fanta29 Jacques Lacan, L’Identification, cit., seminario del 9 maggio 1962, p. 289, corsivi miei. [N.d.A.] Metapsicologia della trasgressione 65 sma articolano il rapporto fra godimento e divieto, fra trasgressione e legge. Ma il soggetto non gioisce dai due lati del fantasma: la frontiera è varcata, dice Lacan, ma non completamente, come lo si può leggere nella formula del fantasma S̸ ◊ a: il soggetto resta diviso, separato dal godimento (a). Il punzone – “desiderio di”30 – corrisponde alla trasgressione, al momento di torsione della banda di Moebius in cui il soggetto è in tensione fra l’essere e l’avere/non-avere il fallo. È la castrazione che fa tenere assieme godimento e divieto. Negli anni settanta, Lacan considererà la trasgressione “come una porta semi aperta […]”, tuttavia preciserà che “vedere una porta semi aperta, non vuol dire oltrepassarla”.31 Il desiderio si realizza nel fantasma, nel sogno, nel sintomo ma in maniera incompleta (o illusoria): la realtà psichica non è certamente il reale, e neanche coincide con la realtà vissuta dal soggetto. La porta semi aperta è il fantasma. Ma se nella realtà si varcasse questa porta, quali sarebbero le conseguenze? conclusione: il gioco della trasgressione La trasgressione è un gioco. Gioco come mobilità, instabilità, piacere; gioco fra possibile e impossibile, castrazione e godimento, desiderio e trasgressione. Gioco nel senso di ludus e non di jocus, come ricorda Lacan nel suo seminario D’un Autre à l’autre a proposito della scommessa di Pascal.32 Non si tratta, infatti, di un gioco frivolo ma di un gioco rischioso per il soggetto, poiché vi è implicato il desiderio. Ciò che è eccitante nell’erotismo, spiega Bataille, è proprio l’aspetto del gioco: il gioco suppone una distanza (come nel riso) e, nello stesso tempo, un’implicazione completa (come nel sogno).33 Questo doppio movimento, per Bataille, porta all’imprevisto, alla sorpresa e quindi al “segreto”, a qualcosa d’inspiegabile che fa godere. Il segreto concerne il rapporto tra il soggetto e la morte.34 Prendiamo il Don Giovanni Id., Kant avec Sade, cit., p. 774. Id., Le Séminaire. Livre xvii. L’envers de la psychanalyse, Seuil, Paris 1991, p. 19. 32 Id., Le Séminaire. Livre xvi. D’un Autre à l’autre, Seuil, Paris 2006, p. 181. 33 Georges Bataille, L’Ambiguïté du plaisir et du jeu, in “Les Temps Modernes”, n. 629, 2004, p. 22. 34 “La morte rivela l’improbabile, essa lo rivela come gioco.” Ivi, p. 27. 30 31 66 Silvia Lippi di Mozart,35 un “dramma giocoso” che presenta con gioia l’universo del desiderio e del dolore legati nella maniera più drammatica con la morte, vero punto centrale di tutta l’opera. La trasgressione rappresenta per Bataille l’imprevisto, la possibilità di uscire dal calcolo, dal serioso, dal lavoro alienante. E per Lacan la trasgressione è un’astuzia, uno stratagemma per godere, grazie al fantasma. Godere: ma a condizione di ammettere la castrazione, di accettare un godimento che passa sicuramente per il corpo ma anche per il linguaggio, un godimento “insoddisfatto”, pronto ad accettare l’ossimoro. La legge al tempo dell’evaporazione del padre Marco Bouchard La crisi della funzione e dell’autorità paterna, negli ultimi decenni, è stata oggetto della massima attenzione nell’analisi sociologica e nella cultura psicoanalitica. Ma è stata sopratutto la psicoanalisi a mettere in rilievo il legame, simbolico e reale, tra padre e legge, tra ruolo paterno e meccanismo normativo nonché il suo recente processo degenerativo. In questo senso si è parlato di “evaporazione” o di “sfaldamento” del padre. Jacques Lacan ne aveva parlato in occasione di un Congresso dell’École Freudienne di Parigi a Strasburgo nel 1968.1 Secondo lui “la traccia, la cicatrice dell’evaporazione del padre è quello che potremmo mettere sotto la rubrica e il titolo generale della segregazione”. Dice Lacan: “[…] io penso che ciò che caratterizza la nostra era – e non possiamo non accorgercene – è una segregazione ramificata, rinforzata, che fa intersezioni a tutti i livelli e che non fa che moltiplicare le barriere”. La crisi del padre ha mobilitato l’interesse persino della teologia pratica e, a sua volta, l’esegesi biblica ha fornito spunti utili – su tutti quello proposto dalla Lettera ai Romani 7, 7 – all’approccio psicoanalitico. Quanto alla legge è invece totalmente mancato un collegamento tra il deterioramento della funzione simbolica delle norme e la crisi della giustizia e del diritto quale suo strumento elettivo. Questo tema, in realtà, potrebbe essere sviluppato, oggi, attraverso “[…] nel momento stesso in cui sto scrivendo questo, mette nel fonografo il disco dell’ouverture del ‘Don Giovanni’: più che tutto, l’ouverture del ‘Don Giovanni’ lega ciò che è fallito nella mia esistenza a una sfida che mi apre a un estasi che mi porta fuori di me.” Georges Bataille, La Conjuration sacrée, in Georges Bataille, Pierre Klossowski, André Masson, Acéphale, Jean-Michel Place, Paris 1995 (le pagine non sono numerate). 35 * Riflessioni a margine della lettura di Cosa resta del padre? di Massimo Recalcati, Raffaello Cortina, Milano 2011. 1 Jacques Lacan, Nota sul padre e l’universalismo, in “La Psicoanalisi”, n. 33, Astrolabio, Roma 2003, p. 9. 68 Marco Bouchard una domanda piuttosto difficile ma ormai ineludibile: qual è il destino della legge nel tempo dell’evaporazione del padre? il legislatore Andrebbe subito detto che dal punto di vista della legge il padre è innanzitutto chi instaura la legge, chi la scrive, la approva e la pubblica per essere rispettata. Possiamo dire che anche questo padre, non solo il genitore maschio ma anche quello che costruisce la legge, è evaporato? Certo: il padre in quanto organismo istituzionale non sparisce né si dissolve. Anzi! In che senso allora potremmo dire che sia evaporata la sua funzione? Per comprenderlo dobbiamo subito evitare un equivoco indotto dal rapporto tra le figure simboliche del padre e della legge. C’è il rischio, infatti, che il simbolismo sia sopraffatto dall’immaginario così da esporci a quel pensiero ingannevole che ci porta a identificare il padre della legge con una figura solitaria, di genere maschile, dotata di autorità, forza e rispetto tali da garantire l’esercizio riconosciuto di un potere legislativo. In realtà la storia ci dimostra qualcosa di diverso. Anche se non conosciamo quale sia la vera origine etimologica della legge, sappiamo però che la nascita della lex rappresenta una cesura profonda tra l’autorità del sacerdote, sacra nei suoi pronunciamenti, e il potere politico della città. Questa cesura si consuma esattamente all’inizio della storia romana quando nella urbis l’atto d’imperio viene finalmente espresso come il comando di un organo collettivo, espressione della volontà degli appartenenti alla città: questo comando prende totalmente le distanze dal potere sacerdotale e dal disciplinamento religioso dei pontefici. Nella storia romana le prime leggi in assoluto (antecedenti alle xii Tavole) potrebbero proprio essere quelle leges sacratae, le decisioni prese dalle assemblee dei plebei, sulla cui osservanza sorvegliavano i magistrati della città e la cui violazione comportava l’esclusione dalla comunità. È stato fatto notare come la lex trovi il suo corrispondente nel nomos greco il cui significato è strettamente associato all’esperienza della democrazia (sia pure quella dei maschi adulti) e della scrittura come veicolo della comunicazione politica.2 Nomos e lex, in contesti storici e Aldo Schiavone, Ius, Einaudi, Torino 2005, p. 76. 2 La legge al tempo dell’evaporazione del padre 69 geografici totalmente diversi, segnano la fine dell’era del re-sacerdote e coniugano la legge con la scrittura e la laicità, separandosi completamente dall’arbitrio della regola religiosa. Possiamo, dunque, dire che la paternità della legge ci riporta a un atto collettivo di fecondazione, iscritto nella volontà di un popolo e, in particolare, di quello più esposto all’arbitrio di un capo, al potere discrezionale del potenziale tiranno. Ancora oggi – a distanza di più di due millenni dagli albori della funzione legislativa e nonostante periodici ritorni di forme autoritarie – la funzione paterna istitutiva della legge, in una democrazia costituzionale, è garantita da un corpo collegiale, da un’assemblea di eletti: in una parola, da quell’organismo che chiamiamo parlamento. Non vi è dubbio che questo padre collettivo, in tutti gli stati contemporanei, ha perso gran parte della sua autorità, è diventato una figura ancillare nella produzione delle regole. L’elaborazione delle leggi avviene altrove, negli studi di consulenza dei potenti e delle segreterie di partito. Gli uffici legislativi di cui sono dotati i ministeri si affaticano, a loro volta, a soddisfare una bulimia normativa di cui gli stati moderni sono affetti. Le procedure di approvazione delle norme seguono scorciatoie istituzionali proprio per evitare il dibattito parlamentare, ritenuto ormai un’eredità onerosa nella formazione della volontà del legislatore. I riti d’eccezione sono diventati la regola.3 Indubbiamente la funzione genitrice della legge è profondamente cambiata. Un nuovo padre si è insediato per elaborare e produrre la legge. Chi è questo padre? È un padre che ha certamente perso la saggezza del confronto assembleare, che rifiuta il dialogo trasparente, la mediazione faticosa. La ricerca dell’equilibrio non gli appartiene. D’altra parte un padre evaporato è un padre dissolto nel doppio significato etimologico: si è disciolto, è diventato liquido, sfuggente, ingovernabile ed è diventato al tempo stesso dissoluto perché si è voluto liberare delle regole. Non è un padre autoritario come all’epoca dei totalitarismi quando era riuscito, con modalità diverse da quelle che riscontriamo oggi, a disfarsi del parlamento. Si tratta però di capire se, nella sua dissolutezza, non sia anche un padre altrettanto violento, divoratore e cannibalico quanto quello tirannico che ha visitato l’Europa nella prima metà del Novecento. 3 Giorgio Agamben, Stato d’eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003. 70 Marco Bouchard Nell’idea di evaporazione del padre è insito un concetto strategico: la rinuncia a esercitare il senso e il valore del limite. Ma sarebbe un grave errore pensare che la perdita del senso del limite comporti semplicemente permissivismo, lassismo, noncuranza, mollezza e licenziosità. Il crollo del limite apre uno spazio infinito ai rapporti di pura forza, introduce la violenza come metodo risolutore dei conflitti. La prima vittima di questa dissoluzione è proprio la legge. Il nuovo padre produce una legge che è molto simile all’arbitrio perché nega, in fondo, i postulati che la sostengono. La legge perde la sua funzione non solo perché non viene più rispettata ma anche perché se ne abusa: se ne abusa permettendo che essa proliferi a dismisura, senza progetti e orizzonti che la orientino; se ne abusa utilizzandola per fini diversi da quelli generali o collettivi; se ne abusa, infine, quando la si piega per perseguire consapevolmente obiettivi maligni. delitto e peccato Se guardiamo al contenuto della legge e non al suo autore possiamo dire che il prototipo della legge è costituito dal divieto e gli archetipi della legge-divieto sono rappresentati, per le tradizioni dell’occidente educato nelle religioni del libro, dal delitto e dal peccato. I divieti richiamati dal delitto e dal peccato reclamano il loro intervento di fronte alla progressiva degradazione dell’etica pubblica e alla crescente indifferenza verso il profilo morale degli individui che rappresentano gli interessi e il bene comune ai più alti livelli istituzionali. Anche la vita privata, dopo un’epoca in cui le porte di casa sono state aperte a protezione dei più deboli, è stata ricondotta in una zona franca, lontana da sguardi indiscreti, dove tutto deve essere permesso purché i fatti abbiano a protagonisti adulti consenzienti. La valutazione e il giudizio si devono arrestare sulla soglia di qualsiasi intimità. La segretezza del luogo privato deve tornare a svolgere l’antica funzione di argine agli interessi pubblici della salute, del benessere delle persone, dell’ordine e della sicurezza. Insomma domina il principio del massimo individualismo secondo cui ciascuno è autorizzato a fare “gli affari suoi”. Se così stanno le cose ha senso oggi chiamare in causa il reato, il delitto, il crimine per censurare questa tendenza, per ripristinare il La legge al tempo dell’evaporazione del padre 71 senso positivo della responsabilità e della solidarietà nella nostra civile convivenza? Oppure rispetto a questa deriva della civiltà occorre prendere atto del fallimento dello strumento legale e, in modo particolare, di quello penale? Occorre, forse, riscoprire il richiamo alla coscienza morale e religiosa e il valore edificante del peccato? O non è forse, quest’ultima, un’arma ancora più spuntata, considerata la scarsa autorevolezza delle Chiese storiche proprio sul piano della coscienza morale? Per orientarci sarebbe bene cominciare dalle definizioni. Quella di reato è molto semplice perché dipende strettamente dalla definizione legale. È la legge degli uomini che distingue il reato dalle attività lecite: è lecito qualunque atto che non sia espressamente vietato. Ed è sempre la legge degli uomini che distingue il reato (con le conseguenze che esso comporta: processo e pena pubblica) da altre condotte illecite che non comportano come conseguenza la privazione della libertà. Quella di peccato è invece estremamente complicata. Con l’avvento del cristianesimo delitto e peccato si sono “fusi”: nell’Alto Medioevo non c’era offesa agli uomini che non fosse anche offesa a Dio; per quanto potessero essere diversi i rimedi al peccato e al reato, le leggi umane non potevano che rientrare nel più ampio disegno divino di cui dovevano essere espressione. Dal punto di vista giuridico l’idea del peccato distinta da quella di delitto – come ci insegna lo storico Paolo Prodi – nasce dopo l’anno Mille e viene formulata da Abelardo.4 Il peccato per Abelardo risiede essenzialmente nella coscienza, nell’intenzione e si esprime attraverso il consenso che l’individuo accorda a ciò che Dio vieta. Abelardo cerca una definizione rigorosa del peccato. Non cerca di indagare gli elementi rivelatori del peccato negli aspetti esteriori della vita umana (un’azione cattiva ma involontaria o addirittura dettata da un’intenzione positiva, retta, non può essere definita peccato; persino i persecutori del Cristo che ritenevano dovuta, necessaria la persecuzione non possono essere considerati dei peccatori). Così il vizio, l’attitudine patologica se non è sostenuta dall’intenzione di fare ciò che Dio non vuole non può essere considerata peccato. Si pecca se si ha coscienza che Dio vieta qualcosa e tuttavia la si fa o, inversamente, se Dio ordina qualcosa e non la si fa. Per Abelardo non pecca chi commette il male nella convinzione, invece, di rispettare la legge di Dio. Il giudizio 4 Paolo Prodi, Una storia della giustizia, il Mulino, Bologna 2000. 72 Marco Bouchard dell’intenzione è riservato a Dio “che scruta il cuore e le reni”. Le opere, di per sé, non hanno alcun significato. Anche per questo le sue idee vennero condannate dal concilio di Sens del 1141. Abelardo muore nel 1142. Due anni prima prendeva forma il Decreto di Graziano che è la base fondamentale del diritto canonico. Da questo momento il “peccato” ha una sua disciplina interna alla Chiesa, diventa oggetto di un vero e proprio diritto: la Chiesa cattolica codifica, pertanto, un suo proprio diritto della colpa e della pena. Ma, proprio perché codifica un suo specifico diritto, il suo non può più essere considerato “il Diritto” come verità giuridica rivelata da Dio per tutti gli uomini, ma un diritto tra i tanti. Sta di fatto che, con la nascita del diritto canonico e grazie alla lucida visione di Abelardo negli ultimi anni della sua vita, il peccato e il delitto si separano definitivamente: non si ricongiungeranno più. Il tentativo da parte della Chiesa di arrogarsi un potere esclusivo di decisione anche sui comportamenti che costituiscono un delitto secondo le leggi degli uomini ha sempre portato a conseguenze tragiche. Ancora recentemente abbiamo potuto constatarlo quando si è scoperta l’esistenza di un vero e proprio ordine di tacere, interno alla Chiesa cattolica, sulle violazioni al vi Comandamento commesse dai chierici in danno dei minori di diciotto anni.5 Si tratta della lettera De delictis gravioribus: è una lettera a firma Joseph Ratzinger scritta il 18 maggio 2001, che aggiorna l’elenco dei delitti secondo il diritto canonico, per i quali la Congregazione per la Dottrina della Fede si riserva l’ultima parola rispetto alle Chiese locali. Tali delitti, scelti per la loro particolare gravità, riguardano sia la celebrazione dei sacramenti sia la morale cattolica. Il “segreto pontificio” con il conseguente divieto di denuncia ha vincolato al silenzio tutta la gerarchia cattolica – dall’ultimo dei diaconi al papa – riservando, appunto, alla Congregazione per la Dottrina della Fede ogni decisione sul devastante fenomeno della pedofilia negli ambienti ecclesiastici. La distinzione tra peccato e delitto per molti secoli non ha attenuato la potenza pervasiva del controllo della Chiesa sulle coscienze. Anzi, tra il xii e il xvii secolo il peccato ha avuto un ruolo centrale nella vita privata e collettiva dell’Europa. Jean Delumeau vi ha dedicato Che viene allargato dal divieto di adulterio al divieto degli atti impuri. 5 La legge al tempo dell’evaporazione del padre 73 un testo fondamentale intitolato Il peccato e la paura 6 e non dobbiamo dimenticare che gli aspetti più deteriori del sistema penitenziale della Chiesa cattolica sono stati all’origine della più grande frattura della cristianità. Il commercio delle indulgenze, contro cui si scagliò Lutero, era certamente il risvolto più inaccettabile di quel sistema. Sono passati quasi mille anni dalla morte di Abelardo. A che punto siamo oggi? tutto penale Il Novecento è stato il secolo dei diritti. Anche nei confronti della più grande tragedia dell’umanità si è cercato di dare una risposta fondata sul diritto e sulla giustizia. Questo è stato l’insegnamento del Tribunale di Norimberga e l’istituzione recente del Tribunale penale internazionale rappresenta un ulteriore progresso nel tentativo di giudicare i più gravi crimini contro l’umanità: mentre i giudici istituiti dagli Alleati all’indomani della sconfitta di Hitler erano stati insediati dai vincitori sulla base di norme non preventivamente approvate da organismi internazionali, la Corte internazionale con sede all’Aja si pronuncia invece sulla base di una legge entrata in vigore prima dei fatti da giudicare. La fiducia verso la legge e, soprattutto, verso la legge penale è aumentata, nel corso dell’ultimo secolo, a dismisura. Nel 1996 due magistrati francesi, Antoine Garapon e Denis Salas, hanno scritto un libro intitolato La Repubblica penale7 che è stato tradotto appena un anno dopo anche in italiano. La tesi di fondo è molto semplice: non solo il diritto ha ormai invaso ogni aspetto della vita, comprese le condotte e i sentimenti più intimi, ma si è fatto un uso sconsiderato dell’illecito penale e della più grave delle sanzioni al punto da criminalizzare la vita collettiva assediata dalla paura dell’insicurezza. Se la violazione delle norme statuali viene stigmatizzata sempre più frequentemente con le strutture del reato è inevitabile che anche quegli spazi più privati della nostra quotidianità (per esempio il cibo che mangiamo) siano occupati dalla disciplina criminale. 6 Jean Delumeau, Il peccato e la paura, l’idea di colpa in Occidente tra il xii e il xvii secolo (1983), il Mulino, Bologna 2006. 7 Antoine Garapon e Denis Salas, La Repubblica penale (1996), Liberilibri, Macerata 1997. 74 Marco Bouchard Il peccato è stato completamente spodestato come regolatore dei comportamenti: laddove il religioso stabiliva quali alimenti assumere e quando, oggi il diritto stabilisce i loro requisiti di qualità, il loro confezionamento, la durata della loro conservazione e le sanzioni che scattano a ogni tipo di infrazione. Al richiamo di una forte etica individuale si sostituisce il bisogno di sicurezza collettiva; alla ricerca della vita buona (la richiesta e la concessione del perdono a chi si è comportato male) si sostituisce la “legalità”, parola mitica della modernità per come l’abbiamo realizzata negli ultimi secoli. Questa criminalizzazione, il “tutto penale”, trasforma però lo Stato da possibile fonte di giustizia a gestore della sicurezza. Un eccesso di diritto – lo si è sempre saputo – produce meno e non più giustizia. Il diritto penale pretende delle responsabilità personali ma la sua diffusione invasiva porta a trascurare le responsabilità politiche, quelle dei grandi soggetti impersonali come le società finanziarie e i protagonisti dell’economia, del commercio e del governo amministrativo. Il bisogno di sicurezza si concentra contro i comportamenti devianti degli ultimi ai quali si finisce con l’attribuire la responsabilità del tutto: qualche giovane scalmanato nelle manifestazioni di piazza, gli stranieri clandestini che rubano il posto di lavoro. Ecco perché la criminalizzazione della vita collettiva favorisce solo delle politiche appannaggio dei “poteri forti” che la utilizzano come strumento di governo. È un paradosso ma così è stato. Nel momento in cui la giustizia è finalmente riuscita a processare anche i potenti, il vero nemico da combattere è stato individuato tra gli strati più disgraziati della popolazione (basta andare in un qualsiasi carcere per farsene un’idea). Di più: qualcuno è anche riuscito a dire che il vero nemico è la giustizia stessa e la magistratura che la governa. il peccato di ritorno Nell’esplosione della giustizia penale ci sono due reati, profondamente legati alla dimensione della morale (l’una privata e l’altra pubblica), che sono al centro dell’attenzione tanto degli addetti ai lavori quanto dell’opinione pubblica per l’enfasi riservata dai mass-media. A mio avviso bisognerebbe riflettere sull’enfasi mediatica riservata ai reati La legge al tempo dell’evaporazione del padre 75 di pedofilia e di corruzione. Questi due crimini, in effetti, sono legati tra loro in modo molto più significativo di quanto non si pensi: d’altra parte la pedofilia non è che una forma di corruzione e di degenerazione della sessualità nel rapporto tra generazioni. Come la corruzione classica rappresenta il sintomo della degenerazione nei rapporti tra economia e politica, tra interessi privati e bene comune, così la pedofilia segnala la degradazione della sfera più intima dell’esistenza umana. In entrambi i casi questi due reati rappresentano bene lo stato dell’“indifferenza morale” della società attuale. L’indifferenza morale consiste appunto nel non riuscire a governare la differenza che dovrebbe essere mantenuta e rispettata nelle relazioni sessuali tra le generazioni così come nei rapporti tra gli interessi privati e gli interessi pubblici. La diffusione e il rilievo mediatico di questi due crimini stanno lì a dimostrare che il “tutto penale” non funziona affatto, la minaccia della pena non è di per sé efficace nel limitare la diffusività della corruzione e dell’abuso sessuale e, soprattutto, non è in grado di intervenire proprio su quei comportamenti che rivelano maggiormente la moralità degli individui e del corpo sociale; il corpo sociale si dibatte tra un’istanza di moralizzazione e una tendenza spaventosa al rifiuto delle remore morali. Non sfugge a nessuno – ha scritto un po’ di tempo fa uno degli analisti della società più noti nel nostro paese, Giuseppe De Rita – che oggi la società è immersa in una sorta di vocazione alla sregolatezza che ha coinvolto sia la sfera individuale, segnata da egoismi e soggettivismi senza fine, sia la sfera collettiva e istituzionale, segnata da furbizie e arroganze di ogni tipo. Siamo pieni di nobili richiami alla legalità, ma restiamo in una realtà indistinta, spesso decisamente confusa, di contrasti non solo valoriali ma anche giurisdizionali. Ne soffrono, e ne sono insieme testimoni, i due poteri su cui tutto il problema si gioca: quello parlamentare che determina le norme e quello giudiziario che le applica. Il primo è sempre più condannato a una licoressia normativa che rincorre e codifica un crescente numero di fattispecie di reato, senza la coscienza politica che “quando tutto è reato, nulla è più reato”. E in parallelo corre il disagio del potere giudiziario: avviene sempre più spesso che i magistrati maturino una esplicita sfiducia nei loro strumenti di azione, troppo condizionati da tempi lunghi, prescrizioni, condoni. 76 Marco Bouchard Siamo avvolti più dal giudizio generico sui peccati che dall’operoso perseguimento del reato; e sembra quasi che, sono parole di Giuseppe De Rita: “i magistrati (loro, i sacerdoti del reato) hanno solo da dirci che qualcuno ‘ha peccato, in pensieri, parole, opere e omissioni’. Un ritorno silenzioso e sottile del peccato come riferimento implicito delle devianze sociali è quindi nelle cose”.8 La legge al tempo dell’evaporazione del padre 77 Proviamo questa esplorazione attraverso le parole di Paul Ricœur: Non bisogna mai perder di vista che [il peccato] lo si scorge in una prospettiva di una redenzione ormai avviata; si tratta di ciò di cui il penitente si pente nell’atto stesso del pentimento e che appare solo retrospettivamente come una aggressione a Dio: “contro di Te ho peccato, contro Te solo”; ma la rottura con Dio non emerge se non successivamente, solamente nell’atto d’invocazione che sostituisce il peccato davanti a Dio e che è già in Dio.9 disubbidienza e riconciliazione Se è vero questo allora può essere utile ritornare sulla definizione di peccato non per riassegnargli una funzione regolatrice delle condotte umane ma per apprezzare dei risvolti sconosciuti o addirittura respinti sdegnosamente dal diritto penale. Abbiamo visto che “peccato” è fare ciò che Dio vieta, è infrangere la legge divina che si fonda sulla limitatezza e finitezza dell’uomo. Il peccato è, in fondo, il tentativo di ergersi a Dio, per affermare, più che una impossibile onnipotenza, la capacità di oltrepassare i limiti e le regole che costituiscono il buongoverno del mondo che ci è stato affidato. Per quanto la nozione di peccato fosse sconosciuta nella Grecia classica possiamo permetterci di dire che c’è una consonanza interessante della nozione cristiana di peccato con quella greca della tracotanza, della hýbris umana nei confronti degli dei. Se però vogliamo attualizzare, assegnare al peccato un compito attuale nel registro delle offese forse è meglio abbandonare la ricerca del suo oggetto e della sua natura. Forse è meglio approfondire le prospettive aperte dal riconoscimento del peccato, dalla ritualità che accompagna l’ammissione della colpa e dalla ricerca di un cambiamento da parte del peccatore. Il peccato – non diversamente da quanto si verifica con il delitto – rappresenta un atto di trasgressione dei limiti dati alla finitezza dell’uomo. Ma il metodo – potremmo chiamarlo così – che ci offre il peccato per rientrare nei limiti di un buon rapporto con l’umanità, con la terra e con Dio è profondamente diverso da quello che la legge stabilisce quando si commette un crimine. Al delitto segue una pena. Quali sono invece le conseguenze del peccato? Giuseppe De Rita, Crisi del reato e ritorno del peccato, in “Corriere della Sera”, 13 aprile 2010. 8 Il racconto biblico del peccato, della caduta è strettamente legato al racconto della creazione. Il peccato rappresenta una perdita, una mancanza che segue, però, un’innocenza originaria. Il male, il peccato non è intrinseco all’uomo perché diversamente l’uomo non sarebbe stato creato a immagine e somiglianza di Dio. Il peccato non è la struttura né un aspetto dell’essere umano, ma sopravviene come un avvenimento nel suo essere. Il riconoscimento del peccato è, dunque, tutt’uno con il riconoscimento di un’innocenza originaria cui poter attingere attraverso l’atto d’invocazione rivolto a Dio. Il male appartiene all’uomo nella misura in cui è un avvenimento che si ripete nella nostra vita e ci ripresenta il ciclico manifestarsi della caduta e della possibilità del riscatto. Il peccato, a differenza del crimine, ci avvisa che la trasgressione non deve essere esorcizzata ma ricondotta nel percorso umano di acquisizione consapevole della nostra identità. In altri termini il peccato non può essere separato dalla prospettiva della riconciliazione e del perdono. Ecco: forse la “categoria” del peccato può aiutarci a comprendere due elementi fondamentali quando dobbiamo trattare le offese. Il primo. La disubbidienza è un passaggio essenziale per incontrare il limite, la regola, la norma, per poterla interiorizzare, farla nostra. L’evoluzione del bambino è contrassegnata da questa costruzione normativa attraverso l’esperienza della frustrazione e la possibilità offerta dal genitore di recuperare il rapporto ferito dall’infrazione. Non demonizziamo la trasgressione. Il secondo. Il Novecento ha conosciuto – in tutto il mondo – le tra9 Paul Ricœur, Culpabilité tragique et culpabilité biblique, in “Revue d’histoire et de philosophie réligieuse”, n. 33/4, Strasbourg 1953, pp. 285-307. 78 Marco Bouchard gedie dei regimi dittatoriali e la storia devastante dei crimini contro l’umanità, dalla Shoa ai desaparecidos, dal terrore dell’apartheid, all’arcipelago Gulag. Il dramma più potente per tutte le transizioni dai regimi autoritari ai regimi democratici è stata l’impossibilità di venire a capo per via giurisdizionale di tutti i crimini commessi. Le vittime e, sopratutto, i parenti delle vittime hanno preso partito, si sono organizzati per pretendere riconoscimento del male fatto, riparazione e, soprattutto, verità. Dai paesi dell’ex blocco sovietico agli stati sudamericani, dal Marocco al Sud Africa i governi nati sulle ceneri delle dittature hanno tentato la difficile strada della riconciliazione nazionale attraverso commissioni incaricate di sanare le ferite, rinunciando sia alla violenza sia all’istituzione giudiziaria.10 In alcuni casi è stato un successo, in altri le amnistie hanno riportato la rabbia e l’indignazione nelle strade. In molti casi le autorità religiose hanno avuto un ruolo di rilievo nel percorrere strade nuove rispetto alla giustizia penale. Non sembri paradossale: l’esigenza insopprimibile della riconciliazione appare tanto più forte quanto più sembrano imperdonabili le offese. legge e desiderio Abbiamo parlato di delitto e di peccato. In realtà vorremmo capire come si può rispondere, oggi, all’offesa. Il delitto invoca la legge, il peccato invoca il perdono. Abbiamo ragionato con termini a metà strada tra il diritto e la teologia. A ben pensarci però la trasgressione affonda in una realtà intrapsichica di cui bisognerebbe avere una qualche cognizione. Sulla crisi dell’autorità normativa e sulla degradazione etica la psicoanalisi ha qualcosa da dirci. A differenza del diritto e della teologia, la psicoanalisi non tende a preoccuparsi della trasgressione quanto piuttosto a permettere all’individuo di governare le proprie pulsioni. Come ci ricorda Massimo Recalcati, con linguaggio perfettamente fruibile anche per i non addetti ai lavori, nel governo delle pulsioni, Legge e Desiderio hanno un ruolo fondamentale perché il desiderio senza Legge tende alla dissipazione, all’eccitazione senza sponde, alla dispersione sregolata del godimento pulsionale […]. Dall’altra parte la Marcello Flores, Verità senza vendetta, manifestolibri, Roma 1999. 10 La legge al tempo dell’evaporazione del padre 79 Legge senza desiderio può generare a sua volta solo repressione, oppressione, potere disciplinare, svilimento della vita.11 Queste argomentazioni non sono certo lontane dal discorso teologico di Paolo quando afferma: Che diremo dunque? La legge è essa peccato? Così non sia; anzi io non avrei conosciuto il peccato, se non per mezzo della legge; poiché io non avrei conosciuto il desiderio, se la legge non avesse detto: non desiderare. Ma il peccato, colta l’occasione, per mezzo del comandamento produsse in me ogni sorta di desiderio; perché senza la legge il peccato è morto. […] Noi sappiamo infatti che la legge è spirituale; ma io sono carnale, venduto schiavo al peccato. Perché io non approvo quello che faccio; poiché non faccio quello che voglio, ma faccio quello che odio.12 Paolo contrappone un’età dell’innocenza, un’età indifferenziata dove la legge non è ancora venuta a rivelare l’uomo a se stesso e dove, sostanzialmente, l’uomo non ha una effettiva possibilità di scelta, a un’età nella quale l’uomo vive sotto la legge. La legge crea uno stato di tensione doloroso e permanente descritto da ben otto termini fondamentali: io, corpo, carne, desiderio, peccato, legge, volere e fare.13 La psicoanalisi c’insegna che l’io non può acquistare un suo proprio statuto personale se non attraverso la legge, il conflitto interiore che ne segue e il superamento della legge stessa come puro interdetto negativo. L’apostolo Paolo propone una lettura perfettamente corrispondente: “io non avrei conosciuto il peccato, se non per mezzo della legge”. Il conflitto che ne scaturisce divide l’io in se stesso: c’è un io religioso che vuole realizzare il comando normativo e c’è un io carnale che esprime i propri desideri. L’io è dunque doppio: volontàgiudizio e carne-desiderio.14 “Non faccio quello che voglio, ma faccio quello che odio” dice Paolo. Nel Nuovo Testamento il conflitto verrà risolto solo con l’avvento dello Spirito Santo: è lo Spirito Santo che introduce nell’uomo un nuovo rapporto con Dio, un nuovo desiderio Massimo Recalcati, Cosa resta del padre?, Raffaello Cortina, Milano 2011, pp. 74-75. Lettera ai Romani, 7, 7-25. 13 Paul-Émile Langevin, Exégèse et psychanalyse. Lecture psychanalytique de Romains vii et viii, in “Laval théologique et philosophique”, vol. 36, n. 2, Laval, Québec 1980, p. 133. 14 Paul-Émile Langevin, op. cit., p. 135. 11 12 80 Marco Bouchard che sostituisce il desiderio dinamico della carne che prevaleva nell’era impersonale, anteriore alla venuta della legge. Lo Spirito non è una semplice conoscenza – realizzata invece dalla legge – ma si propone come una potenza: l’interdetto eteronomo si trasforma in desiderio positivo. Al tempo stesso lo Spirito rivela Dio non come semplice autore della legge ma come Padre, generatore di vita: “[…] avete ricevuto uno Spirito da figli adottivi, per il quale gridiamo: Abba! Padre!”.15 Questa lettura psicoanalitica e teologica del rapporto tra legge e desiderio è una chiave che non andrebbe disdegnata nell’osservare il panorama dei rapporti sociali e istituzionali che connotano la nostra epoca. Con evidente impiego dei lavori dello psicoanalista di scuola lacaniana, le considerazioni generali del 44° Rapporto nazionale del Censis del 2010 sulla situazione sociale nel paese sono incentrate, non casualmente, sui concetti di Legge e Desiderio per dirci, molto chiaramente, che la razionalità delle norme e delle coscienze non basta più, occorre […] scendere ancor più a fondo nella personalità dei singoli e nella soggettività collettiva: bisogna avere il coraggio di scendere a verificare se e come funziona l’inconscio individuale. Non l’inconscio come luogo della dimensione irrazionale di ognuno di noi, ma come luogo della modulazione mentale della propria potenza e dei propri comportamenti. È infatti nell’inconscio che si confrontano e si articolano i due grandi fattori della vita: la legge e il desiderio. È il desiderio che esprime la volontà e il bisogno di superare un vuoto vissuto come “mancanza ad essere” perseguendo e acquisendo oggetti e relazioni; ed è la legge (l’autorità esterna o interiorizzata) che, contrastando o vincolando il desiderio, determina l’aggiustamento ad esso o la sua nevrotica rinuncia.16 Il Rapporto Censis è perfettamente consapevole che la parallela decadenza della legge e del desiderio non costituisce solo un problema limitato alla sfera individuale, perché anche il sistema sociale soffre della stessa perdita: “le norme si confondono e si accavallano; il potere si frammenta e si dissemina; la decisionalità si sfarina”. E anche quello Lettera ai Romani, 8, 15. Fondazione Censis, xliv Rapporto della situazione sociale del paese 2010 (sintesi del rapporto), FrancoAngeli, Milano 2010, p. 8. 15 16 La legge al tempo dell’evaporazione del padre 81 che sembra il potere di ultima istanza (la gestione dei flussi finanziari) non riesce a dare senso alla politica come regolazione di sistema. La tentazione più immediata a questo parallelo declino della legge e del desiderio è quella di operare sulla prima, nella convinzione che solo un ritorno alla roccia dei principi (statuali, civili, morali, religiosi) possa garantire quelle certezze di cui ha bisogno la nostra insicurezza individuale e collettiva. Ma, al di là delle ambizioni e dei pericoli delle vocazioni fondamentaliste, è da notare che non esistono in Italia quelle sedi di auctoritas che potrebbero o dovrebbero ridare forza alla legge, vista l’inermità istituzionale strisciante nonostante la presenza di forti componenti carismatiche (su tutte quella della Chiesa). Mentre scrivo queste note dolenti – 13 novembre 2011 – non posso, peraltro, non annotare che l’Italia vive una domenica dominata dalle frenetiche consultazioni del Capo dello Stato per riuscire a comporre, in questa stessa serata, un nuovo governo, dopo un’angosciante agonia di quello di centro-destra. Il comportamento del presidente della Repubblica sembra segnalare un cambiamento nello svolgimento dei compiti di garanzia che gli sono assegnati e ci induce a coltivare la speranza di una pronta restituzione al parlamento della sua funzione piena di legislatore. Speriamo. la testimonianza Facendo ancora una volta tesoro delle intuizioni del volume di Massimo Recalcati intitolato al Padre vorrei proporre un cammino che tragga insegnamento dalle insormontabili difficoltà, almeno attuali, di trovare un fondamento sicuro alla legge. Perché in ultima analisi il problema sta proprio qui, nell’impossibilità di dare un fondamento teologico, religioso o spirituale alla legge e nella corrispondente fragilità di una legge che non abbia quel fondamento. Se, dunque, la nostra società attuale ci presenta delle autorità legali poco affidabili, incerte, emotive, mi pare inevitabile che ciascuno di noi sia chiamato ad assumere delle responsabilità “pubbliche” per assolvere, al momento opportuno, al compito di orientare e canalizzare i desideri. Questo significa, innanzitutto, smuoverci dall’indifferenza nella quale rischiamo di essere paralizzati a causa delle difficoltà che incontriamo nel comprendere i cambiamenti che passano sotto 82 Marco Bouchard i nostri occhi, nel fare delle scelte di vita, personali o sociali. Non mi riferisco tanto alla prospettiva di “entrare in politica” quanto piuttosto alla necessità di diventare, tutti, buoni testimoni della Legge. Forse vale la pena risalire a un segmento mitologico ingiustamente trascurato. Tutti conoscono la storia di Prometeo che rubò il fuoco a Efesto e lo diede in dono agli uomini che lo utilizzarono per riscaldarsi, per illuminare e per cucinare. Insieme al fuoco gli uomini si appropriarono delle tecniche che sono all’origine della civiltà: la scrittura, le costruzioni, la medicina, le arti. Sennonché, pur così organizzati, gli uomini vivevano allora disseminati, non raccolti in città: essi morivano sbranati dalle belve che erano più forti di loro; e se l’arte del lavoro era sufficientemente utile per procacciare il cibo, inadeguata invece risultava nella lotta contro le fiere, ché non possedevano ancora l’arte politica di cui quella bellica non è che una parte. Provarono allora a raccogliersi insieme e a salvarsi fondando le città: ma come furono tutti uniti si nocevano reciprocamente perché non conoscevano la scienza della convivenza civile. […] Ed ecco Zeus, temendo la fine di tutta la nostra specie, inviò Ermes agli uomini con il dono della vergogna e della giustizia per far sì che divenissero i principi regolatori della città e i vincoli creatori di amichevole convivenza. Ermes dunque chiese a Zeus in quale modo dovesse distribuire agli uomini il sentimento della giustizia e del ritegno: “Forse devo distribuire anche queste doti come sono state assegnate le prime facoltà? Ché esse sono state suddivise in questo modo: uno che possieda la scienza medica basta a molti che non la possiedono, e così si dica delle altre arti: forse in questo stesso modo devo infondere il sentimento della giustizia e del pudore fra gli uomini o devo distribuirlo su tutti?”. “Su tutti – rispose Zeus – e che tutti ne partecipino. Ché non vi sarebbero città se pochi tra i cittadini partecipassero di questo sentimento come sono quelli che possiedono le altre arti. E imponi come mia legge che chi non partecipi della vergogna e della giustizia, sia ucciso come peste della città”.17 Dike e Aidos scendono dunque sulla terra per disciplinare il legame sociale. Come la vergogna anche la giustizia, la legge deve poter essere fatta rispettare da tutti senza delegare a terzi la funzione del limite, La legge al tempo dell’evaporazione del padre della regola, della norma.18 Aidos è la sanzione interna, quella che fa vergognare di sé chi non è all’altezza delle sue e delle altrui aspettative. Ecco: vorrei proprio concludere questo mio contributo con questo messaggio. Dovremmo prepararci a questo ruolo di testimoni della legge. Vorrei essere compreso: non sto invitando, come dire, a dare il buon esempio, a essere semplicemente dei buoni cittadini: questo, si spera, è la direzione verso la quale ciascuno di noi dovrebbe naturalmente tendere. Nulla di più. Mi riferisco, invece, a situazioni singolari, episodiche, occasionali nelle quali, appunto, non per mestiere ma per la forza delle circostanze siamo chiamati a render conto della Legge e del rischio che essa venga calpestata: un sopruso, un’umiliazione, un conflitto, una discriminazione. Possiamo essere spettatori oppure deciderci per la testimonianza. Il termine “testimonianza” deriva dal latino testis e, a sua volta, da terstis che indica colui che sta come terzo, funzione assegnata all’autorità chiamata a dirimere un contrasto. In greco, la testimonianza, come alcuni di voi sanno certamente, viene resa con il termine martyria che non ha nulla a che fare con l’attuale accezione di sacrificio ma indica qualcosa di importante legato alla memoria. Nel difficile rapporto tra morale pubblica e i vizi privati ritengo siamo chiamati a questa testimonianza della legge, a esprimere la capacità, al momento opportuno, di essere “terzi” e a serbare “buona memoria”. La testimonianza è il contrario dell’indifferenza e sull’indifferenza si sono consumate le grandi tragedie della storia. Il poeta polacco Czesław Miłosz racconta nella sua Elegia: nel comportamento della gente di Varsavia nei confronti del ghetto c’è stato odio, commiserazione, vergogna, antisemitismo. Ma su tutto ha troneggiato una sventata indifferenza. Quelle giostre piene di gente sorridente che volteggiava nel fumo del ghetto in fiamme lì accanto, non erano la dimostrazione di alcun antisemitismo, erano la completa indifferenza verso il destino dei propri vicini.19 Eva Cantarella, Itaca: eroi, donne, potere tra vendetta e diritto, Feltrinelli, Milano 2002, p. 34. Czesław Miłosz, Elegia, in “Polityka”, 27 giugno 1987. Testo pubblicato in L’Autre Europe, numero monografico della rivista “L’Écrivain et le Pouvoir”, nn. 17-18-19, Paris 1988, p. 199. 18 19 Platone, Protagora, 320 d-322 d, Mondadori, Milano 1993, p. 69. 17 83 una legge materna? Una legge “materna”?* Luigi Cavallaro 85 1. La scena ritrae un cupo baratro infernale. Al centro, un vecchio, nudo e curvo, al quale si avvinghia una piovra dalla forma uterina, in procinto di soffocarlo. Intorno, tre donne assistono all’esecuzione: sono Erinni dai corpi sinuosi e dalle chiome fluenti, inviate dalle tre allegorie della Verità, della Giustizia e della Legge che dominano dall’alto, su uno sfondo freddo e inerte, fatto di pareti e pilastri istoriati a mosaico, appena sotto il quale emergono i giudici: piccole facce senza corpo, impassibili e insensibili alla drammaticità della scena sottostante. È la famosa rappresentazione della Giurisprudenza di Klimt, al centro della quale non sta il perentorio imperativo della Legge, ma solo la ferocia della sua punizione. Una punizione che mette in scena la castrazione maschile di fronte a una sensualità femminile capace, a un tempo, di suscitare piacere e condurre alla morte. E in cui si esprime il sentimento d’inadeguatezza del maschio al cospetto di una beatitu- dine carnale che, non potendo essere compresa, diventa per ciò stesso minacciosa e ostile, dando luogo a un terrificante incubo erotico. Carl Schorske ne ha magistralmente spiegato la genesi.1 In quei primi anni del Novecento, la borghesia viennese committente di Klimt subisce la crescente contestazione di movimenti che sfidano apertamente l’egemonia del liberalismo. Ma è un tempo in cui l’ethos pubblico, ormai incapace di governare le tensioni sociali generate dal dominio del capitale finanziario, si è ripiegato nel pathos privato. Così, la crisi dell’ordine liberale di fronte alle forze che esso stesso ha suscitato viene percepita e raffigurata come una crisi dell’Io maschile di fronte all’emersione della soggettività femminile: una soggettività ancora in statu nascenti, giusto come quella del proletariato, ma già in grado di scuotere gerarchie sociali consolidate e indurre, con la sua sola presenza, l’incubo dell’abisso. “Flectere si nequeo superos, Acheronta movebo”, aveva del resto scritto Freud a esergo dell’Interpretazione dei sogni: non più capace di sottomettersi al suo proprio movimento sociale, l’uomo liberale abdica alla ragione strumentale e calcolante che aveva governato il flusso circolare dell’economia capitalistica così come della Ringstrasse, e precipita nell’irrazionalità del caos, dell’indistinto: ché tale gli appare ogni istanza di godimento che non sia quello suo personale. Supponiamo adesso di sostituire alle Erinni klimtiane i volti e i corpi di Karima El Mahroug (in arte Ruby Rubacuori), Veronica Lario e Patrizia D’Addario, e di dare alle icone sovrastanti i volti delle tre magistrate del collegio giudicante milanese del processo che vede l’ex premier imputato per concussione e prostituzione minorile: potremmo facilmente cogliere nella Giurisprudenza klimtiana un’allegoria del crepuscolo berlusconiano. Ma è possibile, e in che misura, un’analogia del genere? In un momento storico segnato dall’“orizzontalità” delle dinamiche socioeconomiche e sociopolitiche e da una configurazione sostanzialmente “indisciplinare” del nostro sistema sociale e giuridico, in cui disciplina e autorità perdono giorno dopo giorno non solo in espressività fenomenica, ma soprattutto in termini di significato simbolico, quale sarebbe mai la “Legge” di cui il dipinto klimtiano ci offrirebbe la rappresentazione sanzionatoria? Detto altrimenti, in * Testo rivisto della relazione presentata al Convegno annuale del Dipartimento Epistemologia e Psicoanalisi dell’irpa, Pesaro, 22 ottobre 2011. 1 Si veda Carl Emil Schorske, Vienna fin de siècle (1980), Bompiani, Milano 2004, specialmente p.192 e sgg. Nel 1977, la famiglia della sinistra uccise suo padre, il Partito comunista italiano. Un delitto a lungo cercato. Nel 1978 la famiglia politica democristiana uccise il suo, di padre, nel corpo di Aldo Moro. Fra le due esecuzioni, un’evidente continuità di cause ed effetti. Lucia Annunziata, L’ultima foto di famiglia La funzione del padre nel complesso di Edipo è quella di essere un significante sostituito al primo significante introdotto nella simbolizzazione, il significante materno. Secondo la formula, che vi ho spiegato essere quella della metafora, il padre viene al posto della madre. Jacques Lacan, Il seminario. Libro v. Le formazioni dell’inconscio 86 luigi cavallaro nome di quale “Legge” si verrebbe a perseguire e perfino a punire colui che è stato il primo ministro di una società in cui gli individui appaiono sempre più lasciati a se stessi, liberi di perseguire ciò che più gli aggrada, senza più il controllo permanente di norme generali o dettate dall’appartenenza a corpi intermedi? Una risposta ovvia e perfino precisa sarebbe: in nome della legge penale vigente, precisamente in nome degli artt. 317 e 600-bis del Codice Penale. Ma sarebbe una risposta insufficiente. Un processo penale può assurgere a metafora di un processo politico (e la condanna di un tribunale a metafora della condanna della Storia) solo nella misura in cui i fatti che vi sono giudicati hanno oltrepassato il limite posto dall’ordine simbolico che in ogni dato tempo aspetta ogni bambino già prima della nascita e se ne impadronisce fin dal primo vagito per assegnargli il posto che gli competerà nel mondo umano. Proprio qui, però, sta il problema: perché se è vero che la “Legge”, in questa accezione, è ciò che pone un limite all’effervescenza del desiderio, non si può negare che la società in cui viviamo si sia posta consapevolmente nel segno del rifiuto dell’esperienza stessa del limite.2 E se è vero che nessun “padre” assolve più alla sua tipica funzione normativa di unire e non opporre il desiderio alla Legge, la domanda cui prima accennavamo non può essere elusa: in nome di quale “Legge” si può pretendere di condannare colui che nella sua persona ha letteralmente incarnato codesta postmoderna equivalenza fra Legge e godimento? Riabilitando addirittura il fantasma del padre dell’orda freudo-darwiniana, che ha diritto di godere di tutte le donne perché in lui il luogo della Legge appunto coincide con quello del godimento?3 2. Nel linguaggio comune, il termine “legge” è solitamente impiegato in due modi differenti: talvolta lo si impiega come sinonimo di “diritto” in senso oggettivo, e dunque per designare l’insieme delle norme che compongono l’ordinamento giuridico, quasi che quest’ultimo fosse indistinguibile dalle sue fonti; altre volte lo si usa in luogo del sintagma Si veda Massimo Recalcati, Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Raffaello Cortina, Milano 2011. 3 Condividiamo l’idea che in questa duplice caratteristica si debba ricercare il carattere “epocale” della figura di Silvio Berlusconi. Si veda Massimo Recalcati, L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica, Raffaello Cortina, Milano 2010, p. 13. 2 una legge materna? 87 “fonte del diritto”, e dunque per suggerire che la legge sia fonte del diritto per antonomasia. Nell’uno come nell’altro caso, si tratta di significati in cui è facile rinvenire le tracce di quella peculiare concezione del diritto e dei poteri dello Stato che è tipica della classica dottrina della divisione dei poteri di matrice montesquieuiana. L’idea che il termine “legge” sia sinonimo di diritto in senso oggettivo rimanda infatti all’altra secondo cui il diritto sarebbe costituito da un insieme di precetti di carattere generale e astratto, e quest’ultima, a sua volta, è figlia di una peculiare concezione del potere legislativo, che sarebbe appunto il potere di creare norme generali e astratte; d’altra parte, l’idea che la funzione tipica del potere legislativo consista nella creazione di norme generali e astratte vale a impedire sia che altri poteri dello Stato possano arrogarsi il compito di emanare norme dotate delle stesse caratteristiche (ciò che si esprime dicendo che il potere esecutivo e quello giurisdizionale possono adottare solo provvedimenti riferiti a casi singoli), sia che il potere legislativo possa adottare norme “particolari” o destinate comunque a disciplinare fattispecie concrete: una legge singolare e concreta, si dice, non potrebbe infatti avere altro oggetto che l’attribuzione di un privilegio o la sottrazione di un diritto, e nell’uno come nell’altro caso violerebbe il principio di uguaglianza. È però un fatto che codesta concezione della legge, della funzione legislativa e dei loro rapporti reciproci e con gli altri poteri dello Stato sia stata visibilmente contraddetta dalla prassi concreta del nostro ordinamento giuridico. Per limitarci alla storia dell’ordinamento repubblicano, abbiamo infatti assistito all’adozione di atti dal contenuto particolare e concreto da parte del potere legislativo, finalizzati o all’ablazione di diritti di proprietà di cui erano titolari specifici soggetti giuridici (come fu nel caso delle cosiddette leggi di riforma agraria, con le quali si procedette all’espropriazione di talune aree del territorio nazionale allo scopo di ridistribuire la proprietà terriera fra i contadini) ovvero alla concessione di diritti a ristrette categorie di soggetti, individuati in ragione di specifiche condizioni personali (si pensi alla legislazione in materia di provvidenze economiche agli invalidi civili). Altre volte, invece, abbiamo assistito all’adozione di leggi il cui contenuto, oltre a essere manifestamente settoriale (per esempio, il blocco degli scatti di contingenza sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti), era per di più pressoché interamente predeterminato da precedenti 88 luigi cavallaro intese con le cosiddette “parti sociali”, vale a dire da accordi intercorsi tra il Governo e le confederazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori (e non di rado solo da alcune di esse). Sempre più spesso, poi, leggiamo di sentenze “rivoluzionarie” che, nel prospettare soluzioni affatto inedite per il caso concreto che si trovano a dover decidere, enunciano principi che per generalità e astrattezza non hanno nulla da invidiare a quelli che dovrebbero essere posti dal legislatore; e non meno generali e astratti si rivelano taluni provvedimenti adottati dal Governo o da altre pubbliche amministrazioni per disciplinare le modalità di accesso ai servizi erogati, tanto più se – come spesso accade – è la stessa legge che istituisce questi ultimi a rinviare all’uopo a successivi “regolamenti” amministrativi. Sarebbe riduttivo considerare questa commistione di ruoli fra poteri dello Stato come un’ulteriore spia di quella configurazione “indisciplinare” della nostra società cui prima accennavamo. Nell’affrontare lo studio di un ordinamento giuridico bisogna infatti distinguere non soltanto l’infrastruttura costituita dalla realtà sociale dall’insieme delle norme che la regolano, ma altresì queste ultime dalla particolare “teoria del diritto” che tenta di portarle a sistematicità e, in ultima analisi, a legittimarle sul piano ideologico. Si tratta di una distinzione fondamentale, che però è sovente offuscata dal tentativo più o meno deliberato dei giuristi di confondere fra l’oggetto della scienza giuridica e la sua conoscenza, allo scopo di pervenire a risultati non fondati sul piano del diritto positivo e che possono essere conseguiti soltanto a patto di rendere surrettiziamente la teoria del diritto fonte essa stessa di diritto. La teoria della tripartizione dei poteri, con la connessa attribuzione alla legge della funzione di veicolare soltanto norme generali e astratte, non fa eccezione: essa, come s’è già accennato, mira infatti a delimitare competenze (tra i poteri dello Stato) e contenuti (degli atti propri di ciascuno di essi) in un modo che non appare in alcun modo fondato sul nostro ordinamento costituzionale: lo ha rilevato la Corte Costituzionale quando, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità delle cosiddette “leggi-provvedimento”, ha osservato che, se “la legge è l’atto col quale normalmente si producono le norme che compongono l’ordinamento giuridico dello Stato”, non esistono norme costituzionali che definiscano “la funzione legislativa nel senso che essa consista esclusivamente nella produzione di norme generali ed astratte” (Corte Costituzionale, 25 maggio 1957, n. 60). Se dunque vogliamo mantenerci sul piano del linguaggio comune una legge materna? 89 e nondimeno attribuire al concetto di “legge” un significato che sfugga alle aporie di una teoria del diritto le cui finalità ideologiche sono state da tempo denunciate, dobbiamo evitare di attribuire alla legge il significato di norma “generale e astratta” e assumerla piuttosto come sinonimo di “norma giuridica”, intesa come “dover essere”: ovvero, e più precisamente, come “giudizio ipotetico che esprime il rapporto specifico di un fatto condizionante con una conseguenza condizionata”.4 In questa accezione puramente formale essa si presta a essere impiegata qualunque sia la veste concretamente assunta dal materiale giuridico empirico che si considera, si tratti cioè di una legge, di un provvedimento amministrativo, di una sentenza o di un contratto: ciò che la connota è infatti una specifica “tecnica sociale” che consiste nell’indurre (o nel cercare di indurre) una certa conformazione dei rapporti sociali, collegando a quei comportamenti umani che ne rappresentano l’antitesi la conseguenza di un atto coattivo (che di solito consisterà nella privazione di un bene: vita, libertà, beni economici). Soprattutto, un’accezione del genere consente di rimuovere quel contrasto fra “produzione” e “applicazione” del diritto la cui sistematica riproposizione nella concreta vita degli ordinamenti giuridici turba invece i quieti sonni della teoria della divisione dei poteri. Grazie a essa, infatti, si vede chiaramente come ogni atto giuridico costituisca al contempo “esecuzione” del comando di una norma di grado più elevato e “produzione” di una norma di grado inferiore; che dunque la legislazione in rapporto alla costituzione è altrettanto “applicazione” del diritto quanto l’amministrazione in rapporto alla legislazione; che il compito di ricavare dalla legge la giusta sentenza o il giusto atto amministrativo è sostanzialmente uguale a quello di fare la giusta legge nell’ambito della costituzione, ossia un problema di politica del diritto; e che, in ultima analisi, il “processo di produzione del diritto” non si conclude affatto con la legislazione, ma trova la propria continuazione nell’amministrazione così come nella giurisdizione, e perfino in quegli atti di produzione negoziale del diritto che sono i contratti, a cominciare da quell’“ibrido”che meglio di tutti ne coglie la capacità di trascendere normativamente il rapporto esistente tra le parti: il contratto collettivo. Non si tratta, beninteso, di un escamotage puramente dialettico, quasi che si volesse proiettare su una realtà dispettosa un’immagine unifi Hans Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto (1934), Einaudi, Torino 2000, pp. 62-63. 4 90 luigi cavallaro cante decisa a priori dalla scienza: come sempre è piuttosto lo sconvolgimento dei rapporti sociali reali a riflettersi nel mondo del diritto. La trasformazione dell’antica “legge” nella moderna “norma” ha infatti alla sua base l’irruzione nell’ambito dell’economia capitalistica di mercato di categorie e prassi proprie dell’economia pianificata, all’insegna delle quali, fin dagli anni trenta dello scorso secolo, si compie nel mondo occidentale la transizione dallo “Stato di diritto” allo “Stato sociale”.5 La scienza giuridica più avvertita – su tutti, Hans Kelsen – si limita semplicemente a prenderne atto: la crisi del dogma della sovranità della legge non segna infatti la fine del positivismo giuridico, ma al contrario ne impone una ristrutturazione coerente con il nuovo paradigma costituzionale dello Stato sociale. Una legge “generale e astratta” è fatta per designare limiti e vincoli esteriori a un’azione che si vuole sostanzialmente “libera”, anzitutto nella sua ricerca di benessere economico. Ma nell’ambito del nuovo paradigma dello Stato sociale, questa libertà non può più entrare in contrasto “con l’utilità sociale” o esplicarsi “in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana” (Costituzione della Repubblica Italiana [Cost.] art. 41 comma 2°); e spettando ai pubblici poteri il compito di determinare “i programmi e i controlli opportuni” affinché la ricerca individuale del benessere economico “possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali” (Cost., art. 41 comma 3°), l’ordinamento giuridico deve prendere atto che l’unico significato ancora plausibile di “generalità” è la possibilità di ripetuta applicazione dei suoi precetti, mentre all’“astrattezza” non residua altro possibile contenuto che la loro tendenziale impersonalità. Per il resto, la normatività propria dello Stato sociale non può che esprimersi che a mezzo di comandi concreti, perché solo in questo modo può essere convenientemente perseguito l’obiettivo del continuo ridisciplinamento di comportamenti sociali estremamente mutevoli che è tipico del piano. Risulta evidente, in quest’ottica, la logica immanente a quei prov5 Un autore che meglio di altri ha colto il significato di questa trasformazione e il modo in cui essa si è riflessa nell’ambito dell’ordinamento positivo e della scienza giuridica è Antonio Negri, specialmente in alcuni saggi degli anni sessanta poi inclusi nel suo La forma stato. Per la critica dell’economia politica della Costituzione, Feltrinelli, Milano 1977. Sfortunatamente, a causa del velo ideologico derivante dall’esclusiva considerazione della “faccia capitalista del processo” (ivi, p. 55), egli ci ha consegnato i risultati della sua ricerca in forma capovolta: parafrasando un celebre luogo di Marx, bisogna rovesciarla per scoprirne il nocciolo razionale entro il guscio mistico. una legge materna? 91 vedimenti che, con tono talvolta spregiativo, sono stati designati come “leggi-provvedimento”, “leggine” e “leggi contrattate”: si tratta di altrettante manifestazioni di quella “amministrativizzazione della legge” che richiede interventi regolativi puntuali, capaci di incidere sulle dinamiche economiche e sociali con la stessa flessibilità degli strumenti amministrativi. 3. Se è vero che il “sociale” inteso dallo psicoanalista non designa le situazioni sociali in sé e per sé considerate, ma piuttosto le traduzioni fantasmatiche delle formazioni ideologiche che da esse traggono alimento,6 può essere interessante a questo punto ricordare che la psicoanalisi che si afferma a partire dal secondo dopoguerra, in concomitanza con l’ascesa dello Stato sociale in tutto il mondo occidentale, è imperniata sulla figura della madre. Grazie al lavoro di Melanie Klein, Wilfred Bion, Donald Winnicott, la centralità teorica di concetti come “Io”, “sessualità” o “individuo” recede a favore di nuove categorie come “oggetto”, “madre”, “gruppo”. Mentre per Freud il Super-Io si costituisce come imperativo categorico “generale e astratto”, per la Klein si struttura in relazione a obblighi concreti e puntuali nei confronti di un “altro” particolare, dapprima identificato nell’ambito della sfera familiare e degli amici e poi – specie dai suoi seguaci – gradatamente allargato fino a includere il “gruppo” o la “famiglia” nazionale. Mentre Freud vede all’origine del “disagio nella civiltà” l’esito ultimo di un conflitto insanabile fra pulsioni naturali individuali e leggi sociali umane, per la Klein il conflitto si deve piuttosto alla frustrazione di bisogni materiali primari e ai sentimenti di odio e d’invidia che ne derivano. E mentre l’attenzione del Mannerbund appare concentrata sulla figura del padre e sul suo rapporto con il figlio maschio, il circolo kleiniano si avvede (come già Lacan sul finire degli anni trenta) della “scomparsa” del padre e si preoccupa piuttosto di indagarne le conseguenze nel rapporto della madre con i figli. Sarebbe difficile sopravvalutare il ruolo avuto dalla tradizione culturale del movimento operaio socialdemocratico e comunista nel favorire l’affermazione della prospettiva delle “relazioni oggettuali”, a comincia6 Spunti fecondi in questa direzione in Louis Althusser, Sulla psicoanalisi. Freud e Lacan (1976), a cura di Olivier Corpet e François Matheron, Raffaello Cortina, Milano 1994. 92 luigi cavallaro re dall’idea che il Super-Io nascerebbe da precoci rappresentazioni della madre e dunque molto prima della costituzione del complesso edipico. Già Marx ed Engels avevano favorevolmente salutato le scoperte di Bachofen e Morgan sull’origine matriarcale della famiglia: non solo perché ne veniva implicitamente confermata la relatività storica della struttura familiare (e dunque sociale) borghese, ma soprattutto perché la rivelazione della tracce di un intero periodo storico in cui la donna aveva detenuto le chiavi dell’autorità costituiva un formidabile contributo teorico alla lotta per l’emancipazione sociale e politica delle donne. Ma era soprattutto la classe operaia in quanto tale a potersi considerare “la vera, reale rappresentante delle tendenze matricentriche”,7 poiché era “spontaneamente” portatrice di concezioni che della famiglia esaltavano l’interdipendenza e la responsabilità reciproca dei suoi membri e soprattutto la fiducia in un amore incondizionato e sempre capace di pietà e di aiuto per i più deboli e bisognosi. Non deve dunque sorprendere che l’immagine della madre affettuosa e premurosa pervada il celeberrimo “Rapporto Beveridge” del 1942, ormai universalmente considerato come l’atto fondativo del moderno Stato sociale: si trattava piuttosto della presa d’atto che il conseguimento della sicurezza sociale e della piena occupazione richiedeva che la collettività riconoscesse la propria vulnerabilità e la propria dipendenza, ricostituendo nei suoi rapporti con lo Stato un legame analogo a quella relazione dei figli con la madre che, nell’ottica kleiniana, costituiva la via d’accesso alla responsabilità etica. Difficilmente, del resto, si potrebbero misconoscere nel moderno Stato sociale i tratti distintivi della “Grande Madre”: tanto il carattere “elementare” (ossia quell’aspetto del femminile che tende a “contenere” ciò che origina da sé e che si estrinseca nell’offrire protezione, nel nutrire, nel riscaldare ecc.) quanto il carattere “trasformatore” (che invece ambisce allo sviluppo e alla crescita di ciò che è originato da sé) 8 si colgono a piene mani nelle politiche pubbliche volte, per esempio, all’assistenza all’infanzia, all’educazione, all’edilizia popolare, all’assistenza sanitaria, alla disciplina dei suoli e dell’uso dell’ambiente. Si può anzi aggiungere 7 Erich Fromm, La teoria del diritto matriarcale e i suoi rapporti con la psicologia sociale, in Id., La crisi della psicoanalisi (1970), Mondadori, Milano 1971, p. 149. 8 Si veda Erich Neumann, La Grande Madre (1955), Astrolabio, Roma 1981, specialmente p. 34 e sgg. una legge materna? 93 che è proprio in questa attenzione che l’ordinamento giuridico finalmente rivolge agli aspetti materiali dell’esistenza individuale e collettiva che si può cogliere il suo carattere materno: come si ricorderà, la caratteristica eminente dello “Stato di diritto” borghese consiste all’opposto nel negare rilevanza giuridica alle differenze nelle condizioni materiali e nell’attribuire valore decisivo all’ideale dell’uguaglianza formale dei soggetti di diritto. Proprio per ciò si sbaglierebbe chi pensasse di rinvenire nei testi e documenti fondativi dello Stato sociale tracce anche minime di quell’immaginario “maternale” che di lì a qualche decina d’anni sostituirà, in molto pensiero femminista americano, il Nomedel-Padre con il corpo della madre, idealizzando quest’ultima come figura a tutto pieno, tanto gravida di fusionalità pre-edipica quanto foriera di conseguenze politiche e psicologiche regressive: al contrario, la madre funziona qui come ordine simbolico alternativo a quello capitalisticoborghese. Essa è infatti figura della prima relazione dispari di scambio, quella in cui si impara a parlare, e come tale può veicolare un’immagine di “libertà” che non consiste più in un insieme di diritti facenti capo al singolo per consentirgli di isolarsi dalla società, ma si risolve in una pratica in cui l’“individuazione” avviene all’interno di una relazione fondata sull’“affidamento” e sullo “scambio” con l’autorità.9 Già lo stesso Kelsen aveva del resto denunciato il carattere ideologico del concetto di “diritto soggettivo”, ravvisandovi il tentativo di erigere ostacoli contro i rischi che agli interessi costituiti possono derivare dal dispiegarsi della processualità immanente all’ordinamento giuridico: in realtà, un diritto “soggettivo” non si dà mai, perché il diritto dell’uno esiste soltanto come reciproco del dovere dell’altro ed entrambi possono essere soltanto il frutto di una norma che li istituisce. Semmai, bisogna ammettere che, una volta che la norma è riconosciuta come mediazione provvisoria di interessi contrastanti, potrà ben darsi che la dinamica automoventesi dell’ordinamento ne modifichi il contenuto nonostante che il “testo” che la istituisce sia rimasto identico: sarà infatti il processo, luogo per eccellenza deputato alla rappresentazione del conflitto, a farsene carico, suggerendo al giudice un’interpretazione evolutiva che giunga alfine a produrre quella nuova norma che l’assetto sociale reputa coerente con le concrete emergenze del tempo storico. 9 Per questa peculiare declinazione della relazione con la madre si veda Lia Cigarini, La politica del desiderio, Nuova Pratiche Editrice, Parma 1995. 94 luigi cavallaro una legge materna? 95 È dunque nell’ambito di questo “ordine simbolico della madre”10 che possono essere comprese le pratiche di scambio, contrattazione e soprattutto di cura per l’altro particolare e concreto che informano e conformano la “Legge” al tempo dello Stato sociale. Né può stupire che, trattandosi di pratiche che prendono corpo entro rapporti segnati dalla disparità e dall’affidamento, abbiano dato luogo a conflitti affatto analoghi a quelli analizzati nell’ambito della psicoanalisi delle “relazioni oggettuali”. Tendenzialmente, infatti, la posizione dell’individuo singolo di fronte all’autorità dello Stato sociale è connotata da un’ambivalenza emotiva simile a quella sperimentata dal bambino nei confronti della madre, che è oggetto d’amore nella misura in cui corrisponde ai suoi bisogni e oggetto di risentimento quando li disattende; ed è evidente che, fintanto che le due relazioni coesistono l’una accanto all’altra, la conseguenza sarà una replica della “posizione schizoparanoide” tratteggiata da Melanie Klein per designare quella condizione caotica e angosciosa della primissima infanzia da cui si può emergere solo per “scissione”.11 È solo quando il singolo comprende che lo Stato sociale è altro da sé, e proprio per ciò può soddisfare o negare le sue singole aspettative senza che la positività del rapporto ne risenta in modo decisivo, che si apre la possibilità dell’ingresso nel mondo simbolico dell’Edipo: un ingresso che, per il bambino, è segnato dalla comparsa di quegli “oggetti transazionali” che assumono il ruolo di simbolizzare “l’unione delle due cose ora separate, il bambino e la madre”,12 e per il cittadino nella comparsa di strumenti capaci di garantire un equilibrato e stabile rapporto fra rappresentanza e mediazione: i partiti politici. Che tra la costituzione dello Stato sociale e il sistema dei partiti si dia corrispondenza biunivoca non è difficile da mostrare, nonostante una ben consolidata “retorica antipartito” li abbia accusati di costituire un diaframma che si interporrebbe abusivamente tra società civile e Stato, impedendone l’immediata comunicazione. In realtà, se è vero che i partiti possono essere accostati a “oggetti transazionali” grazie ai quali i cittadini riescono a simbolizzare la loro unione con lo Stato, che invece necessariamente costituisce un’entità rispetto a loro separata, bisogna concludere che il tanto biasimato “diaframma” è in realtà un mezzo necessario per distruggere ogni residuo di rapporto fusionale e pre-edipico con l’autorità statuale (ciò che di solito funge da premessa per occultare dietro una fittizia “volontà comune” il reale contrasto degli interessi in gioco, e segnatamente il fatto che uno di essi sta prevalendo a scapito di altri). In quest’ottica, il fatto che la Costituzione repubblicana stabilisca espressamente che i cittadini “hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (Cost., art. 49) può essere piuttosto accostato al gesto con cui la madre indica al bambino il padre in quanto tale e, così facendo, lo introduce al loro mondo simbolico: perché è sempre la parola della madre ad attribuire autorità simbolica alla parola del padre, che può essere pronunziata solo in stretta relazione con la parola materna. 4. Non è difficile, a questo punto, comprendere le ragioni profonde del ruolo pedagogico che i partiti hanno svolto nel corso della cosiddetta Prima Repubblica. Meno ancora può stupire se è proprio la tensione edipica fra Legge e godimento di cui essi sono stati eretti garanti a esser presa di mira nella stagione che va dal 1968 al 1977, un decennio che può essere considerato come la conclusione del ciclo politico apertosi dopo il referendum del 2 giugno 1946. “Il cartello di protesta che sovrasta tutti gli altri porta scritto: lotta alla repressione”, nota già nel febbraio 1968 Elvio Fachinelli,13 e “il discorso sulla repressione rimanda immediatamente al problema dell’autorità paterna. Sembra quasi che quel giovane agiti il fantasma di un padre potente e autoritario che deve essere abbattuto”. Ma quel “padre”, come sempre accade nella struttura dell’Edipo, è in realtà una metafora: “un significante che viene al posto di un altro significante”, più precisamente “un significante sostituito al primo significante introdotto nella simbolizzazione”, che è “il significante materno”.14 Proprio per ciò, l’attacco al “padre”, ai partiti, costituisce in realtà un modo per colpire il significante rimosso nella simbolizzazione, vale a dire quella relazione madre-bambino Alludiamo naturalmente a Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre, Editori Riuniti, Roma 2006. 11 Si veda Melanie Klein, Note su alcuni meccanismi schizoidi, in Ead., Scritti 1921-1958, Bollati Boringhieri, Torino 2006. 12 Donald Woods Winnicott, Gioco e realtà (1971), Armando Editore, Roma 2006, p. 155. 13 Si veda Elvio Fachinelli, Il desiderio dissidente, ora in Id., Il bambino dalle uova d’oro, Feltrinelli, Milano 1979, da cui sono tratte anche le citazioni che seguono. 14 Jacques Lacan, Il seminario. Libro v. Le formazioni dell’inconscio (1957-1958), Einaudi, Torino 2004, p. 176. 10 96 luigi cavallaro veicolata dall’accentuata torsione in senso “sociale” dell’antico “Stato di diritto”. “Per questi giovani”, prosegue infatti Fachinelli, l’obiettivo critico è “un’immagine o fantasma di società che, mentre promette una sempre più completa liberazione dal bisogno, nello stesso tempo minaccia […] la perdita di sé come progetto e desiderio.” E “dal punto di vista individuale, questa condizione sembra il ripetersi, nell’età adulta, di una situazione angosciante che è stata quella del rapporto con la madre”. Al fondo c’è ovviamente un problema reale: esattamente come la “Grande Madre” dell’archetipo junghiano, lo Stato sociale possiede un’ambivalenza dovuta al fatto che ciò che in positivo si esperisce come assistenza e cura finalizzata all’emancipazione, possiede in negativo un carattere inibitorio e vincolante rispetto ad altre possibili forme di autonomia e libertà. L’emancipazione garantita dallo Stato sociale non può avvenire che nell’ambito degli obiettivi dell’ordinamento del piano e ogni “contestazione”, per quanto “generale” possa essere, deve di necessità mettere capo a una non meno generale mediazione. “Il livello più alto della società industriale”, nota ancora Fachinelli, tende perciò “a essere vissuto dal singolo come la ripetizione, nei suoi punti cruciali, della relazione più ‘naturale’, più ‘biologica’ esperimentata all’interno della famiglia”, quella con la madre; del resto, sono le stesse formazioni ideologiche della società a far uso, in quel tempo, di metafore “cibernetico-biologiche”, restituendo con ciò l’immagine di un complesso di sistemi la cui regolazione è già prevista in anticipo. Questa pretesa totalizzante dell’ordinamento, che tendenzialmente non può far sfuggire nulla al proprio dominio, è ciò che mette capo al rovesciamento dell’immagine della madre premurosa e affettuosa in quella terribile della Mater mortifera, che uccide e divora i propri figli. E poco importa che essi siano diventati “individui” grazie alle politiche volte all’assistenza sanitaria, all’istruzione pubblica e alla piena occupazione, confermando così l’idea durkheimiana dello Stato come “liberatore dell’individuo”: ciò che adesso conta, conclude Fachinelli, è una “dialettica del desiderio” tale per cui “ogni meta è superata nel momento stesso in cui è raggiunta”, perché l’essenziale non è più “l’oggetto del desiderio, ma lo stato di desiderio”. Non c’è allora da stupirsi che l’“anti-Edipo” idealizzato da Deleuze e Guattari giunga ad affermarsi – giusta una precoce intuizione di La- una legge materna? 97 can – all’insegna del trionfo del “discorso del capitalista”.15 Per motivi complessi, che qui non possiamo indagare,16 gli anni settanta segnano la crisi, quel “limite” reciproco che nelle società industriali avanzate si è costituito fra “capitalismo” e “socialismo”: a essere rimessa in discussione è infatti quella particolare declinazione della Legge della castrazione simbolica (o, se si preferisce, della kelseniana Grundnorm) che ha visto fino a quel momento dominare il “socialismo” sul “capitalismo”, l’uguaglianza sulla libertà, lo stato sul mercato. Nelle aule universitarie occupate così come nelle sale di contrattazione delle Borse valori si fa strada progressivamente l’idea che a indurre la crisi sia stata la dipendenza dallo “Stato assistenziale”, che erode la fiducia degli individui in se stessi e, considerandoli sempre e comunque “vittime” delle condizioni sociali, ne impedisce qualsiasi forma di responsabilizzazione etica nei confronti del loro destino. La forza seducente dell’argomentazione consiste nel fatto che rimescola le carte dell’opposizione fra progressisti e conservatori, elaborando una nuova sintesi che prende dai secondi la vecchia critica moralistica nei confronti dell’assistenza pubblica e dai primi la fiducia nella possibilità di costruire una società migliore. E la conseguenza più visibile è il mutamento della considerazione sociale dell’imprenditore, che rapidamente dismette i vecchi panni del “capitalista sfruttatore” per assurgere a icona principale dell’agire autonomo. Vi si accompagnano la credenza nella “fine delle ideologie”, in nome di un “pensiero debole” che sempre meno riesce a distinguere tra il vero e la finzione, e il perseguimento dell’obiettivo della soddisfazione personale, in una sorta di collettivo “Arricchitevi!” che non è solo ricerca di guadagno e realizzazione professionale, ma anche e soprattutto ricerca e consumo di beni e servizi capaci di veicolare status-symbol. È lo “spirito degli anni ottanta”;17 e poco importa che in vasti settori del Paese codesta “libertà” si manifesti sotto forma di diffusa inosservanza delle norme vigenti, rapaci appropriazioni di beni collettivi e forme di ribellismo teppistico e anarcoide: il “dispositivo indisciplinare”18 inoculato nel Si veda Massimo Recalcati, L’uomo senza inconscio, cit., p. 27 e sgg. Sia consentito sul punto il rinvio a Luigi Cavallaro, Lo Stato dei diritti. Politica economica e rivoluzione passiva in Occidente, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Vivarium, Napoli 2005. 17 Se ne veda una sintesi emotivamente non avversa in Marco Gervasoni, Storia d’Italia degli anni ottanta. Quando eravamo moderni, Marsilio, Venezia 2010. 18 Si veda Giovanni Bottiroli, Non sorvegliati e impuniti. Sulla funzione sociale dell’indisciplina, 15 16 98 luigi cavallaro la società in quegli anni “formidabili” si rivela affatto adeguato allo scopo di ristrutturare la Grundnorm precedente, invertendo le gerarchie di dominanza e subordinazione. Al punto che, se oggi possiamo convenire con quelle analisi che evidenziano come la nostra epoca sia dominata da un nuovo “totalitarismo dell’oggetto”, è perché il trionfo della triade “narcisismo-libertà-mercato” ha riconfigurato nuovamente il nostro movimento sociale nella forma – direbbe Marx – di un “movimento di cose”, al quale siamo tornati a essere assoggettati. Ora, è certo difficile sottrarsi all’idea che il “grande Altro” di questo mondo, che da tre anni a questa parte sembra peraltro entrato in una crisi difficilmente reversibile, si sia “soggettivato” in Silvio Berlusconi.19 Il mutamento di costituzione materiale che abbiamo vissuto, specie dal 1992 in poi, abbisognava in effetti di una figura che, con la sua stessa esistenza corporea, ne dimostrasse la concreta possibilità di successo, stemperando l’insicurezza e l’angoscia di massa che ogni cambiamento epocale porta con sé. Per ciò la figura di Berlusconi è stata (ed è ancora) oggetto di amore popolare: egli è stato l’unico leader contemporaneo che è apparso credibile nella sua perorazione dell’ordine capitalistico come “il migliore dei mondi possibili”, perché diversamente dai suoi avversari non vi ha mai associato la mistica dei “sacrifici”, ma solo il puro godimento. D’altra parte, se è fondata l’ipotesi che ha fatto da guida a queste considerazioni, che cioè all’origine del tempo presente c’è (ancora) un “matricidio”, perpetratosi stavolta nella forma di una ribellione nei confronti della “Legge” dello Stato sociale, possiamo suggerire anche i motivi per cui il redde rationem torna ad assumere le sembianze di un incubo al femminile come quello dipinto da Klimt. Se infatti la figura di Ruby rappresenta il godimento nella sua forma più estrema, quella dell’incesto, e proprio per ciò riflette al meglio la dissoluzione del limite di cui costituiva presidio un tabù vecchio quanto la civiltà umana, il plateale abbandono di Veronica e la frigidità ostentata da Patrizia D’Addario costituiscono altrettanti smacchi attraverso i quali si può cogliere il fallimento della promessa liberale-liberista-libertaria incarin Massimo Recalcati, a cura di, Forme contemporanee del totalitarismo, Bollati Boringhieri, Torino 2007. 19 L’analisi più convincente al riguardo è consegnata al volume curato da Carlo Chiurco, Filosofia di Berlusconi. L’essere e il nulla nell’Italia del Cavaliere, Ombre Corte, Verona 2011. una legge materna? 99 natasi nella figura di Berlusconi: ossia il fallimento del mito dell’eterna riproduzione allargata del capitale. È a causa di questo fallimento, testimoniato dalle penose condizioni di precarietà e disoccupazione in cui versano i nostri giovani, che oggi Berlusconi è chiamato ad assumere le sembianze del protagonista maschile della Giurisprudenza di Klimt: “un vecchio dal culo flaccido”, come certo l’avrebbe descritto la sua igienista dentale. Quest’Italia costruita a sua immagine e somiglianza gli si ritorce contro in nome degli stessi valori di piena occupazione, sicurezza sociale e signoria politica sul denaro sui quali era stato edificato lo Stato sociale del secondo dopoguerra. E che siano le donne a ergersi a giudici ed esecutrici della sua condanna non può a questo punto stupire: l’indocilità del loro corpo al desiderio maschile non è più che una metafora dell’incapacità del capitale finanziario di sussumere la totalità del corpo sociale entro il suo desiderio di riproduzione indefinita di valore. Più di questo la filosofia del diritto e la psicoanalisi non possono dire: esse possono solo interpretare il mondo in modi differenti. Verrebbe fatto di concludere che si tratta, oggi come mai, di cambiarlo. Istituzioni e legge Istituzioni e legge Giovanni Mierolo Che cosa consente alle istituzioni, che si assumono il compito di prendersi cura, di non essere guidate da criteri semplicemente protocollari? Che cosa consente di trovare una regolazione che sia in grado di andare oltre un’idea universale della salute? In definitiva, che cosa significa, per chi opera in un’istituzione, prendersi cura? Vorrei provare ad aggiungere alle risposte già abbondantemente esplorate, e intuitivamente evidenti, alcune considerazioni a partire da un caso. il caffè di nando Nando ha cinquantadue anni. È stato ricoverato in ospedale psichiatrico dall’età di sei anni. Dopo la chiusura dei manicomi vive in una comunità residenziale insieme ad altri ex pazienti psichiatrici. La comunità è gestita da educatori, psicologi e operatori sanitari, poiché Nando e altri come lui non sono ritenuti in grado di condurre una vita autonoma. In particolare, Nando ha manifestato episodi di violenza contro di sé e contro gli oggetti, ponendo il problema di contenerlo, di isolarlo, per limitarne la distruttività. Ultimamente va meglio, da qualche mese non ci sono episodi di aggressività ma, per gli operatori, c’è un altro problema: beve troppi caffè, anche dieci al giorno. Ne prende tre al mattino, quattro nel pomeriggio e poi, quando torna dalla passeggiata con la madre, c’è un rituale del caffè. Luisa, l’edu- 101 catrice, dice che sono troppi, gli faranno male. È in disaccordo con un’altra educatrice che si chiede perché mai bisognerebbe negare a Nando qualcosa che desidera. In questo dissidio si profilano due scuole di pensiero: da una parte chi pensa di dover proteggere Nando dalle complicazioni della sua condotta, dall’altra chi ritiene che il compito dell’operatore non consista nell’imporgli veti e limitazioni: “alla sua età. Ma se è quello che vuole!” Di fronte alle opinioni divergenti il responsabile della comunità prende salomonicamente la via di mezzo: “con un po’ di buon senso proviamo a capire di quanti caffè ha bisogno Nando”. Riporta il problema sul piano del bisogno, di una necessità fisiologica di caffè, oltre il quale si aprirebbe lo spazio di un godimento eccessivo e deleterio: “stabiliamo un numero massimo di caffè, che non gli facciano male e chiudiamo la discussione”. Ma gli operatori si rendono conto che se imboccassero questa via aderirebbero a un’idea del lavoro di cura che sarebbe guidato dalla identificazione di bisogni. Potrebbero prodigarsi alla costruzione di un mondo ordinato, ricco di formule e di risposte in cui Nando – e magari ciascuno di noi – ricondotto alla sua matrice organica, sarebbe esentato dallo scegliere. Poiché tutto starebbe già scritto. In questo caso, invece, gli operatori sanno di muoversi al di là dei bisogni, al di là di un principio guida. Per questo accettano la mia proposta di andare oltre e indagare, tra l’altro, il rituale del caffè. Il rituale, spiegano, nasce da una abitudine che Nando ha da quando viene a trovarlo la mamma. La madre ha ormai quasi ottant’anni e tre giorni alla settimana fa visita a Nando. Porta con sé una bottiglia di acqua minerale e dei panini. Mangiano insieme i panini ed escono per una passeggiata. Il responsabile più di una volta aveva proposto alla mamma di non preoccuparsi per il cibo. In comunità non manca, c’è anche una buona dotazione di acqua minerale, addirittura della stessa marca di quella che porta con sé la madre. Ma, anche qui, diviene subito evidente che stiamo parlando di un’acqua che non ha nulla in comune con l’acqua della madre di Nando. E comunque non fa parte del loro rituale. Un rituale che prevede, dopo la passeggiata, al ritorno in Comunità, il caffè insieme agli operatori. Se la visita dura un po’ di più magari anche due. A un certo punto della discussione Maria la interrompe dicendo: “Con tutto questo parlare di caffè me ne è venuta voglia. Cosa ne dite 102 Giovanni Mierolo di fermarci un attimo per prepararne uno per noi?” Quando arriva il vassoio tutti gli operatori si servono, eccetto uno, Alberto, che cortesemente ricorda ai colleghi: “Io non lo prendo, grazie, lo sapete che a me non piace”. Effettivamente i suoi colleghi lo sanno, ma questa volta la sua dichiarazione, per la prima volta, sembra interrogare i presenti: “Quando Nando è con lui, quanti caffè beve ?”. “Nessuno” risponde Alberto “non me lo ha mai chiesto. Quando sono in turno da solo con Nando magari beviamo della camomilla.” A parte l’effetto sorpresa, che porta gli operatori a chiedersi quanto sono implicati nel sintomo di Nando, risulta evidente che stiamo parlando di una dimensione pulsionale che non riguarda il bisogno naturale di caffè, che ci porterebbe a tentare di capire quale è il numero giusto. Ciò che domanda Nando non è disgiunto dal desiderio della mamma e degli operatori. Nando sembra che non faccia altro che sintonizzarsi sull’offerta dell’Altro. La sorpresa, per gli operatori, sta nel dover prendere atto che ciò di cui parlano li riguarda. Credono semplicemente di descrivere una realtà di cui, invece, fanno parte al punto di condizionarla. Ogni istituzione, in questo senso, a seconda del suo funzionamento produce un certo modo di abitarla. Quando Basaglia parlava del “corpo dell’istituzione”1 giocava su un equivoco che ci porta a pensare all’istituzione come a un corpo, il corpo istituzionale, che però è da mettere in una relazione molto stretta con il corpo dei pazienti che la abitano. Al punto che i ricoverati di cui parla Basaglia si trovano ad assumere “l’istituzione stessa come proprio corpo, incorporando l’immagine di sé che l’istituzione gli impone.”2 Dunque, un’istituzione per quanto sia chiamata a trattare e risolvere problemi non sempre è cosciente di quanto è implicata in quei problemi che pretende di curare. I manicomi sono stati una esemplificazione evidente di questo principio. Le nuove cronicità costituiscono l’effetto iatrogeno, la conseguenza di un modo di prendersi cura che non tiene conto delle conseguenze che produce, rendendo cronica la dipendenza e l’incapacità di pensare a se stessi. 1 Si veda Franco Basaglia, Corpo e istituzione, in Id, Scritti, 2 voll., Einaudi, Torino 1981, vol. i, p. 430. 2 Ivi, p. 433. Istituzioni e legge 103 che cosa sono le istituzioni? Potremmo dire che le istituzioni sono organizzazioni, non necessariamente identificabili in uno spazio fisico, da delle mura, in grado di svolgere una funzione chiaramente riconoscibile, caratterizzata da modelli di comportamento che si configurano come prevedibili e affidabili. Sono ambiti in cui la realtà costruita dagli esseri umani e dalle loro azioni può trovare una sua organizzazione, una cornice simbolica. In questo senso costituiscono la struttura portante della vita sociale, in grado di offrire un livello minimo di garanzie, il fondamento di una possibile convivenza, la condizione per scrivere un patto tra le persone. Un patto – e tale è il programma di civiltà di cui parlava Freud – può scriversi quando impone una rinuncia pulsionale, una limitazione del godimento in cambio del legame sociale. Un patto, con le sue regole, sottrae le relazioni all’arbitrio dei singoli o alle forme intrusive che può assumere il potere. Quando entriamo in un’aula di tribunale, in effetti, sappiamo che cosa aspettarci dal sistema della giustizia, anche perché in ogni aula viene ribadito il suo fondamento: la legge è uguale per tutti. Che le istituzioni stiano attraversando un momento critico lo testimonia il fatto che – almeno fino a poco tempo fa – presentarsi davanti al Palazzo di giustizia di Milano con un cartello con la stessa scritta avrebbe probabilmente comportato una richiesta di documenti da parte di qualche agente. È paradossale che alcuni cittadini si trovino a dover ribadire un fondamento istituzionale che sta scritto in ogni aula ed è altrettanto paradossale che per questo motivo si trovino a passare – come si suol dire – qualche brutto quarto d’ora. Tutto ciò costituisce non solo un pericolo per la democrazia e la convivenza sociale, ma anche per la salute psichica, dal momento che viene meno una funzione essenziale che è richiesta alle istituzioni: la prevedibilità, l’affidabilità, la regolazione. Una funzione che comporta la necessità di mostrare, a chiunque vi si rivolga, in modo sufficientemente chiaro, che cosa è possibile aspettarsi. Può capitare, come è capitato, che lo spazio istituzionale, lo spazio in cui ci si aspetta che l’Altro metta ordine nelle cose del mondo, riconducendo il godimento a una legge, sia attraversato da una volontà oscura di godere, che non mostra la sua regolazione. Se la convivenza funziona in questo modo, per alcuni può essere 104 Giovanni Mierolo più difficile regolare il proprio rapporto con gli altri e con il mondo. Nella psicosi questo rapporto non è riconducibile a una prefigurazione fantasmatica che lo renda prevedibile, che lo inserisca dentro una sorta di schema di riferimento. Proprio per questo può mostrare degli aspetti irreali, potenzialmente minacciosi. Come se le cose del mondo – e il corpo stesso – non potessero contare sulla mediazione di immagini, di significati che li rendano riconoscibili. Nella psicosi, come ha messo in evidenza Lacan, il registro del reale collassa su quello del simbolico, in quanto manca la possibilità di riportare su un altro piano la materialità e l’incandescenza delle cose. Non ci sono mediazioni che consentano una presa di distanza. In fondo perché i bambini giocano, se non per creare una sorta di raddoppiamento, di rappresentazione della realtà? Perché la realtà può essere abitata, frequentata solo se viene inserita in una cornice che la strutturi, se le regole del gioco costituiscono una garanzia e non una prevaricazione. Nel delirio di Schreber il Dio che avrebbe dovuto garantire sull’ordine del mondo diviene un Dio che gode arbitrariamente di lui, mandando in pezzi ogni ordine possibile. Se il mondo è in frantumi, un’istituzione può contribuire a restituirne un’immagine composita, può contribuire alla costruzione di una distanza sopportabile dall’incandescenza del reale. Basaglia si è soffermato spesso sulla necessità di introdurre una distanza nelle istituzioni di cura, perché potessero prendere in considerazione ciò di cui l’ammalato mentale soffre: la mancanza di un intervallo fra l’io e il corpo, il corpo e il mondo, che lo difenda dall’invasione dell’altro, che gli consenta di appropriarsi di sé, di farsi uno dal molteplice, opponendosi all’altro e al mondo, così da emergere dalla comunità indifferenziata e costruire il proprio corpo vissuto.3 Se lo psicotico è colui che “ha perduto la casa”, colui che non riesce a tutelarne i confini, proprio per questo rischia di non fare esperienza dell’estraneità, dell’estraneità che lo abita e lo separa dal mondo. Rischia di incontrarla in una forma persecutoria, attivata proprio dalla mancanza di intervalli, di quegli spazi di separazione che un’istituzione di cura può introdurre. Franco Basaglia, Corpo e istituzione, cit., p. 437. 3 Istituzioni e legge 105 Ma come intendere una regolazione? E come far funzionare le regole in un’istituzione? Un esempio a cui si ricorre spesso – in negativo – è quello della madre sregolata che manterrebbe il figlio in balia di un godimento capriccioso, incomprensibile e senza confini certi. Ma il suo opposto, una regolazione perfetta come quella di una macchina, non sarebbe certo più opportuno. Non potremmo affidarci alle cure di una macchina – ne ricaveremmo soprattutto angoscia – né a un’istituzione che funzioni in modo automatico. In effetti – come mette bene in evidenza Miller – l’orrore è proprio l’automatismo, “l’orrore è quando la regola funziona da sola”.4 Non possiamo ricondurre la regolazione di un’istituzione all’automatismo delle regole. Soprattutto, non possiamo confondere la legge con la regola, poiché “la legge non obbedisce alla regola, la legge non è un algoritmo che funziona alla cieca”.5 Il funzionamento alla cieca evoca l’idea di una giustizia che si mette al servizio della legge con la benda sugli occhi, che “non guarda in faccia a nessuno”. Ma se la legge funzionasse secondo la rigida applicazione del protocollo, se funzionasse come il processore di un computer non potrebbe fare attenzione al caso particolare. Proprio per questo è importante, per un’istituzione, riuscire a coniugare l’universale della regola con il caso particolare, non chiudere la possibilità all’eccezione. Il binomio trasgressione-punizione presuppone un adattamento rigido al programma terapeutico – o almeno considerato tale – che non può tenere in conto le differenze soggettive. Una delle ipotesi emersa per Nando prevedeva una determinazione dei suoi caffè, presupponeva una quantificazione del godimento, riportandolo a una misura. Su questa via gli operatori avrebbero potuto scegliere di farsi orientare dall’universale del discorso scientifico senza interrogarsi sul particolare del sintomo. Lasciare uno spazio per l’eccezione consente, invece, di preservare un posto per il soggetto, che altrimenti si troverebbe cancellato in nome di un trattamento puramente protocollare della domanda. Fino a che punto, infatti, il sapere in un’istituzione può costituire un intralcio, se non addirittura una violenza? 4 Jacques-Alain Miller, Il nuovo: fortuna e ordinata virtù in psicoanalisi secondo Lacan (2003), Astrolabio, Roma 2005, p. 49. 5 Ibidem. 106 Giovanni Mierolo razionalità e violenza Foucault sosteneva che la razionalità costituisce l’ingrediente più pericoloso e impercettibile della violenza, certo, la violenza in se stessa è terribile. Ma essa trova il suo radicamento più profondo e deriva la sua persistenza dalla forma di razionalità che utilizziamo. Si è sostenuto che, se vivessimo in un mondo di ragione, potremmo sbarazzarci della violenza. È completamente falso. Tra violenza e razionalità non c’è incompatibilità. Il mio problema non è fare il processo alla ragione, ma determinare la natura di questa razionalità che è così compatibile con la violenza.6 Allo stesso modo dobbiamo ripensare quel luogo comune, secondo il quale il campo della parola, il campo della comunicazione sarebbe alternativo alla violenza. Il dialogo costituirebbe lo spazio in cui sarebbe possibile una risoluzione non violenta dei conflitti. Questo per esempio sarebbe lo spazio della politica. Dobbiamo invece prendere in considerazione l’idea che i discorsi, non solo non riescono a costituire un ostacolo o un limite alla violenza o all’espressione di un certo potere, ma addirittura possono essere la maggiore forma espressiva di tale violenza.7 Anche per questo, il rapporto con l’istituzione come luogo del sapere rischia di scivolare nella persecuzione se il soggetto si sente esposto a una ricerca intrusiva di indizi da interpretare, da ricondurre all’armamentario delle scienze psichiche. Se, ancora, in un momento di crisi, l’operatore pretende di riportare il soggetto alla ragione, in nome della comprensione, confidando nel potere della persuasione, mette anche qui in evidenza una regolazione che non accetta il non senso e non può preservare uno spazio soggettivo. Si tratta dello stesso spazio che cerca l’adolescente, nelle sue prove di separazione dall’Altro, quando sparisce nella sua stanza, quando nasconde il suo diario – o lo chiude con il lucchetto –, quando, al ritorno da un viaggio, alle nostre domande di sapere: “cosa hai fatto, 6 Michel Foucault, Studiare la ragion di Stato, conversazione con M. Dillon, in Id., Biopolitica e liberalismo: detti e scritti su potere ed etica, 1975-1984, Edizioni Medusa, Milano 2001, p. 151. 7 Si veda Roberto Esposito, La voce del potere, in Nadia Ancarani, a cura di, Lo specchio del reame. Riflessioni su potere e comunicazione, Longo Editore, Ravenna 1997, pp. 41-53. Istituzioni e legge 107 come è andata?” risponde lapidariamente: “bene!”. È come giocare a nascondino, come mettersi alla ricerca di uno spazio in cui l’Altro non vede ed è limitato nel suo potere di ingerenza. Per molti pazienti un’istituzione è soprattutto un modo per rimediare alla difficoltà, se non alla insopportabilità, dei legami. Non costituisce un’alternativa al percorso psichiatrico o psicoanalitico, più propriamente viene al posto di legami che non hanno trovato un’accettabile regolazione, è una nuova occasione per giocarsela con l’Altro. Perché l’occasione ci sia davvero non è importante incontrare un Altro che sa, un’istituzione che sia satura di risposte, ma che piuttosto abbia la capacità di rispettare una distanza. Una distanza è percepibile negli atti ma anche nella organizzazione fisica di un’istituzione. Pensiamo alle porte, alla soglia che separa uno spazio riservato da uno spazio di condivisione. In alcune istituzioni – per motivi formalmente riconducibili a esigenze di sicurezza – le porte rimangono sempre aperte o, addirittura, vengono eliminate. Non è prevista – e quindi non è pensabile – la possibilità di situare un confine tra uno spazio privato e lo spazio di tutti. Questa condizione è frequentemente riscontrabile nelle abitazioni di molti bambini abusati o maltrattati, quasi a rappresentare lo sconfinamento, sempre minacciosamente possibile, da parte di un Altro che, non assumendo un limite alla propria condotta, vanifica ogni distanza. Se un’istituzione costituisce lo scenario per una rappresentazione possibile della realtà, per una sua ricomposizione, ci mostra subito, per come è organizzata anche nella dislocazione degli spazi, quale versione intende offrirne. I corpi ammassati negli stanzoni degli ospedali psichiatrici hanno messo bene in evidenza lo svilimento della dimensione soggettiva ricondotta alla massa, a una massa che, privata delle sue particolarità, degli “intervalli” che auspicava Basaglia, si fa corpo dell’istituzione. Non è un caso che la soglia, il punto di una separazione possibile dall’Altro, sia costantemente ricercata da chi vive in istituzione. Per i bambini autistici sembra quasi una necessità riuscire a fare esperienza di questo limite. Perché la soglia è la possibilità di fare esperienza di un punto di demarcazione, tra il soggetto e l’Altro, tra un dentro e un fuori. La soglia non è soltanto spazio di separazione tra il dentro e il fuori, ma è soprattutto la condizione che rende possibile una decisione tra il dentro e il fuori. Potremmo dire che – per un’istituzione – si tratta di rendere vivibile la soglia, di lasciar esistere un punto su cui non può legiferare. 108 Giovanni Mierolo l’istituzione che dice di sì Come ha messo bene in evidenza Miller nel suo commento al Seminario v di Jacques Lacan,8 il padre lacaniano, contrariamente a quel che si dice, è il padre che sa porre un limite al suo potere di interdizione, è il padre che dice di sì: E in fondo il suo sì è molto più importante, e, se posso dirlo, molto più promettente, del suo no. Certo, ci vuole il no. Ci vuole il no, perché, se non ci fosse il no, non potrebbe esserci il sì. Ma il sì è precisamente quel che permette il nuovo […] Il Nome-del-Padre lacaniano è senza dubbio un trasgressore, è senza dubbio quello che pone la legge ma anche quello che la trasgredisce per noi – quello per il quale esistono i casi particolari.9 Ciò che fa di un’istituzione un’istituzione totale è dato soprattutto da un modo di operare e di far funzionare le regole che, saturando tutti gli spazi di indeterminazione, diviene totalitario; che, espropriando le particolarità dei saperi soggettivi, deresponsabilizza i pazienti rispetto al proprio percorso di cura. Perciò è importante mantenere una quota di indeterminazione – una buona regolazione ha bisogno soprattutto di questo – un modo non standard per fare esistere i casi particolari. Le istituzioni che cercano la propria regolazione per la via dell’universale, che ipotizzano soluzioni valide “per tutti”, hanno bisogno di riferimenti sostenuti da una razionalità che fa fatica a lasciar emergere l’eccezione che, per esempio, non riuscirebbe a interrogarsi sull’uso che Nando fa del suo sintomo. È vero che Nando ha preso in prestito dall’altro il gusto per il caffè, ma questo gli ha consentito di limitare una modalità di godimento devastante, che si traduceva nel passaggio all’atto. Nella storia di Nando la dimensione pulsionale aveva trovato delle forme di manifestazione slegate e violente che hanno lasciato il posto a una modalità di godimento compatibile con il legame sociale. Ora gli operatori presentano un’immagine di Nando che, seduto accanto a loro e alla madre, consuma il suo caffè. Quel che conta però non riguarda tale consumo ma, soprattutto, la possibilità di condividere con la madre e con gli Jacques-Alain Miller, op.cit., p. 49. Ibidem. 8 9 Istituzioni e legge 109 operatori quel momento. Infatti quando è di turno Alberto va bene anche la camomilla. Il problema di Nando, che possiamo considerare il suo sintomo, costituisce una via per il legame, un modo alternativo al passaggio all’atto, in quanto sintomo e legame sociale hanno la stessa struttura: entrambi sono connessi a una rinuncia, a una organizzazione del godimento compatibile con la civiltà. Certo, un’adesione anonima delle istituzioni al discorso contemporaneo le condurrebbe a perseguire l’ideale della eliminazione dei sintomi, ipotizzando, per questa via, un miglior funzionamento degli individui. Ma, per questa stessa via, si produce una divaricazione tra ciò che l’istituzione marchia come sintomo e ciò che il soggetto percepisce, non necessariamente in quanto malfunzionamento. Ci vuole qualcosa in più, occorre una condizione preliminare affinché qualcuno possa interrogarsi sulla propria questione e domandarne una comprensione. Su questo piano un’istituzione può svolgere una funzione essenziale, se è disposta ad accettare l’idea che il sintomo costituisce un’eccedenza che non può essere ricondotta a una teoria né a una norma. La guarigione – per quanto complesso possiamo considerare questo concetto – non comporta, automaticamente, una soppressione del sintomo, anzi, possiamo considerare il sintomo stesso come un tentativo spontaneo di guarigione, come il caso di Nando ci insegna. Lo sforzo istituzionale consiste, allora, nel consentire di recuperare il valore di risorsa delle eterogeneità soggettive. Ma che cosa consente di rispettare una distanza e rispettare lo spazio, per quanto sintomatico, che un soggetto si ritaglia? Non basta dichiararlo e non è scontato che accada. Non è scontato soprattutto per gli operatori, che rischiano, per esempio, di lasciarsi catturare dalla tentazione di salvare, tentazione spesso ricambiata da pazienti in cerca di un salvatore. Per questa via c’è sempre il rischio che l’operatore possa pensare, in modo autoreferenziale, che si tratti di un “suo” caso, vanificando la presa in carico dell’équipe ed eludendone la funzione terza. Se così fosse, sarebbe la volontà di qualcuno a condurre il trattamento, a dettare le regole del gioco, senza subordinare la propria condotta a un’istanza regolatrice. È importante, perciò, che l’équipe si assuma il compito di limitare da una parte il capriccio dei singoli, dall’altra la deriva mortifera dell’automatismo istituzionale. Se, per un verso, ha da prendersi cura delle persone che le si rivolgono, dall’altra deve prendersi cura dell’istituzione, affinché non prenda tutto e tutti nei suoi ingranaggi. 110 Giovanni Mierolo Dovrebbe saper umanizzare l’eccessiva regolazione dell’istituzione e, allo stesso tempo, introdurre una regolazione laddove, nel rapporto tra operatore paziente, si percepisca un surriscaldamento del rapporto che risulti troppo esposto al desiderio di qualcuno. Una ulteriore riflessione, che accenno appena, meriterebbe la funzione dell’équipe, la cui costituzione non dipende, semplicemente, da un insieme di persone che lavorano insieme. È importante, anche per costoro, il rapporto che intrattengono con la legge, che si esprime nella capacità di rinunciare ai piccoli narcisismi, in nome di un progetto collettivo che tenga a bada le tentazioni di un pensiero standard e che sia in grado di lasciar respirare le differenze. Il disabile “fuorilegge” Franco Lolli Scena i: sala d’attesa dell’ambulatorio pediatrico. Una bambina di cinque, forse sei anni si rotola per terra, sbava sul pavimento, strappa i giornali che riesce a prendere, si tocca i genitali davanti ad altri bambini e mamme che aspettano il loro turno. La madre ogni tanto le dice: “Dai, tirati su, smettila”. Ma la bambina non sembra neanche sentire quel flebile richiamo appena sussurrato. A un certo punto, la mamma si rivolge alla donna che le siede accanto: “Non c’è verso, fa sempre ciò che vuole lei. Sa, ha avuto dei problemi al momento del parto e non sappiamo come comportarci con lei”. Scena ii: ufficio postale. Un ragazzino Down – avrà dodici, tredici anni – è seduto vicino alla madre. Lei si alza per compilare un bollettino e lui scatta al suo fianco. È in piedi, non si allontana. Dopo qualche minuto, lei torna a sedersi e lui riprende il suo posto. Ogni movimento della madre avviene contemporaneamente a quello del figlio. Non una parola, non uno sguardo. Sembrano una sola cosa, un solo essere vivente che, nel muoversi, muove la sua ombra. Una sola volontà che manovra, all’unisono, due corpi. Due scene, due osservazioni occasionali e fugaci, due rappresentazioni estreme del rapporto del soggetto disabile con la Legge: nella prima, una sorta di “extraterritorialità” garantisce alla bambina un’impunità spudorata, nella seconda, una profonda condizione di assoggettamento fa del ragazzo una specie di marionetta acefala. Due madri che incarnano le due versioni più radicali dell’operatività del senso del 112 Franco Lolli limite; da un lato, una madre che denuncia la vanità della propria parola e l’inconsistenza della norma che propone, dall’altro, una madre la cui “autorità” non necessita di alcun gesto. E ancora: due possibili raffigurazioni del destino “pulsionale” del soggetto disabile. Per un verso, la bambina, preda e vittima di un’esigenza irrinunciabile di soddisfazione pulsionale che si disinteressa degli effetti della propria azione; per l’altro, il ragazzino, privo di qualsiasi spinta interna che non sia quella di “fotocopiare” continuamente la sua matrice. Queste due scene, in effetti, colgono, come in un’istantanea di grande effetto, quello che la clinica dell’insufficienza mentale pone quotidianamente in risalto: la difficoltà del Nome-del-Padre a installarsi “a pieno regime” nel funzionamento psichico e le risultanti che ne derivano sul piano soggettivo, in termini di asservimento a una Legge assoluta che non riconosce la particolarità del soggetto o, al suo polo opposto, di totale impermeabilità a richieste di moderazione e di controllo, con conseguente capitolazione nei confronti della brutalità del godimento. L’instaurazione di un ordine, di una norma, di un meccanismo di regolazione necessita, infatti, della messa in moto di un processo simbolico che, nella disabilità intellettiva, sappiamo essere problematico per una serie di ragioni. Prima fra tutte, una ragione di carattere organico. Una lesione neurologica, un disfunzione dismetabolica o una problematica cromosomica possono rappresentare una barriera che separa il soggetto dall’Altro, o meglio, che rende più complicato il loro già complicato rapporto. È difficile, tuttavia, identificare gli effetti che una patologia cerebrale infantile può provocare nel bambino senza considerare quelli che la presenza di tale patologia determina nella sua relazione con l’adulto. L’esperienza ci insegna che lo sviluppo intellettivo dell’essere umano non è il semplice frutto del dispiegamento progressivo di capacità innate; a differenza degli altri animali, l’essere umano ha bisogno dell’attivazione del proprio apparato neurofisiologico, in assenza della quale anche il sistema più “sano” non si avvia. L’incontro con il desiderio dell’Altro rappresenta tale evento decisivo per il neonato. Un incontro che risulta, però, profondamente disturbato nel caso di bambini con handicap, disturbato dall’interferenza del fantasma genitoriale – generalmente devastato dalla notizia della problematica del proprio figlio e dalle difficoltà a essa connesse. L’incontro con il desiderio dell’Altro è, in questi casi, un incontro spesso mancato; altre volte è un incontro rinviato, altre ancora un cattivo incontro. Il disabile “fuorilegge” 113 Il dover fare i conti con un bambino diverso da quello che ci si aspettava influenza lo scambio che caratterizza le prime relazioni. Le ripercussioni sulla capacità del pensiero sono oramai dimostrate. L’inibizione intellettiva che ne risulta rappresenta l’esito di un rifiuto generale di sapere, ovvero, la manovra difensiva che il bambino con handicap mette in atto per non “sapere” il suo non essere desiderato dall’Altro – il suo essere sous-aimè, direbbe Sartre. La dinamica alterata del desiderio, pertanto, amplifica ed enfatizza la problematica organica; al danno del corpo si aggiunge quello della relazione con l’Altro. La compromissione della vicenda edipica che ne deriva è uno dei dati che maggiormente incide nel percorso evolutivo. Il bambino con handicap fa fatica ad assumere le insegne dell’Ideale dell’io, aspirato com’è dall’iperinvestimento libidico da parte della propria madre che, come spesso capita di osservare, fa del proprio cucciolo “scassato” il centro esclusivo del proprio mondo, l’oggetto ultrafallicizzato, l’oggetto indispensabile dal quale non intende separarsi (impulso che mira a compensare l’originario vissuto di rifiuto che l’evento traumatico della nascita inattesa determina). Questa difficoltà di identificazione all’Ideale dell’io incastra il futuro disabile in un fantasma “pervertito”, all’interno del quale, attraverso la debilità che sviluppa, egli ha il compito di soddisfare l’inconscio desiderio materno di una gravidanza senza fine. Il bambino con handicap, da questo punto di vista, è un bambino non nato; la sua nascita biologica non garantisce la sua nascita psicologica. Il che lo consegna a un limbo esistenziale, in un mondo incantato, o meglio, in un mondo spettrale dove non valgono le consuete regole della convivenza. Nel mondo che lo accoglie, il suo posto è già determinato: egli è in balia dell’Altro (del suo accudimento, del suo controllo, delle sue cure, del suo giudizio, del suo potere). Il suo non è un assoggettamento al funzionamento simbolico della Legge, ma l’asservimento alla volontà dell’Altro. E c’è differenza, come sappiamo, tra la sottomissione alla Legge che si fonda e si appella al “terzo” (e che, di conseguenza, fa spazio al soggetto del desiderio) e la sottomissione alla volontà dell’Altro (che risponde a una logica duale e immaginaria – e, pertanto, asfissiante e mortifera); lo sa bene la bambina in sala d’attesa che, come tanti altri bambini nella sua stessa situazione, “può fare ciò che vuole” ma, purtroppo, non sa ciò che vuole – e, in più, ciò che fa pur senza sapere se lo vuole fare, lo deve fare sempre sotto lo sguardo vigile della madre. Il bambino 114 Franco Lolli debile si trova a essere così un vero “fuorilegge”, ma non per questo libero. La sua libertà di fare “ciò che vuole” – ovvero, il permesso che gli viene generalmente accordato di poter non fare come tutti – gli costa l’alienazione totale al suo altro speculare: un’alienazione senza separazione che lo imprigiona in una relazione le cui ambivalenze sono sotto gli occhi del clinico. Alienazione tanto più evidente nel caso in cui il bambino “risolve” il suo problema con la Legge aderendovi in maniera conformistica e acritica. La docilità senza riserve alle richieste dell’Altro sottolinea, infatti, la rinuncia del soggetto a porsi in maniera conflittuale di fronte alla Legge – conflitto che, di solito, conduce l’essere umano a trovare al suo interno, anche se con fatica, il proprio posto; si tratta, al contrario, di un affidamento totale all’Altro, alla cui potenza il debile si ostina a credere contro ogni evidenza. All’esistenza dell’Altro, in effetti, l’insufficiente mentale consacra la propria e sacrifica il proprio desiderio. Laddove l’Ideale dell’io fatica a instaurarsi, la Legge si riduce, dunque, a essere un insieme di regole formali, di norme non soggettivate e svuotate di senso, che il bambino può o no “rispettare”, ma sempre in un rapporto di esteriorità e di subordinazione. Il limite che esse impongono non viene introiettato come acquisizione personale, come conquista in un percorso di crescita, ma diventa una barriera che delimita comportamenti ai quali il soggetto si attiene o meno. Nelle situazioni in cui il bambino con insufficienza mentale appare come impermeabilizzato rispetto all’intervento regolatore dell’adulto, egli resta letteralmente terreno di coltura del godimento del corpo. I fenomeni di autolesionismo, di compulsione autoerotica, di agitazione psicomotoria, indicano, per l’esattezza, l’effetto della difettosa operatività del principio di moderazione, che, al contrario, normalmente la Legge introduce. Si tratta del versante più problematico nel trattamento della disabilità mentale: soggetti non pacificati dall’azione castrante del simbolico che si trovano tiranneggiati dall’esigenza di un corpo che non conosce possibilità di attesa, di rinvio, di sublimazione e che è colonizzato da un caos e da un disordine assoluti. Il godimento non metabolizzato che invade il corpo del disabile diventa il padrone intransigente che pretende soddisfazione a qualsiasi costo. Comportamenti bulimici (l’avidità della pulsione orale può addirittura sfociare nell’ingestione incontrollabile di qualsiasi oggetto non commestibile), attività masturbatorie senza sosta (che, protratte per ore, non cono- Il disabile “fuorilegge” 115 scono un orgasmo finale), stimolazioni sensoriali parossistiche, indifferenza al dolore, sono solo alcuni dei fenomeni che l’inadeguato trattamento significante del corpo produce. Il Reale domina incontrastato e la prepotenza dell’urgenza del vivere si esprime senza mediazioni e filtri. Nei casi più gravi di insufficienza mentale, la priorità di questa dimensione di godimento del corpo appare come dato insuperabile; gravi lesioni cerebrali costituiscono, in questo senso, un limite a volte invalicabile rispetto all’intervento “educativo”. All’estremo opposto del rapporto Legge-godimento, troviamo quello che il ragazzino dell’ufficio postale evidenzia con grande chiarezza: la forza di una Legge che si impone sul soggetto come regola assoluta, come riferimento imprescindibile per ogni azione, come modello comportamentale a cui sottostare passivamente. Il disabile, in queste situazioni, è come schiacciato dal peso soverchiante di norme che egli non è in grado in alcun modo di “fare proprie”, se non nella forma della completa sottomissione. Una tale attitudine del disabile è riscontrabile in quei casi in cui lo “scimmiottamento”, il “fare come”, in altre parole, la più completa mansuetudine – tutte caratteristiche che l’adulto tende, in genere, ad approvare e rinforzare – evidenziano la preponderanza del Super-io rispetto all’Ideale dell’io, ovvero, della tendenza a sottomettersi alla regola per garantirsi l’amore dell’adulto rispetto alla necessità di tener conto dell’Altro per realizzare il proprio progetto personale. L’aspetto “poliziesco” del Super-io – che minaccia punizioni e promette ricompense – non cede il campo alla possibilità di trovare il proprio modo di rapportarsi alla Legge, frutto dell’eredità dell’Ideale dell’io; il disabile mentale, in questi casi, si troverà a obbedire ma non a decidere di obbedire. Il rischio di essere non amato – che l’eventuale disobbedienza comporterebbe – esclude, infatti, la libertà di non obbedire; come potrebbe egli sopravvivere senza l’amore dell’Altro, da cui, come sappiamo e come sa lui stesso, dipende interamente? “Pinocchietti inautentici”: così Enrico Montobbio definiva quei ragazzini disabili che si muovono comandati da una volontà che non è la loro, sempre pronti a soddisfare il desiderio dell’Altro e a fare proprie le esigenze di coloro che badano “amorevolmente” a loro. La Legge assoluta alla quale sottostanno – la cui forza è proporzionale al bisogno dell’approvazione dell’Altro (dal quale, come ripeto, inesorabilmente dipendono) – abortisce il desiderio. Il risultato è una specie 116 Franco Lolli di “robotizzazione” del soggetto, che esegue tutto ciò che è stato stabilito sia bene per lui; ma – ed è questo il problema – lui non c’è in quel che fa, lui è l’enigma della questione, il punto oscuro di tutto il processo. Di questo ce ne si rende conto quando, come spesso capita di osservare, improvvisamente, il meccanismo si rompe; un inatteso nervosismo, uno scatto inusuale di ira, un gesto violento mai visto, un’espressione rabbiosa sconosciuta, tutto ciò emerge da non si sa dove e sconcerta l’adulto. Il comportamento del disabile che fino a quel momento era apprezzato e favorito diventa incomprensibile, disorientando coloro che erano abituati alla sua arrendevolezza. L’inatteso viene stigmatizzato come “sintomo”, o, come si preferisce ultimamente dire, “comportamento problema”. Ma problema per chi? occorrerebbe chiedersi. Di sicuro per l’adulto che deve rimettere in gioco la propria tranquillità. Non è sicuro, invece, che sia un problema per il disabile; anzi, sembrerebbe a volte che proprio in quella crepa improvvisamente apertasi nell’usuale pacatezza, possa finalmente essere rinvenuta una traccia di sé, una scintilla di soggettività – altrimenti eclissata dall’ingombrante presenza della Legge assoluta dell’Altro a cui conformarsi. Sprazzi di una volontà che non si è arresa del tutto, bagliori di un desiderio eccentrico al volere dell’Altro che rischiano di essere, ancora una volta, oscurati se a essi non viene riconosciuto lo statuto di “invenzione personale” – e non di sintomo da risolvere! L’intervento terapeutico che ignora tale distinzione rischia di amplificare il carattere persecutorio della Legge; la reazione del disabile, in tal caso, non si farà attendere. Scatenamenti comportamentali anche gravi possono essere compresi in questa ottica: l’angoscia del sentirsi “senza scampo” di fronte alla volontà dell’Altro può indurre l’insufficiente mentale a compiere atti il cui obiettivo inconsapevole è quello di liberarsi da una pressione insostenibile. Il circuito vizioso sarà così, paradossalmente, rinforzato. All’atto del disabile seguirà un ulteriore inasprimento della regola, il che aumenterà l’angoscia e la fuga nell’atto, e così via. La clinica della disabilità mentale è, purtroppo, ancora piena di questi drammatici fraintendimenti. Atto analitico, atto giuridico: paradossi, aporie, contraddizioni* Paola Mieli Il fatto è che la democrazia non può prescindere, senza negare se stessa, dal “relativismo etico” di cui la si accusa. Remo Bodei, Il noi diviso L’attuale sforzo fatto in paesi diversi per regolamentare nel definire a livello legislativo la pratica della psicoanalisi solleva diverse questioni. Tradizionalmente, la regolazione della pratica analitica è stata prerogativa degli istituti e delle associazioni analitiche locali o internazionali – quel che è ancora il caso in molti paesi e quel che ha funzionato perlopiù senza intoppi, iscrivendo la psicoanalisi nel tessuto sociale. In cent’anni di storia, istituti e associazioni hanno risolto e regolato questioni professionali relative alla formazione, alla pratica analitica, alla sua etica e alla protezione dei pazienti, facendo raramente ricorso a istanze regolative esterne alla pratica. Nel far ciò la psicoanalisi ha esplicitamente tenuto conto della particolarità della formazione analitica, per sua natura diversa da qualsiasi apprendistato di tipo professionale, e non ha smesso di inventare procedure per proteggere l’etica analitica e la sua trasmissione. Si è tenuto implicitamente conto dell’unicità dell’atto analitico e della sua non comparabilità con altre forme di scambio sociale. L’attuale sforzo di regolamentazione legislativa immette nel campo della psicoanalisi un discorso eminentemente alieno alla natura della sua pratica, quel che obbliga a una riflessione rinnovata sulla relazione tra psicoanalisi e tessuto sociale, tra etica professionale e richieste sociali, tra atto analitico e atto giuridico. * Versione italiana abbreviata del testo Acte analytique, acte juridique: paradoxes, apories, contradictions, pubblicato sulla rivista “essaim”, Retourner le regard, n. 23, Erès, Paris 2009. 118 paola mieli In alcuni casi la regolazione giuridica della pratica è paradossalmente frutto di lotte intestine tra fazioni psicoanalitiche o tra ordini professionali, che nel fare appello a un’istanza terza – legge, stato – intendono proteggere interessi di settore, in nome di diritti specifici. Ma se è vero che tali lotte mettono in questione l’etica dei gruppi che le sostengono, è vero anche che si iscrivono in una realtà sociale in trasformazione che si organizza su un’estensione della nozione di diritto: se esse risultano in un intervento legislativo, è perché riflettono l’attuale propensione a servirsi dell’atto giuridico per regolamentare ogni sorta di transazioni sociali, incluse quelle che si sono autoregolate efficientemente per decenni. Gli psicoanalisti sono parte e funzione di tale realtà in trasformazione; e il fatto che se ne servano per destreggiarsi in monopoli di potere o che ne subiscano gli effetti, mette comunque in questione la loro posizione in un sistema preciso. Quel che mette a radicale confronto atto analitico e atto giuridico, e obbliga a un ripensamento della loro specificità e della loro incommensurabilità. L’idea moderna dei diritti dell’uomo ha la sua base concettuale nel giusnaturalismo, nell’assunto filosofico secondo cui l’uomo ha per natura dei diritti inalienabili (libertà e uguaglianza). È l’adozione del giusnaturalismo da parte della legislazione a fondare una nuova concezione dello stato, “non è più assoluto ma limitato, non è più fine a se stesso ma mezzo per il raggiungimento di fini che sono posti prima e al di fuori della sua stessa esistenza”.1 Perché potesse darsi una dottrina dei diritti dell’uomo era necessario sviluppare una concezione individualistica della società e dello stato, in opposizione all’antica dottrina organica che considerava la società come un tutto al di sopra delle parti.2 La dottrina dei diritti dell’uomo nasce in difesa dei diritti dell’uomo contro lo stato: lo stato in funzione dell’individuo e non l’individuo in funzione dello stato. L’individuo non più quale componente del gruppo sociale, bensì il sociale concepito come costituito da relazioni tra Norberto Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino 1990, p. 23. “Concezione individualistica significa che per prima viene l’individuo, si badi l’individuo singolo, che ha valore di per se stesso, e poi lo stato, che lo stato e non viceversa è fatto per l’individuo e non l’individuo per lo stato.” Ivi, p. 59. 1 atto analitico, atto giuridico 119 individui. Si passa così da un legame sociale fondato su obblighi, cui l’individuo è sottomesso, a un legame fondato sui diritti individuali. È questo il punto centrale tanto all’avvento storico dei diritti dell’uomo, quanto al loro progredire. L’iscrizione legislativa dei diritti trasforma il diritto naturale alla resistenza contro lo stato, predicato dal giusnaturalismo, in un diritto positivo, quello di poter avanzare un’azione giudiziaria contro gli stessi organi di stato. È proprio tale potere a sostenere la nozione di diritto individuale. Ed è su questo versante che vediamo fermentare l’espansione dei diritti nell’attuale sistema neo-liberale. Per fondamentali che siano, i diritti dell’uomo sono diritti storici, “nati in certe circostanze, contrassegnate da lotte per la difesa di nuove libertà contro vecchi poteri”3 e sono in continua espansione. In aggiunta ai diritti sociali denominati di seconda generazione (diritto al lavoro, all’educazione), sono nati i diritti della terza generazione (per esempio il diritto di vivere in un ambiente non inquinato), così come quelli della quarta generazione, caratterizzati dagli effetti delle nuove ricerche biologiche e dalla manipolazione genetica che ne consegue. L’espansione dei diritti va di pari passo con il progresso scientifico e tecnologico. La realtà statunitense, rappresentativa quale essa è delle forme attuali del neoliberalismo globale e iniziatrice di prescrizioni e pratiche sociali velocemente adottate sul piano internazionale, obbliga a interrogarsi sulla manipolazione dei diritti di recente generazione – terza, quarta o quinta che sia. È una questione che interessa tutti quanti quali cittadini di un sistema globale in trasformazione. Ma che ci tocca direttamente quali psicoanalisti, dal momento che, al suo interno, le pratiche “psi” svolgono un ruolo vasto e preciso. Oggigiorno assistiamo al proliferare dell’atto giuridico nella regolazione dello scambio sociale. Al fine di denominarne gli effetti, ho parlato di stato dei diritti al posto di stato di diritto.4 Se uno stato di diritto regola la relazione tra individuo e stato proteggendo i diritti individuali, uno stato dei diritti rappresenterebbe una deriva e una derivazione, una trasformazione propria allo stato di diritto: lo stato dei diritti da un lato incoraggia la proliferazione della nozione di di- 2 3 4 Ivi, p. xiii. Paola Mieli, Durer au titre de symptom, in “Insistance”, n. 3, Érès, Toulouse 2007. 120 paola mieli ritto individuale, dall’altro la manipola per proteggere lo stato, o per incrementarne il potere e il controllo sul cittadino. Di esempi se ne potrebbero fare moltissimi. Per sceglierne uno relativo al dominio medico, che include la cosiddetta salute mentale e dunque la sfera “psi”, si pensi alla legge hipaa (Health Insurance Portability and Accountability Act) approvata nel 1996 dal governo federale americano e implementata nel 2003. hipaa è una legge secondo la quale si difende il diritto del cittadino alla privacy sul suo dossier medico. Da un lato la legge dichiara che il cittadino ha diritto di negare che le informazioni mediche che lo riguardano vengano condivise, utilizzate o disseminate; dall’altro, nella sua immediata messa in pratica, essa impone a tutta la categoria medica di richiedere ai pazienti, perché possano venire accolti e trattati, che firmino anticipatamente una dichiarazione in cui si dicono a conoscenza dei propri diritti alla confidenzialità e permettano, al contempo, la condivisione del loro dossier medico.5 Nessun paziente oggi viene trattato senza che abbia preliminarmente firmato tale dichiarazione, in altre parole senza che in nome della difesa del suo diritto alla privacy, tale privacy gli venga sottratta. Le implicazioni sono molte. Tra esse la difesa dei diritti della categoria medica, nonché quella delle agenzie di stato di richiedere informazioni private. Altro esempio della relazione tra diritti, poteri e controllo è il Patriot Act. Introdotto negli Stati Uniti subito dopo l’11 settembre, esso consiste in una serie di misure volte a proteggere lo stato e il cittadino da attacchi terroristici, comprese perquisizioni e controlli telefonici senza mandati, dossier personali sui libri consultati in biblioteca o in rete, utilizzazione di tecnologie di sorveglianza e via dicendo. La protezione del cittadino s’infiltra nella sfera privata; in nome del diritto al benessere, si eliminano diritti civili conquistati duramente. Tutto ciò indica come lo stato di benessere sia uno stato disciplinare. Foucault ha mostrato quanto la macchina disciplinare sia fondamentalmente democratica e implichi tanto un controllo permanente del corpo dell’individuo, quanto una normalizzazione della sua condotta. L’espansione dei diritti sostenuta dalla proliferazione dell’atto giuridico è forse più appropriatamente da definirsi come espansione “dei poteri” all’interno dello stato di diritto. Così si esprime Bobbio: 5 “To give permission for the use and disclosure of Protected Health information (phi)”, “per dare il permesso d’uso e d’accesso a informazioni mediche protette”. atto analitico, atto giuridico 121 Si fantastichi pure sulla società insieme libera e giusta, in cui siano globalmente e contemporaneamente attuati i diritti di libertà e i diritti sociali; le società reali che abbiamo dinanzi agli occhi, nella misura in cui sono più libere sono meno giuste e nella misura in cui sono più giuste sono meno libere. Tanto per intenderci chiamo “libertà” i diritti che sono garantiti quando lo stato non interviene e “poteri” quei diritti che richiedono un intervento dello stato per la loro attuazione. Ebbene: spesso libertà e poteri non sono, come si crede, complementari, bensì incompatibili […] la società storica in cui viviamo, caratterizzata dalla sempre maggiore organizzazione per l’efficienza, è una società in cui acquistiamo ogni giorno un pezzo di potere in cambio di una fetta di libertà.6 La relazione potere/libertà delinea un’aporia che si direbbe intrinseca all’espansione dei diritti. Senza entrare nel dibattito di quel che si possa considerare una società “libera e giusta”, mi limito ad accogliere l’osservazione di Bobbio sulla “società dell’efficienza”, che ben definisce lo spirito delle attuali società a capitalismo avanzato. Riprendendo e mutuando l’opposizione bobbiana tra libertà e poteri, si può dire che l’attuale fase dell’espansione dei diritti nello stato di diritto neoliberale, vede una trasformazione dello stato di diritto non tanto in stato dei diritti quanto in stato dei poteri. Lo stato dei poteri si organizza di fatto su un’espansione dell’atto giuridico, un atto giuridico sempre alla portata di mano del cittadino. Definirei lo stato dei poteri come quella forma dello stato di diritto che fa costante ricorso all’atto giuridico, in maniera che la difesa dei diritti non smette di rifarsi alla legge per la propria attuazione; tale atto regola sempre più lo scambio sociale, non solo la relazione tra individui e stato, ma anche tra individui tout court. La soddisfazione dei poteri individuali riduce la libertà individuale, nella misura in cui implica un costante intervento dello stato; ciò consente al potere di esercitare un accresciuto controllo sul cittadino. Il maggior controllo da parte dello stato è un effetto collaterale dell’espansione dell’atto giuridico; in particolare, è conseguenza del rischio giuridico che la proliferazione dei diritti individuali può comportare per lo stato. Il circolo è vizioso. Si prenda la posizione presa da alcuni stati nella regolamentazione Norberto Bobbio, op. cit., cit., p. 41. 6 122 paola mieli della professione della psicoanalisi. La logica è la seguente: difendere il consumatore da pratiche analitiche non regolamentate – meno per vegliare sul benessere del cittadino (dal momento che l’autoregolazione della psicoanalisi da parte degli istituti analitici ha funzionato senza problemi) che per prevenire qualsiasi accusa giuridica al riguardo. È lo stato a stabilire un curriculum di studi che uniforma e abbassa il livello di formazione, prescindendo dalla specificità e complessità della pratica in questione, di fatto a discapito del consumatore, ma che protegge preventivamente lo stato da possibili azioni legali, sia da parte dei consumatori sia della categoria professionale. In questa logica, chi viene protetto è lo stato, non il cittadino. La forza dell’espansione dell’atto giuridico è data dal suo valore di consumo. Nell’attuale società statunitense il ricorso all’avvocato per fare valere i propri diritti fa della legge uno degli oggetti commerciali di maggior consumo, del business dell’avvocatura una delle professioni più diffuse e certamente meglio retribuite. Non si fa un passo senza il proprio legale, sia che si tratti di regolare un diverbio con un vicino di casa, con il proprio figlio o con il collega di lavoro, sia che si tratti di far valere i propri diritti contro il professionista, l’industria privata o lo stato. L’atto giuridico amministra la convivenza.7 La trasformazione della relazione con la legge, nell’epoca attuale, è al centro di molte riflessioni nel campo della filosofia del diritto. Una corrente significativa al riguardo, quella del nichilismo giuridico, vede nell’avvento dell’età della tecnica, nel senso heideggeriano del termine, la base per un inevitabile cambiamento nella natura del diritto. L’assenza di presupposti teologici o metafisici per un fondamento del diritto, la caduta del riferimento alla volontà divina quale criterio del giudizio, o alla tensione dualista physis/nomos, “restringono l’orizzonte giuridico alla pura volontà umana”.8 Il diritto, sufficiente a se stesso, giustifica le proprie scelte in base al loro accadere “storico ed effettuale”. Secondo Irti le norme che costituiscono il diritto obbediscono, nelle democrazie occidentali, “alla razionalità tecnica, che è propria dell’economia capitalista. Le norme giuridiche sono considerate un prodotto, cioè risultato di un meccanismo tecnico, capace di ricevere atto analitico, atto giuridico e ‘trattare’ qualsiasi materia […]. Il linguaggio del diritto s’indebita verso il linguaggio dell’economia: produzione, procedure, funzionamento, efficienza, eccetera”.9 Il nichilismo giuridico vede nel declino di significati unitari l’espressione della “produttiva fluidità” giuridica propria alle attuali democrazie parlamentari e al mercato globale. Anche la concezione di “diritto mite” di Zagrebelsky riflette sull’odierna espansione giurisdizionale e sul suo distanziarsi dalla visione positivista della certezza del diritto. La denominazione stessa, diritto mite, echeggia l’aspetto paradossale dell’attuale realtà del diritto. Il diritto mite è teoria della trasformazione del diritto nel costituzionalismo odierno e a un tempo dottrina a sostegno di un’idea di diritto quale unificazione di situazioni costituzionali plurali. Il diritto come “forza di convivenza”.10 La costituzione è il patto che stabilisce tanto un progetto di convivenza quanto la garanzia di posizioni particolari; nel diritto mite i criteri di tale patto sono sottoposti a continue ridefinizioni, disponibili verso la pressione del nuovo, che da escluso chiede di essere incluso. La qualità ideale del diritto mite – o diritto mito, si potrebbe dire – come portavoce di un vivere insieme costituzionalmente che veda la “morale individuale” confluire in “etica pubblica”, sembra farne più un modello cui tendere che uno specchio della situazione attuale. La qualità ossimorica dell’espressione “diritto mite” inevitabilmente provoca una riflessione sulla natura violenta del diritto, nonché un’interrogazione sul tipo di violenza prodotto dalla proliferazione dell’atto giuridico nell’attuale stato dei poteri. Che il diritto contenga violenza è qualcosa su cui molti pensatori si sono soffermati. Il diritto taglia, giustifica qualcosa per escluderne un’altra. Include ed esclude. Ma non si tratta solo di questo. “È un errore di calcolo non considerare il fatto che il diritto era in origine violenza bruta e che ancor oggi non può fare a meno di ricorrere alla violenza”,11 osserva Freud. Il potere è originariamente fondato sulla legge del più forte, è pura violenza. L’union fait la force, ricorda Freud: il diritto che emerge in opposizione allo strapotere del singolo rap Ivi, p. 101 Gustavo Zagrebelsky, La virtù del dubbio, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 94. 11 Sigmund Freud, Perché la guerra? (1932), in Id., Opere, 12 voll., Boringhieri, Torino 1967-1980, vol. ii, p. 297. 9 Inutile dire che chi si può permettere l’utilizzazione del prodotto giuridico acquista una fetta di potere sempre maggiore. 8 Natalino Irti, Il salvagente della forma, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 100. 7 123 10 124 paola mieli presenta di fatto la forza della comunità, una forza che resta pur sempre violenza e che è pronta a scatenarsi contro chiunque le si opponga. Il diritto è una continuazione della violenza originaria, una sua modificazione; la violenza lo fonda e lo garantisce. Freud pensa l’alleanza sociale come una formazione strutturalmente instabile, sempre minacciabile, tanto dall’interno quanto dall’esterno e che si sostiene su due elementi: la coercizione violenta e i legami identificatori tra i suoi membri. “La comunità deve essere mantenuta permanentemente, deve organizzarsi, prescrivere le norme che prevengano le temute ribellioni, istituire gli organi che veglino sull’osservanza delle prescrizioni – le leggi –, provvedendo all’esecuzione degli atti di violenza conformi al diritto.”12 L’interesse del diritto a monopolizzare la violenza, secondo Walter Benjamin è espressione della sua salvaguardia, dal momento che la violenza rappresenta una minaccia solo quando si esprime al di fuori del diritto.13 Il diritto reclama la prerogativa della violenza: che il controllo della violenza possa avvenire con mezzi violenti è la natura stessa del diritto. Ciò evoca l’aneddoto menzionato da Zagrebelsky a proposito di quel corrispondente televisivo che nel riportare l’esecuzione di una condanna a morte, apriva il suo servizio con le parole: “Ieri, Caryl Chessman è stato assassinato”. La parola “assassinato” al posto di “giustiziato” introduceva così nel modo “più brutale”, come Zagrebelsky si esprime, il rapporto tra legge positiva e giustizia.14 La parola giustiziato, d’altronde, la dice lunga sulla relazione tra giustizia, diritto e violenza. “La nozione di diritto è legata a quella di divisione, di scambio, di quantità. Ha qualcosa di commerciale. Evoca di per sé il processo, l’arringa. Il diritto non si sostiene che con il tono della rivendicazione.”15 Così si esprime Simone Weil, sottolineando tanto l’aspetto commerciale quanto quello intrinsecamente appropriativo del diritto. Rifacendosi al diritto romano, dove la forma prototipica della proprietà legittima è il diritto di preda, Weil insiste nel sostenere quanto il diritto si radichi nella forma originaria dell’appartenenza: “Esso è sempre di Sigmund Freud, Perché la guerra?, cit., p. 294. Walter Bejamin, Per la critica della violenza (1921), in Id., Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962. 14 Ivi, p.17. 15 Simone Weil, La persona e il sacro, in aa.vv., Oltre la politica. Antologia del pensiero impolitico, a cura di Roberto Esposito, Bruno Mondadori, Milano 1996, p. 75. 12 atto analitico, atto giuridico 125 qualcuno – insieme l’oggetto e il modo, il contenuto e la forma di un possesso. Alla sua origine il diritto non è, ma si ha”.16 L’appropriazione come anima della civiltà giuridica occidentale fonda la relazione tra diritto e forza che sostiene il legame sociale. Ma quel che ne risulta è, una volta ancora, una realtà dall’apparenza paradossale: “Quanto più l’individuo vuole difendere il proprio dall’altrui, tanto più deve lasciarsi appropriare dalla collettività destinata a difendere tale difesa”.17 Malgrado la lontananza delle premesse ideologiche della Weil da quelle di un Bobbio, l’intrinseca tensione tra poteri e libertà ritorna alla ribalta. Ciò ci riporta alle questioni delineate in partenza. Tanto le constatazioni sulla fluidità produttiva del diritto, quanto quelle sulla sua espansione benefica come diritto mite, non entrano nel merito della relazione esistente fra trasformazione dei diritti, poteri e potere biopolitico. Eppure le norme giuridiche come prodotto di consumo all’interno delle democrazie costituzionali odierne e dell’attuale mercato globale svolgono un ruolo specifico in tale cambiamento. L’uso dei prodotti giuridici nella società del benessere e dell’efficienza produce tanto una duttilità dell’atto giuridico quanto un controllo sempre maggiore sulla vita dei cittadini, un rinforzarsi della funzione disciplinare e regolamentativa del biopotere statale o globale. Lo stato si fa carico del benessere del cittadino: vegliando sulla sua salute fisica e mentale, introduce delle leggi speciali che garantiscono la sua protezione. È il caso, per esempio, della promozione di vari tipi di interventi medici preventivi (vaccini, mammografie, psicoterapie ecc.). In questo quadro la medicina si conferma essere un’istanza di diffusione delle norme. La sua funzione chiave non si esaurisce nella cura: essa svolge un ruolo essenziale nella valutazione e nella prevenzione. In questo senso essa si dimostra essere uno degli strumenti più potenti al servizio del diritto, in particolare della sua funzione “immunologica”, per riprendere le parole di Roberto Esposito. La legge nello stato di diritto intende prevenire gli eventi che possono eccederla, legiferando su quel che sfugge al suo controllo, anticipando 13 16 Roberto Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2002, p. 33. 17 Id. a proposito di Weil, ivi, p. 31. 126 paola mieli opzioni dell’avvenire per immunizzarsene. “Il sistema giuridico funge da sistema immunitario della società.”18 Uno degli strumenti essenziali della società della prevenzione è la valutazione, tramite cui è possibile stabilire standard di programmi e di comportamenti. Non si può non rilevare, per menzionare un esempio che ci interessa, che l’idea stessa di uno standard nella formazione analitica – sia esso proposto da un’associazione professionale o istituito dallo stato – rientra in questa logica.19 Ben si mostra qui la relazione tra valutazione e prevenzione, nonché il loro effetto: la conformizzazione, l’omologazione. È questo uno degli aspetti paradossali della società dei poteri e del benessere: il prodotto giuridico a portata di mano dell’individuo non previene, bensì alimenta l’omologazione. La società dell’individualismo più radicale si esprime in misure vieppiù conformiste, che uniformano le caratteristiche individuali. Il vocabolario che applica e sostiene tali misure è non a caso lo stesso vocabolario impiegato dal mondo corporativo: assessment, measure of success, control, grades, accountability, ecc. Esso riflette la meccanicità dell’orizzonte in cui l’idea d’individuo si iscrive – una meccanicità che riduce l’individuo tanto al ruolo di consumatore quanto a quello di prodotto di consumo. Come osserva Jean Claude Milner, grazie alla valutazione, il controllo raggiunge la sua forma pura; non è più solamente libera circolazione dell’obbedienza. Della valutazione, Michel Foucault ha detto che essa è un sapere-potere. L’espressione deve essere presa nella sua forza; tramite il trattino posto tra sapere e potere, Foucault coglieva il mutuo addomesticamento del sapere tramite il potere e del potere tramite il sapere. Tutti asserviti allo stesso modo, tale è la nuova forma di libertà e di uguaglianza.20 18 Niklas Luhmann, Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale (1984), il Mulino, Bologna 1990, p. 578. 19 Si vedano a proposito i criteri di ammissibilità per il training analitico proposti – prima e indipendentemente dall’analisi personale – dal Consortium (una coalizione promossa dall’American Psychoanalytic Association). Tali criteri implicano la valutazione delle “qualità personali del candidato”. “Il candidato farà prova di integrità di carattere, di personalità matura, di capacità d’autoriflessione e motivazione, d’attenzione psicologica, d’attitudine clinica e di appropriate qualità intellettuali. Gli istituti avranno predisposto procedure per giudicare questi attributi.” Standards of Psychoanalytic Education, Accreditation Council for Psychoanalytic Education, The Psychoanalytic Consortium, in “Psychologist Psychoanalyst”, vol. xxi, autunno 2001, Washington DC, p. 8. 20 Jean-Claude Milner, La Politique des choses, Navarin, Paris 2005, pp. 59-60. atto analitico, atto giuridico 127 La nozione di salute fisica e mentale, al servizio del sistema psicomedico adattivo, manifesta l’alleanza tra medicina, diritti e potere. E ciò ci concerne direttamente dal momento che le diagnosi psichiatriche e le valutazioni psicologiche svolgono una funzione essenziale al riguardo. Si prenda l’esempio del massacro del 2007 al Virginia Tech, negli Stati Uniti. La diagnosi di paranoia attribuita al giovane che ne fu responsabile consentì da un lato di dare una risposta “soddisfacente” a un evento che si voleva isolato, e d’altra parte di revisionare l’applicazione di regole preventive: l’acquisto di armi da fuoco è proibito d’ora in avanti a coloro cha hanno una certa diagnosi. D’altra parte, la circolazione delle armi da fuoco è protetta, visto che ciascuno ha il diritto d’averne accesso e che l’industria ha il diritto di trarne profitto. Al contempo, viene rinforzato il ruolo dei servizi disciplinari relativi alla salute mentale, fonte di diversi prodotti di consumo, in primo luogo per l’industria farmaceutica e ospedaliera. Alcolismo, bulimia, anoressia, depressione, traumi infantili e via dicendo, sono spesso diagnosi giustificative che consentono la riproduzione della stessa logica, che associa i diritti al controllo e alla consumazione. Il soggetto dello stato dei poteri è un soggetto che può essere valutato, dunque diagnosticato, e che è quindi medicalmente giustificato, al quale si domanda di adattarsi alla regole igieniche di stato (terapie, farmaci, programmi di recupero, elettrochoc, e così via). L’adozione della psicologia analitica da parte del sistema giuridico sigla la relazione tra diagnosi e diritto. Il ricorso all’infanzia traumatica quale causa attenuante del crimine è strumento comunemente condiviso da psicologi, avvocati e giudici. Salute e benessere sono innanzitutto prodotti di consumo; il corpo si conforma alle norme di produzione. Gli esempi solo molti, dall’uso esteso della chirurgia all’uso intensivo della farmacologia. Le pubblicità televisive statunitensi di vari prodotti farmaceutici in orari di punta – di psicofarmaci innanzitutto – propongono la salute e la serenità cui tutti hanno diritto, nonché la concentrazione dei bambini distratti durante le ore scolastiche. Famiglie in difficoltà, maestri impreparati, disintegrazione sociale, passano sotto silenzio nell’orizzonte consumistico-farmacologico del quick fix. Qualsiasi innovazione tecnologico-scientifica si trasforma in tecnologia di consumo e in tecnologia di diritto. In questo quadro ci si rende facilmente conto delle implicazioni di una tradizione psicoanalitica quale quella “ortodossa” nord-ame- 128 paola mieli ricana che, contro l’opinione di Freud, ha dai suoi inizi concepito la cosiddetta psicoanalisi come un settore della medicina. Non è un caso se l’ideologia farmacologica e quella delle neuroscienze tanto in voga ai giorni nostri siano state così facilmente integrate nella concezione terapeutica (l’uso di psicofarmaci durante la cura è considerato la norma), visto che le loro premesse erano già incluse nella concezione medica dominante. Il pensiero psicomedico adattivo riproduce la nozione d’individuo promossa dalla società dell’efficienza, ignaro di quanto tale nozione si differenzi da quella psicoanalitica di soggetto. atto analitico, atto giuridico 129 Non si sarebbe dato avvento dello stato di diritto senza il sopravvento di una posizione storico-sociale di tipo individualista. Il soggetto giuridico è fondato sull’idea di individuo. Il soggetto analitico è invece il risultato di un atto; esso emerge dal collettivo, cosa che mostra che non vi è equivalenza tra il soggetto dell’inconscio e l’individuo contabile come numero intero. Originalmente, Lacan concepisce il collettivo come un gruppo formato da un numero definito di individui e dalla loro relazione reciproca. Tuttavia, come la messa in atto del sofisma del tempo logico consente a Lacan di evidenziare, il collettivo ha una specificità propria.21 Una volta inserite delle persone in un rapporto sincronico all’interno del legame sociale, la relazione tra individui si trasforma. La sincronia fa sì che la soggettività venga introdotta tra gli individui, come ben si esprime Erik Porge,22 e che questa soggettività sia determinata dalla maniera in cui ciascuno si vede e si pensa in relazione all’altro. Il soggetto dell’asserzione, di un’asserzione del tipo “io sono bianco” (o nero, o rosso, o buono, o triste e via dicendo, asserzione che sostiene il diritto di esistere e la logica dell’esistenza, la logica del desiderio, della vita, dell’anticipazione della morte) implica il passaggio attraverso un soggetto indefinito e un soggetto reciproco, istanze logiche all’interno del collettivo. Lacan mostra bene come l’emergere del soggetto dell’asserzione, nel suo stesso dirsi, comporti una nuova maniera di contare che riflette il fatto secondo cui “le collectif n’est rien, que le sujet de l’individuel”.23 Nell’ordine del collettivo la relazione tra individui non è determinata dalla loro addizione bensì dalla divisione soggettiva che tale relazione instaura. Questa nuova maniera di contare rileva tanto dell’annodamento spazio-temporale che accompagna l’emergere del soggetto dell’asserzione, quanto dell’inadeguatezza del rapporto tra l’uno e l’Altro propria della relazione reciproca. Essa mostra che fattori quali pulsione, desiderio, identificazione, operano nella maniera in cui il parlêtre esprime la propria esistenza emergendo dal campo dell’Altro. Essa segnala tanto la comparsa del soggetto quale effetto della relazione tra significanti quanto la sua evanescenza. La logica del collettivo è quella in atto nel transfert; è quella che fa sì che il transfert dia vita a un atto in cui il soggetto umano possa dire “sì al diritto di esistere come soggetto del desiderio”.24 La nozione stessa di cura e di fine dell’analisi ne sono imprescindibili. L’incommensurabile della relazione dell’uno all’Altro propria all’emergere del soggetto nel linguaggio indica bene la contraddizione intrinseca alla relazione tra individuo giuridico e soggetto analitico, tra atto giuridico e atto analitico. Da questo punto di vista è importante distinguere il gruppo come entità costitutiva di individui dal collettivo soggetto dell’individuale – anche se, di per sé, il termine ‘gruppo’ ne condensa a volte le funzioni. Il fatto che il soggetto analitico si distingua dall’individuo giuridico non significa, tuttavia, che gli effetti dell’atto analitico non abbiano un impatto sul legame sociale. Al contrario. L’idea lockiana di uno stato di natura in cui gli uomini sono liberi e uguali permane anche laddove l’ipotesi dello stato di natura venga abbandonata; essa opera come finzione necessaria a sostegno dell’uguaglianza dei diritti. È così che la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo si esprime: “Tutti gli uomini nascono liberi e uguali in dignità e diritti”, malgrado l’aspetto paradossale di tale affermazione, formulata come essa è nel 1948. Ma come Bobbio sottolinea, libertà e uguaglianza “non sono un dato di fatto ma un ideale da perseguire, non una esistenza ma un valore, non un essere ma un dovere”.25 La contraddizione interna alla nozione di diritto evoca la contrad- 21 Jacques Lacan, Le Temps logique et l’assertion de la certitude anticipé (1945), in Id., Écrits, Seuil, Paris 1966. 22 Erik Porge, Des Fondements de la clinique psychanalytique, Érès, Toulouse 2008, p. 50. Jacques Lacan, Le Temps logique et l’assertion de la certitude anticipé, cit., p.213. Questa nuova maniera di contare è quella che Lacan definisce come “Un plus a”; si veda per esempio la sua lezione del 16 febbraio 1973, Le Séminaire. Livre xx. Encore, Seuil, Paris 1975. 24 Alain Didier-Weill, Psychanalyse et droits de l’homme, 2008, inedito. 25 Norberto Bobbio, op. cit., p.22. 23 130 paola mieli atto analitico, atto giuridico 131 dizione svelata da Freud nel cuore stesso del soggetto. Il soggetto del linguaggio è esposto a ingiunzioni antinomiche: l’una che lo invita a divenire, a sostenere ed esprimere il proprio desiderio, l’altra – cui dà voce il Super-io – che non smette di censurarlo, di diminuirlo, di ostacolarlo. “Colpisce constatare che esiste nella psiche una voce che può dire, indipendentemente da qualsiasi contesto politico, quel che dice qualsiasi tiranno che abolisce i diritti dell’uomo: qui non c’è libertà, uguaglianza o fraternità”.26 Tale voce solleva due interrogativi: l’una, che cosa faccia sì che il soggetto sia tanto legato a questo suo persecutore interiore, l’altra come comprendere l’angoscia che lo coglie quando questo censore è abolito. Non a caso Freud replica a Kelsen – sostenitore sia del diritto positivo come sintesi di imperativo e costrizione (Grundnorme) sia della costrizione giuridica come pura espressione della validità intrinseca alla norma – che la questione fondamentale resta che cosa faccia sì che si obbedisca, che cosa ci impedisca di rivoltarci contro la costrizione. Si tratta di una questione cruciale, che stabilisce un intrinseco contatto tra diritto e psicoanalisi, tra campo della legge e campo della pulsione. D’altronde, non si darebbe legge senza pulsione, come Freud non smette di ripetere. Il punto di contatto, altro non è se non il soggetto del linguaggio. È la dimensione del linguaggio a istituire quella della legge. È questo il prezzo che il soggetto nel linguaggio paga nel passaggio dalla natura alla Kultur. Individuo e soggetto provengono dallo stesso universo simbolico. Il Super-io è nuova contraddizione; è al contempo la legge e la sua distruzione. “In ciò, è la parola stessa, il comandamento della legge, nella misura in cui non ne resta che la radice”.27 Esso incarna la funzione più ridotta del linguaggio, la nuda parola quale puro imperativo. La parola allo stato di legge. Il soggetto flirta con la legge, se ne fa l’oggetto di godimento. Estrae dal diritto tutta la sua qualità assoluta e violenta per mettersene al servizio. Ma è un diritto a (dis)misura personale, insensato, svincolato dal suo carattere storico e comunitario; un’essenza del simbolico votata a minarlo. Tuttavia, esso mostra come diritto e pulsione confluiscano nella soggettivazione. Tanto l’atto giuridico quanto l’atto analitico, quanto la loro relazione, quanto il loro confronto nell’attuale stato dei poteri, hanno in comune il fatto d’essere attraversati da una serie di contraddizioni intrinseche al soggetto nel linguaggio. Ma sono portavoce di versanti tra loro opposti – relativi, tuttavia, l’uno all’altro. In termini freudiani si potrebbe dire che l’uno è portavoce del processo secondario, del dominio marcato dalla censura, dalla vocazione alla sistematizzazione; l’altro è testimone del processo primario e della sua relazione al secondario, della divisione soggettiva. Se l’uno espelle la contraddizione, l’altro ne è costantemente all’ascolto. La loro collocazione nel legame sociale li distanzia radicalmente. Il discorso giuridico è una manifestazione esemplare del discorso del maître, dove il posto dell’agente è occupato dall’aspirazione alla totalità, all’universale. E il discorso del maître si trova agli antipodi del discorso dell’analista; ne è appunto il rovescio.28 Ciò la dice lunga su come ogniqualvolta l’atto giuridico s’intrometta nel campo analitico ne snaturi radicalmente la specificità; o ancora la dice lunga su come l’espansione del prodotto di consumo giuridico nella società dei poteri si opponga al processo di responsabilizzazione proprio all’etica analitica – opposta, appunto, a quella del soggetto medicalmente giustificato. Di qui il dilagare odierno di proposte terapeutiche o farmacologiche, nonché la diffidenza nei confronti della psicoanalisi. La riduzione del diritto a oggetto di consumo e l’espansione relativa del prodotto giuridico sembrano essere l’effetto della fase attuale del discorso capitalista, essendo quest’ultimo il “sostituto”,29 come Lacan lo chiama, del discorso del maître. In tale sostituto, il soggetto diviso occupa il posto dominante nella forma di sintomo e il significante primo occupa il posto della verità, ossia ciò che marca il trionfo della io-crazia ( je-cracy), del mito dell’io padrone che tutto controlla, salvo ridurre l’individuo a oggetto di consumo. E Lacan aggiunge: il discorso capitalista funziona perfettamente, non potrebbe funzionare meglio; ma funziona talmente bene che si consuma, e si consuma al punto da potersi estinguere – considerazione che la crisi economica attuale sembra evocare, mettendo a nudo, tra il resto, la relazione tra atto giuridico, Alain Didier-Weill, op. cit. Jacques Lacan, Le Séminaire. Livre i. Les écrits techniques de Freud, Seuil, Paris 1975, p. 28 Si veda al tal proposito Id., Le Séminaire. Livre xvii. L’envers de la psychanalyse, Seuil, Paris 1991. 29 Id., Lacan in Italia. 1953-1978, La Salamandra, Milano 1978, p. 48. 26 27 119. 132 paola mieli diritti e sistema finanziario, caratteristica del neoliberalismo presente. Un castello solidissimo che d’un tratto si rivela di carta. Ma ciascun discorso, appunto, rimanda a un altro. L’uno si dà in relazione all’altro, parte dallo stesso tessuto sociale. Ciò genera nuovi paradossi. “Dire che il soggetto sul quale operiamo in psicoanalisi è il soggetto della scienza, può sembrare un paradosso”;30 tuttavia è questa la premessa della psicoanalisi, dal momento che essa opera sul soggetto che la scienza forclude. La psicoanalisi è nata correlativamente al progresso della scienza, si è manifestata come sintomo del disagio della civiltà, come eco dell’intrusione del reale nel mondo. “Per un breve momento ci si è potuti accorgere di quel che era l’intrusione del reale. L’analista resta lì. È lì come un sintomo. Non può che durare a titolo di sintomo”.31 La psicoanalisi dura interrogando la scienza a partire da ciò che essa forclude: il soggetto e la verità come causa. Da questo punto di vista, lunga vita alla psicoanalisi, data la proliferazione del discorso della scienza e la sua alleanza con quello capitalista – fintantoché, perlomeno, le carte del castello non verranno portate via dal vento. Ed effettivamente, come constatiamo ogni giorno nella nostra pratica, il sintomo persiste, la verità non cessa di far ritorno nell’esperienza e per una via diversa da quella del confronto con il sapere. Soltanto che, come Lacan preconizzava più di una trentina d’anni fa, due questioni incalzano: l’una, quella dell’espansione del discorso ps o pst, un discorso “psi” pestilenziale, “interamente votato, alfine, al servizio del discorso capitalista”;32 la seconda, correlata, se la psicoanalisi ce la farà a sopravvivere in un mondo dove la religione prende il sopravvento, dove la religione, annegando il non senso nel senso, mette a tacere il reale. “Vedrete che un giorno si guarirà l’umanità dalla psicoanalisi. A forza di annegarla nel senso, nel senso religioso beninteso, si arriverà a reprimere questo sintomo.”33 Annuncio curiosamente radicale proferito dalle labbra di Lacan. E a suo modo paradossale, se si pensa che la psicoanalisi è correlativa della scienza. Il dilagare del fondamentalismo religioso è un effetto collaterale dell’avanzata dell’era della tecnica? Jacques Lacan, La Science et la vérité , in Id., Écrits, cit., p. 858. Id., Le Triomphe de la religion, Seuil, Paris 2005, p. 82. 32 Id., Lacan in Italia. 1953-1978, cit., p. 49. 33 Id., Le Triomphe de la religion, cit., p. 82. 30 31 atto analitico, atto giuridico 133 Annuncio, tuttavia, che mette alla ribalta la responsabilità dell’analista. La psicoanalisi per il momento persiste. Ma è responsabilità dell’analista farla persistere e quindi interrogarsi sugli effetti di consunzione relativi al discorso capitalista; interrogarsi, per esempio, sulla distinzione tra psicoanalisi e psicoterapia, sulle trasformazioni in corso nella relazione tra biopotere, diritto e democrazia. È responsabilità dell’analista allontanare le ingerenze e le manipolazioni dello stato dell’efficienza, guidate da interessi corporativi e politici. Sostenere la differenza del proprio atto. La pratica analitica si trova ogni giorno a confronto con gli effetti dell’espansione del prodotto giuridico: che si tratti dell’imposizione da parte dello stato, in nome del diritto alla vita, alla denuncia del paziente con idee suicide, che si tratti di procurare diagnosi alle compagnie d’assicurazione o dossier clinici ai tribunali. Che si tratti, più radicalmente, dell’ascolto della sofferenza del soggetto del linguaggio alle prese da un lato con la io-crazia, con il rinforzo del sintomo e la promessa di un aumento dei poteri individuali, dall’altro con la meccanicità omologante cui la società dell’efficienza e della valutazione di fatto lo riduce. Starà all’analista inventare, di volta in volta, l’atto analitico adeguato alla situazione singolare, creare le condizioni perché, malgrado le premesse, l’atto analitico possa aver luogo. Questa, d’altronde, è sempre stata la sua funzione. È responsabilità dell’analista proteggere la trasmissione del suo atto. L’analista è esposto alla violenza prodotta dalla proliferazione dell’atto giuridico, ai suoi effetti d’alienazione, di emarginazione. Alla relazione tra legge ed esclusione. È testimone degli effetti segregativi dell’universalizzazione della scienza preconizzati da Lacan, della manipolazione sociale che avviene tramite suo e della disumanizzazione conseguente ai suoi aspetti normativi. Di cui, non dimentichiamolo, i campi di concentramento sono una manifestazione. Riflettere sull’attuale e su come contribuire a risituare il diritto in una prospettiva democratica che lo svincoli dal suo carattere consumistico, risulta essere un compito necessario. La risposta nichilista rischia di trovarsi sofisticatamente complice del biopotere – che, dopotutto, la produce. Se la democrazia fa del volere della maggioranza la legge cui tutti sono sottoposti, non può non saltare agli occhi il suo contrasto radicale con la pratica della psicoanalisi, che è pratica della singolarità, 134 paola mieli dell’unicità, dell’irripetibilità della condizione soggettiva. Il sapere inconscio non può che trasmettersi uno per uno – è questo il challenge della formazione in psicoanalisi. Significa dire che psicoanalisi e democrazia stanno ai poli opposti? Per quel che riguarda la democrazia, è necessario distinguere tra democrazia politica e democrazia sociale; è necessario individuare dove e come la democrazia politica ostacola quella sociale, e fa del ricorso al diritto della maggioranza una forma d’assolutismo, una maniera per opprimere la molteplicità, la differenza, la minoranza. Fa del ricorso al diritto un modo per manipolare la Costituzione a uso corporativo o personale, o della trasformazione dei diritti individuali uno strumento per moltiplicare il controllo biopolitico. Come ogni pratica sociale, la democrazia è formazione instabile: essa richiede una costante rimessa a punto per far fronte alle contraddizioni che implicitamente contiene e che implicitamente produce. Sul fronte della psicoanalisi, se è vero che il soggetto è in transfert permanente con l’alterità, l’emergere del soggetto dal campo dell’Altro necessariamente implica una dialettica tra collettivo e singolare. Inutile ripetere che l’atto analitico, nell’avviare l’esilio dalla io-crazia, dal mito del tutto-d’un-pezzo e del tutto-sapere, muove in direzione dell’incontro con la differenza, con il relativo, con il non-tutto, verso l’espressione della propria singolarità, del proprio stile. Muove verso una trasformazione etica che marca il passaggio da una posizione soggettiva alieni iuris a una sui iuris.34 L’effetto singolare di tale pratica produce un impatto sociale? Forse è anche a questo cui Freud allude nel parlare di mutate esigenze ideali, etiche ed estetiche, frutto dell’avanzare della Kultur, di quel singolare processo di “incivilimento” che trasforma la violenza soggettiva e porta a una sua “intolleranza costituzionale”,35 dove è la nozione di mutazione ad attirare l’attenzione, sulla penna di qualcuno che si qualifica pessimista e che refuta l’idea di progresso storico. Che la pratica analitica e il discorso che l’accompagna possano avere un impatto sul sociale sul dispiegarsi della Kultur, sembra confermato dal fatto che essi attirano radicali antipatie in periodi d’asso34 Guillermina Díaz, Acte Psychanalitique/Acte Juridique, presentazione a Nodi Freudiani, Milano, 8 settembre 2008. 35 Sigmund Freud, Perché la guerra?, cit., p. 303. atto analitico, atto giuridico 135 lutismo, dittatoriale o democratico che sia. Nel decostruire la funzione mistificante e alienante delle identificazioni individuali e di gruppo, nel dissiparne la violenza, la psicoanalisi restituisce all’individuo la responsabilità soggettiva delle proprie scelte, delle proprie azioni; permette l’assunzione delle cause di cui si è l’effetto. L’assunzione quindi della responsabilità della realtà sociale di cui è parte. In questo senso, la pratica della singolarità può contribuire alla pratica della democrazia sociale, alla sua costante rimessa a punto. Per diverso che sia dall’atto giuridico, l’atto analitico può contribuire a una sua ridefinizione, a una sua ricollocazione nell’orizzonte democratico. Il soggetto dell’atto giuridico, d’altronde, è lo stesso su cui opera la psicoanalisi. Contraddire il potere: ambivalenze della legge Contraddire il potere: ambivalenze della legge Laura Bazzicalupo Contraddire apertamente il potere. Parlare franco, senza paura, di fronte al despota, “il padrone”, o semplicemente a un potere dominante. Questa “figura” della politica (e dell’etica) che attraversa sagittalmente tutta la storia politica occidentale – una figura dai tratti mitici ed eroici che sembrerebbero poco verosimili in una epoca di massima visibilità di tutti nel mondo mediatico – acquisisce oggi, paradossalmente una nuova consistenza. A nessuno sfugge, per esempio, la potente richiesta di diretta “presa di parola” dei manifestanti “indignati” che marcano esplicitamente la distanza dal modello della democrazia rappresentativa, la quale delega la parola, non “dice” lo scontento, la rabbia, il dissenso. Non si tratta di un soggetto collettivo, quanto piuttosto di una moltitudine di singolarità, che, in questo o in altri casi, in gruppo o individualmente, esigono di parlare chiaro al potere, di esprimere senza rappresentanza la propria verità. Al di là della valenza politica – non prevedibile – della critica alla democrazia rappresentativa e al di là della fragilità di questa presa di parola, ma anzi proprio per la sua impredicibilità e fragilità, il processo di soggettivazione etica e politica che vi si manifesta è in sé significativo e su di esso questo saggio si interroga. Questa soggettivazione si staglia su uno sfondo epocale con il quale entra in frizione, rendendosi però più urgente. Verrà esaminata in relazione alla “figura” del parresiasta che Foucault, con la consueta lucida an- 137 ticipazione, ha delineato nei suoi ultimi scritti, all’interno (ma anche fuori) dall’analisi delle pratiche di cura e di governo del sé. La figura del parresiasta manifesta ambivalenze sia ontologiche sia, di riflesso, politiche, che il paradigma lacaniano sul rapporto del soggetto con la Legge può aiutare a chiarire. Risulterà cruciale la relazione della figura del parresiasta – di colui che contraddice apertamente il potere – con la pulsione di morte. 1. Foucault ci offre un paradigma che suscita dei problemi interpretativi, cui posso fare solo cenno, ma che afferiscono al nostro tema. Nonostante si ponga al centro del foucaultiano circuito di assoggettamento e soggettivazione, la parresia, il parlare franco in faccia al potere, ne costituisce, in realtà, un potente decentramento che rilancia la dimensione politica indebolita dall’eterno rimando tra assoggettamento e soggettivazione.1 Il parresiasta incarna una pratica, una prassi performativa, che non si deduce da una condizione teoretica: è il manifestarsi antagonista, il posizionamento che rompe l’unità della rappresentazione, della “scena”. Il discorso filosofico in Occidente si è costituito sulla piega del governo degli altri che dà forma al governo di sé; ma c’è un luogo dove il processo di soggettivazione si smarca dalla dipendenza; un gesto, la parresia, che si replica costante e discontinuo. Un gesto di decisa rottura: esemplare non nei contenuti ma nella modalità, “libero” e “coraggioso”, che confuta il potere, si sottrae alla sua pretesa di totalità, ne spezza la verità sociale e consensuale con una verità-evento, testimoniata attraverso la messa a rischio della vita stessa. Si delinea così una critica della democrazia in quanto ethos indifferenziato, populista e consensuale (tutti caratteri che si attagliano al presente), a favore di una democrazia come prassi del dissenso che lavora contro l’orizzonte consensuale della governamentalità. A favore, soprattutto di un soggetto politico che coincide con la scissione del nucleo del sé, con la de-identificazione costitutiva. Il parresiasta infatti rifiuta l’identificazione, l’ordine nel quale si trova iscritto. Un soggetto 1 Michel Foucault, Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1982-1983), Feltrinelli, Milano 2009; Id., Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri ii. Corso al Collège de France (1984), Feltrinelli, Milano 2011. 138 Laura Bazzicalupo an-archico, in relazione a ogni politica archica o egemonica.2 Il soggetto è questa posizione che nega la totalità, perturba radicalmente la rappresentazione, la scena. Politico nel fatto stesso di interrompere la pretesa della scena di essere un tutto. Per Foucault il legame della parresia con la critica mostra che anche quest’ultima (in particolare quella illuminista) non nasce come prestazione teorica a sé stante, ma in dipendenza reattiva dal potere pervasivo dello Stato. Il risvolto politico, la dichiarazione di guerra allo Stato autoritario ne è la matrice anche prima della “uscita allo scoperto”: questo è un elemento, a mio avviso, importante. L’attitudine antagonista è “non accettare come vero quel che un’autorità sostiene essere vero”. Avendo origine in questa negatività concreta e prospettica, la critica è “arte della disobbedienza volontaria, dell’indocilità ragionata”, “un modo di essere della soggettività, in contrappunto al modello regolativo del governo”.3 La critica come costante riedizione dell’insoddisfazione, dell’indocilità, interroga il presente sul quale si ripiega e lo mette in questione. L’interazione conflittuale tra critica e Stato, la relazione che contrappone e che, al tempo stesso, unisce i due poli in conflitto rimane costitutivamente aperta. Ciascuno dei due poli mira attivamente a contrastare l’altro, sostituendosi a esso e, insieme, inglobandone la “forma”: “gioco di specchi”, un movimento di soppressione e di sostituzione, interna alla rappresentazione del soggetto unitario. Veniamo al soggetto che si rivela nell’atto parresiastico. Il soggetto è l’atto o il gesto di separazione e di contrapposizione il cui baricentro attira il soggetto fuori di sé, in correlazione all’altro che ha potere dominante: negatività reattiva, si definisce nello scontro antagonistico con quello. Non c’è ripiegamento sull’interiorità, né pura espressività: la dimensione politica antagonistica è costitutiva del soggetto che è esattamente la frattura stessa, il fallimento del consentire, dell’assentire. Foucault sottolinea addirittura – e questo sollecita la nostra attenzione – la “esteriorità” di Diogene: straniero interno alla società.4 Un fuori che spezza il circolo soggettivazione/assoggettamento, il quale si ricostruisce solo dopo, nella funzione esemplare pedagogica Contraddire il potere: ambivalenze della legge del parresiasta, nell’ethos che provoca e induce. Così nel rapporto maieutico fiduciario tra maestro e discepolo, padre e figlio, nel rapporto preferenziale tra il filosofo e il tiranno, si inserisce una breccia: l’atto politico strutturalmente antagonistico con il quale il singolo prende posizione rispetto alla propria comunità, “[U]n dire-il-vero dirompente, che produce frattura, che espone al rischio: possibilità, campo di pericoli, in ogni caso eventualità non determinata”.5 Alla circolarità governamentale sicuritaria, si contrappone la parresia/rischio. Il termine chiave di questa torsione del soggetto è il senso in cui viene usata la parola verità. È una verità-evento: il rapporto soggettoverità che sarebbe aporetico se pensato in termini di verità-sapere (ordine simbolico) che dà forma alle soggettivazioni assoggettandole, si ricolloca a livello pratico: la pragmatica è an-archica, indeducibile da principi.6 La verità qui è “esperienza”, evento, raddoppiamento del dire con il credere, con l’essere fedeli: fede che, vedremo, è così difficile nel mondo attuale. Due i tratti della verità-esperienza: 1) la distanza tra soggetto e soggettivazione che marca l’irriducibilità della verità a standard o a norme e criteri; 2) la coincidenza esistenziale con la verità: testimonianza di sé. Evidente che ciò che si dice non conta, ma conta come lo si dice: il grado di partecipazione, di coinvolgimento e di fede che viene testimoniato dal rischio di vita: si ha un patto di coincidenza e di fedeltà tra se stesso e ciò che si dice. Ma questa coincidenza con la propria credenza nella verità spezza il soggetto stesso dalla sua soggettivazione eteronoma e governamentale, lo getta fuori di sé. Non è il problema dell’autenticità: perché resta ancora una volta dipendente, anche se da qualcosa di diverso, ma comunque decentrato rispetto al sé stesso. La verità-evento retroagisce sul soggetto.7 Lo lega, lo definisce come soggetto, lo impegna. È verità non-logos, ma ergon.8 Si rischia la vita ergò, e non logò (non a parole ma nei fatti): è ciò che il parresiasta fa, che “fa Ivi, p. 68. Reiner Schürmann, Dai principi all’anarchia. Essere e agire in Heidegger (1986), il Mulino, Bologna 1995. 7 Si vedano le teorie performative (Honig, Butler, Critchley, ma anche l’ultimo Balibar) e quelle della palingenesi attraverso l’evento di verità (Badiou e Žižek). 8 Michel Foucault, Il governo di sé e degli altri, cit., p. 306. 5 Laura Bazzicalupo, Pragmatica anarchica e virtù esemplari. Un poststrutturalista ad Atene, in Serena Marcenò e Salvatore Vaccaro, a cura di, Il governo di sé, il governo degli altri, :duepunti edizioni, Palermo 2011. 3 Michel Foucault, Illuminismo e Critica, Donzelli, Roma 1997. 4 Id., Il governo di sé e degli altri, cit., p. 299. 2 139 6 140 Laura Bazzicalupo valere” questa verità che è modale, pratica, performativa, visibile nelle cose stesse, nei modi di fare, di essere, nello stile, nella firma di un soggetto. Non modelli trascendenti o trascendentali di normatività, ma esemplarità incarnata nel vivente, nel suo gesto: coraggio o libertà non esistono che in esercizio, in atto. Esempio è Socrate: filosofo e dunque soggetto portatore della frattura nella opinione dominante, titolare di un daimon che non è normativo, non ordina niente, se non di essergli fedele: fino alla cicuta. Ma Socrate è anche colui che legittima la propria funzione di maestro di verità operando su se stesso la “palingenesi”, il lavoro di trasformazione che determina la differenziazione etica e veritativa – la distinzione del vero dal falso, del giusto dall’ingiusto – e dunque la possibilità di un trascendimento nell’immanenza. Perciò è legittimo che abbia ascendente. Questa esemplarità che si candida a nuovo Significante maestro è oggi possibile? Forse la parresia rivela sì una verità nascosta al demos, ma si tratta di un eccesso, di una frattura la cui vista il demos non riesce a sopportare. 2. La figura di colui che dice la verità contro il potere apertamente e rischiando la vita è schematizzata da una dicotomia che nella piena modernità sempre più raramente è riducibile alla polarizzazione dialettica potere/disobbedienza. Dire il vero al potere implica che ci sia una contrapposizione tra vero e falso: implica dunque un nesso non aggirabile, un nesso forte di politica e verità. Quando questo nesso si iscrive in un quadro epistemologico come quello moderno nel quale ogni regime di verità è regime di potere e si esplicita in un sistema di dispositivi che comprendono enunciati, usanze, organizzazione degli spazi, materialità, pratiche e tecnologie di governo, la dicotomia vero/falso si converte in una tensione tra poteri dissimmetrici, reciprocamente coinvolti: la verità del dominante e la contro-verità, emergente, ancora fragile eppure fortissima perché sostenuta dal coraggio di chi la enuncia, del potere “sfidante”. Da un punto di vista strutturale permane, sia pur nella relativizzazione reciproca e nel riconoscimento della onnipresenza del potere, un’enfasi eroica e ordalica. Che funziona appunto in un quadro – moderno eppure classico – dicotomico antagonistico, dove la Legge, sovrana, è individuata e individuabile e genera la sua trasgressione; genera – in termini politici – la resistenza che le è implicita eppure esterna. L’assoggettamento Contraddire il potere: ambivalenze della legge 141 produce la soggettività resistente, con un doppio livello: l’uno, della rappresentazione sovrana, eroicamente, miticamente dicotomico; l’altro governamentale che rinvia al circuito di soggettivazione interno a un potere non semplicemente repressivo, ma produttivo delle forme di vita di coloro che sono governati tramite il governo dei desideri. Questo schema dialettico-strutturale, già riflessivo e fragile rispetto alla sfida parresiastica, entra in crisi definitiva quando si indebolisce la funzione repressiva (e generativa di soggettivazioni resistenti) della Legge, in quel sistema di governo neoliberale che con termine efficace Badiou chiama “atonale”.9 La postmodernità si manifesta con un’inquietante ingiunzione alla trasgressione della Legge. Viene meno il Significante Maestro, e dunque, nella nostra scena paradigmatica di contraddizione al potere e di soggettivazione etico-politica, viene meno il despota, il Padrone, che dà il “tono” all’insieme. La potente deterritorializzazione capitalista che ha investito tutte le forme di vita ne ha disseminato ogni ordine, incoraggiando la dispersione delle identità e delle contrapposizioni. L’ingiunzione superegoica ad auto-realizzarsi asseconda lo slittamento dal permesso di godere all’obbligo a farlo e – non riuscendovi – alla colpevolizzazione frustrante e alla destituzione dell’impegno soggettivo e responsabile, immediatamente qualificato come sacrificale, fanatico, totalitario. Per una logica della politica egemonica, questo significa che diventa molto difficile individuare il punto, il tono, il point de capiton sul quale fare leva per costruire una contrapposizione di “verità”, di parole diverse e antagonistiche.10 Mentre la radicalizzata governamentalità bioeconomica si presenta acefala: ha tagliato definitivamente la testa del sovrano/despota. Un mondo atonale, privo di tono, dissolto nei saperi esperti che chiudono lo spazio per un investimento di fede, di credenza, erode la funzione autoritativa – autorità che genera l’affidamento soggettivizzante (e l’eventuale revoca di fiducia) – ed erode la verità. È dunque il rapporto dell’atto di contraddizione con la verità di ciascuno che si fa problematico, al di là del suo pur riconosciuto nesso con il potere: viene meno quel luogo di verità, di fede, che può gene- 9 Alain Badiou, Logiques du monde, Seuil, Paris 2006, p. 443. Ernesto Laclau e Chantal Mouffe, Hegemony and Socialist Strategy, Verso, London 2001. 10 142 Laura Bazzicalupo rare attaccamento appassionato (per usare la terminologia di Butler)11: il fantasma fondamentale indispensabile per la soggettivazione. L’atonalità eterogenea del sociale dà luogo a singolarità disseminate e isolate, atomistiche, che condividono la pulsione al godimento che il sistema offre a compenso di una censura del desiderio che procurerebbe soggetti resistenti. D’altronde anche le forme di opposizione rappresentativa sono risucchiate nell’inseguimento del modo dominante, incapaci di trovare un proprio tono per esprimere, sotto e dentro questa atonalità, le frizioni, le sofferenze, i disagi oscurati dal suono stentoreo, atonale appunto, dell’insieme. E allora, chi ha disagio, chi fa attrito e sente dolore – chi ancora lo sente il dolore – aggrappandosi a questo sintomo, talvolta riesce a dare voce all’oscuro antagonismo che lo attraversa e alla propria verità. La manifesta in una modalità che ha più a che fare con il gesto, con l’espressione estetica che con l’argomentazione. La quale ultima, comunque inserita nel simbolico e nel senso comune, sarebbe subito riassorbita. Queste cose sono note. Eppure è proprio la radicale pervasività del non-tono comune, l’indiscusso predominio dell’ideologia della nonideologia, che naturalizza la forma di vita esistente, a dare nuova consistenza a quella figura di contra-dizione, trascrivendone in modo nuovo le ambivalenze. 3. La parresia e la sua sorprendente combinazione di grandezza arcaica, hýbris ordalica e sfide critiche illuministe rinviano al presente l’ambivalenza del rapporto tra soggettivazione etico-politica e Legge e illuminano l’ipoteca di morte che, oggi più che mai, presiede a questa relazione. Nel parresiasta abbiamo la drammatizzazione dell’emergere del soggetto, collocato nello scarto ontologico tra universale e particolare, dove è impossibile ricavare la totalità della verità da quella egemonica, parziale e simbolica o da un qualsiasi dato ontologico positivo. Il soggetto è l’atto, la decisione che segna il passaggio da una realtà che si rivela essere non-tutto, alla verità-evento, che, nel gesto contingente del soggetto, fornisce il supplemento alla incompiutezza della realtà stessa, per poi volgere a un nuovo ordine che sarà anch’esso incompiuto. Judith Butler, La vita psichica del potere (1997), Meltemi, Roma 2006. 11 Contraddire il potere: ambivalenze della legge 143 Ma dov’è il soggetto? È nel gesto distruttivo e poi nel movimento di riempimento dello scarto ontologico? Oppure si deve insistere sul circuito chiuso della soggettività ed è soggetto il nuovo riempimento, che stabilisce una nuova egemonia come in Laclau, che dà voce alla parte dei senza parte per Rancière o che è, per Badiou, fedele all’evento?12 L’oscillazione è cruciale proprio per la relazione alla Legge e, dunque, al suo attuale dissolversi: per Lacan il soggetto è già lo scarto, l’apertura, il vuoto che precede il gesto di soggettivazione. C’è prima la notte del mondo, la ferita, la negatività, da cui muove il gesto di soggettivazione che tenta di guarirle: il soggetto è l’uno e l’altro momento. E la ferita non è esterna, cioè una Legge esterna (l’ordine dato), ma un ostacolo intrinseco che è il soggetto stesso. Anzi, come bene nota Žižek, lo sforzo del soggetto di riempire lo scarto genera retrospettivamente lo scarto stesso.13 Se questa ipotesi fosse giusta, non si tratterebbe di contrapporre all’ordine positivo una verità a esso esterna, magari prodotta dalla stessa forma di soggettività governata, ma di rovesciare in produttività la negatività originaria, “reale”, della pulsione di morte che apre lo spazio a una sublimazione creativa. La sublimazione (la scelta di fede del parresiasta) presuppone la pulsione di morte. La indoviniamo nei dettagli della scena: la presa di parola, l’enunciazione del significante – come si sa, apportatore di morte – non esauriscono la soggettività, che è animata da una pulsione al godimento che è situata in quello che era sempre stato il posto della verità.14 Questa pulsione dissolutiva è la Legge-Verità primaria del soggetto che parla. Si tratta di una Legge che non ha “parola” – non la si trova dunque nella parola del parresiasta – ma nella domanda silenziosa15 insistente, non padroneggiabile, che domina la scena: e che gli altri, i presenti avvertono come un che di sacro, di esecrabile e tremendo che obbliga al gesto: è un buco, una zona oscura attorno alla quale la parola di chi “parla franco” fa il giro senza mai poterla dire, significare e che perfora la parola stessa. Ernesto Laclau e Chantal Mouffe, op. cit.; Jacques Rancière, Il disaccordo (1995), Meltemi, Roma 2007; Alain Badiou, L’essere e l’evento (1988), il melangolo, Genova 1995. 13 Slavoj Žižek, Il soggetto scabroso (2000), Raffaello Cortina, Milano 2003, p. 196 e sgg. 14 Jacques Lacan, Il seminario. Libro xvii. Il rovescio della psicoanalisi (1969-1970), Einaudi, Torino 2001. 15 Sigmund Freud, L’Io e l’Es (1917-1923) in Id., Opere, 12 voll., Boringhieri, Torino 1967-1980, vol. ix. 12 144 Laura Bazzicalupo Se adottiamo la prospettiva lacaniana per comprendere quella scena avremo gli strumenti per andare al di là della sua lettura dialettica e soggettivizzante, orientata dal nesso desiderio-Legge,16 lettura condannata a entrare in crisi nell’atonalità sregolata di oggi. Lacan fa di quella pulsione obbligante il punto zero della domanda,17 un punto in cui la domanda, spinta all’estremo, non trova come dirsi, ma tanto più non cessa di chiedere e chiedere: chiedere la destituzione del soggetto, il suo svanire. La verità-evento di colui che contraddice il potere non è dalla parte della vita, del piacere, dell’utile – anche se troverà tali parole nell’ordine del simbolico – ma da quella dell’immortale, inflessibile Legge prima della Legge, il Todestrieb. L’oggetto che affascina il temerario che sfida la morte e in cui egli investe appassionatamente è una maschera della morte, del Vuoto ontologico primordiale, della impersonalità. Forse dobbiamo insistere sul primato della negazione sull’affermazione positiva del nuovo ordine. Diversamente da Badiou e da Critchley, ma anche da Laclau e tanto più da Mouffe e Rancière che non identificano il soggetto con il vuoto: piuttosto lo vedono emergere nell’agency fragile e contingente che decide di essere fedele all’evento: a conferma di un processo di soggettivazione che genera impegno, assunzione di fedeltà, identificazione di un universale egemonico. Una versione rassicurante: ma che non riconosce l’ombra che, nel contraddire, accompagna il gesto di messa a repentaglio della propria vita: la distruttività della vita propria, la pulsione di morte che si rivela primaria e costitutiva nell’atto di disobbedienza paradigmatico di tutte le disobbedienze, quello di Antigone. La verità sociale espressa dal despota è incrinata, più che dalle parole del parresiasta, dal contatto con il Reale che ne rivela la incompletezza, dal gesto: si ricordi, è il modo non il contenuto delle parole ad affermarne la verità. La negatività della pulsione di morte che sta in quel gesto precede e sottende il rovesciamento nella identificazione con un nuovo significante padrone. Questa emergenza dal buio sostiene l’ordine ontologico e resta racchiusa in esso. Due possibili interpretazioni, dunque, ambivalenti in relazione alla 16 Si vesa Jacques Lacan, Il seminario. Libro vii. L’etica della psicoanalisi (1959-1960), Einaudi, Torino 2008, p. 196 e sgg. 17 Ivi, p. 242 e sgg. Contraddire il potere: ambivalenze della legge 145 Legge: per Badiou come per Critchley e Laclau il soggetto è scisso tra la Legge – pubblico, ma anche osceno sostegno dell’ordine positivo – e un “altrimenti”, un altro mondo possibile per il quale dare la vita, che è ordine dell’Amore (Badiou), del Bene (Critchley), della Verità (per quanto contingente: Laclau). “Altrimenti” che non dipende dal diabolico nesso legge-colpa, ma dalla positività del Bene. Per il lacaniano Žižek invece, la verità-evento opera solo sullo sfondo del trauma dell’accesso al Reale, alla Cosa mostruosa, non-morta, per poi tentare di ri-trascrivere quel trauma, il segreto della soggettività non simbolizzabile, all’interno dell’ordine simbolico – la parola – che resta pur sempre l’unico accesso al reale. Nel “prendere la parola” il parresiasta viene a patti con il Reale o, come dice Lacan, attraversa il fantasma, assume su di sé, per quanto è possibile, la negatività radicale della propria pulsione di morte e – a partire da essa, tenendola dentro – tenta di ristrutturare i rapporti sociali. Questo attraversamento, che ha rilevanza politica poiché rifiuta tanto l’immediatezza di una libertà assoluta della macchina desiderante quanto la assolutezza positiva della verità testimoniata, implica la presa in carico della potenza negativa della pulsione di morte, dell’immortalità mostruosa, caotica, che risucchia nell’impersonale. Solo assumendo la finitezza umana e la “vera morte”, può trovare forma e limite, “persona”. Nonostante l’aura eroica, la soggettività etica viene sottratta alla tentazione mistica e psicotica di un accesso diretto, non-mediato alla Verità-Reale: prende la parola. Un’ombra accompagnerà la nuova costruzione di verità, il nuovo significante-padrone. 4. Questa interpretazione, meno trionfale e meno eroica, è rilevante proprio oggi, nel mondo atonale della evaporazione del padre. Se il soggetto si riducesse alla soggettivazione dipendente dal principio di interdizione del godimento, vagherebbe entro i limiti del principio di piacere, suo prigioniero, impigliato nelle sue stesse impossibilità: sempre dallo stesso lato della legge. Per quanto trasgressivo possa essere il fantasma, non oltrepasserà mai un certo limite. E si perderà col perdersi della Legge. All’opposto se la chiave è il godimento/pulsione di morte, Legge priva di parola e di interdizione, allora coincide col soggetto che può solo a fatica assumere la distanza che lo fa esistere. Questa fatica sta 146 Laura Bazzicalupo oggi dentro il gesto spesso sgraziato, rauco, di “presa di parola”, voice. In un mondo atonale, la via non può essere che quella, non facile, non spontanea della fedeltà, innanzitutto al synthome: dare enfasi al disagio, all’attrito che si avverte e che increspa (oggi, nella crisi economica, è più facile) il tutto liscio del Grande Altro evaporato. In secondo luogo, fedeltà alla verità parziale, parlata che segna il passaggio del reale della pulsione nell’ordine del sociale: passaggio necessario e verità grazie alla quale torna possibile morire “veramente”, dunque vivere “veramente”, interrompendo la follia della non-morte impersonale. Sarà necessario ri-drammatizzare, isterizzare di nuovo. Questo significa reinventare l’universale in ogni situazione concreta, senza il sostegno di una Legge trascendente trascendentale, ma senza cedere neanche a quella Legge priva di contenuto, ingiunzione allo stato puro, da non confondere con le proibizioni concrete, immanenti, al di là del male e del bene, che incalza le fragili identificazioni soggettive. In Foucault, che non riconosce l’inconscio, la dinamica difensiva si limita all’uso dei piaceri, alla cura e al governo di sé che fornisce regole pratiche per parzialmente disassoggettarsi. Ma la traccia di morte, di disidentificazione, la pulsione strana e antiutilitaria che attraversa come un brivido l’atto etico della presa di parola, tenendo con il fiato sospeso gli astanti, sembra farne qualcosa di diverso dall’etica-estetica di Foucault, o da quella decostruttiva di Critchley: diverso dall’assunzione eroica della propria finitezza sempre prigioniera di una mancanza costitutiva. Forse c’è dell’altro nel gesto di disobbedienza, quando arriva a ridefinire le coordinate stesse della scena e le basi dell’identità di chi disobbedisce: vi si sprigiona la negatività estraniante, dis-identificante, casuale dell’incondizionato. L’ombra dell’incondizionatezza cattura e trascina, non senza terrore, tutti coloro che al principio hanno accusato Antigone di hýbris, di eccesso, di disobbedienza. Resisterle significa assumerla, venirci a patti, senza cedere a essa. La democrazia non è da tutti Bruno Moroncini Qualunque riflessione attuale sulla condizione di salute della democrazia dovrebbe, a mio parere, prendere le mosse da un’osservazione, apparentemente banale, in realtà decisiva per ogni ulteriore considerazione: a partire dal 1989, data della caduta del muro di Berlino e dell’inizio del processo che avrebbe portato al collasso dell’Unione Sovietica e del blocco dei paesi dell’Est, si perse l’abitudine di accompagnare il termine “democrazia” con un aggettivo che ne specificasse il senso e le possibilità d’uso. Era normale fino al 1989 sentir parlare nel dibattito politico di democrazie liberali e di democrazie progressiste o socialiste, declinazioni della democrazia quasi sempre contrapposte e conflittuali, ma usate qualche volta anche in modo augurale nella convinzione che iniezioni di liberalismo nelle vene delle tradizioni socialiste e di socialismo in quelle liberali avrebbero potuto rendere gli organismi democratici inattaccabili da ogni virus totalitario, di destra e di sinistra. Dopo l’ottantanove si cominciò a parlare di democrazia tout court, di democrazia senza aggettivi, sebbene questo uso linguistico non denotasse tanto la vittoria definitiva della democrazia quale unica e adeguata forma di governo quanto quella, solamente presunta, della democrazia liberale surrettiziamente elevata, a propria volta, a forma della democrazia in quanto tale. Ben presto l’inganno insito nella democrazia sans phrase venne alla luce: senza cedere al totalitarismo o a forme tardive di sovranità illiberale e autoritaria, la democrazia tuttavia degenerava e così l’abitudine all’aggettivazione ricomparve. 148 Bruno Moroncini Rispolverando la toquevilliana dittatura della maggioranza, si dovette di nuovo ricorrere agli ossimori e parlare di democrazia dispotica, di democrazia plebiscitaria, di democrazia deformata in opposizione alla democrazia parlamentare, alla democrazia fondata sul principio costituzionale della divisione dei poteri e sullo stato di diritto. La democrazia attentava alla democrazia. In tal modo mentre si continuava a celebrare la superiorità della democrazia, sottinteso liberale, rispetto a tutte le altre forme di governo, riemergeva come un fiume carsico tutto l’armamentario conservatore e reazionario, proprio anche di un certo conservatorismo di sinistra, che da Platone in poi è stato elaborato per opporsi alla democrazia, per propagare quello che Jacques Rancière ha chiamato “l’odio per la democrazia”. Un odio radicato che si ritrova per esempio in Kant quando, nel pieno della discussione sugli effetti della Rivoluzione francese e dell’esperienza giacobina del terrore – nella pubblicistica dell’epoca il governo giacobino è definito democratico – distingue nettamente il governo repubblicano da quello dispotico e considera come variante di quest’ultimo la democrazia. La differenza è presto detta: mentre la forma di governo repubblicana si fonda sulla distinzione fra il potere legislativo e quello esecutivo, il dispotismo democratico li unisce e attribuisce all’organo deputato a fare le leggi anche il compito di applicarle producendo l’arbitrio più sfrenato. Nulla a questo punto, infatti, può impedire che l’assemblea legislativa promulghi e applichi leggi ad personam e/o che il potere esecutivo stravolga a suo piacere leggi rivolte all’interesse generale. In un regime repubblicano la sovranità appartiene esclusivamente al legislativo che però non governa, non si occupa cioè del particolare, e il governo può operare solo come rappresentante del legislativo, cioè come fedele esecutore della sua volontà. Andrebbe tutto bene se a fare da pendant di questa virtuosa distinzione fra dispotismo e repubblicanesimo non ci fosse in Kant la tesi peregrina, ma non troppo, che dal novero dei cittadini, cioè di quelli dotati dei diritti politici attivi e passivi, siano esclusi, perché o momentaneamente o per sempre privi di ragione, bambini e donne. Se il repubblicanesimo fa da baluardo contro il pericolo del dispotismo, tuttavia il prezzo da pagare è l’esclusione di una larga parte dell’umanità dall’esercizio dei diritti politici: viene da chiedersi se non sia meglio rischiare la possibilità del dispotismo piuttosto che limitare con La democrazia non è da tutti 149 esiti a questo punto incontrollabili – dopo donne e bambini perché non gli attori, poi i pazzi, i perversi, i malati, e infine gli ebrei e chi più ne ha più ne metta? – la cittadinanza. Forse nella caricatura reazionaria della democrazia passa una verità su questa forma di governo ostica sia ai conservatori che ai cosiddetti progressisti: la tesi sostenuta da Platone nel libro viii della Repubblica in base alla quale la democrazia non sarebbe altro che un mercato delle costituzioni, dal momento che essa, lungi dall’essere una costituzione vera e propria distinta dalle altre, è in realtà un crogiolo che le comprende tutte e che per sovramercato permette a ciascuno di scegliere quella che più gli piace o più risponde ai suoi interessi, si potrebbe rivoltare al positivo e vedervi in controluce l’affermazione del principio democratico, quello della decostruzione di ogni forma di governo e di costituzione ivi compresa quella democratica. La democrazia non sarebbe allora una forma di governo o sarebbe la forma di governo che produce la decostruzione, quindi la critica immanente, di tutte le altre forme di governo. La democrazia, come sostiene Rancière in più luoghi (L’odio per la democrazia, Ai bordi del politico e Il disaccordo), coinciderebbe con la politica nella misura in cui quest’ultima è il dispositivo attraverso il quale una parte della città – i molti, il demos – insorge contro il nomos, la legge, fosse anche la più ugualitaria e la più giusta, in base a cui si ripartiscono le ricchezze materiali e immateriali della città fra le componenti che la costituiscono sempre escludendone però una in tutto o in parte. La politica e quindi la democrazia sarebbero il mezzo con cui chi è escluso dalla conta, che non è contato cioè fra le parti della città, lotta per essere contato e per farlo non può che cambiare la legge su cui la città si fonda. La democrazia è anarchica (sebbene ciò non voglia dire che è ingovernabile: per Rancière la democrazia è “l’autoregolazione anarchica del molteplice tramite la decisione della maggioranza”): combatte costantemente contro il principio dell’arché, dell’inizio che, come è noto, indica da un lato l’origine di una sequenza storica o di un processo naturale ma dall’altro anche la tassonomia in base alla quale sono regolati, l’ordine in cui debbono disporsi gli elementi che li costituiscono. Mentre ogni altra forma di governo è ordinale, cioè stabilisce la successione della conta: primo, secondo, terzo e così via, la democrazia è cardinale, conta alla rinfusa: uno, due, tre ecc. Niente e nessuno vale più di un altro o “una testa un voto” qualunque sia la 150 Bruno Moroncini testa. Quando ogni cosa è al suo posto e tutto è in ordine, non c’è per Rancière né politica né democrazia, ma “stato di polizia”, vale a dire non un sistema violento e repressivo, ma semplicemente pulito, scorrevole, privo di scorie e di resistenze. I paradossi della democrazia derivano in gran parte dalla confusione iscritta nelle vicissitudini interpretative subite nel corso della storia occidentale dal termine demos. Nella sua accezione classica, così come compare negli storici, negli oratori e nei filosofi dell’antica Grecia, demos designa i molti in opposizione all’uno della monarchia e ai pochi (ma buoni) dell’aristocrazia. Ma già forse negli stessi autori fa capolino l’altro significato attribuibile al termine demos, divenuto vincente nella modernità da Hobbes in poi, vale a dire “tutti”, la totalità dei cittadini senza differenze di classe e di ricchezze. Nella difesa della democrazia, che in una paradossale discussione fra Greci e Persiani su quale sia la miglior forma di governo, Erodoto mette in bocca a Otane, la frase che ancora adesso sembra indicare la quintessenza del regime ateniese, e cioè “ἐν γὰρ τῷ πολλῷ ἔνι τὰ πάντα”, comunque la si intenda e di conseguenza la si traduca – “nel molto si trova ogni cosa”, “nella maggioranza c’è la fonte di ogni diritto”, “nella moltitudine è il tutto”, “nella massa sta ogni potere” –, mostra la difficoltà di consegnare il termine “molti” a un significato stabile e univoco. Chi sono i polloi in cui consiste il demos? Tutti, cioè tutto il popolo, in particolare l’assemblea del popolo? O molti, cioè la grande maggioranza, quella maggioranza formalmente costituita dentro l’assemblea? D’altronde se si tiene conto che per Erodoto la democrazia funziona solo se è la messa in pratica del concetto soloniano di meson, cioè del luogo della mediazione politica, la zona intermedia fra gli estremi in grado di neutralizzare il conflitto che può scatenarsi fra le parti della città, sarà più facile vedere in quel tutto la totalità che riduce violentemente a uno i molti facendoli diventare tutti. Né le cose migliorano se analizziamo altri autori come Tucidide, Platone e Aristotele: l’elogio della democrazia, che lo storico delle guerre del Peloponneso attribuisce a Pericle ricostruendone il discorso in commemorazione dei caduti in guerra, suscita, se non simili, analoghe perplessità. Il riconoscimento dell’eguaglianza dei diritti di fronte alla legge anche nel settore dell’esistenza privata è però smentito o mitigato in quello politico dove i candidati alle cariche pubbliche debbono venir selezionati in base a un’assiomatica valoriale fondata La democrazia non è da tutti 151 sulla stima e soprattutto sull’onore. Le virtù pubbliche continuano a essere la sobrietà, la medietà e l’autocontrollo, mai il conflitto, l’eccesso, la dépense. Di Platone, oltre alla succitata accusa di far mercato delle costituzioni, fin troppo nota è la tesi per cui la democrazia rappresenti, per il suo disordine costitutivo, l’anticamera della tirannide. Meno noto, ma più interessante per noi (lo si vedrà fra un attimo) è il rapporto, tutto al negativo, istituito da Platone fra la democrazia e l’elemento femminile: ironicamente infatti Platone paragona la democrazia a un mantello variopinto ricamato con ogni sorta di fiori che appunto per questo piace enormemente agli occhi; ma, aggiunge con perfidia, piace in realtà solo agli occhi delle donne e dei bambini, che notoriamente si fanno affascinare dalle cose colorate. Come a dire che, essendo donne e bambini piuttosto delle bestioline che esseri umani veri e propri, essi si estasiano di fronte a ciò che luccica ed è perciò facile ingannarli. Tuttavia c’è di peggio: la libertà democratica è tale da infrangere anche le barriere fra i sessi; si può assistere così a una parità fra uomini e donne che colpisce anche l’ambito sessuale e vedere con orrore le donne degradarsi al rango delle cagne in calore, del tutto prive di vergogna e di pudore. Anche Aristotele, molto meno “militante” di Platone, più cattedratico e professorale, vede tuttavia la democrazia con un certo sospetto: giacché se è vero che nella polis le insurrezioni sono dovute quasi sempre all’esigenza di ristabilire un’uguaglianza violata, tuttavia su quale sia lo statuto dell’eguaglianza da ripristinare o da instaurare la discussione è aperta e senza sbocco. Ci si può lamentare sia del fatto che, nonostante si abbiano due occhi e due mani come tutti, si sia trattati differentemente, sia di quello contrario per cui, pur impegnandomi nel mio lavoro più di qualunque altro, mettendoci tutta l’intelligenza e la passione di cui posso disporre, sono trattato alla fine allo stesso modo del collega più lavativo e perdigiorno. L’eguaglianza che rappresenta il nerbo della forma di governo democratica non è una realtà univoca, si sdoppia e rischia di divenire conflittuale portando la polis alla distruzione. Solo una forma di governo che comprenda in sé le due forme d’uguaglianza e sia in grado di comporle, è una forma di governo accettabile; ma appunto non è la democrazia. Una delle ragioni di questo slittamento del significato del demos dai molti ai tutti potrebbe essere questa: nel momento in cui si costituisce 152 Bruno Moroncini qualcosa come una filosofia politica, una presa in carico da parte del pensiero discorsivo e razionale della pratica di governo della polis, la forma del giudizio apofantico che implica l’uso dei quantificatori logici trapassa senza soluzione di continuità nella definizione del soggetto della polis. Dal momento che apodittico, cioè universale e necessario, è il giudizio che si dà nella forma “tutti gli x sono y”, “tutti gli uomini sono mortali”, ma anche “tutti gli uomini sono animali politici”, ecco che il soggetto logico diventa il soggetto politico. Tuttavia nel momento in cui la logica si impadronisce della politica, la sottomette al suo dominio, la pratica politica si trasforma, secondo l’accezione di Rancière, in polizia: che tutti partecipino all’insieme logico formato dalla città significa che ciascuno abbia il suo posto e la sua parte e che ciò avvenga, formalmente in base a un’uguaglianza numerica, in realtà, come è si è già visto a proposito di Aristotele, secondo il merito, cioè secondo le differenze che connotano ciascuno. La ripartizione dunque si differenzia, si gerarchizza e nei “tutti” qualcuno, una parte, riceverà di meno o non riceverà nulla. L’universalismo logico trasportato nella pratica politica si trasforma inevitabilmente in esclusione: ogni volta che pronunciamo la frase “siamo tutti questo o quello”, “ebrei tedeschi” o “berlinesi”, “compagni” o “americani” dopo l’11 settembre, una parte cade via, non è contata, è espulsa come qualcosa di abietto che per tale ragione non è degna di fare parte dei “tutti”. Conservare invece la dizione “molti” e intendere la democrazia come il potere dei molti e non un potere distribuito a tutti, evita quel giudizio inevitabilmente deluso e rassegnato che viene pronunciato sulla democrazia rea di promettere la felicità a tutti per poi riservarla solo a pochi: la democrazia non riguarda tutti, si pone in realtà al servizio dei molti, cioè di una parte, che potrebbe essere anche molto piccola, ma che si muove e si comporta come una folla, un numero indistinto, proprio perché non accetta di fare la sua parte all’interno del tutto. Non è quindi solo una questione di numeri – fossero pure dieci sarebbe come se fossero milioni – bensì di posizione e di atteggiamento: i non contati sono sempre molti semplicemente perché non sono tutti e stanno nella totalità formata dalla polis come una massa, una pletora, un insieme inconsistente, una turbolenza che attenta all’unità del tutto. L’apologo con cui Menenio Agrippa risolve a favore dell’aristocrazia patrizia la rivolta della plebe è, agli occhi di Rancière, l’esempio La democrazia non è da tutti 153 principe di come si muove e come ragiona la filosofia politica: giacché è proprio attraverso il richiamo al buon funzionamento dell’organismo sociale inteso come una totalità che si può convincere la plebe a rinunciare a comportarsi come una parte non contata della città e ad accettare come giusto compenso, come parte spettante, quelle briciole che la benevolenza dei padroni decide di lasciargli. Il ricatto con cui Menenio Agrippa riconduce la plebe all’ovile, convincendola che anch’essa rischierebbe di morire se distruggesse il tutto di cui è parte, da cui cioè dipende per la sua stessa sussistenza, discende senza soluzioni di continuità dal carattere ideologico della logica apofantica da un lato e della metafora organica applicata alle relazioni sociali. Così come per uscire dall’aporia della democrazia siamo costretti a rivedere la logica apofantica, allo stesso modo dovremmo ripensare quella che regge il rapporto tutto-parte. Bisognerebbe, in altri termini, riuscire a concepire la parzialità, l’esser parte della parte, non più in riferimento a un tutto, bensì come una parte senza un tutto di cui pare parte, una parte che è tutta – o non tutta – nel suo essere parte. Dovremmo farlo però evitando che l’esser parte scada come accade inevitabilmente se si ragiona a partire da una logica apofantica al rango della particolarità: essere parte, essere parziali, significa sempre per noi chiuderci nella nostra individualità e dimenticarci dell’universale, barricarci cioè nel nostro “particulare” e ignorare o irridere l’interesse e il bene universali. La tentazione universalistica ha contaminato d’altronde anche la politica rivoluzionaria e di sinistra che in base alle premesse dovrebbe essere di parte, dalla parte della classe operaia, della parte non contata, ma tende poi a giustificare la partigianeria appellandosi ai diritti dell’umanità, delle persone in quanto tali, facendo rientrare cioè dalla finestra l’universalismo scacciato dalla porta: anche Marx, in fin dei conti, definendo il proletariato classe universale aveva pagato il suo tributo alla logica dei tutti. Eppure proprio la psicoanalisi freudiana con i suoi derivati – Abraham, Klein, Winnicott, Lacan – è quella pratica teorica che, al pari del marxismo, più si è spesa a favore di una logica della parzialità: le pulsioni parziali e gli oggetti corrispondenti tematizzati da Freud, il preedipico kleiniano, l’oggetto transizionale di Winnicott e infine la formalizzazione lacaniana dell’oggetto a come oggetto-causa del desiderio, sono tutte tappe essenziali di un percorso che in forma sempre più consapevole espelle dal territorio di una ragione pensa- 154 Bruno Moroncini ta dopo Freud l’ossessione tutta occidentale della totalità e dell’uno. Nonostante il tentativo insistito e ripetuto di reintrodurre nel campo analitico il fantasma della totalità sotto la forma della pulsione genitale intesa come quello stadio della vita sessuale che totalizzerebbe appunto le pulsioni parziali indirizzandole – in realtà raddrizzandole o ortopedizzandole come dice Lacan – verso una sessualità matura e responsabile, il carattere parziale della pulsione libidica che a sua volta parcellizza gli oggetti continua a imporsi agli occhi degli psicoanalisti. Nella forma matura assunta dalla teoria degli oggetti parziali che è quella lacaniana dell’oggetto a, quest’ultimo, le cui incarnazioni sono il seno, lo scibale, il fallo, lo sguardo e la voce, nonché il perturbante in generale, è pensato come ciò che cade dall’Altro e che svolge in tal modo una doppia prestazione: da un lato come oggetto che manca all’Altro, oggetto mancante del suo desiderio, esso diviene la causa del mio desiderio che è sempre desiderio dell’Altro, vale a dire desiderio di essere ciò che l’Altro desidera, di essere l’oggetto del suo desiderio; dall’altro l’oggetto a, introducendo la mancanza nell’Altro oltre che in me, impedisce che l’Altro si totalizzi, diventi un tutto, un unotutto. L’altro resta altro proprio perché reso parziale dalla mancanza dell’oggetto a. Ma è probabilmente con le formule della sessuazione che Lacan, tematizzando il quantificatore logico “non-tutte”, offre il contributo più prezioso all’elaborazione di una critica della logica apofantica. Senza ripercorrere tutta la decostruzione lacaniana del quadrato aristotelico, basterà ricordare in questa sede che l’intervento più cospicuo operato da Lacan sulla logica apofantica è quello che, utilizzando anche la teoria sottesa al racconto evoluzionistico-antropologico di Totem e tabù, fa dipendere le proposizioni affermative universali, quelle appunto della forma “tutti gli x sono y”, da quelle esistenziali, da quello cioè la cui forma è “esiste un x per cui vale y”. Tralasciando anche qui le d’altronde doverose chiarificazioni sul passaggio dal “tutti” all’“ogni” e dal predicato verbale al concetto insiemistico di appartenenza e alla relazione funzionale, ciò che conta è che Lacan introduce l’esistenza, vale a dire il non deducibile, in logica e soprattutto fonda la validità delle universali affermative (o negative) sulle proposizioni esistenziali. Da ciò deriva, come è noto, la tesi lacaniana che la possibilità di individuare l’essenza unitaria di coloro che si sessuano al maschile, di trattare cioè i maschi come un insieme consistente, come un tutto, fa- La democrazia non è da tutti 155 cendo leva sulla loro comune appartenenza alla funzione fallica, cioè alla castrazione, poggi in ultima istanza sull’ex-istenza di una singolarità per la quale tutto questo non abbia alcun valore: il padre primordiale non castrato. Che tale figura sia un mito, una finzione narrativa, significa esattamente che eccede l’ambito della logica discorsiva nel momento stesso in cui la fonda rendendola possibile. Perché vi sia la regola, bisogna necessariamente porre l’eccezione. Il pensiero universalista in tutte le sue forme ci ha abituati da sempre a trattare l’esistenza dei maschi e delle femmine, la differenza sessuale, come se fossero delle sottospecie di un genere più vasto, il genere umano coniato però a partire dalla specie maschile. Ma perché le cose possano funzionare in questo modo, sarebbe necessario o che l’ex-istenza del padre primordiale fosse in grado da sola di sottoporre anche le donne alla castrazione o che in corrispondenza della figura del padre non castrato comparisse qualcosa di analogo sul lato femminile, che si desse l’ex-istenza di una donna-madre primordiale non castrata. L’esperienza clinica esclude però tale possibilità: mentre i maschi sono tutti castrati anche quando lottano nevroticamente per non esserlo, le donne lo sono e non lo sono, partecipano per un lato della e alla castrazione e per un altro sono oltre, oltre la funzione fallica, in un rapporto all’Altro che non ha il bisogno di passare attraverso la mediazione dell’oggetto. Non ex-istendo, come dice Lacan, La donna, le donne non sono tutte, è impossibile formulare una universale affermativa (o negativa) che dica l’essenza de La donna. La donna è non-tutta e le donne sono non-tutte: se ogni donna è spaccata, attraversata da una sbarra che la divide in castrata e non castrata, la conseguenza è che le donne non formeranno un tutto, che sarà impossibile un soggetto del giudizio del tipo “tutte le donne” o “ogni donna” sono/è questo o quello; si potrà dire solo che non tutte le donne sono questo o quello, che non ogni donna è questo o quello. Le donne sono quindi non-tutte, vale a dire molte o alcune. Il punto però è che tutti questi quantificatori non introducono proposizioni particolari o individuali, sui cui oggetti per Aristotele non può esservi scienza, ma delle universali pensate però al di fuori del primato della totalità e dell’uno. Come il bello kantiano è un universale senza concetto, così il non tutte lacaniano è un universale senza uno: non-tutte vuol dire che tutte le donne, per quante siano, non formano un tutto, non si possono contare per uno. Tutte le donne sono solo molte. 156 Bruno Moroncini La logica della sessuazione elaborata da Lacan rompe definitivamente con la teoria della complementarietà dei sessi, con la visione aristofanesca – che non è quella di Diotima e quindi neppure quella di Platone – dei sessi intesi come le due metà di un intero da ricostituire. I sessi sono asimmetrici e dispari, non s’incontrano, le forme del godimento restano diverse e inconciliabili. La conseguenza più vistosa è la tesi secondo la quale non c’è rapporto sessuale, cioè che non c’è rapporto, misura comune, fra il maschile e il femminile, che essi non formano un intero. Così Lacan porta il suo contributo decisivo all’affossamento definitivo dell’illusione dell’amore genitale come ricomposizione della differenza. È evidente che da nessuna parte, né negli Écrits né nei seminari, né tantomeno negli Autres écrits o in altri testi sparsi, il non-tutte si trovi anche vagamente accostato alla questione dello statuto della democrazia: Lacan è in genere parco per quel che riguarda le prese di posizione politiche e le affermazioni sulle forme di governo. A parte una stoccata nel seminario sull’etica della psicoanalisi rivolta a chi governa che, fosse anche Hitler, è sempre convinto di operare per il bene di tutti e perciò fa generalmente la fine di Creonte, Lacan è più preoccupato della vicissitudine cui va incontro il desiderio di cui lo psicoanalista è il solo garante, piuttosto che dell’interesse generale o del bene di tutti il cui carattere mistificante è manifesto. Il peggior nemico di chi governa è sempre il desiderio che da Alcibiade in poi irride le ideologie della città ed è per questo che il suo rinvio a più tardi, che è come dire a mai, è ciò che accomuna i reggitori della polis qualunque sia l’ideologia politica di cui si fanno portavoci, democrazia liberale, comunismo o altro. Lacan, che si è sempre schierato, di fronte ai tragici eventi della storia come agli usi e ai costumi conservatori se non apertamente reazionari diffusi nel movimento psicoanalitico, sul lato dell’emancipazione e dell’innovazione, ha però costantemente rifiutato di essere definito un progressista o un “compagno di strada”. Durante il seminario sul rovescio della psicoanalisi che taglia trasversalmente il Sessantotto, in un vivace scambio con gli studenti di cui coglie dietro la veemenza rivoluzionaria nient’altro che la voglia di un padrone, dichiara di non essere quel che si dice un progressista – ma nel dattiloscritto su cui per la prima volta ho letto questo seminario il termine progressista è accompagnato da un colorito “fottuto”. Nel seminario Les non-dupes errent – ancora un sostantivo preceduto dal segno La democrazia non è da tutti 157 della negazione – stigmatizza come religioso l’uso di chiamare gli intellettuali borghesi schierati con il partito comunista dei “compagni di strada”: vi vede la vecchia metafora del viator, del pellegrino in viaggio per la città celeste. Lo psicoanalista non viaggia a fianco dei sostenitori delle “magnifiche sorti e progressive”, piuttosto segna il passo, pronto a lasciarsi minchionare dall’inconscio. Più che un conservatore illuminato come pure lo si potrebbe definire o un pensatore dell’impolitico nel senso dato a questo termine da Roberto Esposito, Lacan sarebbe, come vuole Jacques-Alain Miller, un’erede dello spirito dei Lumi, un rischiaratore, un decostruttore per dirla in una maniera più moderna. Ed è in questo spirito, uno spirito più illuminista che illuminato, che si può tentare di utilizzare il non-tutte per decostruire da un lato le ideologie della democrazia e per rischiarare dall’altro i paradossi che inevitabilmente si riscontrano in questa forma di governo. Non per abolirli, ma per poterli agire in una prassi politica che lavori a favore dei molti contro i tutti o, per dirlo meglio, delle non-tutte contro i tutti-tutto. Non c’è che dire: la democrazia è donna. Formazione dello psicoanalista La trasmissione della psicoanalisi* Isabelle Morin Mariella Guzzoni Double Texture #3 2010 gelatin silver print edizione di 5, 20 × 30 cm dal ciclo Double Textures Quando ci s’interessa alla storia della psicoanalisi, ci si accorge in fretta che le sue crisi sono, in un modo o nell’altro, tutte legate alla sua trasmissione. L’elemento scatenante della prima crisi in Francia nel 1953 riguardava la creazione di un Istituto di psicoanalisi. Voi in Italia, come noi in Francia, siete certamente in condizione di capire che la formazione degli analisti continua a dividere gli analisti anche quando è lo Stato a occuparsene. Quando si rilegge attentamente quel che è successo nelle crisi, ci sono certo dei problemi legati alle persone, c’è chi vuole conservare potere e prestigio, ci sono degli effetti di gruppo, ma se si cerca di cogliere la posta in gioco analitica, si tratta in effetti della sopravvivenza della psicoanalisi attraverso le modalità della sua trasmissione, poiché si tratta di una trasmissione molto particolare, come vedremo. Circa la sopravvivenza della psicoanalisi, è necessario che ci siano degli psicoanalisti e dunque che le cure producano analisti. Se si constata che le cure sono terapeutiche, in che modo lo sono? Da una parte, il saper fare dell’analista riguarda il suo atto e quindi il suo desiderio non si trasmette, anche se il controllo insegna; d’altra parte neppure l’inconscio si trasmette. Le cose si complicano. La questione centrale si potrebbe porre così: attraverso quale mistero il significante opera sul Reale perché ci sia analisi? E attraverso quale altro mistero, co* Intervento al ciclo di presentazione di libri “Discutere la psicoanalisi” a cura dell’irpa (Istituto di Ricerca di Psicoanalisi Applicata), Milano, 11 marzo 2011. 162 isabelle morin lui che ne esce è stato così morso da essa da poter occupare questo spazio per gli altri? Ho orientato il mio intervento intorno alla trasmissione impossibile, prima però vi dirò qualche parola sul modo in cui Lacan ha considerato la trasmissione dal 1953 al 1967, e poi dal 1967 al 1978. la trasmissione dal 1953 al 1967 Sappiamo, a partire dalla creazione della sfp (Societé Française de Psychanalyse), poi dell’efp (École Freudienne de Paris) l’importanza che l’insegnamento ha avuto per Lacan, dal momento che ha passato la sua vita a insegnare. Ma ciò che aveva a cuore era la trasmissione, e l’insegnamento non ne era che un primo passo, necessario ma insufficiente. Anche Freud ha insegnato ma non nello stesso modo. Per Lacan il suo seminario era un laboratorio di ricerca che anticipava i suoi scritti. Offriva innanzitutto un transfert molto potente, una questione di stile e un saperci fare con il transfert. Ne aveva colto l’osso. Del resto, al momento della fondazione dell’efp, Lacan precisava che nessun insegnamento della psicoanalisi si può trasmettere senza il transfert di lavoro; e anche che il suo seminario e il suo corso di studi superiori non avrebbero fondato niente se non avessero rimandato a questo transfert.1 Se non c’è analisi senza transfert, non c’è insegnamento né trasmissione senza transfert sulla psicoanalisi. È la differenza con l’università dove non c’è bisogno di transfert per trasmettere del sapere. Lacan aveva messo a punto nel 1953, e poi nel 1964, diversi modi di pensare la formazione degli psicoanalisti: il suo insegnamento, il controllo, la frequentazione dei testi, ma tutto questo non bastava a regolamentare la trasmissione. Nel 1964, quando fonda l’efp, il suo progetto era di “fare una scuola”, un po’ nel senso degli antichi maestri, che si costruisse a partire da lui e dal suo lavoro. Mette delle condizioni e un quadro di insegnamento vasto e rigoroso: ma al di là di questi saperi, restava l’enigma del desiderio dell’analista, di questo desiderio che sostiene l’analista nel suo atto. Per occupare il posto dell’analista ci sono certamente delle cose da Jacques Lacan, nota aggiunta all’Atto di fondazione (21 giugno 1964), in “La Psicoanalisi”, nn. 30-31, Astrolabio, Roma 2002. 1 la trasmissione della psicoanalisi 163 sapere che hanno a che fare innanzitutto con l’esperienza della propria cura: l’aver sperimentato in prima persona l’inconscio, il transfert, il dispositivo. Sapere come la cura ha incontrato le sue svolte: l’apparizione folgorante di un sapere non saputo e dell’oggetto pulsionale. Soprattutto scoprire come l’economia di godimento si è modificata e infine l’essere abitati dal desiderio, di portare su di sé questo atto “insensato” per gli altri. L’invenzione della passe è stato l’indice di una prima rottura nel modo di pensare questa trasmissione, inventando un’altra modalità di trasmissione di quel che insegna la psicoanalisi in quanto esperienza dell’inconscio. Improvvisamente, nel 1973, Lacan afferma con decisione, in occasione di un congresso sulla passe, di non “aver mai parlato di formazione degli psicoanalisti, ma di formazioni dell’inconscio”. la trasmissione dal 1967 al 1978 Ma questa questione non si ferma nel 1967, giacché nel 1978, dopo alcuni anni d’esperienza di questa nuova procedura di trasmissione, Lacan conclude che “evidentemente la passe è uno scacco” e questo evidentemente lascia intendere che è uno scacco iscritto dalla struttura, cioè che ha una sua logica. Lo conferma qualche mese dopo, in chiusura del nono congresso della Scuola Freudiana sulla trasmissione, precisando che “come arrivo a pensarlo ora, la psicoanalisi è intrasmissibile, è una vera scocciatura che ogni analista sia costretto, perché deve essere costretto (sottinteso, poiché la psicoanalisi è intrasmissibile) a reinventare la psicoanalisi”. Aggiunge, alcune righe dopo, “che ogni psicoanalista reinventi il modo in cui la psicoanalisi può durare”. Durare, cioè restare viva, cioè non fossilizzarsi. Questa opera di reinvenzione risuona in maniera viva nel momento in cui la psicoanalisi subisce delle influenze statali che tendono in maniera pura e semplice a cancellarla dalle pratiche della nostra cultura. la psicoanalisi è intrasmissibile Cominciamo esaminando il modo di intendere la non trasmissibilità della psicoanalisi. Punto primo: la psicoanalisi non si trasmette da analista ad analizzante perché l’inconscio non si trasmette. 164 isabelle morin Freud e Lacan hanno offerto alla psicoanalisi un posto tra gli altri discorsi: Freud ha inventato una pratica che permetteva a un sapere sconosciuto di emergere, e Lacan ha formalizzato un discorso nuovo che ha messo al posto di comando non già un significante padrone, come all’università dove si trasmettono delle conoscenze, ma un discorso che mette al posto di comando la causa del desiderio per orientare un discorso. Riconoscerete in questo ciò che chiamiamo l’oggetto piccolo a: è una sovversione straordinaria del pensiero universalizzante perché è un modo di fondare il soggetto sulla singolarità del godimento. L’analista deve dunque occupare questa posizione di oggetto causa perché emerga un sapere sconosciuto che abbia un effetto di verità. Questa verità riguarda la posizione di godimento del soggetto. Suppongo che sappiate già tutto quello che sto dicendo ma ho bisogno di fissare questi riferimenti per interrogare ciò che si trasmette e come. Come questo sapere dell’inconscio, anche quello del significante, chiede di essere decifrato, perché è cifrato. La decifrazione non risolve, o non scioglie il nodo significante con un colpo di bacchetta magica, ma codice e decifrazione aprono delle nuove catene significanti non ipotizzabili fino a quel momento e sempre orientate dal desiderio inconscio e dal godimento. Questo pensiero, impensato fino a un momento prima, apre altre possibilità fino a prima rimosse o negate, in ogni caso difese a causa del godimento rifiutato. Il fatto di ascoltare senza sapere, di svuotarsi di ogni sapere conferisce all’analista una presenza reale che apre una strada verso il godimento e l’oggetto a. Di conseguenza, sia l’interpretazione dei significanti che il transfert conducono alla pulsione. Come conseguenza di questo primo punto, la psicoanalisi non si trasmette dall’analista all’analizzante, è al contrario l’analizzante che insegna all’analista ma non si può dire neppure che egli trasmetta il proprio inconscio. L’analista permette che qualcosa ( ça) passi, che qualcosa interpreti, che qualcosa ragioni. Ma credo che se l’analista potesse ascoltare la testimonianza della passe del suo analizzante, ne resterebbe spesso sorpreso. Ciò ha a che fare da una parte con il fatto che non è mai stato nella testa del suo analizzante, e dall’altra che l’esperienza dell’inconscio alla quale l’analisi dà accesso è soprattutto quella del fallimento del sapere dell’Altro. Secondo punto, la psicoanalisi non si trasmette neppure tra analisti, anche se la passe è stata inventata perché un analizzante possa dire di la trasmissione della psicoanalisi 165 come è stato morso dalla psicoanalisi. Sapete certamente che Lacan diceva che gli psicoanalisti sanno di un sapere nel quale non si possono intrattenere. Quindi potremmo dire che noi non facciamo altro che questo: intrattenerci. Che cosa rende la trasmissione intrasmissibile o fallita? Trasmettere delle conoscenze, ma sapere ciò che si estrae dall’inconscio, in particolare il godimento, è altra questione. Ciò che rende la trasmissione impossibile è il Reale. Ciascuno parla a partire dal proprio punto di vista sul Reale. Il Reale è disgiunto dal sapere, non se ne può fare un sapere, ma non di meno ha degli effetti sul Simbolico, effetti incalcolabili. Se siete d’accordo con la logica dell’assioma di Lacan che “non esiste rapporto sessuale” potete capire, seguendo la stessa logica, che “non c’è rapporto tra i saperi dell’inconscio”. Il rapporto è impossibile da scrivere e di due saperi che hanno un effetto sul Reale, non se ne estrarrà un sapere universalmente trasmissibile.2 Inoltre non si può estrarre un sapere universalmente trasmissibile da due saperi che hanno un effetto sul Reale. ciò che si può trasmettere Lacan apporta nel frattempo un elemento di risposta quando sostiene che “a partire dal fatto che il significante è dell’ordine del sapere, opera”. Opera così efficacemente, che si può dimostrare che il significante porti in sé il sintomo. Il significante è vivo. Benché voi sappiate che la parola è la morte della cosa, ma non del tutto, c’è sempre un resto irriducibile che porta la traccia ineliminabile di ciò che è vivo. Questa parte viva, ineliminabile, è il godimento. Il sintomo è un sigillo del Reale, un marchio a fuoco vivo della costituzione del soggetto. Lacan propone, è un inizio di risposta, “di comunicare [trasmettere] il virus di questo sintomo nella forma del significante”.3 Prima condizione: il significante non può operare in un’analisi se non quando tocca il sintomo, da cui gli effetti di verità. Un sintomo, come un virus, giacché Lacan usa questa metafora, può dunque trasmettersi. C’è una piccola eccezione, il fantasma, perché un uomo non incontra una donna se non a partire dal fantasma, cioè da inconscio a inconscio. Ma qui siamo nel campo dell’acting out e non in una pratica di trasmissione. 3 Jacques Lacan, Sulla trasmissione della psicoanalisi, in “La Psicoanalisi”, n. 38, Astrolabio, Roma 2005. 2 166 isabelle morin Un passant può trasmettere qualcosa dell’inconscio a condizione di fare apparire questo alliage tra significante e sintomo. Alliage è una parola usata da Freud nei tre saggi sulla teoria sessuale come saldatura quando parla di oggetto e pulsione. Il sintomo non è che il significante, include il Reale attraverso la trasformazione imposta dalla pulsione. Il Reale è il residuo del sintomo, è la parte del sintomo che si ribella all’inconscio. Per finire, una delle prime definizioni che Freud dà nel 1894 del sintomo è: “un fallimento della difesa dalla pulsione”. È così che qualche cosa può risuonare nel significante al livello del Reale e questa consonanza riguarda il corpo, “un evento del corpo” diceva Lacan, precisando che perché ciò possa risuonare, “è necessario che il corpo sia sensibile [a questo evento]”. Il Reale è fuori dal sapere, la particolarità del Reale, diceva Lacan, è di non legarsi a niente, di essere senza legge, e quindi, questo Reale deve risuonare per avere degli effetti. Per chiarire questo punto, prenderò un sogno di fine analisi udito durante una testimonianza di passe. La fine dell’analisi si organizza intorno a uno dei significanti padroni dell’analizzante che era souris,4 di cui lei trovava le coordinate nell’ingiunzione materna “sorridi fino alle orecchie!”, ma non soltanto. Un sogno di fine analisi viene a riordinare i piani del fantasma liberando il crogiolo pulsionale che chiarisce il legame tra il sintomo e il significante padrone della sua nevrosi. Il testo del sogno: Due neonati, di cui uno sconosciuto. A uno non succede niente. L’altro ha un sorriso beato. Il sorriso del godimento del ‘sorridi fino alle orecchie’. Un topo bianco penetra nella sua bocca sotto lo sguardo terrorizzato della sognante, che cerca inutilmente di farlo uscire. Il topo sprofonda inesorabilmente nel corpo del neonato, la sognante chiama aiuto, invano. Inquieta, lascia il bebè credendolo morto, con il roditore all’interno del corpo. Questo sogno le ha permesso di formulare il fantasma allo stesso tempo della sua menzogna secondo cui “non sarebbe successo nulla tra lei e il padre” che era il suo leitmotiv, il padre non aveva contato, si era cancellato, come assente. Ora la sognante si accorge che il topo era anche un significante del padre. Il significante dell’unica storia su sé che raccontava volentieri e che la passante aveva udito: un insegnante La parola souris in francese significa sia topo che sorriso. [N.d.T.] 4 la trasmissione della psicoanalisi 167 che sapeva maneggiare bene il Reale della lettera, per insegnare ai suoi allievi la lettera “i” disegnava un topo imitando il suono “i-i”. Questa lettera coniugava la “i” dei due souris: quello della raccomandazione materna e quello del padre. L’analisi continuò dopo un’interruzione, con il roditore conficcato nel corpo. Lasciandosi pulsionalmente e crudelmente minata (nata a metà)5, rosa dal silenzio dell’Altro dell’amore e da “quello che non succedeva”, diceva lei, “con il padre”. Questo sogno dei neonati ha nominato il rapporto con l’Altro del linguaggio. Se ci fossimo fermati al significante souris, non avrebbe avuto alcun valore di trasmissione; ciò che importa, è il nodo pulsionale che appare nel sogno perché determina il sintomo. “Il significante che viene dall’Altro (il sorriso, il topo) viene ingoiato ‘crudo’, il crudo della carne viva e il crudo della fede.” Penetra il corpo, lo soffoca, lo rode. Impossibile evitare di subirne gli effetti, a meno di non volerne sapere niente.”6 Il significante sorriso/topo, significante dell’Altro paterno rifiutato, e dell’Altro dell’ingiunzione materna, è venuto nel sogno a riguadagnare il suo valore di godimento con il topo che penetra nel corpo, incorporazione del significante, certo, ma che delimita una geografia del godimento pulsionale, oggetto orale che segue il suo cammino nel corpo per questa passante il cui sintomo era l’anoressia, nel senso del rifiuto di ciò che veniva dall’Altro. Non dirò di più su questo caso, ma credo che il marchio del sintomo sul significante gli dia valore di trasmissione. Lacan nella lezione del 10 gennaio 1978 del suo seminario Il momento di concludere suggerisce che “l’analisi non consiste nella liberazione dai propri ‘sintomi’ […] l’analisi consiste nel sapere perché se ne è invischiati; questo si produce a partire dal fatto che esiste il Simbolico. […] impariamo a parlare e questo lascia delle tracce. Lascia delle tracce e, di fatto, lascia delle conseguenze, che non sono altro che il sintomo, e l’analisi consiste nel rendersi conto di perché si hanno questi ‘sintomi’, quindi l’analisi è legata al sapere”. Mi fermerò su questo: perché, nonostante tutto, questo sapere è intrasmissibile? (Traduzione di Giorgia Fracca) In francese minée (minata) e mi-née (nata a metà) sono omofoni, omofonia che in italiano si perde. [N.d.T.] 6 Si può trovare questa testimonianza in “Psycanalise”, n. 21, érès, Toulouse 2011. 5 Desaparecido Desaparecido Aldo Becce ¿A dónde van las palabras que no se quedaron? ¿A dónde van las miradas que un día partieron? ¿Acaso flotan eternas, como prisioneras de un ventarrón? ¿O se acurrucan, entre las rendijas, buscando calor? ¿Acaso ruedan sobre los cristales, cual gotas de lluvia que quieren pasar? ¿Acaso nunca vuelven a ser algo? ¿Acaso se van? ¿Y a dónde van? ¿A dónde van? Silvio Rodríguez1 1. dittatura Il 24 marzo del 1976, un golpe militare in Argentina fece cadere il governo di Maria Estela Martínez de Perón, seconda moglie del generale Juan Domingo Perón. Il golpe militare in sé non era una novità in Argentina giacché nella sua tormentata storia che va dall’indipendenza dalla Spagna nel 1810 ai giorni nostri, la presa del potere da parte dei militari si è verificata in numerose occasioni. L’instaurazione della dittatura del 1955 oppure del 1966 sono state accompagnate da episodi di violenza, persecuzione politica, censura e anche alcuni omicidi che sono stati perpetrati dai militari per “assicurare l’ordine sociale”. La dittatura del 1976 era diversa. Si proponeva come obiettivo di cambiare radicalmente la società e per farlo doveva innanzitutto mettere fine al “flagello della sovversione”. Da alcuni anni in Argentina alcuni gruppi di orientamento ideologico differente (Ejército Revolucionario del Pueblo, Montoneros, Fuerzas Armadas Revolucionarias ecc.) avevano intrapreso la lotta armata praticando attentati contro imprenditori, politici e militari in quanto considerati nemici. Insieme a questi gruppi, gravitavano altre organizzazioni politiche che avevano obiettivi rivoluzionari senza un’opzione militare. Per mettere fine a questo “flagello”, i 1 Silvio Rodríguez, poeta e cantante cubano nato all’Avana nel 1946, rappresentante principale della corrente artistica Nueva Trova, nata dopo la rivoluzione cubana. La canzone ¿A dónde van? è inserita nel disco Mujeres del 1979. 169 militari usarono nuovi metodi: l’applicazione di una violenza sistematica inaudita a tutti i livelli sociali che può essere sintetizzata nella frase di uno dei suoi ideologi: “Per prima cosa uccideremo tutti i sovversivi, poi i collaboratori, poi i simpatizzanti, poi gli indifferenti e per ultimo gli indecisi” (generale Ibérico Saint-Jean, governatore della Provincia di Buenos Aires, intervista dell’“International Herald Tribune”, maggio 1977). Il trattamento riservato alle persone arrestate e poi uccise dalla dittatura costituiva una novità in relazione alle dittature precedenti poiché dopo l’arresto le persone sparivano; trentamila persone, a oggi, sono ancora in questa condizione, spariti, desaparecidos. Il principale responsabile dell’applicazione di questo metodo in Argentina, il generale Jorge Rafael Videla, lo ha definito così: “Cos’è un desaparecido? È un’incognita. Se dovesse riapparire avrebbe un tipo di trattamento giudiziario, se la sparizione si trasformasse in certezza ne avrebbe quindi un altro. Ma mentre è desaparecido non può avere nessun trattamento speciale, è un’incognita, è un desaparecido, non è un’ entità, non è morto e non è vivo, è un desaparecido”. La dittatura è finita nel 1983 con il ritorno della democrazia. Ho lavorato in quegli anni a Buenos Aires nel clima di diffidenza dei militari in relazione alla psicologia e in particolare verso la psicoanalisi, che un ministro dell’Interno aveva definito “diabolica”. 2. consultazione Alla fine del 1985 Laura mi consulta per i problemi di suo figlio Federico che ha otto anni. È preoccupata per: la crescente inibizione del bambino a scuola, la difficoltà nell’affrontare le situazioni di conflitto e i problemi respiratori che si presentano durante la notte e che si intensificano fino a diventare delle crisi di soffocamento. Oltre a questi sintomi la mamma considerava che era arrivato il momento di “affrontare il trauma della desaparición del padre”. Racconta che Pablo, il padre di Federico, era studente di Ingegneria ed elettricista, militante come lei nel partito Avanguardia Comunista marxista-leninista di orientamento maoista, formato principalmente da intellettuali, fondamentalmente studenti di Ingegneria, che militavano in fabbriche e quartieri operai. Una particolarità di questo partito è stata la denuncia delle attività di un gruppo armato formato 170 Aldo Becce da paramilitari che effettuavano atti di terrorismo, sequestri e attentati, la famigerata tripla a (aaa, Asociación Anticomunista Argentina) operante principalmente tra il 1973 e il 1976. Nel luglio del 1978 Pablo era stato arrestato illegalmente e condotto nel campo di concentramento, il Vesubio. In quel momento, Federico aveva nove mesi. La madre e il figlio sono rimasti nascosti per un periodo di tempo, vivendo in clandestinità. Laura fece diversi tentativi per ritrovare il marito durante la dittatura (1976-1983) senza nessun risultato.2 Ogni persona o istituzione coinvolta nella detenzione illegale negava sistematicamente di conoscere la sorte di Pablo, che risultava quindi desaparecido. Con l’arrivo della democrazia nel 1983 e il processo giudiziario a carico dei militari, diverse persone avevano testimoniato sulla loro prigionia. In particolare, alcune dichiarazioni avevano fatto luce sul campo di concentramento il Vesubio dove Pablo era stato detenuto dal 1978 al 1979, prima della visita in Argentina della Commissione Interamericana dei Diritti Umani che doveva indagare sulle numerose denunce di torture, sugli arresti illegali e le desapariciones di persone. Pablo venne ucciso poiché i militari volevano eliminare qualsiasi traccia dei campi di concentramento. Le testimonianze che riguardavano Pablo riferivano che prima dell’uccisione era stato selvaggiamente torturato ed era gravemente ammalato di setticemia; ciononostante, la sua condotta durante la tortura fu esemplare, non parlò e molti sopravvissuti avevano voluto ricordarlo scegliendo il nome Pablo per i propri figli. Insieme a lui, furono uccisi tutti i membri del gruppo di riferimento della famiglia, composto da militanti che erano anche amici. Laura trovò la forza per continuare, rifiutando un’offerta di asilo politico in Israele (Pablo era ebreo) e riprese il suo lavoro come psicoanalista. Una figura di riferimento importante per Federico era la nonna Il ricorso principale dei familiari dei desaparecidos era quello di chiedere giuridicamente l’habeas corpus (trad. lat. “che tu abbia il corpo”). Si tratta dell’ordine emesso da un giudice di portare un prigioniero al proprio cospetto. Ciò vale in senso stretto, poiché di solito si fa riferimento all’atto legale o al diritto in base al quale una persona può ricorrere per difendersi dall’arresto illegittimo di se stessa o di un’altra persona. Il diritto dell’habeas corpus nel corso della storia è stato un importante strumento per la salvaguardia della libertà individuale contro l’azione arbitraria dello Stato. In Argentina si è verificato l’atto tragicamente paradossale che molti avvocati che patrocinavano l’habeas corpus di un desaparecido venivano arrestati e anche loro sparivano. 2 Desaparecido 171 materna, mentre da parte di Pablo non c’erano familiari. Erano molto presenti e significativi nella sua vita alcuni amici di famiglia. Il rapporto con la madre era buono, Laura era una persona energica, con un carattere molto forte forgiato dalla militanza e dal dover provvedere da sola a sostenere la famiglia. Rispetto al padre, Laura aveva sempre spiegato a Federico quello che era successo e lamentava il fatto che il bambino non mostrasse alcun interesse nel conoscere alcunché riguardasse il padre. Il padre aveva desiderato questo figlio e nei pochi mesi che avevano vissuto insieme si occupava molto di lui. 3. federico Federico era un bambino magro e atletico, con lo sguardo dolce, timido e triste. Accettò la proposta di iniziare una terapia poiché era preoccupato per il suo soffocamento notturno. Sapeva che suo padre era un desaparecido e che anche se la madre lo avesse molto cercato, non lo avrebbe trovato. Non fece nessun accenno alla sicura ipotesi della sua morte. Ci vedevamo una volta alla settimana e ogni due mesi ci incontravamo con la madre. Pac-Man contro i fantasmi Gli proposi di giocare e scelse Pac-Man.3 Siccome non avevamo né consolle né computer, disegnavamo le avventure di Pac-Man contro i fantasmi. 3 Pac-Man è un primitivo videogioco creato in Giappone nel 1980. Il giocatore deve guidare una creatura sferica di colore giallo, chiamata Pac-Man, facendole mangiare tutti i numerosi puntini disseminati ordinatamente all’interno del labirinto e, nel far questo, deve evitare di farsi toccare da quattro “fantasmi”, pena la perdita immediata di una delle vite a disposizione. Per facilitare il compito al giocatore sono presenti, presso gli angoli dello schermo di gioco, quattro “pillole” speciali (power pills) che rovesciano la situazione rendendo vulnerabili i fantasmi che diventano blu e, per qualche istante, invertono la loro marcia; per guadagnare punti è possibile in questa fase andare a caccia degli stessi fantasmi, per mangiarli. Una volta fagocitati, però, questi tornano alla base (il rettangolo al centro dello schermo) sotto forma di un paio di occhi, per rigenerarsi e attaccare di nuovo Pac-Man. 172 Aldo Becce Desaparecido 173 L’argomento di queste avventure era quindi la fuga dai pericoli oppure l’affrontarli, e la semplicità del videogioco veniva arricchita con la creazione di nuovi personaggi e situazioni di gioco. Si delineava quindi lo schema tradizionale della lotta tra il bene (Pac-Man) e il male (il fantasma). Non si trattava mai di un gioco ripetitivo ma piuttosto del tentativo di evitare la ripetizione attraverso l’invenzione. Il terzo tipo di gioco è stato la creazione di orologi, di macchine e di nuovi rettili. Questi oggetti e animali sono stati scelti da Federico per variarne la forma, l’uso, oppure le caratteristiche. Di solito Federico disegnava la scena e copriva la pagina in modo che io dovessi scegliere una scala piuttosto che un’altra oppure una porta piuttosto che un’altra. L’obbiettivo era restare vivo, trovando la via d’uscita. Invenzioni Il secondo gioco, con la stessa tematica, era la creazione di personaggi dei fumetti: si trattava sempre di una lotta tra due, il bene e il male, ma la particolarità è che non sempre vinceva il bene. 174 Aldo Becce Collocavo la pagina in bianco davanti a noi e tutti e due disegnavamo e inventavamo storie relative a quanto veniva creato. Quando si faceva un nuovo gioco come Risiko, s’inventavano i paesi. Quando disegnavamo stadi e squadre di calcio, inventavamo nomi e maglie. Desaparecido 175 Psicologonia contro Fantasmonia In una partita dove ci confrontavamo, ognuno aveva scelto la propria maglietta e il nome della propria squadra. Il nome della mia squadra era Psicologonia, quello della sua Fantasmonia. Il fantasma dei primi giochi veniva adesso trasformato e incorporato, non era più un personaggio da aggredire oppure da cui fuggire; il fantasma adesso identificava il soggetto, poiché portava la maglietta del River Plate, la sua squadra del cuore. Con lo stesso senso il fantasma è stato inserito nel suo disegno della famiglia. Persecuzioni Dopo un anno di terapia, i nostri giochi si evolvevano sempre di più, diventavano più complessi. Disegnavamo palazzi, navi, paesi dove uno perseguitava l’altro. Il perseguitato faceva scorrere la matita inseguito dall’altro che scappava facendo scorrere in avanti la propria matita, dentro allo spazio disegnato. Disegnavamo velocemente trappole, abissi, voragini, pozzi per fare cadere l’altro. Alla fine, quando si era stati raggiunti, s’ingaggiava una feroce lite tra le punte delle matite. Ci scambiavamo di continuo i ruoli fra cacciatore e preda. Nel frattempo, erano spariti i suoi problemi respiratori notturni. Per il papà Prima di Natale inserì suo padre in seduta, disegnando un enorme regalo per lui sotto l’albero di Natale con la dedica “Per il papà”, men- 176 Aldo Becce tre Babbo Natale scendeva dal camino e un grande orologio indicava che mancavano cinque minuti alla mezzanotte. La stella di Natale del piccolo albero è sostituita dalla stella di David. Non volle rivelare il contenuto della scatola regalo per il padre, era una sorpresa. L’argomento del padre si poteva quindi affrontare, era stato sdoganato, ma con delicatezza, in forma ellittica. Desaparecido 177 una macchina della polizia e una macchina del ladro; un orsetto, un panda e un cavallino e sotto scritto “i miei giocattoli”. I ritagli fotografici: comando di polizia; plotone di soldati con il loro comandante; corridoio di una prigione e le celle; un ladro che veniva arrestato; faccette di bambini e bambine per indovinare il sesso; una donna nuda. Domandai se il comando di polizia, i soldati, la prigione riguardavano in qualche modo il padre. Disse di sì, che forse era in prigione o che forse non c’era più. A te manca qualcuno? La scatola segreta Alla fine del secondo anno di lavoro, portò in seduta la sua “scatola segreta”, che teneva nascosta a casa senza che la madre e la nonna ne sapessero nulla. Era una scatola di cartone rettangolare. Sul coperchio si leggeva “Triple a” ma aveva sostituto il significato macabro di Asociación Anticomunista Argentina con la dicitura Asociación Amigos Argentinos e c’erano i nomi Federico, Matias e Mariano. All’interno della scatola c’era una raccolta costituita da un paio di disegni e da piccoli ritagli di riviste. I disegni: riproduzione di un documento d’identità argentino a nome di Pablo Polank; In una seduta nel novembre del 1987, Federico volle riprendere il gioco della seduta precedente. Si trattava di un gioco dove un bambino piccolo doveva scappare. In questo gioco ci perseguitavamo perfino in un cimitero, scappando tra le lapidi. Nel gioco avevo catturato e rinchiuso Federico in un pozzo. Mi chiedeva di aiutarlo a uscire perché era rimasto chiuso dalla seduta precedente, cioè da una settimana. Quando uscì continuò la rincorsa disegnando un’isola, dove poteva trovarsi il padre. Lo cercammo dappertutto e, cadendo nel mare, Federico fece un rimbalzo fino al cielo. “Sono morto”, disse. Feci lo stesso rimbalzo e morii anch’io. Il cielo era un labirinto. Gli proposi di cercare il padre e lui inventò il personaggio del signore del cielo che rispondeva alle domande. Io domandai se c’era Pablo e lui rispose indicando dov’era. “Eccolo” disse Federico “è Pablo”, ci abbracciammo con le mine delle matite, io impersonavo il padre. Federico domandò: “A te manca qualcuno?”. Risposi: “Mi manca mio nonno”. Siamo andati a cercarlo e questa volta fu lui a impersonarlo nell’abbraccio. Dopo quasi tre anni di terapia, abbiamo deciso di finire il nostro lavoro. 178 Aldo Becce Desaparecido 179 4. documento d’identità 6. desasparecido Nel 1995 mi è stato chiesto dal Tribunale Civile argentino una relazione psicologica che descrivesse il lavoro fatto con Federico all’interno di una causa intentata dalla madre di Federico, e da altre persone che avevano familiari desaparecidos, per il riconoscimento del danno morale ed economico causato dallo Stato nel periodo 1976-1983. In quell’occasione, Laura mi scrisse una lettera raccontandomi di Federico che aveva compiuto diciotto anni: La morte è certa ma il suo territorio è ignoto. Non c’è sapere che possa debellarla, il nulla si oppone come silenzio ostinato alla continua significazione della vita. La continua significazione che ci precede con il nome prima dalla nascita e ci sopravvive con il nome su una tomba. In quale modo si tratta un cadavere? Si può non riconoscerlo: n.n. cioè nomen nescio, dal latino nomen (nome) e nescio (non conosco). Molte persone vengono seppellite come n.n. e accade quando il loro nome è andato perso nel rapporto con l’Altro sociale, quando il nome ha perso il suo valore di scambio. È il caso di molti soggetti solitari che vagabondano nella periferia dell’incontro, evitando il legame. Ma è un corpo che, insieme ad altri corpi, hanno uno spazio che li identifica nel loro anonimato: la fossa comune. Si può lasciarlo; in una parabola Gesù disse: “Seguimi”. E costui rispose: “Signore, concedimi di andare a seppellire prima mio padre”. Gesù replicò: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu va’ e annunzia il regno di Dio”, cioè vai avanti, cammina, costruisci. Ma per poter lasciare che l’altro seppellisca il proprio morto bisogna averlo tra le mani, deve avere un corpo, un peso. Non si può scaricare un’attesa, non si può delegare un’incognita. In matematica l’incognita si esprime con una lettera della quale occorre trovare il valore affinché l’uguaglianza sia verificata. Trovare il valore dell’incognita paterna di un padre desaparecido significa decifrare l’equazione. Si può seppellirlo dove non si deve: Creonte proibisce la sepoltura di Polinice e Antigone trasgredisce la legge seppellendo il fratello. Nella tragedia greca Creonte degrada il cadavere umano alla carogna animale, “preda cruda”: “Polinice, fa gridare a Tebe ch’è cancellato, escluso: nessuno l’affonderà sotterra. Senza ululi, lutto. Starà là, scoperto, inaridito, miniera di sapori per artigli, pupille affascinate dalla preda cruda”.4 Cancellato ed escluso, ma sempre un corpo sul quale la legge detta il suo destino. Si può infine, come succede, seppellirlo: legare un nome a uno spa- […] Io lo vedo molto bene in generale anche se è un po’ ribelle. Guadagna i suoi soldi, ha buoni amici, gli piace molto la musica e ha un gruppo dove suona. A scuola, come sempre, i migliori voti. Rispetto all’affrontare le situazioni, alcuni mesi fa è stato derubato insieme a un suo amico per strada. Li hanno minacciati con qualcosa di pungente puntato al petto e gli hanno chiesto i soldi, lui gli ha dato subito il portafoglio. Quando i ladri se ne stavano andando, Federico gli ha chiesto di lasciargli il documento d’identità. I ladri hanno preso il documento dal portafoglio e glielo hanno lasciato. Per me questo è un successo. Invece l’amico ha negato di avere soldi, anche se li aveva, lo hanno picchiato e gli hanno preso l’orologio. Lui era molto impaurito e ha chiesto a Federico di non dire niente dell’accaduto. Io ho saputo di questo per vie traverse, lui non mi aveva detto una parola. 5. una fotografia Alla fine del 2006 Laura mi scrisse raccontandomi che Federico aveva conseguito la laurea in Ingegneria. La lettera era accompagnata da una foto in cui Federico riceveva il suo diploma, consegnato da alcuni amici di Pablo, militanti di Avanguardia Comunista, insegnanti nella facoltà di Ingegneria di Buenos Aires. Sofocle, Antigone, Einaudi, Torino 2007. 4 180 Aldo Becce zio per un periodo di tempo. Un tempo che permetta alla vita e ai suoi accadimenti di fare il loro corso. Desaparecer una persona, sospenderla tra il corpo vivo e il corpo morto è un modo diverso di trattare il significante. È lasciare l’incognita, come afferma il generale Videla, perpetuare il non sapere, condannare il soggetto all’assenza di una condizione giuridica, sospenderlo in un limbo senza tempo. Un nosferatu, cioè un “non spirato” ma anche un non vivo. Manca nel desaparecido quell’atto umano della sepoltura che implica il discorso di come è morto, di quegli istanti ultimi che vengono significati per fare sopportare ai vivi la convivenza con il mistero. Che un nome ci sia da qualche parte fa pensare che qualcosa del soggetto è lì. Per avere a che fare con il mistero e con l’assenza, si fa il lavoro del lutto. Il lutto è un’operazione complessa che sloggia l’altro e lo sradica dal quotidiano. Il lutto è la consapevolezza di vivere senza l’altro, di farne a meno, di scegliere la vita. Il lutto separa la terra dei vivi da quella dei morti. Nel desaparecido il vincitore trattiene il corpo, lo trafuga, nega pure la sua esistenza; si sapeva già dall’inizio che erano stati uccisi e quindi la negazione ufficiale chiude la parabola perversa. Si aspetta, quindi, chi si sa già che non tornerà. Federico ha vissuto diciotto mesi con il padre, nove dei quali in pancia. Due periodi di nove mesi tra l’ombra e la luce dove un padre è arrivato, ha avuto il figlio tra le mani e quindi nel figlio resta un segno di questo atto. Questo corpo che è arrivato e se n’è andato prima che ci fosse una parola per nominarlo e che ha perpetuato ancora questo non poter dire niente. L’ombra paterna aveva lasciato però un resto inassimilabile, un soffocamento notturno che era la simulazione di una morte ma anche un gemito erotizzato. Dopo alcuni mesi, mentre il gioco progrediva e iniziavano le persecuzioni con l’analista, Federico rinuncia a questa chiamata notturna. Nell’orizzonte del nostro lavoro c’era sempre quello che non si voleva trattare, con la scusa che uno Stato non l’aveva trattato: la condizione del padre. Federico era intrappolato nell’incognita, era rimasto anche lui sospeso senza entrare nel territorio immaginario dove c’era questo padre. Desaparecido 181 Da un’altra parte il figlio di un desaparecido in Argentina doveva sbrigarsela con il paradosso che lo Stato, un altro Nome-del-Padre, simbolo del patto sociale, della sicurezza e la protezione, era il responsabile della desaparición e la morte del padre. Se la Legge poggia sulla ragione per fare consistente il mondo degli uomini – come afferma Pierre Legendre5 – la Legge perdeva tutta la sua consistenza in questo paradosso. Il figlio di un desaparecido teme chi lo deve proteggere perché sa della sua impostura. Da un’altra parte l’habeas corpus come diritto fondamentale, come chiamata perentoria della giustizia a produrre un corpo, non aveva nessuna efficacia e quindi lasciava i soggetti nella pura inermità. Come afferma il sociologo uruguaiano Gabriel Gatti, figlio di un desaparecido, “La desaparición forzata di persone è un fenomeno che colpisce l’identità e il senso: attacca l’edificio delle identità minando le sue basi; porta il linguaggio a uno dei suoi limiti, obbligandolo a situarsi nel luogo dove le cose si dissociano dalle parole che le nominano”.6 Per quanto riguarda la condizione di suo padre, il nosferatu, il nome innominabile, ha avuto una prima significazione, ha trovato la sua prima traccia nel discorso e nel disegno: il fantasma. Nel Pac-Man che scelse all’inizio, c’è il tentativo di Federico di divorare il fantasma, l’antropofagia è molto antica nella storia umana e i guerrieri la praticavano per incorporare la forza del nemico. Era anche un atto di riconoscimento del valore dell’altro. Incorporato, divorato e fatto parte di Federico, il fantasma trasforma le sue vesti trasparenti nella maglietta della sua squadra del cuore che ha la consistenza immaginaria di una identificazione maschile, l’assunzione di un attributo trasmesso. Un padre nemico? C’è una versione del Padre nemico in Laio che prima ha voluto uccidere il figlio Edipo e anni dopo dall’alto della carrozza gli ordina con disprezzo di spostarsi. È una strettoia dove in due non si passa. È una lotta di vita e di morte. Il figlio cerca il Padre per affrontarlo, per farlo cadere: lo si vede in quelle lotte dove il bambino piccolo si applica seriamente a combattere il padre con tutta la sua forza, mentre per il padre è solo un gioco. Ecco le nostre lotte, dove Pierre Legendre, Il giurista artista della ragione (1999), Giappichelli, Torino 2000. Gabriel Gatti, El detenido-desaparecido: narrativas posibles para una catástrofe de la identidad, Ediciones Trilce, Montevideo 2008. 5 6 182 Aldo Becce nel transfert io ero l’altro da far cadere in trappole e abissi ma anche l’altro a cui permettere di lasciarsi intrappolare in un pozzo e rimanere chiuso per un’intera settimana tra una seduta e l’altra. Nelle invenzioni invece si tratta della sublimazione, dell’uso disinvolto della creazione per trattare oggetti che lo riguardano, come l’orologio. Il figlio di un desaparecido attende e la misura convenzionale dell’attesa è l’orologio, illusione umana di dominare il mistero dell’infinito. La creazione permette di giocare con il significante e trasformare lo strappo (Asociación Anticomunista Argentina) in legame (Asociación Amigos Argentinos). Nella scatola segreta si nascondono immagini, frammenti ed enigmi che riguardano il padre, la morte, la sessualità. Al di là della sua significazione hanno il valore dell’oggetto donato nel transfert. Questo dono è stato il più alto riconoscimento al nostro lavoro. Nella scena dove si muore assieme e si va in cielo a ritrovare il padre, che precede di poco tempo la fine della terapia, c’è qualcosa del giallo risolto, mistero debellato, labirinto raddrizzato, cielo paradiso perduto e ritrovato che è anche un cimitero dove vivono i morti e li si può salutare. La condizione per entrare era morire e noi abbiamo dovuto farlo. Nel cielo paradiso labirinto cimitero Federico mi domanda se mi manca qualcuno oppure sono intero, non toccato dalla castrazione, non ferito dalla morte. Io nomino e dono il mio morto e siamo pari, possiamo scendere in pace sulla Terra, perché li abbiamo trovati e salutati a modo nostro. Con il saluto abbiamo pagato il debito, poiché un morto lascia un vivo con una parola non detta, un debito, precisamente perché il morto non vuole più ascoltare. Del racconto, dalla lettera della madre dell’episodio dei ladri, penso al riscatto di qualcosa che ha a che vedere con l’identità, con l’amore del nome del quale parla Lacan. Il documento d’identità è il segno scritto che da una parte universalizza e da un’altra particolarizza la nostra appartenenza al gruppo. I soldi si possono perdere, dato il loro carattere anonimo, ma la carta d’identità no, dice chi sono per gli altri. Il nome di suo padre è vivo nei figli di alcuni sopravvissuti. Questo atto trascendente era dovuto al fatto che il padre sotto tortura non aveva tradito. Neanche Federico tradisce in questa scena, dove tiene per sé tutta la storia rispondendo alla richiesta dell’amico e perpetuando la trasmissione paterna che ha fatto la madre. Desaparecido 183 La fotografia che ritrae Federico che prende il diploma dalle mani dei sopravvissuti racconta qualcosa del rapporto con suo padre ma forse del rapporto di ogni figlio con un padre. In quell’atto lo raggiunge seguendo i suoi passi, lo ritrova negli amici e lo supera, arrivando alla laurea che il padre non aveva conseguito. Un padre quindi si segue, si trova e si supera. Un’analisi non si svolge mai in uno spazio chiuso, impermeabile alla storia e ai suoi accadimenti; due soggetti stabiliscono un patto che lega il transfert del paziente al desiderio dell’analista attraverso la parola all’interno di una scena sociale che li riguarda. Il nostro incontro, la produzione di un discorso riguardante un padre, l’apparire di un desaparecido, è stato possibile perché la democrazia in quegli anni era alla ricerca della verità negata. Non eravamo solo due che parlavamo di uno che mancava. Eravamo parte di un discorso sociale che cominciava a parlare dell’orrore, autorizzando la parola a dare un nome al terrore. Dedico questo scritto al ricordo dei trentamila desaparecidos, ai loro famigliari e al mio amico Jorge “Chuleta” Robledo sequestrato e desaparecido il 14 febbraio del 1978. Psicoanalisi implicata Avvocato! Alessandro Melano Un anziano avvocato si appresta a entrare nell’androne dello stabile dove ha sede il proprio studio. Si sente chiamare da dietro le spalle: “Avvocato!”. Si gira: gli arrivano in faccia due pallottole; tre lo colpiscono al petto. Crolla a terra, rompendo un vaso di gerani. Fuori piove. Cinque giovani si danno alla fuga per le strade del centro di Torino. Mariella Guzzoni Double Texture #4 2010 gelatin silver print edizione di 5, 20 × 30 cm dal ciclo Double Textures È, più o meno, la scena iniziale del film-documentario Avvocato! Il processo di Torino al nucleo storico delle Brigate Rosse che ho finito di girare nel 2005. L’ho scritto e diretto con Marino Bronzino con il sostegno e il patrocinio, tra gli altri, dell’Ordine degli Avvocati di Torino. Vi si narra del processo che tra il 1976 e il 1978 si tenne in Corte d’Assise nei confronti dei capi storici delle Brigate Rosse (tra gli altri Curcio, Franceschini, Gallinari…). Gli imputati revocarono i difensori di fiducia e rifiutarono i difensori d’ufficio che la corte nominò per loro. Per i brigatisti si portava all’estremo il postulato “No allo stato capitalista”. E dunque no alla sua giustizia, no ai suoi giudici, no ai difensori che lo Stato vuole assegnare ai combattenti rivoluzionari. Io, brigatista, non ho nulla da cui difendermi: è lo Stato, inclusi i suoi giudici e i suoi avvocati di regime, a doversi difendere dalle accuse che il movimento proletario gli porta. La decisione dei brigatisti rompe l’equilibrio: il sistema su cui si regge il processo entra in crisi. Si determina uno stallo da cui è difficile uscire. Come si può costringere qualcuno a essere difeso, se lui stesso non intende esserlo? È la domanda cui gli avvocati devono rispondere. Se difendono gli imputati, usano violenza ai loro stessi assistiti; se non li difendono, violano la norma dello Stato che li obbliga a essere presenti come difensori d’ufficio nel processo. Per comprendere la drammaticità della situazione occorre però fare un passo indietro: la nostra Costituzione dice che la difesa è necessaria 188 Alessandro Melano (garantita e inviolabile) in ogni stato e grado del procedimento. Da ciò discende il corollario dell’obbligatorietà della difesa tecnica, ossia della difesa garantita dall’assistenza di un avvocato. Sono i nostri codici di procedura a prevederlo. Dunque l’avvocato è sempre presente nel processo. Egli è in una posizione che lo colloca tra due antagonisti. Egli divide – ma nello stesso tempo mantiene in contatto, almeno per la durata del procedimento – l’imputato e lo Stato che lo vuole processare. È come un cuscinetto a sfera. Oppure potremmo dire che l’avvocato si trova tra due fuochi. Oppure che egli si trova nella posizione di chi è tirato per ognuna delle braccia da due nerboruti signori che lo vogliono portare ciascuno dalla propria parte. Il rischio è quello di procurarsi delle bruciature; o, se vogliamo, delle lussazioni agli arti superiori. Ciò di regola non accade, poiché per l’avvocato è normale ritrovarsi in mezzo a due poli contrapposti. Sin qui trattasi di fisiologia e non di patologia del processo. Perché? L’avvocato sa di dover osservare una doppia fedeltà. È previsto dalla nostra legge professionale. Al momento del giuramento egli giura – da un lato – di adempiere ai doveri impostigli dalla professione (ossia il rispetto del mandato che gli proviene dal cliente); dall’altro egli giura di adempiere ai compiti che la Legge gli affida (ossia il rispetto delle norme che lo Stato gli impone). Doppia fedeltà dunque: da un lato il cliente, dall’altro lo Stato; da una parte il privato, dall’altra il pubblico. Per questo motivo l’avvocato non si trova in difficoltà nel momento in cui si trova al centro di questi antagonismi. Fa parte della sua professione. È obbligato – entro certi limiti – a fare ciò che gli chiede il cliente. Ed è obbligato a rispettare le leggi processuali e sostanziali dello Stato. È di tutta evidenza che il ruolo è faticoso: costringe il professionista a trovare dentro di sé equilibri sempre nuovi, sospeso com’è tra queste forze che lo vogliono entrambe dalla propria parte. Fatica e solitudine del ruolo: sono i corollari della nostra professione. Per di più questa posizione lo ammanta, perlomeno agli occhi dell’opinione pubblica, di un certo grado di ambiguità. Egli ne è però vittima. L’avvocato non è, non deve essere ambiguo: ciò non toglie che molte volte sia percepito come tale. Fatica e solitudine dunque; ma anche straordinaria ricchezza di una professione che talvolta regala momenti esaltanti e grandi soddisfazioni. Tutto ciò crolla però se nel processo si apre una parentesi patologi- Avvocato! 189 ca del tipo di quella che viene definita come “il processo di rottura”, ossia il processo in cui una delle due parti non accetta il ruolo che le è assegnato. In questi casi, se intende continuare a rispettare il giuramento fatto, l’avvocato entra in una crisi disperata e profonda poiché una delle due parti gli chiede di recitare un ruolo che gli è vietato dall’altra. Nel caso del processo di Torino alle br, gli imputati non accettano di essere considerati degli imputati. Anzi: ritengono di dover esercitare il ruolo di accusatori. Portando all’estremo la loro convinzione, non accettano difensori, revocano quelli che avevano scelto in precedenza e diffidano quelli nominati d’ufficio. Difensori di regime, non si azzardino a difenderli, pena l’incorrere nelle conseguenze che i combattenti rivoluzionari stabiliranno. Ecco la crisi del ruolo dell’avvocato. Crisi che divenne ancora più grave quando le minacce dei brigatisti si concretizzarono. Il 28 aprile 1977, le br uccidono Fulvio Croce, presidente dell’Ordine di Torino; è reo di non essere indietreggiato rispetto al suo dovere di presenziare al processo come difensore d’ufficio dei brigatisti. Che fare dunque? Ci vorranno alcuni mesi, ma alla fine i difensori torinesi troveranno una soluzione, seppur di compromesso: restare nel processo – senza abbandonarlo come richiedevano gli imputati. Restare al solo fine di vegliare sulla regolarità del medesimo, garanti del rito, come si disse a quei tempi con una formula rimasta famosa. Un modo per non prevaricare la volontà politica degli imputati e nello stesso tempo un modo per non trasgredire l’obbligo che imponeva loro la presenza nel processo. Fu quella una soluzione che i venti difensori d’ufficio elaborarono nel corso di estenuanti riunioni notturne, frutto di una mediazione tra visioni politiche anche diversissime. Quelle notti furono notti faticose, piene di solitudine. Fatica e solitudine, corollari della professione di avvocato. L’adolescente tra etica e legge L’adolescente tra etica e legge Maria Cristina Calle I due grandi mostri che vegliano sul territorio dell’anomalia e che non sono ancora addormentati – l’etnologia e la psicoanalisi ne fanno fede – sono i due grandi soggetti della consumazione interdetta: il re incestuoso e il popolo cannibale. Michel Foucault, Gli anormali lo spazio sociale della legge Negli anni che intercorrono tra i due secoli appena trascorsi, tra le due sponde dell’Atlantico, gli Stati Uniti e l’Europa, è cominciata a delinearsi la ricerca di risposte nei confronti dei reati che, pur cercando di mantenere quella proporzionalità “dei delitti e delle pene” inaugurata dal pensiero di Cesare Beccaria, fossero anche in grado di riparare alle lacerazioni provocate dai comportamenti contro la comunità. A partire dalle prime forme di probation1 del sistema penale americano, fino alle diverse modalità di sanzioni alternative alla detenzione introdotte negli ordinamenti europei, da quasi un secolo l’amministrazione della giustizia è andata formulando risposte diversificate ai reati. Lo spazio di una giustizia retributiva, meramente sanzionatoria, ha potuto così fare posto a misure sempre più orientate verso pratiche di riparazione dei danni e di reinserimento del soggetto nella comunità. Nello stesso modo, nell’ambito della giustizia civile, nel campo dove i diritti tra i soggetti confliggono, là dove si tratta di comporre conflitti, liti e controversie, vanno crescendo esperienze di mediazione e di conciliazione alternative al procedimento giuridico contenzioso. 1 Il termine probation designa una forma di sanzione penale caratterizzata essenzialmente dal suo regime di applicazione che, lasciando la persona fuori dal carcere, le impone degli obblighi sotto il controllo di varie figure istituzionali. 191 Si va affacciando sullo scenario giuridico l’idea di una giustizia “mite”2 costituita anche di pratiche che, ricercando il consenso tra le parti, provano a riconoscere e a farsi carico delle differenze tra soggetti. Il pensiero della giustizia s’interroga oggi, infatti, sui propri fondamenti, su un’idea di giustizia3 che va in una direzione che sembra sempre più incrinare la diretta corrispondenza tra giustizia ed equità, cercando di analizzare e di valutare le diverse pratiche che coinvolgono l’organizzazione sociale. E ciò senza trascurare i limiti costitutivi di ogni discorso sulla giustizia.4 La comparsa sulla scena penale di misure alternative alla detenzione ha portato con sé anche la necessità di comprendere il crimine nella misura in cui le alternative alla carcerazione presuppongono, per la loro applicazione, una certa dose di predittività sul comportamento futuro del soggetto. Nel corso del secolo scorso questa spinta aveva avviato il lungo cammino della ricerca sociologica e psicologica sulle cause dei comportamenti contro la legge. Per tutto il corso del Novecento, infatti, in un’alternanza tra cause endogene e cause esogene, tra sociopatia e psicopatia, si è cercato di arrivare a una comprensione che potesse prevenire, e forse anche spiegare, quegli atti degli individui che comportano una minaccia per la stabilità sociale. Né le oscillazioni tra avanzamenti e regressioni in questo territorio hanno potuto evitare l’inasprimento di alcuni sistemi repressivi e punitivi, né la ricerca sulle cause della criminalità ha prodotto altro se non modelli descrittivi e illusorie correlazioni tra dati sociali o biografici dei soggetti e i comportamenti da loro agiti contro la legge. L’effetto d’apertura del carcere al territorio ha implicato, d’altra parte, la necessità – oltre che di individuare forme di recupero del reo 2 “Il diritto mite in questo campo tende a sostituire al sì e al no imposti dall’autorità una procedura di accompagnamento. Il primo obiettivo è l’accordo, il consenso, la soluzione meno traumatica. E quindi l’intervento del giudice avviene in seconda battuta, o in terza, o in quarta, o in quinta, non in prima.” Intervista a Gustavo Zagrebelsky, in “Cittadini”, n. 4, 2010, pp. 25-26. 3 Amartya Sen, L’idea di giustizia (2009), Mondadori, Milano 2009. 4 “È invece possibile che non esista alcun assetto sociale perfettamente giusto, sul quale vi possa essere un consenso imparziale”. Ivi, p. 31. 192 Maria Cristina Calle e di riparazione dei danni – di pensare anche sistemi che consentissero di ritessere i legami sociali, di ridisegnare quella distanza necessaria tra i soggetti che consente di mantenere la convivenza. Ogni crimine, di fatto, quando si compie comporta un’effrazione: stupro, rapina e persino a volte il semplice furto. Effrazione non soltanto della legge codificata nei codici penali: con il crimine si compie una lacerazione nella trama che tiene insieme e, nel contempo, mantiene le distanze tra i soggetti di una comunità. Il crimine si compie sempre nel campo dell’altro, riguarda la distanza che intercorre con l’altro, la regolazione di una misura in relazione a un altro soggetto.5 Nello svolgersi di un delitto spesso l’altro appare scotomizzato per il tempo dell’azione, fuori dalla scena occupata soltanto dal soggetto che agisce prescindendo dal legame agli altri simili, scavalcando le distanze, annullando quella misura tra i soggetti che, faticosamente raggiunta, permette la loro coesistenza. Si tratta di quella misura che, in Psicologia delle masse e analisi dell’Io, Freud ritrova nell’aforisma di Schopenhauer: Una compagnia di porcospini, in una fredda giornata d’inverno, si strinsero, per proteggersi, col calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto, però, sentirono le spine reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l’uno dall’altro. Quando poi il bisogno di scaldarsi li portò di nuovo a stare insieme, si ripeté quell’altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro tra due mali, finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione.6 Nei romanzi dei crime writer, così come nei racconti dei reati da parte dei soggetti che li hanno commessi, appare frequentemente un tratto di iperrealismo che connota la scarna essenzialità del racconto, senza concessioni ai dettagli, senza invenzione, sospeso nella dimensione di eterno presente alla quale si associa il punto di vista del delinquente che prescinde dal legame con l’altro: “Né il crimine né il criminale sono oggetti che possano concepirsi al di fuori dal loro riferimento sociologico.” Jacques Lacan, Introduzione teorica alle funzioni della psicoanalisi in criminologia, in Scritti, Einaudi, Torino 1974, vol. i, p.120. 6 Arthur Schopenhauer, Parerga e Paralipomena (1851), 2 voll., Adelphi, Milano 1981, vol. ii, p. 396. L’adolescente tra etica e legge 193 Una delle cose che mi dava una libertà unica era la mia totale assenza di preoccupazione per ciò che gli altri pensavano di me o per ciò che potevano farmi. Io mi curavo molto di più della verità, del divertimento e dell’avventura, quanto più ne potevo spremere dalla vita. Ciò che mi piaceva, lo facevo, finché non sopraggiungeva la noia.7 Dopo aver sostenuto per lunghi anni questa posizione, lo scrittore Edward Bunker esce dalla scena dell’azione per recuperare un punto di vista che non esclude l’altro; ne esce attraverso la scrittura, un atto che non può prescindere dalla presenza di un interlocutore, di un lettore, sia pure immaginario. L’iperrealismo dell’azione, che si tratti dell’autobiografia o dei suoi romanzi, sembra riportarci nello scenario arido e desertificato della struttura della perversione dove si colloca un punto di vista che, eliminando la possibilità di un pensiero come risposta all’angoscia e la necessità di operare uno spostamento, è sostituita dall’entrare in scena. È, invece, muovendosi nella direzione del registro simbolico che Edward Bunker esce dalla scena criminale, diventando uno scrittore di romanzi e sceneggiature. Come avviene, al contrario, l’ingresso nello scenario del crimine? Nelle opere di questo scrittore è rintracciabile quella continuità che, dagli abbandoni e maltrattamenti dell’infanzia negli istituti dove è collocato per anni, prosegue negli internamenti in riformatori che accolgono adolescenti per concludersi nelle carceri per adulti, in un’alternanza tra dentro e fuori le istituzioni educative e penitenziarie che caratterizza molte “carriere” delinquenziali. L’incontro con la scena simbolica della scrittura interrompe, per lui, questo movimento. A meno di non voler ritornare sulle ricerche che hanno provato a individuare le cause delle condotte delinquenziali nelle condizioni sociali e psichiche del soggetto, queste storie hanno il potere di interrogare non solo chi ha il compito di giudicare, ma anche chi del comportamento umano cerca di rintracciare il senso. 5 Edward Bunker, Educazione di una canaglia (2000), Einaudi, Torino 2002, p. 293. 7 194 Maria Cristina Calle L’adolescente tra etica e legge 195 l’imputabilità dei minori imputabilità e responsabilità Senza la nostra fede nel libero arbitrio la terra sarebbe il teatro non soltanto delle più orribili assurdità, ma anche della più insopportabile noia. L’assenza di responsabilità annulla ogni esigenza etica e la vanifica nel suo stesso presentarsi alla coscienza. Arthur Schnitzler, Sulla psicoanalisi Chi ha il compito di giudicare, deve preliminarmente verificare che le condizioni del soggetto consentano di sottoporlo a giudizio, deve perciò stabilire se il soggetto è imputabile. L’imputabilità deve essere presupposta senza spazio per ragionevoli dubbi. In caso contrario si richiede il parere dell’esperto. Il quesito posto all’esperto sulla capacità d’intendere e di volere rinvia a quel territorio dove, più di un secolo fa, si sono incontrati discorso giuridico e discorso medico-psichiatrico, inaugurando un dialogo non privo in ogni caso di rischi.8 L’imputabilità, da sempre al centro dei dibattiti dottrinali, è unanimemente considerata uno dei nodi principali del diritto penale. Sullo sfondo del pensiero filosofico sul libero arbitrio e la responsabilità dell’uomo per i suoi comportamenti, la considerazione dell’imputabilità ha promosso l’incontro tra discorsi eterogenei. L’imputabilità riguarda uno status del soggetto. Nel Codice Penale italiano è, infatti, trattata nell’ambito della teoria del reo e non del reato, collocata nel titolo iv del libro i che si occupa del reo, e non tra le norme che disciplinano l’elemento soggettivo del reato. A partire dalle disposizioni del Codice Penale del 1930 la responsabilità penale è stata identificata nell’assenza d’infermità mentale e nell’esclusione di una strutturazione patologica del soggetto. L’idea di soggetto imputabile, vincolata direttamente alla dicotomia normalità/patologia, porta nella valutazione della responsabilità le stesse aporie che si riscontrano nel campo psichiatrico.9 8 “Non si tratta, per i discorsi psichiatrici in materia penale, di instaurare, come si è soliti dire, un’altra scena; si tratta, al contrario di sdoppiare gli elementi sulla stessa scena. Non è dunque in questione la cesura che segna l’accesso al simbolico, ma la sintesi coercitiva che assicura la trasmissione del potere e il dislocamento infinito dei suoi effetti.”, Michel Foucault, Gli anormali (1999), Feltrinelli, Milano 2000, p. 24. 9 Aporie che si ripetono nelle più recenti considerazioni da parte della Corte di Cas- Lo stesso Codice del 1930 ha introdotto, per quanto riguarda l’imputabilità dei minori, un cambiamento radicale nella considerazione dell’età minima dell’imputabilità penale che viene innalzata dai nove anni previsti dal Codice Zanardelli del 1890 ai quattordici anni nel Codice Rocco. Nei primi decenni del Novecento, in effetti, fuori dall’ambito giuridico, avviene una radicale trasformazione nella rappresentazione sociale dell’infanzia a partire dal testo freudiano Tre saggi sulla teoria sessuale del 1905.10 In effetti, le considerazioni di Freud rovesciano radicalmente la prospettiva del pensiero sull’infanzia: la vita sessuale umana non è inaugurata dalla pubertà. Due momenti di discontinuità interrompono la presunta linearità della crescita, la prima infanzia e l’adolescenza, legate dalla pausa della latenza. L’abbandono della latenza è necessariamente travaglio, lavoro psichico, ma anche scoperta di nuove risposte, una naturale e necessaria crisi che vede l’adolescente muoversi tra rischi e possibilità psichiche. L’importanza data da Freud a questo doppio inizio della vita sessuale umana,11 a questi due culmini nella strutturazione del soggetto, fanno dell’adolescenza una questione di struttura e non di crescita,12 ofsazione relativamente ai “Disturbi di personalità”, si veda la sentenza n. 9163, del 25 gennaio 2005, Sezioni Unite. 10 “Gli studiosi dell’infanzia (non i medici che erano piuttosto fautori della maniera forte e della costrizione) scoprirono nell’Ottocento che le minacce, le punizioni corporali erano inutili e insegnarono, sulla scia dell’Émile di Jean-Jacques Rousseau, a seguire le inclinazioni della natura infantile, a non contrastarla, anzi a valersene. Per molto tempo non esercitarono alcuna influenza sugli educatori e sui genitori, convinti della virtù dell’esercitazione e dello sforzo. Essi trionfarono più tardi, grazie alla psicoanalisi e alla sua rapida divulgazione nei primi trent’anni del secolo.” Philippe Ariés, Enciclopedia Einaudi, voce Infanzia. 11 “Una volta trascorso questo periodo, che è chiamato epoca di latenza, con la pubertà la vita sessuale riprende, o, come potremmo dire, rifiorisce. Ci imbattiamo qui in un dato l’inizio in due tempi della vita sessuale, che non è riscontrabile se non fra gli essere umani, e che, palesemente, ha una grande importanza ai fini dell’ominazione.” Sigmund Freud, Compendio di psicoanalisi (1938), in Opere, Boringhieri, Torino 1967-1980, vol. xi, p. 580. 12 “Il problema dell’adolescenza è […] un problema di struttura e non di crescita. Un problema formale e logico che si affaccia alla mente di adulti e bambini, con le stesse caratteristiche, anzi con lo stesso ‘carattere’ che corrisponde alla forma di una lettera.” Sergio Finzi, Gli effetti dell’amore, Moretti & Vitali, Bergamo 1995, p. 6. 196 Maria Cristina Calle frendo al soggetto la possibilità di ritrovare, in una seconda occasione, nuove e originali risposte. La diversa complessità del pensiero nell’infanzia, dove il bambino si radica nelle teorie che inventa, ricompare dopo la latenza, quando il soggetto deve, nella realtà, assumersi la responsabilità della sua posizione sessuata e perciò della sua stessa crescita, movimento che genera inevitabilmente anche l’assunzione di responsabilità verso l’altro, verso gli altri e nei confronti della stessa comunità nella quale va crescendo. La ripresa, nel corso dell’adolescenza, dei temi infantili sulla discendenza e sulla generazione non si configura più soltanto come un lavoro d’intensa speculazione intellettuale, perché nuove spinte pulsionali chiedono di trovare spazio e forma nella rappresentazione psichica, per poter diventare pensiero e identità. Se il soggetto è posto in questo periodo della vita di fronte all’esigenza di rispondere della propria sessualità, si comprende come il fatto di collocare l’inizio dell’età imputabile a quattordici anni consenta pertanto di preservare l’intervallo necessario della latenza, coincidendo con la necessità per il soggetto di fondare e sostenere una propria posizione relativamente alla sessualità. i reati degli adolescenti I principi generali richiamati nelle Regole minime per l’Amministrazione della giustizia minorile13 richiedono che “qualora il sistema riconosca una soglia della responsabilità penale, tale limite non dovrà essere fissato ad un livello troppo basso, tenuto conto della maturità affettiva, mentale e intellettuale” del soggetto. Questa raccomandazione, pur condivisa dai paesi firmatari, vede comunque permanere le disposizioni precedenti sull’età minima imputabile tra i sette anni di India, Irlanda, Stati Uniti, Svizzera e Sudafrica e i diciotto anni di Belgio, Brasile e Messico, con tutta una gamma di età intermedie. Il sistema penale italiano consente, invece, di accogliere l’adole Le Regole minime per l’amministrazione della giustizia minorile sono state definite dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a Pechino del 29 novembre 1985 (articolo 4 che richiama il concetto già contenuto nel precedente articolo 2). 13 L’adolescente tra etica e legge 197 scente sottoposto a processo penale, tra i quattordici e i diciotto anni, all’interno di uno spazio di pensiero (nell’ambito dello stesso processo penale) che può perciò rappresentare una vera e propria seconda chance nell’elaborazione della posizione soggettiva del minore. Nel 1988 è stato introdotto un raffinato strumento processuale14 che, abbandonata la ricerca delle cause dell’azione illecita, rende possibile la comprensione delle azioni spesso insensate degli adolescenti, non tanto per diminuirne la responsabilità (o applicare misure paternalistiche o protettive tutele materne) quanto per sostenere e accompagnare il lavoro soggettivo, individuando gli eventuali blocchi, gli arresti del lavoro psichico che spesso denunciano i comportamenti antisociali. Integrare il senso dell’atto deviante nella valutazione dell’imputabilità è quanto viene richiesto dalla norma, non con l’obiettivo di indagare il significato simbolico del reato, bensì perché il lavoro psichico che l’adolescente opera rispetto ai propri processi di crescita possa essere considerato nella formulazione di un’adeguata risposta penale. L’agire delinquenziale, rappresentando una tra le modalità agite dell’adolescenza, è spesso orientato a eludere l’angoscia, a sottrarsi a quel lavoro psichico che riprende le questioni di discendenza e di filiazione che, nella prima infanzia, ordinano il caos del mondo intorno alla barriera dell’incesto. Nel procedere di questo lavoro, l’ineluttabile confronto con la sessualità paterna pone l’adolescente di fronte alla propria sessualità, lungo quella linea di demarcazione dell’etica che è inaugurata dall’accettazione del divieto dell’incesto. Da questa posizione, l’adolescente che ha agito comportamenti contro la legge, nel sistema penale minorile italiano può muoversi nello spazio simbolico della legge stessa, per scoprire modi nuovi di regolare le distanze con l’altro e con la comunità, alla maniera dei porcospini di Schopenhauer. 14 “Il pubblico ministero e il giudice acquisiscono elementi circa le condizioni e le risorse personali, familiari, sociali e ambientali del minorenne al fine di accertarne l’imputabilità ed il grado di responsabilità, valutare la rilevanza sociale del fatto nonché disporre le adeguate misure penali ed adottare gli eventuali procedimenti civili”, dpr 448/1988, art. 9,1. Quell’andarsene nel buio dei cortili Quell’andarsene nel buio dei cortili Maria Vittoria Lodovichi Questo percorso di riflessioni nasce da due tempi. Il primo riguarda alcuni pensieri che il poeta Milo De Angelis espresse in un seminario, tenuto a Milano nel 1980, intitolato Teoria e Poesia, e pubblicato poi dalla rivista “In Folio”.1 Il secondo tempo procede da una lettura testuale delle sue poesie raccolte, nel 2010 (a trent’anni di distanza), con il titolo Quell’andarsene nel buio dei cortili.2 L’ascolto di quell’intervento di tanti anni fa coincideva per me3 con la lettura del seminario sull’etica di Jacques Lacan,4 che allora si leggeva nelle dispense dattiloscritte, e che metteva in luce la funzione del reale nella sua concezione dell’arte. Lacan, in seguito, con l’invenzione del significante Lituraterre,5 che potremmo definire un testo in cui egli si confronta con autori come Derrida e Barthes, si pone una domanda cruciale: “che cosa vuol dire scrittura?”. La ricerca lacaniana indica l’arte come organizzazione della parola. “In Folio”, rivista informativa del Centro Culturale Santa Tecla di Milano, n. 8, marzo 1981. 2 Milo De Angelis, Quell’andarsene nel buio dei cortili, Mondadori, Milano 2010. 3 Si veda Maria Vittoria Lodovichi, Il sublime e la sublimazione artistica, tesi presso l’Università Statale di Milano, 1981-1982. 4 Jacques Lacan, Il seminario. Libro vii. L’etica della psicoanalisi (1959-1960), Einaudi, Torino 1994. 5 Id., Il seminario. Libro xviii. Di un discorso che non sarebbe del sembiante (1971), Einaudi, Torino 2010, pp. 113-127; Id., Lituraterre, in Id., Autres écrits, Seuil, Paris 2001, pp. 11-20. 1 199 Organizzazione che implica un “oggetto” (definito vuoto, mancanza, oggetto “a” ) il quale subisce un’anamorfosi, percorre un bordo, lambisce il reale e mostra di sé ciò che Lacan definisce “La Cosa”, il famoso Das Ding, l’orrore. Ciò che si può trasmettere con la parola coincide con il reale dell’esperienza, con l’impossibilità di riuscire a dire nella sua essenza soggettiva ciò di cui siamo stati testimoni se non in un tempo retroattivo, nell’après-coup. Sostenere l’angoscia come segnale che orienta la verità soggettiva riguarda chi ascolta, chi legge, ma, principalmente, chi scrive. Per questo, sia la cultura sia la civilizzazione divengono fondamentali per portare il proprio “legame sociale” quale elemento per un confronto del proprio sapere con gli altri. Julia Kristeva nel suo libro Bisogno di credere 6 sostiene che l’atto di credere, anche in senso laico, sia uno dei fili più intensi sottesi dalla pratica psicoanalitica e dalla ricerca intellettuale: anche il “bisogno di poesia” ci sembra estremamente importante. Infatti, esso interroga la psicoanalisi e la colloca come sua alleata e come significativa via maestra. La ricerca intellettuale, l’ascolto e lo studio della poesia, dell’arte sono fondamentali in particolare per chi ascolta, ricerca e successivamente tenta di realizzare una costruzione che dia un senso al non-senso. Ciò è particolarmente vero in quest’epoca nella quale la cultura pare sempre più diventare desueta a favore di un godimento dei beni usa-e-getta. Di fronte a un erotismo sociale che sembra non mettere più al centro il corpo bensì il vuoto della “moneta finanziaria”, dovremmo essere grati e aiutare i Poeti in qualità di studiosi delle parole, della grammatica, della sintassi, di quelle lingue morte che custodiscono per noi parole antiche. Torno all’insegnamento di De Angelis e al suo intervento Teoria e Poesia. Quando egli prese la parola, era un giovane di ventinove anni che riuscì a tenere un ritmo di pensiero con un incedere che coinvolgeva intensamente. Parlava e pensava citando Eschilo, Dostoevskij, Luzi, Bigongiari, per nominarne alcuni. Quell’ascolto fu per me fondamentale. Fu talmente incisivo il suo modo di esplorare l’atto dello scrivere che poi riuscii a riconoscerlo nella sua poetica, fino a cogliere alcuni nessi presenti nel verso che è posto a titolo della sua raccolta di oggi: Quell’andarsene nel buio dei cortili. Julia Kristeva, Bisogno di credere. Un punto di vista laico, Donzelli, Roma 2006. 6 200 Maria Vittoria Lodovichi Dunque, cercherò di evocare qui alcuni suoi pensieri, svolte, segnali toccanti che mi rimasero impressi. Forse riuscirò a cogliere quel punto così speciale che ancora oggi mi interroga nel suo verso “Quell’andarsene nel buio dei cortili”. È un verso che risuona come un enigma infinito, impossibile da sostenere e al contempo omaggio alla poesia di un maestro come Bigongiari. La prima enunciazione lapidaria di De Angelis fu: non c’è teoria della traduzione che sia svincolata dal destino. Ma egli precisava che quando diceva destino, si riferiva a ístemi, cioè a ístánomai, che a sua volta deriva da ístemi, che è uno dei verbi più difficili da tradurre dal greco. Ístemi significa rimanere, ma anche sprofondare e innalzarsi; non coincide con il sisto latino, ma neanche con il meno greco o il menéo ionico. Implica una verticale, un punto a partire dal quale ci si inabissa o ci si innalza. De Angelis mise in luce come questa nozione di destino non è lontana dal pensiero di Kerényi quando parla di ananke, concetto sempre legato al segmento, alla decisione delle Parche di assegnare un certo numero di giorni, uno dei quali sarà la morte. Questo destino sostenuto da Atropo, una delle tre filatrici, vale per Ettore, per Agamennone ma non per Antigone. Antigone ama quel culmine estremo e amandolo lo prolunga nel ghenos per generazioni e generazioni. Si innalza al di là delle moire, perché il comando della stirpe è infinitamente più grande di quello delle moire. Così la morte di Antigone, in quel preciso giorno, in quella precisa grotta, diventa il trionfo del ghenos. Antigone tuttavia non annega nel ghenos, Antigone è il ghenos. Qui De Angelis squarcia il sipario, tornando a far parlare Sofocle che presenta Antigone quando torna bambina e piange. Saranno queste stesse lacrime a spezzare il segmento in cui ananke, Creonte e Ismene, sorella di Antigone, avevano voluto recintarla. Apollo affronta le Moire, le ubriaca in modo da salvare la vita di un amico. Apollo usa la logica del rinvio mentre Antigone ama le regole fino al punto estremo. A tal proposito troviamo un’altra invenzione teorica che De Angelis propone: nell’atto di andare a capo il poeta aderisce a un concetto di ubbidienza. Infatti, andare a capo è un concetto infinito per chi riesca ad argomentarlo e che interroga radicalmente la soggettività. Quali sono le ragioni che portano ad andare a capo, a quale ubbidienza l’umano si trova costretto nell’atto dell’andare a capo? È come se scrivere implicasse nell’atto di vivere una variante che coinvolge la possibilità dell’incontro ineluttabile con il trauma, con il reale. Quell’andarsene nel buio dei cortili 201 De Angelis, parlando sul filo della memoria, ricorda due versi di Bigongiari tratti dalla sua poesia Pescia-Lucca:7 “la morte è questa / occhiata fissa ai tuoi cortili”. Questo verso rimane come basso continuo, come enigma cui non si può rispondere. Ed è proprio con questa potenza che si consegna un verso coniato da un impensato che può permanere e interrogare continuamente; un verso che apre nuove vie di pensiero, ci costringe a speculare e a cercare ogni volta in noi stessi un punto irriducibile, un cammino sul bordo del vuoto o di un abisso. Bigongiari, in questa poesia, attraverso la personificazione della rondine, rievoca la giovinezza trascorsa a Lucca, considerata “nido difficile”. Una città che si trasforma sotto i suoi occhi, così come la “malcelata infanzia” si trasforma in una “malcerta ebbrezza”. È durante il viaggio quotidiano da Lunata a Lucca, in quei cinque chilometri, mentre passa lungo le case quasi sfiorandole, “seduto accanto al guidatore” che qualcosa giunge come un pensiero, un pensiero di un adolescente mentre viaggiando guarda fuori dal finestrino. Ma a differenza di tutti gli altri giorni ve n’è uno nel quale, proprio come provenisse da un’irruzione inconscia, qualcosa si rivela in modo ineluttabile. Una volta percepita la dimensione fantasmatica di quell’enunciato, non si può tornare indietro. L’esperienza associativa ha sigillato l’affetto (affekt) che ha costruito quell’intuizione e che appunto gli fa scrivere: “la morte è questa / occhiata fissa ai tuoi cortili”. L’occhiata e la fissità compongono un ossimoro che lega l’uomo a ciò che egli cerca di percepire in movimento, con un batter d’occhio. È qualcosa che lo interroga, mentre la fissità non sempre riesce a percepire; piuttosto anamorfizza una rappresentazione che spaventa, stupisce e sospende. Ecco che rintracciamo qui, da parte di De Angelis, non tanto un omaggio a Bigongiari quanto proprio quell’ubbidienza che il poeta compie nel suo andare a capo. Per questa via Quell’andarsene nel buio dei cortili entra nel vivo dell’ineluttabilità del grande passo umano. Chi può andare con “quell’andar La poesia completa di Bigongiari è la seguente: “Ho vissuto / nelle città più dolci della terra / come una rondine passeggera./ Lucca era / un nido difficile tra le vigne / impolverate, in fondo a bianche strade, / donde sarebbe traboccata / con ali troppo folli / pe’ tuoi cieli molli, Toscana, / antica giovinezza. / Malcerta ebbrezza, malcelata infanzia / lungo le case di Lunata / sfiorate in un tram accanto al guidatore, / la morte è questa / occhiata fissa ai tuoi cortili / che una dice sorpresa / facendosi solecchio dalla soglia: / è nata primavera, / sono tornate le rondini.” 7 202 Maria Vittoria Lodovichi sene” non è certo chi decide di andare. Andarsene piuttosto implica il lasciare il luogo, la casa, la vita. È la percezione di una decomposizione del corpo verso un viaggio mai fatto, verso un urlo mai udito. Inevitabilmente il memento mori diventa profondamente attivo quando parla dell’hic et nunc, del contingente, dell’universalmente noto. Tutto ciò evoca un capolavoro pittorico. Nel Camposanto di Pisa, ai confini della piazza dei Miracoli, si apre la porta del cimitero. Nella seconda stanza troneggia un’opera straordinaria: Il trionfo della morte8 di Buffalmacco. Al centro è raffigurata la Morte, “genio alato dalle mani e dai piedi artigliati”, “donna, alata con ali di vampiro” che, incurante delle suppliche del gruppo degli storpi, rivolge la sua falce verso la lieta brigata nel giardino. Guardando con attenzione quest’opera, si scopre un senso di totale sospensione e sconcerto, seppure le figure, sia delle dame sia dei cavalieri, siano ben vestite e collocate in luoghi ameni in cui attendere il destino: il giardino, il verziere. Loro non possono andare a capo. Andare a capo implica l’esame del proprio desiderio e la capacità di scelta di fronte al bivio. L’etica soggettiva troneggia, come la morte, indicando il quando e il come andare a capo. Non è la scelta tra il bene e il male bensì quella più complessa tra due utili e ineluttabili opportunità. Compiendo quell’atto che il soggetto ha scelto e che conosce, si fa strada l’angoscia. L’etica tuttavia è ciò che dovrebbe stare al primo posto nella sequenza di una scelta, qualunque essa sia. Il poeta sa quale sia il suo posto e con l’andare a capo dei suoi versi lo dimostra. Le dame e i cavalieri del Trionfo della morte sembrano capire quell’andarsene così speciale che riescono a rendere e trasmettere standosene fermi. Rappresentano il senso di quell’andarsene. Possiedono quell’“occhiata fissa” ai cortili. Nella poesia di De Angelis intitolata È qui, in un angolo della stanza, scocca incontriamo il gesto poetico nella sua collocazione topologica, nel luogo dove avviene l’incontro, la conoscenza di ciò che non viene nominato, ma la cui “furia” fa tremare i polsi. In questo “sgretolamento dei muri” o del “piede che frana sulla riva”, ci imbattiamo nel senso e nell’annuncio dell’andarsene. La morte non è nominata ma sottesa dalla forza dei versi. È interessante notare che il livello metrico-ritmico, che è l’uni8 Per la lettura di questo affresco è di grande interesse il libro di Lucia Battaglia Ricci, Ragionare nel giardino. Boccaccio e i Cicli Pittorici del Trionfo della Morte, Salerno Editrice, Roma 2000. Quell’andarsene nel buio dei cortili 203 tà fondamentale della lingua poetica, deriva da versus, dal verbo latino vertere che curiosamente significa “voltare”, “tornare indietro”. Esso produce e induce nel lettore una sospensione attenta e coglie qualcosa che si situa nel cuore della poesia: paradossalmente, per andare avanti, si deve tornare indietro. Riprendendo dal terzo verso di questa poesia di De Angelis, si legge: È una furia / che scende verso lo scuro e dilaga / tra i muri passeggeri e sgretolati / dove ognuno è solo il suo andarsene, / il piede franato sulla riva, lo stormo delle frasi / che cadono cieche da una volta. In un’altra poesia intitolata Voci (i) incontriamo la “furia” frastornatrice, sotto forma di voci e di foglie; la furia si colloca tra due corpi che rievocano “antiche camere di albergo”. Anch’esse “cadono in cortile”, ma da questa caduta, da questo abisso “torneremo a ricostruire”, come annota Freud nel saggio La caducità. Nella poesia successiva Voci (ii), l’autore induce il lettore a procedere con cautela, con attenzione e solennità. Sembra quasi l’atmosfera del Paradiso dantesco e il suo rovescio: la voce si abbassa leggendo la descrittività delle parole, l’apertura della grande scena che irrompe nell’ossimoro del bisbiglio. Dove siamo? Nella terra desolata? Nel mondo dei morti? L’anamorfosi del verso finale, la sincope musicale, l’arresto sonoro di un accordo di quinta vuota, introduce la vera fine dell’atto che ci sorprenderà colti dal “vento”, messaggero della fine. Ogni cortile di ogni poeta è destinato a entrare nel regno della metamorfosi. Infatti, è con queste parole che la poesia Voci (ii) prende avvio: … allora mi chiamò un drappello / di anime sole… scostarono le tende bisbigliando, / si avvicinarono alle grandi vetrate del tempo… / una salmodia di numeri e vento… quello fu l’atto /… il solo atto consentito… / quell’andarsene dei cortili nel buio. L’immagine dei cortili, nel verso finale, ritorna ma in un certo senso rovesciata. Non è più “quell’andarsene nel buio dei cortili” ma “quell’andarsene dei cortili nel buio”. Il significante cortili ritorna come una personificazione onnivora. De Angelis insegna la propria ubbidienza, situandola nella responsabilità che gli spetta e gli com- 204 Maria Vittoria Lodovichi pete nell’atto più difficile per un autore: il saper andare a capo. Ossia il saper interrogare la fonte sorgiva quando il verso lo impone, quando le parole lo fanno nascere. Tuttavia chi “impone” la parola al poeta? Da dove viene quel sapere paradossale che non sa di sapersi e che invece è ciò, e soltanto ciò che l’uomo porta e lascia al mondo con la propria unica specificità della parola che si fa esperienza? Si fa esperienza a patto, tuttavia, di saper riconoscere in essa quell’eterna ferita, quel taglio che impone al sangue di scorrere, di raggrumarsi e che per alcuni si fa ghenos. In un’altra poesia di Voci (vi) De Angelis scrive: Dal furor sanandi al furore della classificazione Giancarlo Ricci Insegnatemi il cammino, voi che siete / stati morti, attingete la nostra / verità dal pozzo sigillato, staccatevi dal tempo / e portateci oltre le tragiche colonne. Fin qui l’appello è rivolto all’indietro, tuttavia questo moto del gambero è squarciato dall’attuale tragico, dal “reale” beante che incombe sulla realtà. E prosegue: tra i fari dei camion e un piumino / getteremo le più alte / astrazioni in un sussulto di fiammiferi / torneremo a casa, vi diremo. La testimonianza di questo improvviso cambio di scena, di tempo e di luogo è ciò che oggi annichilisce l’uomo nelle sue transumanze sui camion e sui barconi: sono persone con il “piumino” e i “fiammiferi” che lanciano una promessa: “torneremo a casa, vi diremo”. È questa forse la speranza di oggi, che qualcuno torni a casa; già, ma quale casa? Nella poesia Alfabeto del momento compare un verso mirabile per il contenuto potente che le parole trasmettono: “… la terra appartiene / a chi l’ha abbandonata”. Sono parole che fanno venire in mente Sigmund Freud quando cita il celebre verso di Goethe “ciò che hai ereditato dai padri, riconquistalo se vuoi possederlo davvero”. Qui, tra il primo e il secondo enunciato, la virgola, come uno iato, interrompe i due tempi del verbo. È lì che l’apertura si espone al divenire. Lì avviene la presa della soggettività grazie all’ubbidienza della perdita. Quella fertile ferita fa sì che da esule – e proprio in quanto tale – il soggetto sia appartenuto soltanto in quella modalità a quell’unica terra. La rivista lettera ha ricevuto il seguente documento che prende posizione sul dsm, il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali. Il documento, di cui esistono differenti versioni tradotte in varie lingue, è stato compilato da psichiatri e psicoanalisti di varie nazionalità e sottoscritto da numerosi colleghi di vari paesi. Ci sembra significativo pubblicare questo documento proprio nel numero della rivista dedicata a “Psicoanalisi e legge”. I criteri che informano il dsm risultano improntati a un codice di classificazione sistematica delle patologie “mentali”, collocano il caso singolo in una griglia tassonomica, riducono il sintomo a disturbo dopo averne abolito la dimensione di struttura a favore di un criterio descrittivo. In questa impostazione, che pretende di esercitare un’egemonia sull’universale, non è difficile riconoscere il funzionamento di una “legge” il cui compito è ciecamente quello di descrivere e di classificare le innumerevoli varianti delle vicissitudini psichiche e di trasformarle in altrettante malattie. D’altra parte questa “legge”, in nome di una semplificazione scientista, mette a tacere le strutture, le logiche, il funzionamento dell’accadere psichico. In definitiva avvilisce e mette a tacere la complessità del sintomo psichico (nell’accezione psicoanalitica e di gran parte della psichiatria dinamica): lo oscura, lo neutralizza, lo abbandona in una terra di nessuno abitata unicamente da percentuali, statistiche, codici di identificazione, sigle. Le implicazioni di questo esercizio monopolistico del dsm sono va- 206 Giancarlo Ricci ste e inquietanti. E talmente profonde da chiamare in causa aspetti sociali, istituzionali, psichiatrici, medicali, giuridici. Sono implicazioni che interrogano radicalmente il cuore stesso della clinica, la sua pratica, il suo atto. Ne va dell’ascolto, della soggettività, della cura. La nostra contemporaneità, pur di guarire magicamente dall’inconscio, celebra una versione scientista del furor sanandi approntando manuali sempre più ispirati al furore della classificazione. manifesto a favore di una psicopatologia clinica che non sia solo statistica Attraverso questo scritto, i professionisti e le istituzioni che sottoscrivono questo documento, si dichiarano a favore di criteri diagnostici clinici e pertanto contro l’imposizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (dsm) dell’Associazione Psichiatrica Americana come unico criterio delle sintomatologie psichiche. Vogliamo condividere la conoscenza clinico “logica” sul pathos psichico, sulla “sofferenza sintomatica” e non sulla malattia. Vogliamo mettere in discussione l’esistenza di una salute psichica, statistica o normativa. Inoltre vogliamo denunciare l’imposizione di un trattamento unico, di “terapie classificate per disturbi catalogati” per il disprezzo che presenta verso le varie teorie e strategie terapeutiche e della libertà di scelta dei pazienti. Attualmente assistiamo ad una clinica sempre meno dialogante, più indifferente alle manifestazioni della sofferenza psichica, aggrappata ai protocolli e alle cure meramente palliative, preoccupata più delle conseguenze che non delle sue cause. Come dice G. Berrios (2010): Siamo di fronte ad una situazione paradossale in cui si chiede ai clinici di accettare un cambiamento radicale nel modo di sviluppare il loro lavoro (es.: abbandonare i dettami della propria esperienza per seguire quelli meramente statistici quindi impersonali) quando in realtà, l’attuale base delle evidenze non sono altro che quello che dicono gli statistici, i teorici, i dirigenti, le aziende (come l’Istituto Cochrane) ed i finanziatori capitalisti che sono precisamente quelli che dicono dove si “investe il denaro”. Di conseguenza, esprimiamo il nostro sostegno a un modello sanitario dove la parola sia un valore da promuovere e dove ogni pazien- Dal furor sanandi al furore della classificazione 207 te sia considerato nella sua particolarità. La difesa della dimensione soggettiva implica una fiducia in ciò che ognuno mette in gioco per affrontare ciò che a lui stesso si rivela insopportabile, estraneo a se stesso, tuttavia familiare. Esprimiamo il nostro rifiuto delle politiche assistenzialiste che inseguono la sicurezza a scapito della libertà e dei diritti. Una politica che, sotto la maschera delle buone intenzioni e cercando il bene del paziente, lo riduce a un calcolo delle sue prestazioni, a un fattore di rischio o a un indice di vulnerabilità che deve essere eliminato, più o meno in maniera forzata. Per qualsiasi disciplina, l’approccio alla realtà del suo campo avviene attraverso una teoria. Questa conoscenza limitata non dovrebbe confondersi con La Verità, dato che agirebbe come ideologia o religione, dove qualsiasi pensiero, un evento o persino il linguaggio utilizzato, si trova al servizio della forzata unione tra conoscenza e verità. Ogni clinico con un certo spirito scientifico sa che la sua teoria è quello che Aristotele chiama un Organon, vale a dire, uno strumento per avvicinarsi a una realtà sempre più plurale e mutevole e dove le categorie riscontrate lasciano spazio alla manifestazione di quella diversità, permettendo un allargamento tanto teorico come pratico. Questa concezione si oppone all’idea di Canone nella quale, necessariamente, obbligatoriamente e in maniera prescrittiva, le cose sono (o esistono) e devono essere svolte in un certo modo. Sappiamo tutti le conseguenze di questa posizione che va dall’orientamento normativo, al prescrittivo per poi finalmente diventare coercitivo. Ed è qui, in senso lato, che il sapere diventa l’azione di un potere in qualità di sanzione, quello che obbedisce e disobbedisce a questo canone. Ovvero ordinare la soggettività all’Ordine Sociale richiesto dai mercati. Tutto per il paziente senza il paziente. La conoscenza senza soggetto è già un potere sul soggetto. J. Peteiro lo chiama autoritarismo scientifico. Per tutto questo esprimiamo la nostra opposizione all’esistenza di un Codice Diagnostico Unico, Obbligatorio e Universale. Inoltre, il modello a-teorico che vanta il dsm e che ha voluto essere confuso con l’obiettività, ci parla della sua falla epistemologica. Basti ricordare la sua indefinitezza su quello che chiama “disturbo mentale” o “salute psicologica”. Il contenuto di questa tassonomia psichiatrica risponde molto di più a patti politici che a osservazioni cliniche, producendo un grave problema epistemologico. Per quanto riguarda il metodo di classificazione dsm, sappiamo che 208 Giancarlo Ricci è possibile classificare, ammucchiare o raggruppare molte cose, ma questo non vuol dire stabilire un’entità nosografica in un determinato campo. Infine, sulla stessa linea di cui sopra, i dati statistici utilizzati nel dsm hanno un punto di partenza debole: l’ambiguità dell’oggetto su cui si opera, vale a dire, il concetto di disturbo mentale. La statistica si presenta come una tecnica, uno strumento che può essere messo al servizio di molteplici cause e di ogni genere. Sono le persone che gestiscono gli item e i valori di base della curva statistica e che decidono sullo spostamento, più o meno verso i margini di ciò che si andrà a quantificare e interpretare più tardi. In questo contesto di povertà e confusione concettuale, la prossima pubblicazione del dsm-v è una chiara minaccia: nessuno rimarrà fuori dalla malattia. Non rimarrà spazio per la salute, in termini di cambiamento, di mobilità, di complessità o di molteplicità delle forme. Tutti malati, tutti disturbati. Qualsiasi manifestazione di disagio sarà presto trasformata in sintomo di un disturbo che necessita di essere medicalizzato a vita. Questo è il grande salto che si fa senza nessuna rete epistemologica: dalla prevenzione alla previsione. Soglie diagnostiche più basse per molti disturbi esistenti e nuovi strumenti diagnostici che potrebbero essere estremamente comuni nella popolazione generale, di questo ci avverte Frances Allen, capo del gruppo di lavoro del dsm iv, nel suo scritto Aprendo il vaso di Pandora. Riferendosi ai nuovi disturbi che includerà il dsm-v, l’autore cita alcuni dei nuovi strumenti diagnostici problematici: la sindrome di rischio da psicosi (“è certamente il più inquietante dei suggerimenti. Il tasso di falsi positivi sarebbe allarmante: dal 70 al 75%”). E ancora: il disturbo misto d’ansia depressiva, il disturbo cognitivo lieve (“è definito da sintomi non specificati […] e la soglia è stata predisposta per includere un massiccio 13,5% della popolazione.”), mangiatori compulsivi, il disturbo disfunzionale di personalità con disforia. Oppure il disturbo coercitivo parafilico (?) o il disturbo di ipersessualità, ecc. Aumenta, pertanto, il numero di disturbi e aumenta anche il campo semantico di molti di questi, tra cui il famoso adhd (deficit di attenzione e iperattività), in quanto la diagnosi si basa solo sulla presenza di sintomi, senza richiedere una disabilità e inoltre si riduce alla metà il numero di sintomi necessari per gli adulti. La diagnosi di adhd è contemplata anche in presenza di autismo, pertanto implicherebbe la creazione di due false sindromi e favorirebbe un Dal furor sanandi al furore della classificazione 209 maggiore utilizzo di stimolanti in una popolazione particolarmente vulnerabile. Se mettiamo insieme questa gestione statistica con l’eterogeneità dei gruppi di lavoro tematici, che si moltiplicano e che vanno dall’identità di genere, attraversando l’adattamento degli impulsi, all’ipersessualità, agli sbalzi di umore e via dicendo, non possiamo ignorare che le classifiche internazionali pretendono una totale autonomia rispetto a qualsiasi quadro teorico e si presentano prive di qualsiasi tipo di controllo e di rigore epistemico. Tuttavia, non crediamo che le classificazioni e i trattamenti possano essere neutrali rispetto alle teorie eziologiche, come si pretende, e allo stesso tempo essere neutrali rispetto all’ideologia del controllo sociale e agli interessi extra clinici. Paul Feyerabend, nel libro Il mito della scienza e del suo ruolo nella società, scrive: “Fondamentalmente, non vi è quasi alcuna differenza tra il processo che porta alla formulazione di una nuova legge scientifica e il processo che precede una nuova legge nella società”. A quanto pare, dice l’autore nel libro Addio alla ragione che “il mondo in cui viviamo è troppo complesso per essere compreso sia da teorie che obbediscono a principi (generali) epistemologici. Gli scienziati, i politici, e chiunque cerchi di capire o di influenzare il mondo, tenendo conto di questa situazione, violano regole universali, abusano di concetti elaborati, distorcono la conoscenza già ottenuta e contrastano il tentativo di imporre una scienza basata sulle teorie dei nostri epistemologi”. Infine, vorremo attirare l’attenzione sul pericolo rappresentato, per la clinica della sintomatologia psicologica, dal fatto che i nuovi clinici siano formati deliberatamente nell’ignoranza della psicopatologia classica, dato che questa risponde alla dialettica tra teoria e clinica, tra sapere e realtà. La Psicopatologia Clinica non è più insegnata nelle nostre scuole o nei corsi di formazione. Tuttavia, sono istruiti in base al paradigma delle prescrizioni farmacologiche, una specie di prescrizione universale per tutti e per tutto che non si differenzia in nessun modo da un distributore automatico di etichette o da una scansia di farmaci. Il risultato che denunciamo è l’ignoranza dei fondamenti della psicopatologia, una significativa zona di cecità quando vengono esaminati i pazienti e, di conseguenza, una limitazione considerevole nel momento di formulare una diagnosi. In quanto la conoscenza è la forma più etica che abbiamo per avvicinarci alla nostra realtà plurale, la coesistenza di diverse cono- 210 Giancarlo Ricci scenze sulla complessità degli esseri umani non deve costituire un problema. Proponiamo pertanto di promuovere azioni con l’obiettivo di porre limite all’incremento delle classificazioni statistiche internazionali e di lavorare con criteri di classificazione che abbiano una solida base psicopatologica e, pertanto, provenienti esclusivamente dalla clinica. Barcellona, 14 aprile 2011 Recensioni Volevo essere una farfalla. Come l’anoressia mi ha insegnato a vivere di Michela Marzano (Mondadori, Milano 2011) Mariella Guzzoni Double Texture #8 2010 gelatin silver print edizione di 5, 20 × 30 cm dal ciclo Double Textures “C’era una volta un re. Seduto sul sofà. Che chiese alla sua serva: raccontami una storiella. La serva incominciò. C’era una volta un re. Seduto sul sofà. Che chiese alla sua serva: raccontami una storiella. La serva incominciò…”. Nella vita tutto si ripete e, come nella filastrocca che le raccontava la mamma da piccola, Michela Marzano ripercorre nel suo libro la traccia di una ripetizione perché, “prima o poi, si ripassa esattamente là dove ci si era incastrati”. Ai bambini piacciono le filastrocche. Si lasciano trasportare volentieri dalla cantilena di un filo di parole senza senso che li tiene ancorati al bordo dell’abisso. L’abisso di una domanda impossibile. Senza risposta. Cosa vuole quel re dalla sua serva? Cosa vogliono da lei coloro che regnano sulla sua esistenza: suo padre, sua madre, tutti quegli uomini che finiscono per abbandonarla? Si può passare accanto all’abisso senza sprofondarvi, “basta sapere che c’è”. Per proteggersi, dice la Marzano, proteggersi sempre, bisogna confidare nell’esistenza di un ponte sull’abisso. In un filo da afferrare saldamente e non mollare mai, qualunque cosa accada. Anche quando lui ti abbandona. Nel suo libro la Marzano tiene saldamente quel filo che le ha permesso di tessere un ponte sull’abisso e ci accompagna attraverso i tempi che l’hanno vista all’opera. È un lavoro passionale, il suo, e non solo in senso affettivo. È passionale perché tutto percorso dal filo di un desiderio che si traduce in volontà. Volontà ferrea, tenace; la stessa che l’ha incatenata per anni all’anoressia, ma dalla quale ha saputo trarre la forza che l’ha riconsegnata alla vita. Volevo essere una farfalla è un libro che trasmette fortemente il senso di un percorso, a partire dal linguaggio. Un linguaggio interrotto, spezzato, che passa dai ricordi alle riflessioni filosofiche, per incontrare un proverbio o una fiaba e rimanere sospeso, ogni volta, in un punto per il quale non c’è parola, non c’è una lingua che gli appartenga. Che possa dirlo. L’italiano dell’infanzia e della disperazione, il francese della disperazione e del successo. Il silenzio, che costruisce l’anello della catena di parole, l’unico modo per dire il vuoto, per dare un posto all’origine di una sofferenza che trova una sua regola di espressione nell’associazione libera. La stessa regola che permette e scandisce il percorso di un’analisi. C’è un vuoto al cuore del libro della Marzano. Un vuoto che la spinge a inanellare i ricordi, per incontrare ogni volta qualcosa di escluso dal ricordo. “Eppure so che tutto è cominciato lì. In quel momento di assenza.” Quando la mamma è stata ricoverata e si è spezzata per sempre la corda che le legava. “Tre piccole settimane.” Ma per una bambina di un anno e mezzo è l’eternità della perdita. Un “no” sulla cosa più importante. Un “no” che trasforma il mondo per sempre. Che scava un abisso inconcepibile, un abisso di 214 LETTERa eternità che si ripresenta ogni volta nell’abbandono di un uomo. Si può passare accanto all’abisso: basta sapere che c’è. Così si può fare del proprio corpo la “prova tangibile del vuoto colpevole” della propria esistenza. Meglio la prigione della dipendenza da cibo, della fame, che “l’angoscia terribile dell’assenza irreparabile”. Meglio incarnare quel vuoto, dargli un corpo da offrire all’altro nella sua purezza ideale, disincarnata. La Marzano testimonia di un corpo invadente, che man mano che si spoglia della carne colonizza il pensiero e al quale dedica molto del suo lavoro di filosofa: Penser le corps (puf, Parigi 2002), è curatrice del Dictionnaire du corps (puf, Parigi 2007), indaga la body art in Estensione del dominio della manipolazione (Mondadori, Milano 2009) e l’imperativo contemporaneo che sostiene il primato dell’immagine in Sii bella e stai zitta (Mondadori, Milano 2010), per non fare che alcuni esempi. C’è un vuoto al cuore dell’anoressia. Un vuoto insondabile rispetto al quale il sintomo si fa protezione, baluardo che tiene a distanza la disperazione. Ma può anche farsi “occasione per rimettere un po’ tutto in discussione” e per questo “non basta ricominciare a mangiare”, “non basta che tutto torni all’ordine”. “Niente cambia se non si riesce a dare un senso al proprio disturbo e a integrarlo all’interno della propria vita.” Niente cambia se non si riesce a rinunciare a quella sofferenza nota, per accogliere l’insondabile del dolore. Per Michela Marzano l’anoressia si dispone attorno al vuoto, ne è al tempo stesso sintomo e cura. Eppure l’autrice non sembra condividere l’ap- recensioni proccio di quelle che chiama “nuove teorie rivoluzionarie che si stanno diffondendo in questi ultimi anni… il soggetto senza inconscio, la ‘clinica del vuoto’, le nuove forme del sintomo e chi più ne ha più ne metta…”. “Oppure sì, forse, anche, talvolta, dipende…”. Da cosa dipende che si apra una possibilità di cura? Di una cura che non si limiti a ristabilire una regolarità alimentare, un peso-forma, ma che permetta di “negoziare con la realtà il prezzo della propria libertà”. Michela Marzano sembra saperlo molto bene. Lo sa perché l’ha vissuto sulla propria pelle. E si sente. Sa cosa chiedere a chi cura: di “capire che non è tanto il ‘sintomo’ che fa soffrire, ma la sofferenza che si trasforma in sintomo”. Allora stupisce la critica della Marzano perché appare ingenerosa, tanto quanto è invece generoso il racconto della sua esperienza. Tradisce una lettura frettolosa, o forse una conclusione anticipata, come lascia intuire la formula dubitativa che la chiude. È vero che l’anoressia non è “sempre e solo il sintomo di un mondo che non funziona”, ma ogni epoca ha i suoi sintomi e l’anoressia è uno dei segnali che ci vengono da un mondo che funziona nella tensione alla massificazione. C’è una sola risorsa che possa fare argine a questa tendenza senza alzare le barricate: la “responsabilità personale”. L’autrice chiama così quel filo che non ha mai perduto, anche quando si è spezzato, e che le ha permesso di imparare qualcosa dall’anoressia. Di imparare a vivere. La “clinica del vuoto” lavora cercando il bandolo di quel filo capace di richiamare alla vita la singolarità sepol- ta nell’omogeneità del sintomo. Lo cerca ogni volta. In ciascuna, una per una, cerca la forza di ciò che manca. La vitalità di un desiderio soffocato. Lo cerca quando incontra donne che, come la Marzano, sembrano avere tutto: “bellezza, intelligenza, sensibilità. Una famiglia, degli amici, dei diplomi”, ma “in quel magnifico tutto manca l’essenziale”. “Manca la voglia…” Manca la mancanza, la forza propulsiva del desiderio. La “clinica del vuoto”, per quanto abbia imparato a conoscere la pratica mimetica che si sostiene sul disturbo alimentare, nasce dalla consapevolezza che “non esistono le anoressiche e le bulimiche. Esistono solo tante persone che utilizzano il cibo per dire qualcosa”. Nasce dalla consapevolezza che l’unica vera risorsa è “ascoltare quello che ognuno dice, cerca, rivendica, supplica”. Ascoltare. “‘Ti rendi conto che mi hai rubato la gioia, la libertà?’ Se potessi dirglielo. Se potesse ascoltarmi…”. C’è un’altra dimensione che percorre il libro della Marzano e ne fa una sorta di lettera aperta al padre. Una lettera che si può scrivere quando la sofferenza urente che accompagna nella prima parte il tempo della ricerca, della rivendicazione, della supplica di un ascolto che non sa esserci si stempera nella consapevolezza che “c’è una frattura che è lì. Sempre presente. Che non scomparirà mai. Perché è parte di quello che sono stata e che continuo ad essere. Solo che prima non potevo accettarla”. Una lettera che si può scrivere quando si ricorda un tempo ormai trascorso. Il tempo in cui, non potendo più es- 215 sere il “miracolo” della mamma, si era impegnata a essere “l’orgoglio di papà”. Ma è “difficile essere imperfetta quando si è un miracolo vivente”. Allora spia i bisogni del padre per adattarvisi, per allontanarsi il più possibile “da tutto ciò che non voleva, non sopportava, non accettava”. Segue la traccia di una parola presa alla lettera. Ogni volta ci crede e ogni volta non incontra che un’ombra di se stessa stampata su un muro. Nonostante i successi, le malattie, i tentativi più estremi. “È difficile uscire dalla ripetizione. È difficile non essere più schiavi dello specchio deformante dello sguardo altrui. È difficile accettare di non essere capita, amata, accettata…” Fino a voler essere una farfalla, per non avere più bisogno di nessuno. Per diventare forte e libera. Finché una lunga, faticosa fila di parole interrotte non incontra un ascolto che l’accompagna a tracciare il bordo di quel vuoto. Senza più volerlo riempire, senza più volerlo incontrare nelle vesti di un amore impossibile. Perché è vero che “un amore impossibile non è mai un amore vero”, ma non è vero che “l’impossibile non fa parte della realtà” e, soprattutto, non è vero che Michela Marzano non ne vuole più sapere niente. La forza del suo desiderio, della sua responsabilità personale le ha permesso di incontrarlo nel percorso che ci ha raccontato. Di incontrarlo nella ripetizione fino ad arrivare ad accettare che il vuoto può farsi risorsa, perché: “l’amore si appoggia sempre e solo su tutto quello che ignoriamo di noi stessi. E che, nonostante tutto, non conosceremo mai”. Antonella Ramassotto 216 LETTERa Metafisica dei tubi di Amélie Nothomb (Guanda, Roma 2004) Metafisica dei tubi è la storia autobiografica di una prima infanzia, del passaggio di una bambina da “tubo”– Cosa – inscrivibile in uno stato “autistico” – a Soggetto. L’attraversamento di questa fase di bambina-tubo avviene attraverso l’incontro con il dono – come atto particolare – della cioccolata portatale dalla nonna. Da questo incontro Amélie inizia il suo percorso nell’infanzia e il suo dischiudersi al mondo. L’incontro con lo sguardo, con il desiderio dell’Altro, è ciò che le permette di accedere alla vita. Il libro inizia proprio con la descrizione della bambina come tubo e come nulla. “In principio era il nulla. E questo nulla non era né vuoto né vacuo: esso nominava solo se stesso. E Dio vide che questo era un bene. Per niente al mondo avrebbe creato alcunché. Il nulla non solo gli piaceva, ma addirittura lo appagava totalmente.” Perché “tubo”? Nella sua prima infanzia Amélietubo indugia in uno stato di oggetto inanimato, in una dimensione di non ancora Soggetto e di non ancora nel linguaggio. Un “tubo” è un involucro del vuoto. Come un tubo, lei è attraversata da ciò che la circonda senza che questo lasci traccia alcuna. Le sue uniche occupazioni sono “la deglutizione, la digestione e, conseguenza recensioni diretta, l’escrezione”. Lei è un vuoto delimitato da orifizi, un luogo cavo, non toccato dal desiderio, più prossimo alla Cosa che al Soggetto. È l’incontro con il Dono e con l’atto particolare – la nonna che le porge la sua preziosa cioccolata bianca portata in Giappone dal Belgio – ciò che la strappa dal magma del non senso. Così lei viene ripresa dalla non vita e agganciata al Simbolico. Attraverso un Altro che le parla – particolarizzandola –, un Altro che la guarda – attuando un atto di dono –, il tubo-Amélie può emergere dal caos primordiale e divenire un parlessere. “Un pezzo dopo l’altro, il cioccolato era entrato in me. Mi accorsi allora che al termine della defunta leccornia c’era una mano e che, ancora oltre, c’era un corpo sormontato da un viso benevolo.” L’incontro con la nonna – come ciò che resta del padre, capace di significare e donare – le permette l’accesso al linguaggio e l’incontro con l’alterità. Da questo sguardo inizia la vita. “Nessuna parola esprime, neanche lontanamente, la sua strana essenza. Eppure lo sguardo esiste. Poche sono le realtà che hanno un tale livello di esistenza. Che differenza c’è fra occhi che possiedono uno sguardo e occhi che ne sono sprovvisti? Questa differenza ha un nome: si chiama vita. La vita inizia laddove inizia lo sguardo.” Da questo incontro il tubo inizia il suo viaggio nel linguaggio. La penna dell’autrice disegna così un caleidoscopio di narrazioni colo- rate dalle ingenuità, dalle iperboli, dai paradossi della logica infantile. Il racconto si snoda narrando il suo rapporto divertito e magico con le parole. Da qui il suo incontro con l’incanto, con la bellezza del Giappone – paese in cui è ambientato il romanzo. Poi ancora con l’amore, con il mistero, con la differenza sessuale, con la menzogna, con la morte e con la vertigine. Il suo discorso trova incontri e inciampi. Qualcosa del suo sintomo – essere un tubo, essere niente – riemerge come angoscia nel suo incontro con le bocche orribili delle carpe. Le carpe le vengono regalate per il suo terzo compleanno come fraintendimento del suo desiderio. Lei aspettava un altro regalo. L’incontro con l’atto mancato della madre, l’interpretazione che Amélie fa di questo misconoscimento la fa inciampare nuovamente. Amélie viene attirata, aspirata – come ripetizione – verso il lato mortifero della pulsione orale. Davanti allo stagno, davanti all’orrore delle bocche spalancate dei pesci, si lascia scivolare nell’acqua. L’insopportabile per lei è l’incontro con la mancanza di un senso ultimo, l’incontro con la fine delle cose. Questo la fa precipitare nella vertigine “[…] che quello che ti è stato dato, ti verrà ripreso”. Il trauma dell’incontro con questo sapere bucato le lascia una ferita. La caduta nello stagno delle carpe, l’urto contro le pietre del fondale, le procura – nel Reale – una cicatrice. Scrive: “A volte mi chiedo se non sia stato tutto un sogno, se questa 217 avventura fondante non sia frutto della mia immaginazione. Allora vado a guardarmi allo specchio e vedo, sulla tempia sinistra, una cicatrice di un’eloquenza ammirevole”. Come uscirne? Sembra essere quella di Amélie Nothomb la stessa soluzione trovata da Marguerite Duras: scrivere. Scrivere si rivela essere la sua risposta singolare per dire qualcosa al di là della vertigine e della morte. Scrivere è: “(…) ricordo che conserva l’esistenza, è un girare attorno al bordo della pienezza inattingibile dei fatti della vita” (Marguerite Duras, Scrivere, Feltrinelli, Milano 1994). La scrittura non ha solo la funzione di tessere narrazioni, bensì di dare corpo a qualcosa che da sempre è perduto. La scrittura è un tentativo di dare significato a ciò che sembra smarrito, sprofondato in un “buco”. La scrittura è quindi un modo per accedere all’inconscio. Lacan, a riguardo, scrive: “(…) che la pratica della lettera converga con l’uso dell’inconscio, è tutto quello di cui io darò testimonianza” (Jacques Lacan, Omaggio a Marguerite Duras. Del rapimento di Lol V. Stein, in “La Psicoanalisi”, n. 8, Astrolabio, Roma 1990). La psicoanalisi è da sempre interessata all’arte e alla letteratura. Qualcosa di questa forma di sublimazione lascia – nota Lacan – gli “psicoanalisti… ancora storditi” (ivi), ammirati. Forse poiché la psicoanalisi è un suo parente prossimo nel senso che è, in qualche modo, una pratica poetica. Micaela Riboldi 218 LETTERa “alfabeta2. Mensile di intervento culturale” 1. Shahrazade e la crisi della ragione. Una premessa dovuta Perché un’assemblea di lavoratori della conoscenza riunita(si) lo scorso 30 settembre al Teatro Valle occupato di Roma decide di ispirarsi simbolicamente alla mitica figura di Shahrazade (si ricordino, per questo, i racconti di Le mille e una notte) per provare a raccontare le attuali e stringenti difficoltà del nostro paese e per tentare di raccontarsi in tempi di crisi? Presto detto! Lo si legge e piuttosto bene, anche se potrebbe sfuggire a uno sguardo poco attento, nel titolo di apertura della rivista “alfabeta2” n. 14, laddove si auspica, senza troppi sottintesi, che la figura femminile di “Shahrazade che inganna la crisi” possa sovvertire (cosi come accade nel racconto fitto di intrighi amorosi) un discorso (quello del re/ sultano, sic!) che la vorrebbe appagata e acquiescente al senso comune e che ci vorrebbe, uscendo dalla metafora, smarriti e inebetiti di fronte agli “incubi ed alle favole tristi” di quest’ultimo ventennio di deserto culturale e politico. Nell’editoriale della rivista, a chiarimento e sottolineatura ulteriore del compito di intervento culturale cui “alfabeta2” intende rispondere, si possono leggere, riprese e riportate felicemente ed efficacemente, le splendide parole di un amico immaginifico di Shahrazade, il Maurice Blanchot dell’Infinito intrattenimento: “Nominare il possibile, rispondere recensioni all’impossibile. Ogni parola iniziale comincia col rispondere, risposta a ciò che non si è ancora inteso, risposta attenta in cui si afferma l’attesa impaziente dell’ignoto e la speranza ansiosa della presenza”. Questi due passaggi, così scanditi, appassionati e incalzanti, come tutti gli interventi (ne vengono riferiti solo alcuni, quelli di Renato Nicolini, architetto, di Andrea Fumagalli, economista, e di Stefano Rodotà, giurista, rimandando alla loro lettura integrale all’interno della rivista) che si sono susseguiti nella giornata in cui il Teatro Valle occupato ha deciso di “uscire, letteralmente, fuori di sé” (peccato che non sia riportata la performance memorabile di Fabrizio Gifuni), mi hanno convinto della necessità e della bontà di ospitare all’interno della nostra lettera, con questa mia breve recensione, una rivista come “alfabeta2”, che ha da qualche tempo ripreso, con rinnovato entusiasmo e con “un’altra idea di ricchezza”, la propria pubblicazione dopo anni di interruzione, “perché il nostro tempo, ci pare, sia contrassegnato da una nuova emergenza: di segno diametralmente contrapposto a quello di allora (‘alfabeta’ durò 10 anni, dal 1979 al 1988), un’emergenza culturale, antropologica, economica. Dunque politica”. L’esigenza che qui vorrei autorizzare è quella di dare voce e spazio non solo a differenti apporti culturali, clinici e scientifici provenienti da campi di ricerca e di indagine a noi affini, ma di fare in modo, lavorando quindi per questo, di includere nella nostra rivista, nella nostra lettera, scritture, oserei dire, calligrafie sin- golari e contingenti, nello spirito della “deviazione e della sorpresa” che Louis Althusser ha ben tracciato in Le courant souterrain du matérialisme de la rencontre e che, in modo chiaro ed essenziale, Massimo Recalcati ha commentato nel numero 296-297 (posto in forma di allegato, marzo-giugno 2000) di “Aut Aut”. 2. Puntare l’indice all’indietro Volgendo, solo per un attimo, lo sguardo al numero 13 della rivista “alfabeta2” più “alfalibri” (Videocrazia e Passioni collettive ne sono il principale focus) mi permetto di suggerire la lettura, rispettivamente, di uno scritto di Franco Berardi Bifo dal titolo Desiderio e panico, quarant’anni dopo l’Anti-Edipo e di una recensione che Alberto Leiss in “alfalibri” (allegato al n. 13 della rivista) dedica al tema del “Fragile Maschile” commentando tre recenti libri di Luisa Muraro, Lea Melandri e del nostro Massimo Recalcati! In merito a Desiderio e panico di Franco Berardi Bifo mi preme evidenziare, semplicemente, come in ordine alla questione del desiderio, in cui si rispecchiò e non senza delle profonde ragioni e intuizioni (su tutte la potenza dissidente e dissenziente del desiderio) il movimento del ’77 e l’esperienza di Radio Alice a Bologna, l’autore rilegge in termini attuali L’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari sostenendo che occorrerebbe “partire dalla consapevolezza che il desiderio non è in sé una forza univocamente positiva (progressiva, liberante, felice) e che già nell’ultimo 219 capitolo di Qu’est-ce que la philosophie? Deleuze e Guattari avvertivano questo limite: “noi chiediamo soltanto un po’ d’ordine per proteggerci dal caos”, mentre, aggiunge Bifo, “un certo trionfalismo moltitudinario sembra oggi continuare questo fraintendimento o questa sottovalutazione”. Viene qui ripreso anche L’uomo senza inconscio di Massimo Recalcati che, occupandosi del disagio dell’ipermodernità, focalizza l’attenzione su alcune patologie/figure cliniche (panico, anoressia, dipendenza da sostanze tossiche) e che Bifo definisce sotto il profilo clinico-politico come “patologie della generazione connettiva precaria”. Mi fermo volutamente qui, ma il discorso sarebbe davvero di grande interesse, qualora ci fosse uno spazio pubblico di parola entro cui poterlo dibattere. Chissà?!? Alberto Leiss più direttamente, commentando Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna di Recalcati pone una domanda, recuperando un vecchio (?) adagio del giovane Karl Marx dei Manoscritti del 1844, su quale grado di civiltà si possa oggi intravedere a partire dalla relazione uomo-donna e ancor più esplicitamente, in questa panorama di padri e uomini piuttosto “fragili”, su come le donne lungo un percorso ricco di istanze emancipative e trasformative hanno cambiato gli uomini! Anche qui, mi rifugio in un chissà. 3. Puntare l’indice sul postmoderno? Cosa ne resta? Ma il merito indubbio della rivista “alfabeta2” n. 14 è quello di anno- 220 LETTERa verare tra le proprie pagine centrali un dibattito intenso e articolato sul postmoderno, riavviatosi in ragione di due avvenimenti. Il primo. Nel luglio 2011, il romanziere e giornalista Edward Docx pubblica sulla rivista “Prospect Magazine” un articolo col titolo Postmodernism Is Dead (tradotto integralmente da “la Repubblica” del 3 settembre con il titolo Addio postmoderno, benvenuti nell’era dell’autenticità). Il secondo, non più così recente e forse un po’ dimenticato, la pubblicazione di Addio alla verità (Meltemi, Roma 2009) di Gianni Vattimo, testo al quale i “detrattori” del postmodenismo fanno riferimento per segnalare un certa, se ho ben capito, obsolescente insistenza sul dispiegamento virtuoso e “potenzialmente” di rottura che sarebbe, nonostante un certo quadro involutivo, del tutto interno al movimento postmodernista, anche per come oggi si dà. Gli interventi che quasi si rincorrono sfogliando la rivista attraversano, da diverse prospettive, l’“antica” domanda, ma che evidentemente non cessa di interrogarci, sul modo di intendere i “fatti” e la famosa e nota affermazione di Nietzsche: “non esistono fatti ma solo interpretazioni”. L’articolo di Omar Calabrese dal titolo Cosa ne resta?, che apre la serie dei contributi sul tramonto del postmoderno, rievocando un lungo e inaugurale dibattito attorno al tema della crisi e del declino delle grandi narrazioni simboliche in Occidente e passando per Jean-Francoise Lyotard, Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti, curatori de Il pensiero debole del 1983, giunge in conclusione a recensioni domandarsi come sia stato e come sia possibile che un’indubbia innovazione originaria abbia lasciato il passo a un’espressione altrettanto indiscutibile di potere cortigiano e di degenerazione morale e intellettuale. Che ne sarebbe quindi del “carattere sovversivo di alcune manifestazioni del recente passato”? Prova a rispondere Maurizio Ferraris (cui rinvio per la lettura di un vivace dibattito con Gianni Vattimo sulle pagine de “la Repubblica”, 19 agosto 2011) che, passando acutamente in rassegna gli aspetti più in ombra di Jean-Francoise Lyotard, Michel Foucault e Jacques Derrida, osserva che sarebbe forse meglio, “se si tiene all’istanza emancipativa che ha animato il lavoro di questi autori”, sforzarsi di guardare anche “agli esiti involutivi della dialettica del postmoderno” e riprenderne l’insegnamento in direzione di “un nuovo illuminismo piuttosto che di un vecchio oscurantismo”. Parole forti, insomma, e che alluderebbero alla ricostruzione di un “pensiero forte”, che Massimo Ferraris avrebbe insieme ad altri autori ribattezzato “New Realism”, e che sarà tema di un convegno annunciato per la primavera prossima a Bonn. Cito, purtroppo en passant, l’avvincente tesi di Carlo Formenti che, in una disputa a distanza con Alberto Abruzzese, titola Il moderno non è mai finito per sostenere che “forse è il caso di prendere atto che gli ‘effetti del postmodernismo’ sono stati quelli di sancire il trionfo del mercato e di un nichilismo da borgatari berlusconiani”, causa prima quest’ultima di “ideologie reattive in cerca di autenticità”, su tutte quelle localiste, razziste e bigotte. Formenti conclude con un invito a pensarci su! Infine, spunto due passaggi, brevi e illuminanti, dagli articoli di Stefano Cristante (A cosa serve McLuhan) e di Fausto Curi (Mescolare le differenze senza abolirle) che chiudono questa ampia discussione sui tempi più o meno “finiti” del postmoderno. Stefano Cristante, considerando i lavori ad ampio spettro di Lyotard (La condizione postmoderna, 1979) e di McLuhan (Galassia Gutenberg, 1962 e Understanding Media, 1964) ammonisce sugli esiti di quel “pensiero medio” (quindi, né forte né debole) che negli ultimi trent’anni “ha dimostrato le straordinarie attitudini della modernità tecno nichilista a creare disagi di massa e a rendere abissi le diseguaglianze sociali”. Infine, faccio mia, per concludere e perché ne condivido lo spirito, la felice espressione di Curi: “per consentire un certo agio a me stesso e, spero, ai lettori, ho attinto i miei modelli là dove me li forniva la prossimità. Suppongo che essi bastino a mostrare che una delle principali funzioni della storia è mescolare le differenze senza abolirle”. Pino Pitasi Franco Basaglia Un laboratorio italiano a cura di Federico Leoni (Bruno Mondadori, Milano 2011) C’è un detto che circola ancora a Trieste e che riguarda l’incontro con Franco Basaglia: “se Basaglia non apriva il manicomio doveva chiu- 221 dere la città”. I detti sono come i soldi, circolano fra la gente finché viene loro riconosciuto un valore. Questo modo di dire, in particolare, ha il merito di far emergere un dato di fatto: Trieste era ed è una città piena di matti. Vivere a Trieste quindi significa convivere con i matti. Trovarli dappertutto insegna che non c’è un modo giusto di fare le cose bensì tanti modi e tanti mondi diversi. Il libro che ha curato Federico Leoni evoca questa diversità. I discorsi degli autori partono dal pensiero di Franco Basaglia per prendere poi strade diverse. Rovatti riflette sul rapporto dell’essere con la follia in una interrogazione radicale sul soggetto. Mistura lo immagina surrealista citando il potente testo di Antonin Artaud, Lettera ai direttori dei manicomi (“Non ci è possibile ammettere che si ostacoli il libero sviluppo di un delirio logico e legittimo al pari di ogni altra successione di idee e di azioni umane. La repressione degli impulsi antisociali è per principio chimerica e inaccettabile: tutti gli atti individuali sono antisociali. I pazzi sono le principali vittime della dittatura sociale, in nome dell’individualità tipica dell’uomo, e poiché le leggi non hanno il potere di rinchiudere tutti gli uomini che pensano e agiscono, pretendiamo la liberazione di questi forzati della sensibilità”). Le riflessioni di Mario Colucci hanno la particolarità di nascere a partire dal suo lavoro nella esperienza psichiatrica tracciata da Basaglia, attraverso uno sguardo lacaniano. Il suo pensiero poggia sulla pratica ed è per questo che può segnalare quel- 222 LETTERa lo che non va per il verso giusto. Il suo appello finale chiama in causa la psichiatria come scienza che esercita un potere sul soggetto e quindi che va costantemente interrogata sugli effetti che provoca. Federico Leoni studia le due fasi del discorso basagliano che spesso vengono pensate come contraddittorie, quella fenomenologica e quella anti-istituzionale. L’autore si orienta in questa analisi rileggendo l’articolo di Franco Basaglia Corpo, sguardo e silenzio e trova la vergogna come effetto dell’incontro sempre traumatico con l’altro. Velarsi e svelarsi in un gioco identitario (Franco Basaglia diceva che se una persona guarda un altro come un matto, questo si comporterà due volte come un folle, come se gli sguardi raddoppiassero l’attribuzione di un senso). Massimo Recalcati pensa il confine, il nodo BasagliaSartre-Lacan, un nodo di tre corde che si incontrano e si allontanano attraversando spesso gli stessi problemi. La malattia mentale viene pensata come confine, ma non come scioglimento del confine, bensì come un suo irrigidimento. Non è un caso che la rivoluzione di Basaglia sia partita da Gorizia e si sia radicalizzata a Trieste. Sono città di confine, città dove qualcosa finisce per iniziare altro. Giovanni Mierolo introduce Foucault come testo necessario per confrontarlo con Basaglia sullo sfondo di una lettura lacaniana. Il rapporto medico-paziente incarna una lotta di potere che la psicoanalisi saprà svelare nei suoi contenuti ambigui; soggetto e istituzione si annodano in un rapporto contraddittorio e necessario che segna la loro vita. Ne recensioni è esempio la citazione di Winston Churchill: “Prima siamo noi a dare forma agli edifici, poi sono questi a dare forma a noi”. Gabriella Farina pensa nel suo testo alla figura dell’intellettuale che incarnano Franco Basaglia e JeanPaul Sartre, una nuova modalità di pensiero in azione che si compromette con la sofferenza umana e lotta nel processo di liberazione degli oppressi. Rino Genovese riconosce a Basaglia una specificità tutta sua: quella d’essere un intellettuale specifico utopico che aspirando all’universale ha messo in atto una piccola liberazione particolare e concreta. Pierangelo Di Vittorio, partendo dall’esperienza basagliana, interroga una possibile deriva democratica basata nell’ipergestione, nell’illusione del controllo totale che esercita la sua azione attraverso i “tecnici”, senza interrogarsi sul senso etico e politico delle proprie scelte. Questo articolo possiede, a mio avviso, una grande attualità, poiché serve per spiegare il significato per nulla ingenuo di “governo tecnico”. Infine il libro curato da Leoni risponde, esso stesso, al proprio nome. Si tratta di un libro laboratorio, dove gli autori svolgono il loro mestiere con ampia libertà. Nella diversità del loro modo di pensare l’esperienza basagliana si coglie il rispetto e la difesa di un concetto che si è trasformato in Legge. La classificazione del diverso e la sua emarginazione sono però sempre in agguato, poiché rispondono a modi di pensiero che si sono sviluppati negli ultimi secoli in una società concentrata sull’avere. Bisogna stare all’erta. Bisogna conoscere un manicomio per capire gli effetti che provoca nelle persone, la chiusura disumanizzante: folli e poveri, doppiamente inesistenti. In proposito, a Basaglia piaceva citare un altro detto che condanna la povertà al suo destino di invisibilità identitaria: “Chi non ha, non è”. La lettura di questo libro diventa pertanto anche un’azione politica perché mantiene viva e rafforza l’idea della follia in città, della città che si fa carico responsabilmente di quello che produce. Aldo Becce Tra bosco e non bosco. Ragioni poetiche e gesti stilistici ne Il Galateo in Bosco di Andrea Zanzotto di Enio Sartori (Quodlibet, Macerata 2011) Nessun apparato teorico è stato più necessario al lavoro critico sull’opera di Andrea Zanzotto di quello della psicoanalisi lacaniana. Questa necessità ha permesso per esempio a un critico come Stefano Agosti, che ha fatto della riflessione lacaniana sull’inconscio strutturato come un linguaggio il nucleo teorico delle sue ricerche, di porsi, almeno fino a oggi, quale interprete privilegiato della poesia di Zanzotto. Nel saggio Tra bosco e non bosco. Ragioni poetiche e gesti stilistici ne Il Galateo in Bosco di Andrea Zanzotto, Enio Sartori prova coraggiosamente a entrare in una delle opere più importanti e dense di Zanzotto attraverso il registro del Reale. La 223 porta concettuale attraverso cui tenta questo ingresso è scelta seguendo alcune indicazioni di Zanzotto, che in un intervista su Il Galateo in Bosco del 1979 poneva il “‘tema’ di lalingua lacaniano” come riferimento creativo fondamentale della raccolta. Il tema di lalingua è proprio il titolo della seconda e decisiva parte del saggio di Sartori. Ma l’approdo a lalangue è possibile solo dopo un’operazione preliminare, un attraversamento critico della poesia Gnessulógo che costituisce la prima parte del saggio. Nella lettura di Sartori, in questo testo il poeta inscena “la complessa postura attraverso la quale, a partire dal sentirsi gnessulógo, egli si appresta ad abitare, o meglio a coltivare […] ‘bosco e non bosco’” (p. 9). Questa lettura del “sentirsi nessun luogo” zanzottiano è condotta su due linee fondamentali. Una linea heideggeriana, che si sviluppa sui concetti della Lichtung, dell’essere-per-la-morte e dell’abitare poeticamente; e una linea lacaniana, che trova nella definizione della faille rinvenibile in Encore come “luogo ove viene a iscriversi tutto quel che può articolarsi del significante” (p. 27 e Ancora, Einaudi, p. 80) il punto di congiunzione con le faglie geologiche e geopolitiche evocate da Zanzotto ne Il Galateo. A partire dalla faille Sartori può intrecciare le due linee di lettura, giungendo alla sua tesi: “la ricerca della possibilità di abitare poeticamente ‘in bosco’ […] non può che transitare attraverso una radicale esperienza poetica del linguaggio” (p. 9). Questo primo movimento si conclude dunque su un’indeterminatezza: “sentirsi nessun luogo” significa “aprirsi al luogo paradossale del fare 224 LETTERa poetico, un fare che mette in moto quella che […] viene definita esperienza lalinguistica della lingua” (p. 10). Sartori apre questa parte, che trova in lalangue il suo centro teorico, con un capitolo intitolato Andrea Zanzotto e Jacques Lacan, in cui ripercorre il ruolo che la parola dello psicoanalista ha assunto per il poeta in diverse fasi. In questo contesto, Sartori è però anche consapevole di compiere, come critico, un passo innovativo: “la centralità del tema di lalingua […] trova una scarsa attenzione da parte anche della critica più spinta sul versante psicoanalitico” (p. 83). Ma è altrettanto consapevole dei rischi di questo passo: “[l]a ragione di una tale ‘svista’ forse va attribuita […] alla indubbia difficoltà di ricostruire una effettiva e organica teoria lacaniana di lalangue” (ibidem). Come, dunque, Sartori ha affrontato questa difficoltà? Innanzitutto seguendo minuziosamente il modo in cui Zanzotto concepisce e fa reagire lalangue nel suo universo poetico. Il tema-guida lalangue viene così declinato con alcuni dei nodi concettuali più importanti dell’universo poetico di Zanzotto: lalingua e la lingua materna, lalingua e l’infanzia, lalingua e il balbettio, lalingua e il dialetto, lalingua e l’ipersonetto, lalingua e il Reale. La trattazione si sviluppa dunque facendo interagire il testo de Il Galateo, le prose di Zanzotto e i riferimenti al testo di Lacan, producendo una serie di rimandi di sicura suggestione e di grande interesse non solo per il critico o il lettore di Zanzotto, ma anche per lo psicoanalista. Degni di nota in questo senso due capitoli: quello dedicato alla riflessione zanzottiana sui rapporti tra lalingua e il dialetto (pp. 103-116) e quello, recensioni a esso intimamente connesso, in cui Sartori presenta il tema della “lingua pentecostale” (pp. 116-119). Rispetto a questa interazione, restano però insolute alcune difficoltà, che riguardano soprattutto la partecipazione in essa dei testi poetici de Il Galateo, spiegati più a livello del contenuto che analizzati nell’incidenza profonda delle figure, soprattutto foniche, in cui Sartori delimita il territorio di massima pertinenza di lalingua. Non si tratta solo di metodologia di analisi, questa difficoltà a entrare nei testi riguarda la stessa ingovernabilità euristica di lalangue. Formuliamola così: può lalingua ridursi a una retorica (identificandola per esempio, come fa Sartori a p. 76, con l’“ordine semiotico” di Kristeva)? Come evitare questa “elucubrazione di sapere” (Lacan) in sede critica? Almeno un gesto si pone come necessario, è quello di non isolare la linguisterie dalla pluralità degli “stili di pensiero” (Bottiroli) e dalla potenza figurale che si offrono nel simbolico, e pensarle in relazione causale dalla Cosa e dall’oggetto a. Nella trattazione di Sartori, questi concetti inestricabili (assieme a quelli dell’assenza, dell’Altro, del sinthomo ecc.) dal “tema” di lalingua, appaiono fugacemente, in forma di spiegazione, senza assurgere allo statuto di elementi operativi. Ma è proprio attorno alle articolazioni di questi concetti e alla loro operatività che si giocano le possibilità di una critica letteraria e di una psicoanalisi implicata al testo poetico: come la Cosa e l’oggetto a determinano l’andamento del senso in un singolare universo letterario? Ma al coraggio del nuovo è forse ingiusto chiedere tutto, e subito, meglio allora godere del donativo di una scrittura che onora i suoi assunti, perché realizza senza dubbio uno dei primi compiti etici della critica letteraria: rendere accessibile e accrescere il godimento del testo dell’autore, qui, su queste pagine di Enio Sartori, del grande poeta Andrea Zanzotto. Alberto Russo Tutti per uno (Les Mains en l’air) regia di Romain Goupil (Francia, 2010) Tentare di osservare il mondo attuale con gli occhi dei bambini non è affatto una passeggiata e non sono molti i registi che hanno questo coraggio. In passato ci sono riusciti e con ottimi risultati registi neorealisti del calibro di Vittorio De Sica, oppure registi francesi aderenti alla Nouvelle Vague come François Truffaut e come, anche se vi ha aderito in modo marginale, Louis Malle. Ora ci prova, e con discreti risultati, un altro regista francese: il giovane Romain Goupil. Con un’inquadratura tutt’altro che casuale sull’opera architettonica Ville Savoye (Poissy) di Le Corbusier, considerata monumento nazionale e manifesto dei cinque punti dell’architettura moderna (i pilastri, le terrazze giardino, la pianta libera, la finestra a nastro e la facciata libera), si apre l’ultimo lungometraggio del regista francese. La voce narrante è quella della settantenne Milana, che nel 2067 ricorda i fatti accaduti sessant’anni prima, quando era ancora alle elementari e 225 viveva con la propria famiglia di immigrati a Parigi, in un quartiere popolare del diciottesimo arrondissement. Tutti per uno, è il titolo della versione italiana non scelto dal regista. La traduzione letterale dell’ultima opera di Romain Goupil è “Le mani in alto”, titolo sicuramente più corretto e convincente per un lungometraggio che, con la voce narrante di Milana accompagnata in più momenti significativi da una ninna nanna canticchiata sottovoce, ci porta indietro nel tempo, per rivivere in flashback tempi e temi per noi molto attuali e vivi ai nostri giorni: l’amicizia e l’alleanza dei ragazzini nei gruppi di pari, l’immigrazione clandestina, le difficoltà di regolarizzazione e di integrazione, le politiche di espulsione del governo sotto la presidenza della Repubblica di Nicolas Sarkozy e l’indignazione e la solidarietà della popolazione francese. È un tema scottante quello della lotta all’immigrazione irregolare intrapresa dalla politica di Sarkozy, che è giunta a mettere in atto azioni durissime e altamente discutibili come le retate nelle scuole per far uscire allo scoperto le famiglie degli irregolari, i cosiddetti sans papier, che qui viene affrontato nella forma di un’aperta denuncia. Nell’opera di Goupil gli adulti fanno da sfondo, perché i veri protagonisti sono i bambini, ossia Milana e i suoi compagni di scuola e di giochi. Bambini che affrontano questa situazione a modo loro, contrassegnati dalla solidarietà, dall’altruismo, dall’amicizia, dall’accettazione del diverso, lo straniero, e dalla scoperta del mondo propri di quell’età che molti adulti hanno cancellato dalla memoria. Milana va a scuola a Parigi, in una 226 LETTERa classe numerosa come altre, composta da trenta bambini con molti stranieri. Fa parte di una piccola combriccola di cinque ragazzini spensierati che hanno trovato un nascondiglio in una cantina nei pressi della scuola, dove pianificano le loro avventure e le loro malefatte (vendita di videogiochi in dvd contraffatti e piccoli furti di caramelle). Tutto fila liscio, finché l’arresto di uno di loro, Youssef, e della sua famiglia, nonché il suicidio di una madre la cui famiglia rischia l’espulsione, non scatena una reazione a catena che porterà Cendrine (interpretata da Valeria Bruni Tedeschi, cognata del presidente francese), mamma di Blaise e Alice, a prendersi cura di Milana, anch’essa in Francia con la famiglia cecena senza permesso di soggiorno. Da qui nasce il piano di fuga della banda per proteggere Milana dall’espulsione, gesto poi imitato da altri bambini in altre città della Francia, come mostrano sequenze di repertorio integrate nella pellicola. Si tratta di un film “a misura di bambino”. L’opera accantona la prospettiva del mondo adulto in quanto è centrata sui bimbi, sulle loro esigenze e sui loro ritmi, basti pensare al racconto, alla recitazione e alle inquadrature, spesso alla loro altezza per meglio seguirne i movimenti, i gesti e gli sguardi, nonché al modo di analizzare gli accadimenti che li toccano direttamente. Romain Goupil ha fatto la gavetta come assistente di Jean-Luc Godard e di Roman Polansky. Già conosciuto come attore, nonché come sceneggiatore di Si salvi chi può (1980) di JeanLuc Godard e di À mort la mort! (1999) di cui è stato anche regista, ha presenta- recensioni to questo suo ultimo lungometraggio come “Evento Speciale del Festival del cinema di Cannes 2010”. Il regista racconta come nasce l’idea del film: “Nel 2007, quando Sarkozy ha cercato di sedurre l’estrema destra, ha decretato questa politica del rimpatrio forzato, anche per le famiglie e i bambini, che ha provocato in me un disgusto totale, un sentimento di rivolta. Ho fatto questo film non per denunciare ma per rinascere, far vedere l’assurdo in cui viviamo. In Italia accade lo stesso: si fa leva sulle paure della popolazione, si cerca di compiacerla con pratiche incivili quando dovremmo essere fieri di accogliere queste persone. Nell’agosto 2010 con il rimpatrio forzato dei rom abbiamo raggiunto l’apice di questa politica allucinante”. Come la Ville Savoye rappresenta, per l’epoca in cui fu costruita, una rottura dei rigidi schemi e delle regole dell’architettura con nuove forme più libere, anche la politica, nel trattamento dell’immigrazione irregolare, per il regista dovrebbe aprirsi ad approcci più flessibili e maggiormente adeguati alle esigenze dei tempi. Ma tornando ai nostri bambini protagonisti, verranno trovati i componenti della banda scomparsi nel nulla? Milana resterà nella famiglia di Blaise e Alice dove ha conosciuto l’amicizia e anche il primo amore infantile o verrà regolarizzata con la conseguenza di dover tornare nella propria famiglia? Lo si saprà solo guardando il film, che molto fa riflettere ed è in grado di insegnare attraverso lo sguardo dei bambini. Joseph Moyersoen This is England regia di Shane Meadows (Inghilterra, 2006) Anno 1983. Le immagini di repertorio che accompagnano i titoli di apertura scorrono veloci sullo schermo: la Lady di Ferro Margaret Thatcher incontra Ronald Reagan, le navi della Marina britannica salpano verso l’Argentina, il matrimonio di Carlo d’Inghilterra e Diana Spencer, i giovani si scatenano in discoteca e con il cubo di Rubik mentre sulle strade scendono in massa i ribelli arrabbiati e si moltiplicano i gruppi di estremisti skinhead. Il piccolo Shaun, dodici anni e qualche chilo di troppo, vive con la madre che, in un giorno come altri, lo sveglia per farlo andare a scuola. Shaun fatica a trascinarsi giù dal letto e si capisce subito che non ha una vita facile: il padre è morto durante la guerra delle Falkland e dalla sua scomparsa la moglie non si è più ripresa. Per la sua mole, il suo essere un po’ goffo, solitario e “diverso” dagli altri, Shaun è preso di mira da tutti, soprattutto in ambito scolastico dove, contrariamente a quello che si pensa oggi, gli atti di bullismo regnano sovrani. Quello stesso giorno, rientrando da scuola, Shaun incontra una banda di ragazzi sbandati e con la testa rasata capitanati da Woody, che lo prende subito in simpatia e lo trascina con sé nei propri passatempi strampalati come gironzolare nei soliti luoghi di ritrovo o organizzare scampagnate per distruggere abitazioni periferiche da poco abbandonate. Fin qui è una storia come un’al- 227 tra, in cui un ragazzino si divide tra la sua famiglia naturale e la sua nuova famiglia amicale. Ma l’arrivo di un ex amico di Woody, Combo, che ha trascorso tre anni in carcere e si è legato a una banda di skinhead che lo ha convinto ad accogliere l’idea razzista e nazionalista del National Front inglese, scombussola la routine della banda, i suoi equilibri interni, i passatempi e i giochi nel quartiere. Shaun è subito affascinato da Combo, un giovane rasato, tatuato, deciso e determinato, che sembra non aver paura di nulla e di nessuno, tanto da diventare subito il suo protetto. Nella stanza di Shaun la bandiera di san Giorgio, emblema per gli skinhead di supremazia dei bianchi rispetto agli altri popoli, prende il posto dei poster dei beniamini di molti giovani dell’epoca. Ci sono molte similitudini tra la storia di Shaun e il coinvolgimento dei ragazzi minorenni di oggi nelle bande, forse meno degli anni ottanta, rispetto agli skinhead, e più in bande emergenti. La pellicola di Shane Meadows ha vinto il Premio Speciale della Giuria al Festival di Roma del 2006, e nonostante il Torino Film Festival l’abbia già ospitato due volte, esce sugli schermi italiani solo nell’autunno del 2011, fortunatamente con il titolo originale. L’opera sembra avere una struttura semplice, con uno stile che richiama il naturalismo dei suoi connazionali Ken Loach e Mike Leigh, ma in realtà è scandito con tempi più rapidi, è più elettrico e complesso, raccontato con un approccio personale e viscerale. È un’opera personale, una 228 LETTERa storia d’iniziazione e di formazione che proietta un ragazzino, nel corso di un’estate burrascosa, in modo anche traumatico, dall’età infantile all’età adolescenziale. Va segnalato che si tratta anche di un’interessante pellicola a valenza storica, sia per le sequenze iniziali sia per quelle finali composte da filmati di repertorio che raccontano l’Inghilterra agli inizi degli anni ottanta, sia per la riflessione di carattere socioantropologico sui gruppi skinhead, la loro cultura e le loro idee neonaziste. Interrogando il regista sul carattere autobiografico del film, quest’ultimo risponde: “Sì, sono stato uno skin e per un periodo ho avuto una mia banda, ma poi me ne sono distaccato. Quando ho incontrato il produttore di This is England avevo un paio di idee in testa per un film, ma questo soggetto parzialmente autobiografico era quello che ci convinceva di più. Anche perché il setting era perfetto: parlava di un tempo senza Internet, più tribale, con pochi canali in tv, le cassette al posto dei dvd, e un modo di fare informazione completamente diverso. Ci sono bambini che oggi non possono credere che vivessimo così”. Rispetto invece alla straordinaria performance del giovane protagonista, Thomas Turgoose, e al modo in cui il regista ha trovato il suo attore non professionista, lo stesso racconta: “Era l’aspetto più difficile e rischioso del film. L’ho cercato ovunque per quattro mesi senza trovarlo, poi mi sono affidato a un grandissimo casting director, Des Hamilton, che ha cominciato a portarmi nelle comunità per ragazzi difficili, nei centri commerciali, per strada, alla ricerca di ragazzini ‘veri’, cioè quelli che fumano, bevono e non gliene frega niente di essere o non essere parte di un film. Quando ho visto Thomas ho capito che era perfetto: non aveva mai recitato, era ribelle a scuola, e naturalmente c’era la possibilità che cominciasse ma non finisse mai il film. Valeva la pena provare: c’era qualcosa di speciale in lui”. Tornando al nostro Shaun, gli eventi a cui è confrontato diventano via via sempre più crudi e violenti, fino a farlo desistere volontariamente dal mantenere il rapporto con Combo e i suoi adepti, a loro volta in contatto con altri skinhead più altolocati e introdotti ai “piani alti”. Ma quando l’amico Micky viene brutalmente pestato a sangue da Combo sotto l’effetto degli stupefacenti, Shaun resta sconvolto e si ritira. Qui il regista utilizza un espediente ben conosciuto per mostrare il senso di abbandono e di tradimento subito da Shaun, le immagini che nei pensieri di Shaun si sovrappongono sono tutte legate a scene dal fronte, scene di morte e feriti di guerra, il ritratto del padre che il ragazzo stringe tra le mani, e solo in quel momento la famiglia naturale di Shaun torna a essere per lui la vera famiglia mentre il gruppo amicale perde quel ruolo principale e attraente che aveva avuto finora. Shaun è di nuovo solitario, ma questa volta ha il coraggio delle sue azioni, emblematico il lancio a mare della bandiera di san Giorgio, fino a quel momento suo emblema e simbolo di coraggio, forza e sicurezza. Joseph Moyersoen Omaggio a Zanzotto Addio a Zanzotto Alla fine del suo essere stato Alberto Russo È con commozione profonda che apprendiamo che Andrea Zanzotto non è più al mondo. Un tale uomo, con il proprio essere nel linguaggio ha dilatato e arricchito il nostro spazio simbolico, estraendo dall’impossibile al fuoco del desiderio materia verbale lavorata in sublime in versi contemporanei all’altezza della classicità (Contini: “il più grande poeta italiano dopo Montale”), versi che si offrono, alla ripetizione, come sollievo alle catene che a debito ci legano; la sua scomparsa, sapere che Zanzotto non è più nel linguaggio ci risvuota a un trauma muto, ci ustiona a un super-cadere. Fu tra i primi, in Italia, a intuire la portata della parola di Lacan, ma fu certo unico nel modo di sentirla e di seguirne le tracce all’estremo in un’esperienza, quella poetica, a cui pochissimi furono tanto fedeli. Zanzotto non è più nel linguaggio, ma la sua opera è ora più viva, poiché la sua parola invoca ora chiunque alla sua lettura, alla responsabilità di scavarsi, dalla sua illeggibilità, una propria posizione nella lingua, rendere vivibile la vita in un segno da fare amore, insegnamento. La ricchezza della sua poesia garantisce agli interpreti secoli di inesauribili sforzi piaceri scoperte 232 Alberto Russo in essa si cela certo un Lacan segreto fatto reagire con tutte le altre forze del paesaggio-parola, fatto germogliare nella dialettica trasgressiva con la tradizione, con la Madre-Norma del linguaggio poetico più autentico. E adesso, alla fine del suo essere stato, si apre il tempo della testimonianza, la sua, comprenderla, comprenderci in essa: Futura età, urto di pietra sulfureo sangue che escludi che inintelligibili fai questi fiori e gridi ed amori, non-uomo mi depongo ad attenderti senza nulla attendere, già domani con me nel mio fuisse, pieghe tra pieghe della terra cieca ad ogni tentazione d’alba (Fuisse, in Vocativo, 1957) Fernando Bandini invita a pensare alla poesia di Zanzotto come a una “esperienza che oggi si presenta con deciso rilievo nel panorama europeo”. Questo giudizio rappresenta un’occasione di singolarizzazione per il movimento psicoanalitico italiano. Affinché questa occasione trovi delle realizzazioni di valore, l’interesse per la poesia di Zanzotto non deve limitarsi a una lettura guidata dalle (illuminanti) prose in cui il poeta rivela i suoi debiti con Freud e Lacan, ma deve restare vivo continuando a scavare nell’ignoto della miniera d’oro della sua “esperienza di linguaggio” (Agosti), in cui, soprattutto nelle ultime raccolte, molto è ancora da indagare. Un simile alleato promette prospettive di ricerca, una ricerca che la psicoanalisi in Italia può fare propria. Zanzotto è un poeta che resiste senza dubbio alle traduzioni, ma nella sua poesia dimora irriducibile una profonda italianità (civico-letteraria). Nel dialetto (e nel latino) è ancor questa italianità a esprimersi, questa fedeltà al senso profondo della nostra tradizione poetica. Double Textures Ho chiesto aiuto alla luce. La luce ha scritto per me. Ha sovrascritto per me. Double Textures è l’evoluzone del ciclo Cortecce, un lavoro iniziato molti anni fa, paesaggi mentali tra natura e vissuto, che potrebbero non finire mai. Un viaggio tra le magiche forme della natura che mi hanno emozionato e mi emozionano come piccole scoperte, che evocano in me pezzi di vita. Memorie? Forse, difficile da dire. Sovrascritto, riscritto, ridetto, ri-cercato. Dettagli, piccoli piccoli, che cerco ovunque, non so perché. Il vuoto della pellicola, l’infinito istante dello scatto, del respiro trattenuto. Trattenuto due volte… Il secondo più forte del primo, la luce non è come la matita. Non la puoi prendere… Il vuoto, quella strana parentela tra arte e psicoanalisi. Mariella Guzzoni Double Texture #1 2010 gelatin silver print edizione di 5, 20 × 30 cm dal ciclo Double Textures Carlo Viganò È con grande dispiacere che abbiamo appreso la scomparsa di Carlo Viganò, avvenuta all’inizio di febbraio, nella sua casa di Milano. Molti di noi lo hanno conosciuto e hanno condiviso con lui l’impegno militante nel campo della psicoanalisi. Analizzante di Jacques Lacan – senza mai fare di questa filiazione una bandiera –, è stato in Italia uno dei primi psicoanalisti formatisi alla sua Scuola e si è prodigato generosamente per diffondere il suo insegnamento nel nostro paese. Tra i pochissimi psicoanalisti italiani ad essere nominato membro dell’École de la Cause freudienne col titolo di ame, è stato uno dei protagonisti della tormentata storia del lacanismo italiano e ha partecipato con entusiasmo alla fondazione della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi di cui ha ricoperto importanti incarichi istituzionali e di cui è stato membro autorevole. Ha portato tra i primi la psicoanalisi in ospedale e nelle istituzioni della salute mentale dove come psichiatra ha lavorato per una vita interessandosi in particolare alla clinica della psicosi, campo nel quale ha prodotto i suoi sforzi teorici maggiori e i suoi scritti più interessanti. Ma ha anche mostrato curiosità e vivo interesse per tutte quelle applicazioni della psicoanalisi alla terapeutica che apparivano meno scolastiche e più creative, come è avvenuto nel caso della pratica dello psicodramma. Nel lavoro ha sempre privilegiato la dimensione del collettivo dove riusciva a contagiare con il suo entusiasmo e la sua assenza di conformismo. È stato stroncato da una grave malattia che non gli ha impedito di 240 LETTERa assumere, già malato, l’incarico di segretario cittadino della slp e di lavorare con i suoi pazienti sino ai suoi ultimi istanti. La sua passione autentica per la psicoanalisi resta per noi, insieme alla memoria della sua persona per chi lo ha conosciuto, una testimonianza preziosa che ci lascia in eredità. Associazione Lacaniana Italiana di Psicoanalisi Lettera Sì, ma non qui… Angelo Villa n. 1 – 2011 i legami e l’inconscio La comunità che viene Giovanni Mierolo Editoriale formazione dello psicoanalista monografia Il bambino del tubo Fabio Tognassi rivista di clinica e cultura psicoanalitica Legami psicoanalitici e politiche della psicoanalisi: un’introduzione Francesco Giglio Le aporie del desiderio Massimo Recalcati Il contributo della nozione lacaniana di godimento alla psicopatologia contemporanea Patrick Landman Essere lacaniani oggi… malgrado Lacan Mauro Milanaccio Paradossi dell’identificazione nella formazione dell’analista María Teresa Rodríguez Istoriare il reale. Sulla “contemporaneità” della psicoanalisi Giancarlo Ricci “Je t’aime… moi non plus”. Breve storia di una rottura. Amore e odio tra Wladimir Granoff e Jacques Lacan Michel Plon Transfert analitico e transfert istituzionale Franco Lolli Freud, Jung: rottura e repliche Francesco Giglio Logica del sinthomo e legame sociale: Freud, Joyce, Lacan Ramón Menéndez Dalla benda al nastro di Moebius. Passaggio dal furor sanandi a situare l’inguaribile Mariela Castrillejo psicoanalisi implicata Ricominciare dal simbolico. Singolarità e flessibilità nella concezione psicoanalitica del linguaggio Giovanni Bottiroli Sguardo sulla storia, puntuazione sulla formazione. Venticinque anni di Après-Coup Paola Mieli recensioni 2.2010 Annali del dipartimento clinico “G. Lemoine” IRPA – Istituto di Ricerca di Psicoanalisi Applicata 3.2011 Annali del dipartimento clinico “G. Lemoine” IRPA – Istituto di Ricerca di Psicoanalisi Applicata Follia, psicosi e delirio a cura di Franco Lolli L’altro sesso a cura di Anna Zanon Introduzione di Franco Lolli Introduzione di Anna Zanon Glaciazione del soggetto: dalla melanconia freudiana alla melanconia lacaniana di Massimo Recalcati I contributi della psicoanalisi postfreudiana alla questione femminile di Silvia Vegetti Finzi La teoria della psicosi nel Seminario iii di Jacques Lacan di Franco Lolli Amori e godimenti femminili di Massimo Recalcati Il caso dei deliri bizzarri: macchine e delirio di Mario Rossi Monti La madre, la fobia e la sessualità femminile di Isabelle Morin Schizofrenia e paranoia: due paradigmi per le scienze umane di Bruno Moroncini Quando l’Altro è un’altra di Rosella Prezzo Psicosi e campo istituzionale di Antonello Correale Spinta alla donna e spinta all’eccezione di Jean-Claude Maleval Vivere con la propria psicosi quando si è un bambino di Laure Thibaudeau Come una donna può concludere un’analisi di Mariela Castrillejo Nella collana “lacaniana”: Tra le pubblicazioni di et al./edizioni: Pierre Bruno, Marie-Jean Sauret Ego e io prefazione di Massimo Recalcati Jorge Alemán, Sergio Larriera L’inconscio e la voce Esistenza e tempo tra Lacan e Heidegger prefazione e cura di Matteo Bonazzi Pierre Bruno Antonin Artaud Realtà e poesia prefazione e cura di Alberto Russo Eugénie Lemoine-Luccioni Il taglio femminile Saggio psicoanalitico sul narcisismo a cura di Ombretta Prandini postfazione di Annarosa Buttarelli di prossima pubblicazione: Il reale del capitalismo a cura di Alex Pagliardini contributi di Massimo Recalcati, Alex Pagliardini, Laura Bazzicalupo, Davide Acampora, Massimo Adinolfi, Marco Gatto, Antonio Lucci, Sergio Benvenuto, Luciano De Fiore, Pietro Barcellona, Rocco Ronchi Elsa Coriat Puoi perdermi? La psicoanalisi nella clinica dei bambini piccoli con grandi problemi prefazione di María Teresa Rodríguez nella collana “Punctum”: Daniela Barcella Sintomi, strappi, anacronismi Il potere delle immagini secondo Georges Didi-Huberman postfazione di Fulvio Carmagnola Nazir Hamad, Jean-Paul Hiltenbrand, Charles Melman, Jean-Jacques Tyszler Disagio nella modernità prefazione di Marisa Fiumanò postfazione di Ferruccio Capelli Cesare Lombroso, Guglielmo Ferrero La donna delinquente, la prostituta e la donna normale prefazione di Mary Gibson e Nicole Hahn Rafter Cesare Lombroso Ricerche sui fenomeni ipnotici e spiritici saggio introduttivo di Giorgio Colombo Corrado Bizzarri Criminali o folli Nel labirinto della perizia psichiatrica Carla Lonzi Sputiamo su Hegel e altri scritti postfazione di Maria Luisa Boccia Carla Lonzi Taci, anzi parla Diario di una femminista postfazione di Annarosa Buttarelli Carla Lonzi Autoritratto prefazione di Laura Iamurri Carla Lonzi Vai pure Dialogo con Pietro Consagra Carla Lonzi Scritti sull’arte prefazione di Laura Iamurri a cura di Lara Conte, Laura Iamurri, Vanessa Martina Arjun Appadurai Le aspitazioni nutrono la democrazia prefazione di Ota De Leonardis Henri Joly La questione degli stranieri Platone e l’alterità Massimo Amato L’enigma della moneta Marianella Sclavi, Lawrence E. Susskind Confronto creativo Dal diritto di parola al diritto di essere ascoltati con una conversazione tra Marianella Sclavi e Giuliano Amato di prossima pubblicazione: Laura Pigozzi Chi è la più cattiva del reame? Figlie, madri e matrigne nelle nuove famiglie Stampato nel mese di marzo 2012 per conto di et al. S.r.l. da Galli Thierry Stampa, Milano