Se otto ore vi sembran poche - Piccolo Opificio Sociologico
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Se otto ore vi sembran poche - Piccolo Opificio Sociologico
1 _____________________________________________________________________________________ Se otto ore vi sembran poche, provate voi a lavorar! Politiche di conciliazione famiglia-lavoro in Europa e in Italia Raffaella Maiullo [email protected] “Come i caleidoscopi che di tanto in tanto girano, la società dispone successivamente in modo diverso elementi che si erano creduti immutabili” [All’ombra delle fanciulle in fiore, Marcel Proust] Il titolo volutamente provocatorio, vuole essere esemplificativo di una condizione, ancora oggi, di grave diseguaglianza tra gli uomini e le donne. Quando, nel 1905 le mondine cantavano “se otto ore vi sembran poche provate voi a lavorar…” si preparava il progetto di legge che riduceva a otto ore la giornata lavorativa delle mondariso. Inoltre a quello sfruttamento se ne aggiungeva un altro ugualmente grave: la delega totalmente femminile della cura domestica; le otto ore (che erano molte di più) si addizionavano alle ore che la donna doveva dedicare alla famiglia. Se da una parte, l’Europa ha dimostrato una certa attenzione a politiche che tutelino la famiglia dall’altra la condotta di alcuni Paesi non ha fatto altro che perpetrare il divario sociale che tiene da un lato i maschi (bianchi e occidentali) e dall’altro le femmine. Dunque, provando a fare i conti con questa realtà si cercherà di descrivere il sistema attuale e di indicare come e cosa si sta facendo in Europa per quanto riguarda la condizione del lavoro femminile in presenza di quello che è noto come il problema della cura che tradizionalmente spetta alle donne. Sin dalla nascita, si socializzano maschi e femmine in modo tale che questi definiscano in modo netto le loro future connotazioni all’interno del contesto sociale. Andando dai giochi alle letture, dall’abbigliamento e soprattutto dalla riproduzione dei comportamenti collettivi i, e non solo. Un fattore fortemente disgregante è rappresentato dalla linguistica, non soltanto per come vengano utilizzati alcuni termini con intenzionalità offensive nella quotidianità, tutti volti a rimarcare la debolezza della donna rispetto alla condizione di maschio; ma soprattutto per quello che riguarda, in relazione alla lingua italiana, la declinazione totalmente femminile di alcuni lavori tipici della cura domestica: casalinga (ma anche in inglese housewife, in tedesco hausfrau, in francese femme ou foyer, in spagnolo mujer casera e così via), badante, tata, infermiera; tutti termini che hanno trovato una declinazione al maschile in tempi modestamente recenti. 2 _____________________________________________________________________________________ Tenendo ben presente che la famiglia, intesa come soggetto sociale, ha assunto nuove forme e connotazioni, risulterà doveroso specificare che in questo frangente verrà usato come focus ciò che la condizione femminile all’interno del nucleo familiare tradizionale rappresenta. L’Europa è caratterizzata da sistemi di welfare molto diversi tra loro, dove le trasformazioni della famiglia e della società in generale hanno influenzato in modo molto eterogeneo le politiche. Ci si trova così, ad osservare differenze non trascurabili tra i vari contesti locali. La famiglia, cruciale all’interno della nostra speculazione, permetterà di descrivere come e quanto l’influenza culturale e storico-sociale di questo gruppo tipico abbia esacerbato in alcune zone le differenze tra uomo e donna nel mercato del lavoro; sicché più avanti rifletteremo su questo punto, e del fatto che sia trascurato come potenziale motore propulsore dell’economia. Questa differenza è figlia di numerosi fattori e ha fatto da sfondo alla crisi economica che ha interessato l’Europa. Tuttavia, questa condizione di difficoltà non è stata generalizzata poiché, banalmente alcuni Paesi sono più in crisi di altri. Questo è accaduto soprattutto perché hanno risposto in maniera difforme alle trasformazioni del mercato del lavoro. Chi, come la gran parte dei Paesi collocati nella zona scandinava ha trasformato il sistema di welfare facendo attenzione a sostenere il lavoro delle donne, garantendo la tutela del diritto familiare e investendo in politiche di conciliazione ha ottenuto maggiore equità, impegnandosi anche a mutare l’approccio al mondo del lavoro retribuito non più incentrato sul mantenimento dello stesso impiego per tutta la vita. Questi sistemi, che sembravano inizialmente aver peggiorato le condizioni collettive in seguito ad un aumento delle imposte e un nuovo sistema pensionistico in compenso hanno contribuito a migliorare i servizi di cura e conciliazione e garantito sostegni alle transizioni fuori e dentro il mercato del lavoro. Al contrario, Paesi come l’Italia - che assumerà un ruolo di spicco nella nostra osservazione - hanno generato un welfare troppo poco universalistico, categoriale e frammentato con molti punti deboli che l’ha resa vulnerabili ai momenti economicamente difficili. In più, la scarsissima presenza di sistemi che proteggano le categorie ritenute deboli e politiche di conciliazione inadeguate addizionate all’eccessiva frammentazione hanno fatto in modo che si arrivasse impreparati di fronte alle trasformazioni del mercato del lavoro, introducendo precarietà in ceti fino a poco tempo prima sicuri dal rischio della povertà. È accaduto, dunque, che la crisi economica, abbia indebolito ulteriormente un sistema che già presentava delle falle senza cogliere le opportunità di trasformazione e reinterpretazione del sistema, al contrario, avvertendo la necessità di riduzioni senza compensazioni. Pur essendo approdati ad un sistema pensionistico equivalente, da retributivo a contribuitivo, l’Europa è ancora ben lontana da un welfare comune. Osserviamo che alcune realtà abbiano preso i loro sistemi sociali come modelli di cittadinanza, consentendo ai cittadini l’identificazione con un esempio di comportamento che non è solo la descrizione di un welfare ben costruito ma un vero e 3 _____________________________________________________________________________________ proprio modus vivendi. Così, se da un lato l’omologazione è avvenuta in senso restrittivo per quanto riguarda il modello pensionistico, dall’altro non è stato lo stesso per quanto concerneva le politiche di conciliazione famiglia-lavoro pur essendovi state raccomandazioni in senso perentorio da parte delle direttive EU. Quello che si era pronosticato con l’Agenda di Lisbona rimandava a una ritematizzazione della politica sociale dove l’enfasi si spostava dall’uguaglianza di genere ad obiettivi più ampi, come l’allargamento della base occupazionale e sostegno alla natalità. Tuttavia, questo progetto non ha trovato attuazione. Nel 2010 è stata approvata la strategia “Europa 2020” che aveva in seno il progetto di una crescita sostenibile e prevedeva una maggiore inclusività sociale, fondata su coesione territoriale e un alto tasso di occupazione. Questi obiettivi trovano una declinazione quantitativa da raggiungere entro il 2020, appunto. Ovvero un livello di occupazione al 75% (di età compresa tra i 20 e 64 anni). In questo quadro propositivistico tuttavia, manca una dimensione di genere volta alla tutela del lavoro e della famiglia. Ciò che ci interessa è presentare una panoramica della condizione femminile per quanto riguarda le politiche pubbliche dal punto di vista della divisione del lavoro retribuito e non retribuito all’interno del contesto europeo e più dettagliatamente per quanto riguarda il panorama italiano. In prima istanza si cercherà di discutere sul legame tra la divisione di genere nel lavoro familiare non retribuito e la disuguaglianza nel mercato del lavoro, tenendo sempre presente come e quanto l’influenza della tradizionale percezione della figura femminile, sia da parte degli uomini che delle donne, vada a minare la costruzione di un equilibrio che non riesce a stabilizzarsi. Andremo ad analizzare quali sono le problematiche legate alla questione del mercato del lavoro e che impediscono la fluidità del percorso lavorativo della donna con prole. Analizzeremo l’insieme di politiche che contribuiscono a rafforzare o, al contrario, a diminuire l'impatto di genere del genitore sulla partecipazione al mercato del lavoro, cercando di tracciare un percorso che si interroghi sulla percezione della famiglia come “problema” e non come “risorsa” di un Paese. A partire dagli anni ‘70 ciò che concerne l’occupazione femminile riguarda soprattutto quella figura che negli anni ’50 e ‘60 era uscita dal mercato del lavoro: vale a dire tutte le donne con figli piccoli. Questo nuovo elemento all’interno del contesto occupazionale conferisce una nuova stabilizzazione alle società industriali del dopoguerra, mutando anche quello che era un concetto culturale radicalmente diffuso, poiché le madri con figli piccoli erano coloro che per definizione stavano fuori dal mercato del lavoro. 4 _____________________________________________________________________________________ Dunque, proprio in virtù del nuovo assetto sociale costruito su una partecipazione massiccia delle donne con prole in età infantile nasce e si pone per la prima volta un problema di conciliazioneii. Tuttavia, in questa particolare situazione va a costituire uno shock per i demografi ed i sociologi che avevano fino a quel momento sostenuto la tesi secondo la quale i Paesi con un alto tasso di nascite dovessero essere Paesi con una bassa occupazione femminile. Al contrario, si avvalorò che laddove vi era la presenza di un alto tasso di natalità, coesisteva un alto tasso di occupazione come nel caso della Svezia e piuttosto Paesi che presentavano un tasso di nascite inferiore alla media avevano altresì bassi tassi di occupazione delle donne. Questo significava che non solo vi era una grossa differenza sotto il punto di vista delle politiche della famiglia ma anche che proprio le spiegazioni che fino a quel momento avevano avallato la tesi dell’impossibilità a lavorare poiché tradizionalmente le donne che erano votate al lavoro di cura risultavano, in presenza di un sistema di conciliazione efficiente, maggiormente occupate. Dunque, le politiche di conciliazione non potevano che riguardare le donne, stante la divisione del lavoro convenzionale. Tuttavia, un ulteriore problema nasce dal fatto che queste siano state concepite, sin dall’inizio, come fossero un interesse prettamente femminile e non riguardassero l’intera organizzazione, laddove il sistema è organizzato in base al fatto che il lavoro di cura spettasse alla donna e il lavoro retribuito agli uomini. Quello che Colin Caruch ha chiamato il ‘compromesso sociale di metà secolo’ iii, dove tutto è centrato sulla divisione economica famiglia-lavoro, tra sfera pubblica e privata, prevendendo una massiccia presenza delle donne nelle attività domestiche, età matrimoniale bassa, elevata presenza di coniugazioni matrimoniali, maggiore natalità rispetto al tasso 5 _____________________________________________________________________________________ di mortalità media, pochi divorzi e scarsa presenza di nascite al di fuori del matrimonio. Allorché la condizione del gruppo-famiglia convenzionale, in assenza di servizi, consiste nella divisione standard del lavoro che prevede un full time breadwinner e un full time homemaker, questi due soggetti sono funzionali l’uno alla sopravvivenza dell’altro per il mantenimento della struttura che chiamiamo famiglia iv. Nel frattempo riflettiamo sui modelli e la divisione di genere nelle politiche di cura familiare, ovvero il tema sul quale porremo l’accento anche se è giusto e necessario ricordare che è solo la punta di un problema tentacolare. Le discriminazioni sul posto di lavoro. Oltre alla cosiddetta «discriminazione diretta» esiste anche una differenza in termini retributivi nonostante esista una normativa in merito. Le differenze di mansioni e di settori come nel settore sanitario, per esempio, dove le donne rappresentano ben l’80% della forza lavoro. I settori a prevalenza femminile hanno in genere salari più bassi di quelli a prevalenza maschile v. Le competenze femminili vengono spesso sminuite perché viste come «tipiche» delle donne e non come indice di professionalità: un’infermiera guadagna in genere meno di un paramedico, pur vantando qualifiche analoghe. Non solo, a parità di lavoro, generalmente le donne guadagnano di meno in tutti i settori. Osserviamo le percentuali di Gender pay gap nella mappa che segue rispetto all’anno 2014. Fonte: Eurostat 6 _____________________________________________________________________________________ Vi sono diverse motivazioni che hanno stimolato la nascita di politiche di conciliazione nei Paesi, anzitutto l’allungamento delle speranze vita e dunque la necessità di cura per quella parte di soggetti anziani non più autosufficienti per un numero di anni superiore rispetto al passato. Sarà opportuno sottolineare, in questo frangente, anche come e quanto sia mutata la percezione della persona in età avanzata all’interno della società occidentale vi, donde mutano anche le necessità che riguardano tutti i soggetti dipendenti dalla cura. Contestualmente si osserverà la sistematica diminuzione di potenziale riserva di familiari, in linea con il ragionamento sul calo di natalità, che ci si poteva aspettare facessero fronte alla cura. Compito questo che vedeva come principali assolutrici le donne, nell’ordine parentale che si traduceva in coniuge (chiaramente, nel caso il coniuge impossibilitato fosse stato di sesso femminile, sarebbe stato il marito ad occuparsene; non fosse altro che per una questione puramente legale e o affettiva); figlia; nuora e in quarta posizione il figlio maschio. Da ciò ne deriva altresì che laddove si verifichi l’instabilità coniugale, quindi anche una separazione o un divorzio, viene a mancare quella solidarietà intergenerazionale derivante soprattutto dalle nuore; in questo frangenti i maschi risultano essere più a rischio di deficit di cura vii. Questo fenomeno ha molto cambiato la situazione, come sosteneva Peter Laslett per l’Italia prima e per la Francia poi, dove la struttura familiare diviene magra e lunga, esemplificando metaforicamente l’allungamento della vita e l’abbassamento del livello di natalità viii. È importante sottolineare anche il fatto che quasi tutte le politiche di conciliazione riguardano un modello di occupazione standard non soltanto per quanto concerne il lavoratore ma anche per il tipo di contratto orarioix (basti pensare ai lavori che richiedono orari non convenzionalmente distribuiti in base ai servizi di cura per gli infanti. Ad esempio, chi svolge un lavoro che prevede la turnazione notturna). La maggior parte delle politiche di conciliazione si concentra sulla presenza di bambini in età prescolare presupponendo il fatto che questi ultimi non necessitino più di una supervisione una volta maturata l’età scolare. Alcuni Paesi però, prevedono la fruizione del congedo fino all’ottavo anno di vita del bambino, come ad esempio la Svezia, differentemente dalla Norvegia dove può essere usato solo nel primo anno di vita del figlio. Se confrontiamo le politiche adottate dai Paesi all’interno del perimetro UE osserveremo come in questo campo, i Paesi combinano diversamente due approcci: familismo sostenuto e defamilizzazione parziale x . Che vuol dire nel primo caso la tendenza ad effettuare congedi pagati in proporzione al proprio stipendio e nel secondo caso un elevata presenza di servizi al sostegno della cura. 7 _____________________________________________________________________________________ Nei Paesi dell’est, in seguito alla caduta regimi, il welfare si è incentrato su un modello di familismo sostenuto: tutto ciò, ponderato sulla restituzione di una immagine di riscatto economico, anche solo apparente, dopo un lungo periodo di debolezza del mercato del lavoro. Un caso estremo è rappresentato dal Belgio che presenta congedi cortissimi, compensando con una forte presenza di servizi. Altri, come L’Italia e la Francia (che però incentiva la natalità con sostegni economici e si prodiga a partire dal secondogenito) presentano un sistema lacunoso sia per quanto riguarda i congedi che per quello che concerne i servizi. I sistemi virtuosi, sono rappresentati sicuramente dagli scandinavi, in particolare Danimarca e Svezia, hanno un sistema che si può definire back to back, una vera e propria sostituzione. Appena terminato il periodo di congedo (che risulta essere molto breve) le famiglie dispongono di servizi al supporto della cura. Generalmente esistono molte più differenze per quanto riguarda il periodo che va dalla nascita del figlio fino al terzo anno nei vari sistemi che poi vanno universalizzandosi a partire dai quattro anni. Una questione non trascurabile, per quanto concerne le politiche di conciliazione riguarda sicuramente i soggetti ai quali queste si rivolgono: sul versante della cura di persone non autosufficienti troviamo come in molti Paesi questo non sia un problema di ordine familiare ma di diritti individualixi. Su questa questione, in Italia, per quanto riguarda questo tipo di cura, è possibile ottenere un congedo fino ad un anno, oltre a tre giorni al mese. Altrove, la cura di un parente in stato di incapacità è percepita come dicevamo, come un diritto puramente individuale. Al massimo, vi sono misure che consentono di prendere un congedo per assistere un familiare morente; tuttavia se il congiunto non muore entro quel termine, il rischio è quello di e perdere il lavoro. Quanto era stato pronosticato con l’Agenda li Lisbona nel 2000 non ha trovato effettività e anzi, quelle che dovevano essere politiche di ampliamento e apertura si sono assottigliate nel disegno della politica successiva. Di fatti, non soltanto viene a mancare un esplicito riferimento alla prospettiva di gender mainstreaming ma, a differenza di quello che era stato cardine dell’Agenda di Lisbona, ovvero un obiettivo disaggregato per sesso, qui vediamo maggiore attenzione all’ampliamento della base occupazionale globale. Senza trascurare il fatto che le conseguenze della crisi economica e le politiche di austerità messe in atto dai governi abbiano contribuito ad esacerbare i limiti della governance europea aggravando lo squilibrio già presente tra flessibilità e sicurezza. “In piena crisi le politiche di austerità hanno portato ulteriore riduzione e restrizione nei criteri di accesso ai sussidi di disoccupazione e tagli e restrizioni nei benefits e assegni familiari. In alcune situazioni i congedi parentali e persino i congedi di maternità hanno subito peggioramenti, mentre le riforme pensionistiche hanno aumentato il periodo contributivo per accedere alla pensione e ritardato l’età pensionabile con un impatto particolarmente negativo sulle pensionate, considerato il loro lavoro part- 8 _____________________________________________________________________________________ time, la loro occupazione più intermittente, il loro doppio lavoro nel corso della vita. Nel settore pubblico le politiche di austerità hanno determinato blocco delle assunzioni o tagli di personale, tagli o congelamento dei salari, riduzione dei servizi. Tutto ciò ha colpito particolarmente le donne con l’aumento del carico di lavoro di cura privato e la perdita di posti lavoro, rappresentando le lavoratrici il 70% dei dipendenti pubblici (media UE-27) xii”. Anzitutto sarà doveroso soffermarci sulla definizione di ‘buone’ prassi. Come già sottolineato, l’universalismo dei diritti, nei Paesi ritenuti virtuosi, è connaturato con l’atteggiamento del mondo sociale che lo abita. Tuttavia, nei Paesi del Nord Europa, esiste una certa reticenza all’inclusività sociale dello straniero. Contemporaneamente, vediamo come il mercato del lavoro sia fortemente flessibile, il che genera bassi tassi di disoccupazione giovanile e femminile. Esiste una elevata protezione sociale volta a ridurre il rischio di povertà xiii, seppure con i limiti sopra citati. La necessità di conciliare si colloca in modo trasversale nelle cinque arre principali della vita quotidiana: xiv - i tempi dell’organizzazione del lavoro; - i tempi del lavoro di cura; - i tempi della vita sociale allargata; - i tempi, gli spazi e i servizi della città; - il tempo libero, il tempo di studio, il tempo per sé. Questi spazi, “[…] interagiscono alcune volte in modo sinergico, ma più frequentemente in modo oppositivo. Ne consegue che, nella definizione di un sistema di misure di conciliazione efficace, è necessario considerare l’insieme complesso di questi fattori e le trasformazioni sociali ed economiche ad essi connesse” xv. Le misure che possono essere adottate per implementare la conciliazione sono davvero tante. Tra queste, a titolo esemplificativo, utilizziamo l’elenco di Donati-Prandini xvi: • Asilo nido aziendale; • Lavoro da casa; • Part time: che può essere reversibile, dove il contratto a tempo indeterminato viene rinnovato annualmente; orizzontale: se la riduzione di orario viene effettuata all'interno dell'orario giornaliero (ad es. 4 ore anziché 8, tutti i giorni). Verticale: se la riduzione d’orario viene effettuata nell'ambito di periodi concordati (settimana, mese, anno). Ad esempio si concordano 3 giorni pieni a settimana. 9 _____________________________________________________________________________________ Misto: è una combinazione delle due tipologie sopra descritte. Ad esempio, in alcuni periodi dell'anno si può concordare una riduzione dell'orario di lavoro del 50%, in altri del 20%; • Percorsi formativi di supporto, finalizzati ad aiutare le donne\mamma nel reinserimento lavorativo dopo un periodo di assenza; • Telelavoro: modalità di lavoro grazie a cui, impiegando infrastrutture telematiche ed informatiche, è possibile valicare i tradizionali confini fisici e logistici dell'ufficio; • Riunioni lavorative non prima delle 8.00 e non dopo le 17.00; • Orario flessibile; • Centri estivi per i figli dei dipendenti; • Ulteriori servizi aziendali: mensa o strutture esterne convenzionate per i pasti; servizi di dopo scuola durante i pomeriggi o nei giorni in cui le scuole sono chiuse; Come abbiamo, più volte ribadito, i sistemi sociali in Europa sono essenzialmente dissimili tra di loro. Con l’ausilio della tabella che segue potremo osservare con sistematicità come la famiglia assuma un ruolo ora marginale, ora centrale, ora egemonico come nel caso del modello mediterraneo. Fonte: Quaderno di lavoro – La conciliazione lavoro-famiglia in Italia e in Europa, Provincia di Torino Non è semplice delineare un pacchetto di politiche "best pratiche" da una prospettiva di equità di genere poiché ogni Paese ha delle proprie regole e abitudini difficilmente sradicabili. Si pensi ad una 10 _____________________________________________________________________________________ abitudine comune in Norvegia, ovverosia quella di lasciare liberamente i passeggini fuori dai locali, mentre si consuma un pasto o si chiacchiera bevendo un caffè. Questa pratica, così naturale a Copenaghen, non sarebbe certamente avallata in un contesto come quello Italiano. Fonte: Bjorn Kaehler/AP Così, da un lato, la combinazione norvegese e svedese si distingue positivamente perché fornisce congedi parentali lunghi e ben retribuiti ed una copertura di assistenza all'infanzia abbastanza universale, dall’altro pensare di applicare questo modello così avanguardistico anche altrove richiederebbe non solo il mutamento di quello che è un sistema sociale, lacunoso e carente in questo campo, ma anche e soprattutto un approccio educativo totalmente differente ai ruoli familiari con la massima apertura e libertà degli individui e della coppia. Cosa succede in Italia? Come già accennato rispetto alle caratteristiche del modello Mediterraneo l’Italia gode di una stereotipizzazione di genere connaturata con l’anima di chi la abita. Ci si aspetta che i maschi e le femmine seguitino a reiterare l’ordine sociale che ha tenuto in piedi il Paese sin dalla sua nascita. La cultura specificatamente italiana presenta un radicato maschilismo. Fino al 5 Agosto 1981, in Italia, vigeva ancora la legge d’onore xvii (di chi?) che dava la possibilità di commettere il delitto d’onore e il matrimonio riparatore senza il benché minimo ritegno verso un individuo di sesso femminile, perché donna; fermo restando che la nuova legge, nell’articolo 578 (sostituendo il precedente) condannava l’aborto, con la reclusione da 4 a 12 anni. Questo esempio è solo uno degli aspetti di difficoltà rispetto ad una parità di genere ancora acerba. La socializzazione di genere primaria, (talvolta anche la secondaria) risulta essere fortemente incardinata in uno schema già scritto. “Le donne italiane sono considerate come le principali referenti e responsabili del lavoro domestico e di cura: secondo Eurostat dedicano alle responsabilità familiari più tempo di tutte le altre donne europee, ben 5 ore e 20 minuti al giorno. Ossia 3 ore e 45 minuti più degli uomini. Questa differenza nell'uso del tempo tra uomini e donne tende a diminuire a mano a mano che il tasso di occupazione cresce: in Svezia per esempio sono solo 73 minuti, poco più di 11 _____________________________________________________________________________________ un'ora. Se consideriamo il part-time maschile come un indicatore della partecipazione degli uomini al lavoro domestico i dati vengono confermati: quello italiano è uno dei più bassi d'Europa, l'8,4% contro il 7,8% in Francia, il 10,8% in Germania, il 13,1% in UK e il 15,1% in Svezia (Eurostat 2014). La scarsa partecipazione maschile al lavoro di cura si somma all'inadeguatezza dei servizi preposti: ad esempio il tasso di copertura dei servizi per la prima infanzia (asilo nido) è uno dei più bassi in Europa e risulta inferiore al 13,5% (Istat 2013). Inoltre a causa delle politiche di austerità molti servizi sono stati tagliati: tra questi il tempo pieno a scuola, i servizi di assistenza domiciliare agli anziani, ecc.” xviii. Questo clima costituisce ancora di più un rischio per il mantenimento del proprio posto di lavoro quando una donna necessità di un periodo di maternità che pare “[…] rappresenti ancora un rischio concreto di fuoriuscita dal mercato del lavoro: il 22,4% delle madri impiegate prima della gravidanza, intervistate dopo due anni, avevano perso il lavoro (Istat 2015)xix. La realizzazione professionale femminile è soggetta a dei vincoli culturali, prima ancora che legali (i cosiddetti doveri coniugali). Il problema maggiore è individuato in quella che Lara Balbo ha definito la “doppia presenza” xx. Nel corso della prima indagine nazionale sul tempo libero xxi emerse che il tempo considerato libero delle donne risultava essere occupato. “Le ragazze fra i 14 e i 30 anni che vivono con entrambi i genitori abbiano a disposizione, in media, 5 ore al giorno di tempo libero (i coetanei maschi nella stessa condizione familiare ne hanno 48 minuti in più nella fascia d’età 14\17 anni e 42 fra i 18 e i 30). Il passaggio alla vita in coppia implica, per le donne, una prima perdita significativa di tempo libero: le nuove responsabilità familiari comportano un aumento medio di 3 ore giornaliere di lavoro, dunque una riduzione del tempo per sé. I mariti (o compagni), invece, vedono sostanzialmente invariata l’organizzazione della giornata articolata in lavoro, attività fisiologiche (mangiare, dormire) […]. Più alto è il numero dei figli, maggiore è la quantità di tempo da dedicare al lavoro di cura e al servizio familiare (circa un’ora di lavoro in più per figlio)"xxii. Con queste premesse, è facile intuire che l’Italia risulta essere povera di politiche atte alla conciliazione del lavoro – famiglia. Uno dei motivi risiede proprio nel fatto che l’istituzione familiare non è mai stata trattata come soggetto sociale, dunque intestataria di politiche di intervento. Il solo fatto di esistere, così come era stata impostata con un uomo lavoratore e una donna dedita alla cura faceva sì che venisse trattata in modo residuale, cosicché la medesima politica sociale per la famiglia è stata trattata come un sottoprodotto delle altre politiche sociali xxiii. Urge formulare una strategia in grado di apportare una modifica del sistema attuale, dove, seppure in un mare di difficoltà prevale la conciliazione autonoma: affidandosi ad asili nido privati o cedendo la cura ai nonni, laddove possibile (anche a causa della riforma pensionistica che vede i nonni uscire 12 _____________________________________________________________________________________ tardi dal mercato del lavoro, suggerendo una prospettiva ancora più lesiva che vede gli individui andare in pensione alla soglia dell’età della dipendenza). La conseguenza necessaria si tradurrà nell’implementazione delle strutture per la prima infanzia con accesso gratuito, mediate dal finanziamento pubblico e una differente ripartizione delle risorse, essendo presente una forte distorsione dal punto di vista della distributivo, essendovi un alto livello di spesa pensionistico e un basso livello di spesa per le politiche dedicate alla cura. A fronte di quella che Esping-Andrersen hanno definito come rivoluzione incompleta xxiv bisognerebbe interrogarsi su quello che stiamo facendo per fare in modo si compia. La letteratura, in questo senso, considera i congedi parentalixxv decisivi: se non si struttura bene questa parte delle politiche pubbliche si rischia l’immobilismo economico per quanto riguarda il lavoro delle donne che si trovano costrette a seguitare nella cura dei figli alimentando un circolo vizioso di dipendenza economica. In Germania e in Svezia, per esempio, dopo il ritorno dal congedo di maternità o parentali, i genitori hanno diritto per legge a trasformare il loro contratto a tempo pieno in un part-time, e poi tornare di nuovo al lavoro a tempo pieno in un secondo momento. In Italia, è un diritto spettante sia alla madre che al al padre di godere di un periodo di dieci mesi di astensione dal lavoro da ripartire tra i due genitori e da fruire nei primi dodici anni di vita del bambino (in base al D.Lgs. 80/2015, in vigore dal 25 giugno 2015). La funzione dei congedi parentali è quella di consentire la presenza del genitore accanto al bambino nei primi anni della sua vita al fine di soddisfare i suoi bisogni affettivi e relazionali. Tuttavia, almeno una parte del congedo parentale sembra avere un impatto a lungo termine sul comportamento degli uomini e sulla bilancia dei genitori delle responsabilità nei confronti della prole. In più, accade sovente, che la defamilizzazione, laddove funziona vede la cura spostarsi da donna a donna, dalla madre alla maestra, dalla moglie all’infermiera perpetrando un passaggio di testimone che vede ancora una volta le donne al centro del processo di compimento della cura delle responsabilità della famiglia e dei contesti specifici per paese. i Ruspini, E., (2003) Le identià di genere, Carocci “Conciliazione” deriva dal latino concilium, composto da cum e calare, ovvero chiamare insieme. Il termine, così come coniato è sempre stato volto a tradurre una intenzione di accord, generalmente tra parti discordanti, mentre in questo caso specifico si riferisce alla ricerca di un equilibrio tra due contesti diversi ma non discordi, rispetto al tempo, quello della famiglia e quello del lavoro. iii Crouch, C., & Vatta, A. (2001). Sociologia dell'Europa occidentale. Il Mulino. ii 13 _____________________________________________________________________________________ iv Gerson, K. (1998). Gender and the future of the family: Implications for the postindustrial workplace. Challenges for work and family in the twenty-first century, 11-21. v Saraceno, C., (2011) Gender (In)equality: an incomplete revolution?. Discussion Paper. vi Bertin, G (ed. 2009). Invecchiamento e politiche per la non autosufficienza. Edizioni Erickson vii “Chiara Saraceno. Conciliare famiglia e lavoro,” YouTube Video, 54.03, Pubblicato da “Dipartimento di Scienze dell'Educazione – Unibo” 5 Febbraio 2013, https://www.youtube.com/watch?v=P3huS2a72Y4 viii Saraceno, C., (2012). Coppie e famiglie. Feltrinelli Editore ix Non è trascurabile neppure la questione del mantenimento del posto di lavoro. Sempre più spesso, di fatti, le forme contrattuali prevedono una scadenza a breve termine, inoltre rimanere fuori dal mercato per un lasso di tempo prolungato può nuocere in modo grave sulla carriera e incidere negativamente soprattutto sul lavoro femminile in caso di una gravidanza che prevede un allontanamento forzoso con il congedo di maternità. x Ruggeri, S. (2014). Ri-leggere il welfare state in una prospettiva di genere. RESED. Revista de Estudios Socioeducativos, 2014 (2) (pp. 66-86) xi Vedi punto iv xii Rossilli, M., Le politiche di genere nella strategia Europa 2020 alla prova della crisi economica e dell'UE. Possibili strategie alternative, atti del convegno “Le donne e l’Europa”, accessibile online dal sito www.fondazionenildeiotti.it xiii Burroni, L., (2016). Capitalismi a confronto – Istituzione e regolazione dell’economia nei paesi europei. Il Mulino. (pp. 68-69) xiv Zabarino, A., Fortunato, M., (2008). Quaderno di lavoro. La conciliazione lavoro-famiglia in Italia e in Europa. Compendio di documentazione xv Vedi punto xiv xvi Donati, P., & Prandini, R. (Eds.). (2009). La conciliazione famiglia-lavoro nelle piccole e medie imprese. Costruire e governare nuove reti: Costruire e governare nuove reti. FrancoAngeli. xvii http://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:1981-08-05;442 xviii http://www.ingenere.it/articoli/occupazione-femminile-fotografia-italia-di-oggi xix Vedi xix xx Balbo, L. (1978). La doppia presenza. Inchiesta, 32(8), 3-11. xxi Leccardi, C., (2000). Ridiscutere il tempo, in: «Inchiesta», n.127, gennaio\marzo. xxii Report di ricerca a cura del gruppo di ricerca del Centro Studi sulle Relazioni Industriali e di Lavoro CERIL. (2010). La conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro. xxiii Colozzi, I. Donati, P., (1995). Famiglia e cure di comunità. Angeli xxiv Esping Andersen, G. ( 2009). Incomplete Revolution: Adapting Welfare States to Women's New Roles. Cambridge: Polity Press xxv Erroneamente tradotta (dovrebbe chiamarsi congedo genitoriale) da una lingua probabilmente anglofona (parents) o francofona (parents) diede il pretesto in Italia, data la sua interpretazione tendenziosa, per estendere il congedo ai nonni, parenti del bambino.