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MEDICINA NEI SECOLI ARTE E SCIENZA GIORNALE DI STORIA DELLA MEDICINA JOURNAL OF HISTORY OF MEDICINE Fondato da / Founded by Luigi Stroppiana QUADRIMESTRALE / FOUR-MONTHly NUOVA SERIE / NEW SERIES VOL. 25 - No 1 ANNO / YEAR 2013 sommario articoli Introduzione Gino Fornaciari ....................................................................................................................................... P. 5 CENNI DI STORIA DELLA PALEOPATOLOGIA IN ITALIA GINO FORNACIARI ....................................................................................................................................... P. 13 I TUMORI IN PALEOPATOLOGIA: L’EVIDENZA DALLE MUMMIE Valentina Giuffra, Gino Fornaciari ............................................................................................. P. 35 DNA antico: principi e metodologie FLAVIO De Angelis, GABRIELE Scorrano, OLGA Rickards ...................................................... P. 51 ASPETTI DI PALEOPATOLOGIA DELLA POPOLAZIONE DI ERCOLANO (79 d.C.) Sciubba MARIANGELA, Paolucci Assunta, D’Anastasio Ruggero, Capasso Luigi ..... P. 85 IL CONTRIBUTO DELL’ANALISI TRAUMATOLOGICA NELLA RICOSTRUZIONE DELLO STILE DI VITA DELLA COMUNITÀ DI CASTEL MALNOME (ROMA, I-II SEC. D.C.). PAOLA CATALANO, CARLA CALDARINI, ROMINA MOSTICONE, FEDERICA ZAVARONI ............. P. 101 SALUTE E MALATTIA NELLA ROMA IMPERIALE ATTRAVERSO LE EVIDENZE SCHELETRICHE Simona Minozzi, Paola Catalano, Stefania di Giannantonio e Gino Fornaciari ... P. 119 RICOGNIZIONI CANONICHE ED INDAGINI SCIENTIFICHE SULLE MUMMIE DEI SANTI Ezio Fulcheri ............................................................................................................................................. p. 139 corpi, mummie e testi per una storia dell’imbalsamazione funebre in italia Silvia marinozzi ....................................................................................................................................... P. 167 Scheletrizzare o mummificare: pratiche e strutture per la sepoltura secondaria nell’Italia del Sud durante l’età moderna e contemporanea Antonio Fornaciari ............................................................................................................................... p. 205 LE MUMMIE EGIZIE COME MANUFATTI ANTROPOLOGICI Giovanni Bergamini................................................................................................................................. P. 239 I reperti umani antichi nei musei: ricerca, conservazione e comunicazione. Le esperienze del Museo di Antropologia ed Etnografia dell’Università di Torino Rosa Boano, Renato Grilletto, Emma Rabino Massa .......................................................... P. 251 LA RICERCA MEDICA ATTRAVERSO LA RICERCA STORICA: MOSTRI E MOSTRUOSITÀ. DI UNA MOSTRUOSITÀ PARASSITARIA FELICEMENTE RISOLTA CON OPERAZIONE CHIRURGICA Laura Ottini, Annarita Franza, Piera Rizzolo, Mario Falchetti, Raffaella Santi, Gabriella Nesi ..................................................................................................... P. 267 collezioni ANATOMICHE antiche per musei moderni: il museo patologico dell’università di firenze Gabriella Nesi, Raffaella Santi ..................................................................................................... P. 295 Recensioni ............................................................................................................................................. P. 307 libri ricevuti ..................................................................................................................................... P. 319 Notiziario .............................................................................................................................................. P. 325 contents articles Introduction Gino Fornaciari ....................................................................................................................................... P. 5 BRIEF HISTORY OF PALEOPATHOLOGY IN ITALY GINO FORNACIARI ....................................................................................................................................... P. 13 Tumors in paleopathology: evidences from mummies Valentina Giuffra, Gino Fornaciari ............................................................................................. P. 35 Ancient DNA: principles and methods FLAVIO De Angelis, GABRIELE Scorrano, OLGA Rickards ...................................................... P. 51 Paleopathology of Herculaneum’s population (79 d.C.) Sciubba MARIANGELA, Paolucci Assunta, D’Anastasio Ruggero, Capasso Luigi …..P. 85 THE CONTRIBUTE OF THE TRAUMA ANALYSIS TO RECONSTRUCT THE LIFESTYLE OF CASTEL MALNOME COMMUNITY (ROME, I-II CENT. A.C.) PAOLA CATALANO, CARLA CALDARINI, ROMINA MOSTICONE, FEDERICA ZAVARONI ............. P. 101 Palaeopathology in Roman Imperial Age Simona Minozzi, Paola Catalano, Stefania di Giannantonio e Gino Fornaciari... P. 119 Canonic Recognitions and Scientific Investigations on the Mummies of Saints Ezio Fulcheri ............................................................................................................................................. p. 139 BODIES; MUMMIES AND TEXTS FOR AN HISTORY OF EMBALMING IN ITALY Silvia marinozzi ....................................................................................................................................... P. 167 SKELETON OR MUMMY: PRACTICES AND STRUCTURES FOR SECONDARY BURIAL IN SOUTHERN ITALY IN MODERN AND CONTEMPORARY AGE Antonio Fornaciari ............................................................................................................................... p. 205 EGYPTIAN MUMMIES AS ANTHROPOLOGICAL ARTIFACTS Giovanni Bergamini................................................................................................................................. P. 239 HUMAN REMAINS IN MUSEUMS: RESEARCH, PRESERVATION AND COMMUNICATION. THE EXPERIENCE OF TURIN UNIVERSITY MUSEUM OF ANTHROPOLOGY AND ETNOGRAPHY Rosa Boano, Renato Grilletto, Emma Rabino Massa .......................................................... P. 251 MEDICAL RESEARCH THROUGH HISTORICAL RESOURCES. TALKING OBJECTS: A CASE OF A PARASITIC PERINEAL MONSTROSITY Laura Ottini, Annarita Franza, Piera Rizzolo, Mario Falchetti, Raffaella Santi, Gabriella Nesi .......................................................................................................................................... P. 267 antique anatomical collections for contemporary museums Gabriella Nesi, Raffaella Santi ..................................................................................................... P. 295 Essay review ....................................................................................................................................... P. 307 books received ................................................................................................................................ P. 319 news ............................................................................................................................................................. P. 325 MEDICINA NEI SECOLI ARTE E SCIENZA, 25/1 (2013) 5-12 Journal of History of Medicine Introduzione/Introduction Gino Fornaciari Università degli Studi di Pisa. I Il presente volume è una miscellanea esemplificativa degli studi condotti nel campo della paleopatologia e dell’archeologia funeraria, e delle nuove prospettive che queste discipline offrono per la museologia storico-medica, nell’ambito dei progetti di ricerca che nell’ultimo decennio si sono avvalsi di collaborazioni sinergiche tra professionalità diverse. I contributi raccolti sono quindi rappresentativi delle ricerche effettuate, in un’ottica trasversale e interdisciplinare che ha permesso di esaminare i diversi aspetti che i reperti umani antichi offrono per la storia biologica e culturale dell’uomo. La paleopatologia si può infatti inquadrare sotto i punti di vista più diversi, dalle ricerche storiche alla biologia molecolare: il saggio sulla sua storia in Italia rivela che i primi contributi scientifici datano alla fine del XIX secolo, anche se gli esordi della disciplina si erano avuti già prima, con alcuni studi sulle mummie, in seguito all’attenzione internazionale sulle mummie egizie suscitata in Europa dalla Campagna di Napoleone in Egitto (1798-1801). Nella seconda metà dello scorso secolo, la paleopatologia italiana ha avuto il merito di focalizzare l’attenzione del mondo accademico antropologico ed archeologico sullo studio paleopatologico dei resti scheletrici, diffondendo le ricerche paleopatologiche presso quasi tutti i gruppi di ricerca interessati. I contributi fondamentali dell’Italia in questo settore sono rappresentati da scoperte sia nel campo della patologia scheletrica, come il più antico caso conosciuto di tubercolosi in uno scheletro del Neolitico antico della Liguria, sia in quello dei tessuti molli, come lo studio ultrastrutturale, immunologico e molecolare di antichi virus, batteri, protozoi e tumori maligni. L’applicazione 5 Gino Fornaciari delle moderne tecnologie biomediche (TC, laparoscopia, istologia, immunoistochimica, estrazione e sequenziamento del DNA antico e isotopi stabili) allo studio delle mummie, iniziato in Italia sin dagli anni ’80 in maniera pionieristica, è diventata attualmente una prassi quasi di routine. Negli ultimi decenni i paleopatologi hanno ampliato il loro orizzonte di studio nel nostro paese, sviluppando un interesse crescente per le discipline archeologiche ed antropologiche, oltre che mediche. L’articolo di Giovanni Bergamini, prendendo lo spunto dalla accurata scheda ministeriale ICCD per le mummie egizie, giunge alla conclusione che, fra i materiali di studio conservati nei nostri musei, le classiche mummie egizie costituiscono tuttora un fondamentale materiale di studio, che deve essere assimilato ad un’autentica “capsula del tempo” comprendente non soltanto l’individuo inumato, le sue caratteristiche fisiche, le sue eventuali patologie, il suo ruolo sociale, ma anche l’ambiente naturale, le risorse, le tecniche di produzione, le concezioni magico-religiose e le tradizioni del tempo in cui visse. In sostanza, si tratta di uno straordinario insieme di dati da correlare tra loro in un organico contesto, punto di partenza per ricerche interdisciplinari, finalizzate ad una conoscenza sempre più approfondita di questo particolare “oggetto complesso”, che si rivela un vero e proprio spaccato del mondo in cui ha vissuto e che l’ha prodotto. Il contributo di Rosa Boano et al. puntualizza che in Italia, a partire dal XVIII secolo, musei e altre istituzioni scientifiche raccolgono, espongono e studiano i reperti umani antichi. Ancora oggi essi sono oggetto di analisi multidisciplinare in cui l’archeologia, la storia, la biologia, le scienze naturali, le scienze mediche e forensi, collaborano per affrontare problematiche molto complesse quali la variabilità, la microevoluzione, i meccanismi di adattamento ambientale e la patocenosi. Recentemente, studi in campo istochimico, immunoistochimico e biomolecolare, hanno dato ulteriore dimostrazione delle molteplici possibilità di analisi di questi reperti in ambito 6 Introduzione paleogenetico. In ultimo, la diagnostica per immagini ha aperto un nuovo settore di studio rappresentato dalle “autopsie virtuali” che permettono esplorazioni dettagliate dei corpi antichi senza arrecare il minimo danno al reperto. Da queste premesse si evince che i resti umani hanno un inestimabile valore scientifico e che le nostre conoscenze sul passato possono venire continuamente riconsiderate alla luce delle nuove tecniche di indagine applicate allo studio dei resti fisici. Tuttavia, affinché i reperti umani continuino ad essere una risorsa scientifica per la comunità, essi richiedono una considerazione “speciale” nella fase dello studio in laboratorio, di deposito nei magazzini e di esposizione nei musei. In questa prospettiva di rivalorizzazione delle collezioni antropologiche, i musei di antropologia oltre a rivestire il ruolo di enti preposti alla salvaguardia e alla tutela dell’archivio antropologico devono assumere una funzione più dinamica diventando sedi di studio, di divulgazione culturale e luoghi preposti alla raccolta dei reperti provenienti dal territorio. I saggi di Gabriella Nesi e di Raffaella Santi dell’università di Firenze e di Laura Ottini et al. dell’università di Roma “La Sapienza” ribadiscono che i musei di anatomia patologica, che conservano non solo casi eccezionali della patologia umana, come il teratoma sacro-coccigeo del Pellizzari conservato a Firenze, ma anche il materiale chirurgico ed autoptico della pratica medica quotidiana, hanno svolto un insostituibile ruolo didattico per generazioni di medici in formazione e costituiscono una testimonianza tangibile della ricerca medica che, quando queste istituzioni sono sorte, era strettamente legata all’osservazione macroscopica anatomo-patologica. Pertanto, il museo deve essere considerato a tutti gli effetti un archivio biologico, suscettibile di essere indagato mediante le moderne tecniche radiologiche, istopatologiche e biomolecolari. Infatti, i reperti anatomici del passato documentano un’epoca profondamente diversa dalla nostra e consentono di studiare malattie le cui caratteristiche epidemiologiche o la cui storia naturale sono state notevolmente modificate dai 7 Gino Fornaciari progressi diagnostici e terapeutici. Infine, molte delle collezioni anatomiche italiane comprendono reperti di indubbio valore artistico, quali le riproduzioni in cera, in legno o in gesso di distretti anatomici o di quadri anatomo-patologici. Tali opere rappresentano strumenti educativi per il giovane medico, non solo degli aspetti tecnico-scientifici ma anche di quelli culturali ed umanistici della professione che si accinge ad esercitare. L’articolo di De Angelis et al. prende lo spunto dalla storia della paleogenetica, la quale ha origini relativamente recenti. I primi tentativi, effettuati utilizzando cloni batterici, di amplificare tracce di materiale genetico da frammenti tissutali mummificati non vanno oltre gli inizi degli anni ‘80. Anche gli studi museologici evidenziano come il DNA antico possa esser considerato un utile strumento per l’analisi della variabilità genetica delle popolazioni passate. Nonostante le numerose limitazioni imposte sia dal carattere estremamente labile del aDNA che dagli approcci metodologici di ultima generazione, è evidente come tale componente possegga delle qualità intrinseche che possano esser tramutate in notevoli ambiti di ricerca differenziali. Passando al periodo romano, lo studio delle grandi necropoli suburbane della Roma imperiale ha fornito risultati insperati. Come risulta dal contributo di Paola Catalano et al., la popolazione presentava una elevata frequenza di fratture, con una lieve prevalenza maschile. Tra gli individui con fratture, una percentuale non trascurabile mostra evidenze traumatiche su più di un distretto scheletrico, e ciò potrebbe essere compatibile con un modello di vita logorante e probabilmente pericoloso. Nel campione studiato, la risposta dell’osso alle infezioni sovrapposte è spesso visibile come periostite, ma non si osservano esempi di vera osteomielite. In alcuni casi, sono stati osservati dei vizi di consolidazione, e infatti l’artrosi secondaria risulta frequente proprio negli individui con fratture. In conclusione, i dati ottenuti suggeriscono che la popolazione dell’antica Roma fosse 8 Introduzione soggetta a dure condizioni di vita e di lavoro, ma consentono anche di ipotizzare che dovevano esistere trattamenti medici efficaci e un buon grado di cooperazione sociale all’interno della comunità. Lo studio paleopatologico dei resti scheletrici di età imperiale ha permesso, come si evince dal contributo di Simona Minozzi, di ampliare grandemente la casistica delle malattie diffuse a Roma e nel suburbio e, in alcuni casi, di documentare “biologicamente” le fonti storiche che ne descrivevano la presenza. Alcune di queste malattie possono essere messe in rapporto con il declino igienico-sanitario di cui doveva soffrire la città di Roma, con le sue strade affollate e sporche, dove la diffusione di infezioni e malattie doveva essere favorita. Infatti, se da una parte l’aumento di popolazione andò sicuramente di pari passo ad un’estesa pianificazione della città, con l’organizzazione delle risorse idriche e degli scarichi fognari, dall’altra la pressione demografica e le scarse misure igieniche devono avere messo in crisi la salute della popolazione, in particolare nelle classi meno elevate. Benché sia difficile ricostruire un quadro epidemiologico esauriente, i numerosi casi osservati nel record archeologico romano cominciano a farci comprendere le condizioni di salute e le malattie maggiormente diffuse nella Roma antica. Diversa, almeno in parte, è la situazione di Ercolano, come si può rilevare dal saggio di Sciubba e coll., in quanto le osservazioni riguardano una popolazione di un piccolo municipio, e inoltre “vivente” nel 79 d.C. Le fonti paleopatologiche dirette, rappresentate da resti scheletrici e da resti organici quali capelli e alimenti, hanno consentito di delineare un quadro completo dell’assetto paleopatologico della comunità ercolanese in epoca romana. Come nel suburbio romano, anche ad Ercolano la patocenosi si presenta per lo più dominata da patologie legate alle attività lavorative usuranti, come artrosi, osteocondriti e soprattutto entesopatie. I bambini e gli adolescenti non erano esentati dai lavori usuranti, come dimostra l’elevata frequenza della sindesmosi costo-clavicolare nelle prime fasce 9 Gino Fornaciari di età. Inoltre, una parte consistente della popolazione era affetta da patologie di natura infettiva, in particolare dalla brucellosi, che colpiva ben il 17% della popolazione, evidentemente a causa del largo uso del latte ovino, sia fresco che trasformato in prodotti caseari. Da segnalare anche la presenza di tubercolosi. Passando al Medioevo e all’Età postmedievale, la paleopatologia si interessa anche delle mummie dei Santi che, come mette bene in evidenza Ezio Fulcheri, costituiscono un grande patrimonio storico ed artistico, stratificatosi nel corso dei secoli. Ogni volta che si procede all’esame di un corpo mummificato si scoprono dettagli e particolari sulla storia fisica e patologica del personaggio che si integrano con il profilo storico e agiografico e ne completano alcuni tratti. Ovviamente l’indagine antropologica e paleopatologica di questi materiali non può e non deve essere condotta con la metodologia abituale di studio propria della paleopatologia; infatti il primo obiettivo è quello della conservazione del reperto. Per tale ragione la ricognizione non può e non deve prevedere assolutamente indagini invasive o dissezioni che, anche se interessanti, danneggerebbero l’integrità del corpo. Nel corso delle ricognizioni dei Santi vengono comunque rilevati gli aspetti antropologici e le caratteristiche fisiche, mentre le osservazioni di carattere paleopatologico devono basarsi solo sull’ispezione delle parti esposte, sugli elementi forniti dalla diagnostica per immagini e su minimi prelievi mirati. Oggi le tecnologie moderne permettono indagini non invasive o minimamente invasive in analogia a quanto avviene nella diagnostica medica; tali metodologie diagnostiche hanno soppiantato le procedure e le tecniche diagnostiche un tempo impiegate sui corpi mummificati. Un capitolo a parte è quello costituito dalla paleopatologia oncologica. Come si evince dal contributo di Valentina Giuffra, i casi di tumori fino ad ora diagnosticati nelle mummie e pubblicati in letteratura sono in totale 15, di cui solo 4 rappresentano neoplasie maligne. In particolare, secondo la classificazione basata sul tipo di cellula e 10 Introduzione tessuto di origine, sono attestati 3 tumori maligni epiteliali e solo 1 di tipo connettivale (rabdomiosarcoma); anche tra i tumori benigni la maggior parte sono di tipo epiteliale e solo 2 sono di origine connettivale. La scarsità di neoplasie nelle mummie indica certamente una minore incidenza di queste patologie nelle società del passato. L’alta aspettativa di vita delle popolazioni attuali spiega almeno in parte l’elevata incidenza del cancro. Nelle società del passato in genere l’età media della vita era molto bassa e perciò la morte arrivava prima che i tumori potessero manifestarsi. D’altro canto, molti fattori cancerogeni legati alla moderna società industriale, come il fumo da sigaretta, l’inquinamento, i composti chimici e le radiazioni artificiali, che non erano presenti in passato, hanno indubbiamente accresciuto l’incidenza del cancro nei tempi attuali. Il contributo di Silvia Marinozzi ripercorre la storia dell’imbalsamazione funebre in Italia, confrontando i risultati autoptici delle mummie artificiali riesumate dalla Divisione di Paleopatologia dell’Università di Pisa con la letteratura medica dei periodi coevi ai defunti esaminati. L’integrazione tra fonti oggettive e fonti letterarie permette così di costruire un quadro piuttosto omogeneo e compiuto della storia delle tecniche di conservazione dei cadaveri in una prospettiva di confronto e interazione tra ritualità funebri e sviluppi dell’anatomia, laddove i progressi dei sistemi di preparazione anatomica a scopo didattico e scientifico trovano applicazione anche nel campo dell’imbalsamazione. Si evince infatti la forte valenza “igienica” che a partire dalla fine del Settecento la pratica della mummificazione, sino ad allora di appannaggio esclusivo di regnanti e personaggi di rango, assume come sistema di prevenzione medica, quando ancora le malattie di carattere epidemico e contagioso sono spiegate come conseguenza di una corruzione dell’aria indotta dai miasmi morbiferi esalanti dalla materia organica putrefatta. E’ in tale prospettiva che l’autrice spiega il grande incremento che la pratica dell’imbalsamazione ebbe nel corso del XIX secolo, in considerazione anche delle 11 Gino Fornaciari politiche di laicizzazione delle ritualità religiose, in cui quelle funerarie svolgono certamente un ruolo fondamentale nella costruzione di un nuovo sentimento religioso che si abbini alla fede politica dei risorgimentalisti nel nuovo stato unitario. Come rivela il saggio di Antonio Fornaciari, è evidente il fatto che nel meridione d’Italia in Età moderna si siano conservate alcune pratiche tradizionali di manipolazione dei corpi, come la scheletrizzazione e la mummificazione intenzionali ed inserite all’interno di una cornice religiosa ufficiale, addirittura fino all’elaborazione di ambienti strutturali complessi adibiti a tale scopo. La conservazione all’interno del mondo cattolico, nonostante gli indirizzi post tridentini, di spazi concessi a pratiche rituali strettamente connesse alla cosiddetta “seconda sepoltura”, se da un lato possiamo postulare sia stata velata da altri significati, come meditazione sulla morte, pratiche ascetiche monastiche, collettivizzazione dello spazio funebre in funzione del gruppo religioso e sociale, dall’altro dimostra quanto la chiesa controriformata sia scesa a patti con istanze arcaiche estremamente persistenti. In Sicilia, ed in altre aree del Sud, la nascita dei cimiteri pubblici suburbani ha segnato la fine di queste strutture ecclesiastiche, per quanto, come è possibile constatare ancora oggi nel mondo napoletano, molte pratiche abbiano seguito lo spostamento dei cadaveri e continuino ad accompagnare, in sacche di resistenza popolare, il periodo prolungato del lutto familiare nei moderni camposanti. In conclusione si può affermare che il volume, spaziando dalla biologia molecolare alla museologia, dall’antropologia fisica alla paleopatologia, fino all’archeologia funeraria, è riuscito a rendere un quadro esauriente della complessità e dell’ottimo livello raggiunto da questo tipo studi nel nostro paese. 12 MEDICINA NEI SECOLI ARTE E SCIENZA, 25/1 (2013) 13-34 Journal of History of Medicine Articoli/Articles CENNI DI STORIA DELLA PALEOPATOLOGIA IN ITALIA Gino Fornaciari Dipartimento di Oncologia, dei Trapianti e delle Nuove Tecnologie in Medicina Divisione di Paleopatologia, Storia della Medicina e Bioetica Università di Pisa, Pisa, I SUMMARY BRIEF HISTORY OF PALEOPATHOLOGY IN ITALY In the last decades, paleopathologists have developed a growing interest in archaeological, anthropological, and medical disciplines. However, although there have been satisfactory results, which are reflected in numerous publications at the international level and in academic credits that, for example, have led to the establishment of an autonomous Division of Paleopathology (unique in an Italian University) at the Faculty of Medicine in Pisa, the future seems not so bright. Indeed, the lack of general interest that Italian institutions have shown toward research and the reduction of ministerial financial support, will result not only in a lack of a generational turnover among researchers, but also in the suspension or closure of the few paleopathology courses that are now running, and in the layoff of the small but excellent study groups currently working in the field. La data d’inizio degli studi di paleopatologia nel nostro paese non è chiara. I primi contributi alla disciplina datano alla fine del XIX secolo ma, essendo in genere pubblicati su riviste italiane, furono ignorati dalla comunità scientifica internazionale. Stefano delle Chiaie (1794-1860), professore di anatomia patologica presso la regia università di Napoli, fu il primo studioso italiano ad Key words: Italy - History - 20th century - Ancient diseases 13 Gino Fornaciari occuparsi attivamente di paleopatologia. Infatti, esaminando i resti scheletrici di Pompei, egli prestò particolare attenzione alle alterazioni patologiche1. Questo studio, che ebbe un’ampia diffusione in Europa, rappresenta il primo esempio di indagine paleopatologica sistematica in Italia. Per quanto pionieristico e privo di una reale prospettiva paleoepidemiologica, si trattò di una prima indagine su una estesa serie di provenienza archeologica, in un’epoca Fig. 1. Stefano delle Chiaie (1794-1860) in cui la maggior parte dei patologi si occupava solo di casi singoli. In realtà, la paleopatologia in Italia era già cominciata con alcuni studi sulle mummie, in seguito all’attenzione internazionale sulle mummie egizie suscitata in Europa dalla campagna di Napoleone in Egitto (1798-1801). Gli studi datano alla prima metà del XIX secolo, con un lavoro sulle mummie di Venzone in Friuli2, ma le pubblicazioni su queste mummie3, sulle mummie di Ferentillo in Umbria4, come pure su mummie egizie conservate nei musei italiani, continuarono fino alla prima metà del XX secolo5. Uno studio particolarmente innovativo di una mummia trovata a Cagliari, in Sardegna6, fu condotto dal medico legale Gaetano Corrado (1858-1934). Le indagini, di tipo forense, gli permisero di trarre conclusioni significative sulle caratteristiche antropologiche, sulla causa di morte e sull’inquadramento cronologico di questo individuo. Corrado poté stabilire che la mummia apparteneva ad un individuo di sesso femminile deceduto a 50-60 anni di età, in contrasto con l’opinione diffusa che si trattasse di una donna assassinata in 14 Cenni di storia della paleopatologia in Italia gravidanza. Egli rilevò anche alcune lesioni cutanee ed elevati livelli intestinali di antimonio, che pose in relazione con l’uso di sostanze assorbenti e di tartaro emetico, in cura ad una supposta polmonite. Questi reperti gli permisero di datare la mummia agli inizi del XIX secolo. Il Corrado, negli analoghi studi delle mummie di Venzone in Friuli e di Ferentillo in Umbria, richiamò l’attenzione sul ruolo degli acari (Acarus sp.) nel processo di mummificazione. A distanza di oltre mezzo secolo, gli scavi archeologici cominciarono a fornire abbondante materiale di studio scheletrico per i ricercatori. Veri e propri pionieri nello studio della paleopatologia dello scheletro furono il radiologo Piero Messeri (1916-1991), professore di paleontologia umana a Firenze7, e Cleto Corrain (1921-2007), ordinario di antropologia a Padova, che descrissero le caratteristiche paleopatologiche di numerosi casi studiati prevalentemente dal punto di vista antropologico8. Antonio Costa (1902-1983), professore di anatomia patologica a Firenze, studiò, in collaborazione con Giorgio Weber di Siena, i resti scheletrici dei membri della famiglia Medici, sepolti nella basilica fiorentina di San Lorenzo dal XV al XVIII secolo9; questi importanti reperti sono stati riesaminati di recente utilizzando le tecnologie biomediche più moderne10. La figura più importante della paleopatologia italiana fu certamente Antonio Ascenzi (1915-2000), professore di anatomia patologica a Pisa e a Roma. Le sue ricerche, pubblicate in prestigiose riviste Fig. 2. Antonio Costa (1902-1983) 15 Gino Fornaciari italiane ed internazionali, spaziarono dalla biologia e dalla biomeccanica dell’osso, all’ematologia e alle cardiopatie congenite11. Ascenzi non si dedicò solo all’anatomia patologica ma anche all’antropologia, compresa la paleopatologia e la paleontologia umana. Applicando le sue profonde conoscenze di fisiopatologia ossea ai resti umani antichi, condusse ricerche di paleoantropologia, soprattutto sui resti fossili dell’uomo di Neanderthal. Il nome di Ascenzi rimarrà per Fig. 3. Antonio Ascenzi (1915-2000) sempre legato alla scoperta e allo studio del più antico fossile umano in Italia, il cranio di Ceprano nel Lazio, una forma arcaica di Homo erectus12. Inoltre, le sue ricerche pionieristiche sulla mummia di Uan Muhugging in Libia13, datata al neolitico antico, e sulla mummia romana di Grottarossa14, e i suoi studi su molteplici aspetti e problemi riguardanti le malattie delle popolazioni umane antiche hanno reso Ascenzi il “moderno fondatore” della paleopatologia e degli studi sulle mummie in Italia. L’università di Torino L’Università di Torino condusse studi di antropologia sulle popolazioni antiche fin dagli inizi del XX secolo, inclusa la paleopatologia. Infatti, fra il 1911 e il 1935, fu costituita a Torino una grande collezione di antropologia egizia, comprendente scheletri e mummie, che fu alla base delle ricerche di Giovanni Marro (1875-1952), indirizzate soprattutto alla paleobiologia umana del passato15; Marro fu invitato nel 1911, dal grande egittologo torinese Ernesto Schiaparelli 16 Cenni di storia della paleopatologia in Italia (1856-1928), a partecipare come antropologo alle missioni archeologiche in Egitto allora in corso. Nel 1923 Marro ottenne la cattedra di antropologia presso l’università di Torino e nel 1926 fondò e diresse l’Istituto e Museo di Antropologia ed Etnografia. All’inizio degli anni ’60 ebbe inizio, presso l’Istituto di Antropologia dell’università di Torino, l’attività di ricerca di Brunetto Chiarelli e di Emma Rabino Massa, che spaziò in un ampio raggio di settori, compresa la paleodemografia e la paleopatologia. L’importanza della collezione di resti umani egizi e il dinamismo del gruppo di studio di Torino attrassero, nella seconda metà del XX secolo, alcuni celebri ricercatori stranieri, fra cui gli inglesi M.I. Satinoff e A.T. Sandison. Nel 1969 il 1st International Symposium on Population Biology of the Ancient Egyptians organizzato a Torino, cui fece seguito la pubblicazione degli atti16, suscitò un grande interesse nel mondo accademico mondiale. In occasione di questo congresso la paleopatologia fu introdotta ufficialmente in Italia, come disciplina autonoma strettamente interconnessa con l’antropologia, per lo studio delle popolazioni antiche. Il ruolo centrale di Torino per gli studi di paleopatologia in Italia fu ulteriormente ribadito nel 1978, con l’organizzazione del 2nd European Meeting of the Paleopathology Association17. I principali campi di interesse dei ricercatori torinesi riguardarono, oltre a studi classici di paleopatologia, come le malformazioni congenite e le patologie dell’accrescimento, anche lo studio istologico dei tessuti mummificati, con l’applicazione della paleoimmunologia. La prima ricerca sui tessuti mummificati risale al 1967, quando furono identificati alcuni elementi figurati del sangue in campioni di mummie della collezione Marro18. Gli studi istologici permisero di identificare la presenza di anemia falciforme e di talassemia, di forme larvali di nematodi, come lo schistosoma e l’anchilostoma, e di lesioni arteriosclerotiche19. Le eccezionali opportunità per lo studio paleopatologico offerte dalle collezioni di Torino indussero i ricercatori torinesi ad affrontare 17 Gino Fornaciari anche i problemi relativi alla conservazione e al deterioramento dei materiali mummificati conservati nei musei. Questi studi dimostrarono il ruolo fondamentale dell’esame istologico per pianificare la conservazione di resti umani antichi e per promuovere aspetti nuovi nella ricerca antropologica sulle collezioni museali20. Successivamente, grazie ai progressi metodologici e all’introduzione e all’ottimizzazione di tecniche innovative, la ricerca paleobiologica si indirizzò verso nuovi campi di indagine chimica, immunologica e molecolare21. Negli anni più recenti il gruppo di Torino ha condotto ricerche sulle malformazioni congenite e sulla patologia dell’accrescimento, argomenti di grande rilevanza sociale e che richiedono un’accurata archiviazione dei dati biologici22. Ezio Fulcheri, professore di anatomia patologica a Genova, fu il primo docente in Italia a tenere corsi ufficiali di paleopatologia agli inizi degli anni’80, sempre presso l’università di Torino. Infatti, Fulcheri aveva cominciato a collaborare con gli antropologi di Torino fin dal 1980, producendo importanti lavori sull’applicazione della paleopatologia e della immunoistochimica ai resti scheletrici e mummificati23. L’università di Pisa La scuola di antropologia di Pisa, comprendente anche la paleoantropologia, si sviluppò negli anni ’60 dello scorso secolo con gli studi pionieristici di Raffaello Parenti (1907-1977), ordinario di antropologia dal 1968, il quale dette inizio alle prime ricerche sui gruppi sanguigni nei resti scheletrici antichi, gettando le basi della paleoserologia. Nel decennio compreso fra il 1960 e il 1970, sotto la direzione di Silvana Borgognini e di Giorgio Paoli, gli studi paleoserologici furono al centro degli interessi della Scuola di Pisa. Furono effettuate ricerche immunologiche sui gruppi sanguigni della necropoli eneolitica di Ponte S. Pietro nel Lazio (1850-1700 a.C.), sugli Egizi di età dinastica 18 Cenni di storia della paleopatologia in Italia della collezione Marro di Torino, sui peruviani precolombiani delle necropoli di Ancon e di Cuzco e su campioni della popolazione cristiana di epoca copta di Sayala, nella bassa Nubia24. Seguirono anche ricerche di immunoistochimica e di paleonutrizione, tramite gli elementi in traccia e gli isotopi stabili nell’osso umano antico25. Infine, la scoperta e il perfezionamento della reazione a catena della polimerasi (PCR) per l’amplificazione del DNA antico (aDNA) permise di dare inizio anche a Pisa Fig. 4. Raffaello Parenti (1907-1977) alla disciplina nota attualmente come antropologia molecolare. La maggior parte delle ricerche svolte fra il 1980 e il 1990 si concentrò su collezioni scheletriche datate dal Paleolitico superiore all’Età del bronzo, abbandonando gli studi di tipo tipologico e razziale e indirizzando gli studi sugli aspetti paleopatologici e funzionali26. Nel corso degli anni ’90, con le ricerche di Alessandro Canci e di Vincenzo Formicola, la paleopatologia ha avuto un ruolo anche più determinante nel gruppo pisano, con lavori sulle malattie infettive e con la scoperta del più antico caso conosciuto di tubercolosi vertebrale27. Fra gli allievi di Raffaello Parenti, Francesco Mallegni è noto, anche al grande pubblico, per le ricostruzioni fisiognomiche di personaggi storici e per le discusse identificazioni dei resti scheletrici di Giotto e del conte Ugolino28. Nel corso della sua lunga carriera ha avuto modo di studiare anche reperti paleopatologici delle più diverse epoche, dal paleolitico al medioevo, e di effettuare studi di paleonutrizione con gli elementi in traccia29. 19 Gino Fornaciari La maggior parte delle ricerche paleopatologiche a Pisa furono però condotte, a decorrere dagli anni ’70, da ricercatori di estrazione medica e con una preparazione anatomopatologica, fra cui l’autore del presente articolo. In quegli anni le ricerche furono influenzate dai nuovi metodi di studio delle mummie da parte di studiosi anglosassoni30 e anche dalla presenza a Pisa dei paleopatologi americani Arthur C. Aufderheide ed Enrique Gerstzen. I principali settori di studio del gruppo pisano furono, oltre la paleopatologia in generale, lo studio delle mummie e la ricerca di antichi agenti batterici e virali. A partire dagli anni ’80 fu possibile applicare le moderne tecnologie biomediche allo studio dei tessuti molli delle mummie (egizie, peruviane e italiane). Questi studi permisero per la prima volta l’individuazione sicura di antichi agenti patogeni (virus, batteri e protozoi) e dimostrarono la presenza di casi di cancro già nel corso del Rinascimento. Di grande importanza scientifica fu la scoperta, nel 1986, di particelle di virus del vaiolo umano in un corpo mummificato del XVI secolo31 e, nel 1989, di treponemi sifilitici della stessa epoca32; nel 1992, fu possibile individuare al microscopio elettronico, in una mummia precolombiana dell’ XI secolo con sindrome megaviscerale, il Trypanosoma cruzi, agente della malattia di Chagas33. Il reperto fu utilizzato, come controllo positivo antico, in un ampio studio molecolare tramite DNA antico sulla diffusione della malattia di Chagas nell’America precolombiana34. Nel 1996 fu identificata la presenza di una mutazione genetica caratteristica, quella dell’oncogene K-ras, che anche oggi provoca il cancro, nel tumore che uccise il re di Napoli Ferrante I di Aragona alla fine del XV secolo35. Nel 1997 fu effettuata la prima laparoscopia in una mummia rinascimentale del XVI secolo36. E’ recente anche l’identificazione di una sequenza di DNA del virus del papilloma umano (HPV), un noto virus cancerogeno, in una mummia rinascimentale italiana37. 20 Cenni di storia della paleopatologia in Italia Infine, il gruppo di Pisa organizzò e rese operativo fra il 2004 e il 2007, il Progetto “Medici”, che ha permesso lo studio paleopatologico delle deposizioni funebri dei Granduchi dei Medici nella cripta della Basilica di S. Lorenzo a Firenze38. Fin dagli anni ’80 il gruppo di paleopatologi di Pisa si dedicò a studi pionieristici di paleonutrizione su serie scheletriche del bacino del Mediterraneo, tramite gli elementi in traccia nell’osso umano antico con la spettroscopia ad assorbimento atomico (AAS)39 e, più recentemente, con gli isotopi stabili, sugli aristocratici del Rinascimento italiano40. Dal 1994 al 1998 fu organizzato a Pisa il primo corso di paleopatologia post-laurea in Italia e nel 2004 fu creata la Divisione di Paleopatologia, afferente al Dipartimento di Oncologia della Facoltà di Medicina, che dette impulso a ricerche paleopatologiche sui resti mummificati e scheletrici adottando tutte le moderne tecnologie biomediche disponibili per ricostruire il profilo biologico delle popolazioni del passato, come immunoistochimica, tomografia assiale (TC), microscopia elettronica e paleobiologia molecolare. L’università di Chieti Fin dai primi anni ’80 un numero cospicuo di ricerche paleopatologiche fu condotto a Chieti da Luigi Capasso, professore di antropologia alla facoltà di Medicina. Spiccano fra questi studi quelli sulle vittime di Ercolano dell’eruzione vesuviana del 79 d.C., le ricerche epidemiologiche sull’antica Roma e anche alcune indagini su personaggi storici, come S. Rosa da Viterbo41. Capasso si è interessato anche dello studio e della conservazione dei resti mummificati antichi e, in particolare, dell’uomo del Similaun42. Oltre a promuovere attivamente la paleopatologia in ambito accademico, contribuì ad istituire il Servizio Tecnico per le Ricerche Antropologiche e Paleopatologiche del Ministero dei Beni Culturali, servizio nazionale che coordinò fin dal 1992. I suoi interessi nel campo della paleopatologia e dell’antropologia forense si riflettono nella fon21 Gino Fornaciari dazione della Società Italiana di Paleopatologia, di cui divenne il primo presidente, e del Journal of Paleopathology, edito dal 1987. Luigi Capasso è stato l’organizzatore, nell’anno 2000, dell’8th European Meeting of the Paleopathology Association, che si tenne a Chieti. Nel 2004, il Royal Anthropological Institute di Londra gli ha conferito la Biannual Medal for Medical Anthropology. Anche Renato Mariani-Costantini, professore di patologia generale alla Facoltà di Medicina di Chieti, ha dato il suo contributo agli studi paleopatologici. Nonostante che le sue ricerche riguardassero lo studio genetico dei tumori mammari e colorettali, a partire dagli anni ’70, si è occupato di problemi riguardanti l’evoluzione umana e delle malattie del passato. Nel 1976 prese parte agli scavi di Castel di Guido nel Lazio, portando alla luce alcuni fossili umani preneandertaliani datati a 300.000 anni da oggi43. Ha studiato dal punto di vista paleopatologico, in collaborazione con le Soprintendenze Archeologiche di Roma e dell’Abruzzo, i resti scheletrici di numerosi siti, datati dalla preistoria al medioevo44. Da 1996 al 2000 è stato responsabile del progetto “Paleopatologia” del C.N.R., sullo stato di salute delle popolazioni dell’Italia antica a partire dal periodo romano, descrivendo accuratamente una trapanazione del II secolo45. L’università di Bologna Fiorenzo Facchini, ordinario di antropologia all’università di Bologna dal 1976 al 2005, si è occupato prevalentemente di evoluzione umana, dei polimorfismi genetici, di paleoantropologia e di studi sulle popolazioni neolitiche e protostoriche, dando particolare rilievo anche alla paleopatologia. Molti di questi studi sono stati condotti in collaborazione con Maria Giovanna Belcastro, professore associato di antropologia sempre a Bologna, i cui studi più importanti hanno riguardato l’ergonomia e i marcatori scheletrici di attività e gli indi22 Cenni di storia della paleopatologia in Italia catori di stress dentari e scheletrici, ponendo l’accento sulle relazioni intercorrenti fra condizioni di vita e malattie46. Altri contributi In questi ultimi anni è andato crescendo in Italia l’interesse per la paleopatologia da parte di ricercatori di differente estrazione, che hanno dedicato la loro attività agli studi paleopatologici. In Sardegna, a Sassari, lo studio della paleopatologia ebbe inizio negli anni ’70, con le ricerche di Franco Germanà, allievo di Ascenzi ed autore del libro Trapanazioni, craniotomie e traumi cranici nell’Italia antica, che rappresentò la prima monografia sulle trapanazioni antiche nel nostro paese47. A decorrere dagli anni ’80, un gruppo di studio dell’Università di Camerino nelle Marche, diretto da Franco Rollo, professore di antropologia nello stesso ateneo, ha condotto studi sulla conservazione e sulla tipizzazione molecolare del DNA antico nei resti scheletrici umani e nelle mummie, in particolare nella mummia neolitica del Similaun, nota come Oetzi48. Sempre a Padova, a partire dagli anni ’80, il radiologo Andrea Drusini, in seguito ordinario di antropologia presso la facoltà di Medicina, dette inizio a studi antropologici, in particolare sulle popolazioni precolombiane, soprattutto del Messico, del Cile e del Perù, partecipando anche a numerose missioni archeologiche49. Drusini si è occupato anche di studi paleopatologici su resti scheletrici e mummificati italiani50. Alla fine degli anni ’90 Luca Ventura, anatomopatologo all’Aquila, si è occupato di studi sui resti umani mummificati dell’Abruzzo interno, con particolare attenzione alle tecniche istologiche ed immunoistochimiche51. Egli è stato presidente e socio fondatore dell’Associazione di Paleopatologia dell’Aquila ed è attualmente segretario del Gruppo Italiano di Paleopatologia (GIPaleo). Dopo la sua fondazione da parte di Gino Fornaciari nel 2007, il Gruppo ha ribadito la 23 Gino Fornaciari necessità di creare una rete informativa fra i ricercatori italiani più esperti nel settore della paleopatologia e di promuoverne la diffusione fra i colleghi più giovani. Anche l’oncologa Laura Ottini, professore associato di storia della medicina all’università di Roma, si è interessata attivamente di studi paleopatologici52; i suoi lavori più recenti hanno riguardato l’analisi molecolare dei tumori maligni antichi, diagnosticati in resti mummificati53. Come riconoscimento alla crescente visibilità della paleopatologia in Italia, la maggior parte degli attuali studi antropologici comprende anche l’analisi paleopatologica e, oltre ai corsi specialistici tenuti presso le università di Pisa, Torino e Venezia e in altri atenei, la paleopatologia è stata inserita nei corsi di antropologia e di altre discipline. Infine, nel 2009, grazie alla collaborazione fra le università di Bologna, Milano e Pisa, è stato istituito nel nostro paese il master postlaurea in Bioarcheologia, Paleopatologia ed Antropologia forense. In conclusione, la paleopatologia italiana ha avuto il merito di focalizzare l’attenzione del mondo accademico antropologico ed archeologico sullo studio paleopatologico dei resti scheletrici, diffondendo le ricerche paleopatologiche presso quasi tutti i gruppi di ricerca interessati. I contributi fondamentali dell’Italia in questo settore sono rappresentati da scoperte sia nel campo della patologia dello scheletro, come il più antico caso conosciuto di tubercolosi in uno scheletro neolitico della Liguria, sia in quello dei tessuti molli, come lo studio ultrastrutturale, immunologico e molecolare di antichi virus, batteri, protozoi e tumori maligni. L’applicazione delle moderne tecnologie biomediche (TC, laparascopia, istologia, immunoistochimica, estrazione e sequenziamento del DNA antico e isotopi stabili) allo studio delle mummie, iniziato in Italia sin dagli anni ’80 in maniera pionieristica, è diventata attualmente una prassi quasi di routine. 24 Cenni di storia della paleopatologia in Italia Il futuro della paleopatologia in Italia Negli ultimi decenni i paleopatologi hanno ampliato il loro orizzonte di studio nel nostro paese, sviluppando un interesse crescente per le discipline archeologiche ed antropologiche, oltre che mediche. Sebbene i risultati siano stati molto soddisfacenti, e siano confluiti in numerose pubblicazioni di livello internazionale, con una buona affermazione anche in ambito accademico, testimoniata dalla costituzione di una Divisione autonoma di paleopatologia presso la Facoltà di Medicina di Pisa, al momento ancora unica in Italia, il futuro della disciplina nel nostro Paese non è così roseo. Infatti, la mancanza di interesse da parte delle istituzioni pubbliche italiane e la riduzione del supporto finanziario da parte del Ministero, comporterà non solo la mancanza del necessario ricambio generazionale dei ricercatori, ma anche la sospensione o la chiusura dei corsi di paleopatologia presenti nelle università italiane e la dissoluzione dei piccoli ma eccellenti gruppi di lavoro ancora attivi. BIBLIOGRAFIA E NOTE 1. DELLE CHIAIE S., Cenno notomico-patologico sulle ossa umane scavate in 2. MARCOLINI 3. 4. 5. Pompei. Napoli, Filiatre Sebezio. 1854. F.M., Sulle mummie di Venzone. Milano, Società Tipografica de’ Classici Italiani, 1831. ZECCHINI P., Della mummificazione artificiale e naturale, ed in particolare delle mummie di Venzone. 1861. In: MARCOLINI F.M., Sulle mummie di Venzone. Sala Bolognese, Arnaldo Forni Editore, 1970, pp. 17-24; GALLASSI A., Le mummie naturali di Venzone. Riv. Stor. Sc. Med. Nat. 1950; 41: 194-199. 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Correspondence should be addressed to: [email protected] 34 MEDICINA NEI SECOLI ARTE E SCIENZA, 25/1 (2013) 35-50 Journal of History of Medicine Articoli/Articles I TUMORI IN PALEOPATOLOGIA: L’EVIDENZA DALLE MUMMIE Valentina Giuffra, Gino Fornaciari Dipartimento di Oncologia, dei Trapianti e delle Nuove Tecnologie in Medicina, Divisione di Paleopatologia, Storia della Medicina e Bioetica Università di Pisa, Pisa, I SUMMARY Tumors in paleopathology: evidences from mummies The relative abundance of neoplastic lesions documented so far in paleopathological literature, distributed over a wide lapse of time and in different geographic areas, demonstrates that a number of tumours affected past populations. Nevertheless, if dozens of cases of tumors affecting the skeleton are reported, only a few records are documented in soft tissues. The rarity of tumors in mummies is a debated problem; short life span of past populations, scarcity of mummified remains arrived to us in comparison with skeletal remains and technical difficulties to detect neoplastic lesions in ancient tissues seem to be the main reasons of the rarity of findings. It is important to pay maximum attention to any little sign of neoplastic lesion in ancient human remains, in order to increase our limited knowledge about the type of tumours and relative incidence afflicting our ancestors. Comparison with modern data could help understand the evolution patterns of cancer in the history of Mankind. Il problema dell’esistenza dei tumori maligni nelle popolazioni antiche è stato a lungo oggetto di dibattito in campo paleopatologico. Key words: Cancro - Paleopatologia - Mummie 35 Valentina Giuffra, Gino Fornaciari Se alcuni studiosi hanno ritenuto che l’incidenza dei tumori maligni in passato fosse molto rara o addirittura inesistente1, l’abbondanza di casi pubblicati in letteratura e distribuiti in un arco temporale e in un ambito geografico molto ampi2 smentisce oltre ogni dubbio questa visione. Va tuttavia precisato che se attualmente i tumori rappresentano la prima causa di morte seguiti dalle malattie cardiovascolari3, ciò non può essere ritenuto valido per i tempi antichi. Infatti, secondo gli studi più recenti, questa patologia era certamente presente, ma la sua incidenza era meno elevata per una serie di ragioni. Innanzitutto occorre tenere presente che l’età media della vita nel passato era inferiore rispetto ai tempi attuali; ciò implica che un individuo generalmente moriva prima di raggiungere la quarta o la quinta decade di vita, che costituiscono appunto le fasce d’età dopo le quali si concentra la più alta probabilità di sviluppare una patologia tumorale4. Inoltre, non sussistevano in passato molti dei fattori ambientali che attualmente sembrano giocare un ruolo di rilievo nella trasformazione neoplastica, come l’inquinamento, il fumo di sigaretta, alcuni farmaci, ecc. Questa considerazione tuttavia non deve far dimenticare che erano comunque presenti agenti cancerogeni, quali ad esempio le radiazioni ultraviolette, alcune sostanze chimiche presenti in natura e i virus oncogeni5. Occorre poi considerare che solo recentemente l’attenzione degli studiosi si è rivolta alla ricerca di patologie neoplastiche nei resti umani antichi. In passato, in campo antropologico, prevalevano le analisi di tipo metrico e l’interesse era rivolto piuttosto agli studi craniologici e razziali che a quelli paleopatologici; inoltre, gli antropologi non avevano la preparazione necessaria per individuare le manifestazioni macroscopiche delle patologie tumorali. È dunque probabile che molti casi non siano stati identificati e registrati correttamente. 36 I tumori nelle mummie Infine, lo studio dei tumori antichi è condizionato dallo stato di conservazione in cui ci sono pervenuti i reperti. Fattori naturali e interventi umani possono danneggiare i resti umani antichi, tanto da non rendere possibile il riconoscimento delle condizioni patologiche; le alterazioni neoplastiche stesse li rendono più fragili e più soggetti ad un rapido deterioramento. Terminologia e cancerogenesi Una neoplasia è una massa anomala di tessuto, la cui proliferazione cellulare non è soggetta ai normali meccanismi di crescita, si comporta in modo afinalistico ed è virtualmente autonoma. Le neoplasie possono essere classificate in diversi modi6. Uno dei criteri di classificazione più utile si basa sul tipo di cellula e di tessuto da cui il tumore prende origine. Si distinguono infatti i tumori di tipo epiteliale, se insorgono da un epitelio di rivestimento, da quelli di tipo mesenchimale o connettivale, se insorgono dai tessuti connettivali, come i muscoli o le ossa. Un’altra fondamentale classificazione si basa sul comportamento biologico delle neoplasie, che possono essere così suddivise in due gruppi principali: tumori benigni e tumori maligni. Si definiscono benigne quelle neoplasie caratterizzate da una bassa velocità di accrescimento, da assenza di invasione del tessuto circostante e di diffusione in sedi lontane (metastasi) e da un elevato grado di differenziazione cellulare, ossia da una buona somiglianza tra le cellule neoplastiche e le corrispondenti cellule normali. Al contrario si definiscono maligni i tumori caratterizzati da una più alta velocità di accrescimento, da una progressiva invasione e distruzione dei tessuti circostanti e dalla capacità di originare tumori secondari in sedi lontane dal punto di origine (metastasi). Anche se la maggior parte delle sostanze che promuovono le trasformazioni tumorali sono prodotti artificiali del progresso moderno, esistono molti agenti cancerogeni naturali, a cui erano esposte 37 Valentina Giuffra, Gino Fornaciari anche le popolazioni del passato7. Ad esempio gli idrocarburi policiclici, il cui potere cancerogeno è molto elevato, sono presenti nelle carni e nei pesci affumicati, e si liberano dai grassi animali in seguito alla cottura a fuoco vivo o alla brace. Considerando che nell’Antichità si faceva spesso ricorso all’affumicatura come metodo di preparazione e conservazione dei cibi e che le carni venivano normalmente cotte a fuoco vivo o alla brace, si comprende come l’esposizione a tali condizioni costituisse un evento quotidiano. Oltre al processo stesso di cottura, l’utilizzo di fuochi per l’illuminazione degli ambienti e per il riscaldamento costituiva un ulteriore fattore di rischio, dal momento che l’inalazione dei fumi derivanti dalla combustione ha un potere oncogeno. L’asbesto o amianto è un minerale naturale che si può trovare naturalmente nell’ambiente, le cui fibre risultano potenzialmente inalabili e possono provocare il mesotelioma e il tumore dei polmoni. Anche il radon, un gas radioattivo naturale prodotto dal decadimento del radio, la cui principale fonte di immissione nell’ambiente è il suolo, è implicato nell’insorgenza del cancro polmonare. Diverse piante e microrganismi producono sostanze chimiche cancerogene. Fra queste il gruppo più importante è rappresentato dalle aflatossine, tossine prodotte da alcuni ceppi di Aspergillus flavus, un fungo microscopico che cresce su granaglie e noccioline mal conservate. Gli studi tossicologici hanno dimostrato che questa sostanza è un potente cancerogeno epatico8. Se si considera che molte popolazioni del passato avevano un’economia prevalentemente agricola basata sulla produzione di cereali, si può ipotizzare che la contaminazione dei raccolti da parte di queste muffe non doveva essere un evento infrequente e si può dunque mettere in relazione la dieta con l’insorgenza del tumore. Le radiazioni ultraviolette di origine solare, in particolare le UVB, sono implicate nell’insorgenza di tumori cutanei, in particolare pres38 I tumori nelle mummie so le popolazioni di pelle chiara a basso contenuto di melanina che funge da filtro naturale ai raggi solari. Va inoltre considerato il potere oncogeno di alcuni virus, che fanno presupporre un’origine virale di alcune neoplasie umane. Tra i virus a DNA implicati nell’insorgenza di tumori maligni si annoverano i papilloma virus (HPV), di cui sono conosciuti ben 70 tipi geneticamente diversi, che inducono la genesi di carcinomi delle regioni genitali e del cavo orale; il virus di Epstein-Barr, un membro della famiglia degli Herpesvirus, correlato ad alcuni tipi di tumori del sistema linfatico (linfomi) e ai carcinomi nasofaringei; i virus dell’epatite B e C, associati alla patogenesi dell’epatocarcinoma. È stata dimostrata anche una stretta relazione tra l’infezione gastrica da parte del batterio Helicobacter pylori e l’insorgenza di linfomi e carcinomi dello stomaco. È infine accertato che l’insorgenza dei tumori può anche dipendere da una predisposizione ereditaria, anche se talora risulta difficile stabilire in che misura intervenga questo fattore. Si stima che circa il 5-10% dei tumori maligni appartenga ad una specifica forma ereditaria, ma in generale si ritiene che l’ereditarietà giochi un qualche ruolo in una più alta percentuale di casi9; la genetica potrà offrire in futuro maggiori risposte a questo proposito. Da quanto detto emerge chiaramente che a giocare un ruolo fondamentale nell’insorgenza dei tumori nell’Antichità dovevano essere soprattutto i fattori ambientali e culturali. Questi sono legati alle condizioni climatiche, ai modi di sussistenza e alle particolari abitudini dei gruppi umani, fattori che contribuiscono ad una diversa distribuzione dell’incidenza delle forme di tumori per aree geografiche e per periodi storici. In ogni caso, mentre i casi di tumori documentati in resti scheletrici sono diverse decine, sono pochi i casi di tumori diagnosticati fino ad ora nelle mummie. 39 Valentina Giuffra, Gino Fornaciari Evidenza di tumori nelle mummie Tumori maligni Le mummie rappresentano un eccezionale archivio di dati biologici, dal quale si possono ottenere preziose informazioni sullo stato di salute delle popolazioni del passato. Come si è detto, tuttavia, le testimonianze di tumori, in particolare maligni, attestate in reperti mummificati sono molto rare. Tra le centinaia di mummie egizie esaminate fino ad ora è emerso un solo caso di malattia neoplastica maligna. Si tratta di un uomo adulto proveniente dall’oasi di Dakleh e vissuto durante l’Epoca Romana, nel quale è stata osservata una massa anomala di tessuto localizzata nel retto. L’analisi istologica ha dimostrato che l’uomo aveva sviluppato un carcinoma rettale con invasione e infiltrazione della sottomucosa10. Anche le numerose mummie sudamericane hanno fornito scarsa evidenza di tumori maligni. Un bambino di 12-18 mesi, ritrovato nel Cile settentrionale e appartenente ad una cultura sviluppatasi tra il 300 e il 600 d.C., presentava una lesione sulla guancia destra, appena sotto l’occhio, che risultava forzatamente chiuso. Approfonditi studi hanno permesso di diagnosticare un caso di rabdomiosarcoma, il più frequente sarcoma delle parti molli in età pediatrica11. Dalle mummie conservate sul territorio italiano, grazie a condizioni microclimatiche favorevoli, provengono due interessanti casi di tumori maligni osservati in personaggi della nobiltà napoletana rinascimentale. Tra le mummie naturali e artificiali di principi e nobili aragonesi custodite nella Basilica di S. Domenico Maggiore in Napoli il corpo di Ferrante I di Aragona (1431-1494), re di Napoli (fig. 1A), ha restituito un caso di carcinoma del colon-retto (figg. 1B-C). Oltre all’indagine istologica, l’eccellente stato di conservazione dei tessuti molli ha permesso di effettuare un’indagine molecolare, volta ad identificare l’origine della massa neoplastica. 40 I tumori nelle mummie Fig. 1 La mummia del re Ferrante d’Aragona (A); aspetto macroscopico del tumore a livello del colon-retto (B); aspetto microscopico del carcinoma (C). L’analisi del DNA ha rivelato la presenza di una mutazione di un gene, il K-ras, associabile all’esposizione a carcinogeni chimici, probabilmente presenti nella dieta. Lo studio paleonutrizionale tramite gli isotopi stabili del carbonio e dell’azoto ha confermato infatti che il re Ferrante aveva un’alimentazione largamente basata sul consumo di carne, che ha probabilmente favorito l’insorgere dell’adenocarcinoma12. Sempre nella Basilica di S. Domenico Maggiore il corpo di Ferdinando Orsini, Duca di Gravina in Puglia (fig. 2A), ha rivelato un caso di neoplasia maligna periorbitale. Al momento del ritrovamento il volto del duca era coperto da un velo (fig. 2B) che, una volta rimosso, ha mostrato una lesione ampiamente distruttiva che si estendeva dall’angolo interno dell’orbita destra alla radice del naso, per arrivare alla glabella e al seno frontale (fig. 2C). 41 Valentina Giuffra, Gino Fornaciari Fig 2. La mummia di Ferdinando Orsini (A); il volto della mummia ancora coperto dal velo al momento dell’esumazione (B); il volto del Duca in stato di scheletrizzazione con lesioni litiche evidenti in corrispondenza della radice del naso e dell’angolo interiore dell’orbita destra (C). Le caratteristiche osteolitiche della lesione e l’aspetto istologico hanno suggerito una diagnosi di carcinoma cutaneo, verosimilmente a cellule basali. La neoplasia provocò la distruzione del bulbo oculare di destra con conseguente cecità, e probabilmente si estese anche 42 I tumori nelle mummie all’occhio sinistro per invasione diretta. Il coinvolgimento del naso e delle orbite aveva sfigurato il volto del duca, rendendo necessario l’uso di un velo al momento della sepoltura13. Tumori benigni I tumori benigni diagnosticati in reperti mummificati sono di poco più numerosi rispetto a quelli maligni. Il primo caso fu osservato nel 1821 da Augustus Granville (17831872) durante un’autopsia effettuata su una mummia egizia trovata a Gurna e appartenente ad una donna di circa 50-55 anni. L’utero risultava allargato in maniera abnorme, mentre l’ovaio di destra era racchiuso in una massa patologica. Lo studioso ipotizzò un cistadenoma o cistadenocarcinoma dell’ovaio. Tuttavia, i disegni lasciati da Granville, per quanto accurati, non possono chiarire se la neoplasia fosse di carattere maligno o benigno14. Da una tomba dell’Alto Egitto datata tra il 1290 a.C. e il 200 d.C. provengono resti mummificati isolati o non in connessione, tra cui una spalla sinistra recante una lesione cutanea. La localizzazione, le caratteristiche e i risultati degli studi isto-chimici suggeriscono una diagnosi di istiocitoma, un tumore del derma a carattere benigno15. Un’altra lesione cutanea è stata riscontrata sulla mano di una mummia femminile, sempre dall’Egitto dinastico; si tratta di un papilloma squamoso16. Ancora una neoplasia cutanea è stata riscontrata su una mummia egizia della collezione Marro (Torino): una piccola lesione rotondeggiante di 0,7 cm localizzata sul collo è stata interpretata come una verruca volgare, una formazione cutanea benigna indotta dal virus del papilloma umano17. La mummia egizia nota come PUM III, appartenente ad una donna di circa 35 anni e datata all’835 a.C., presentava un piccolo nodulo di circa 1 cm di diametro della mammella sinistra. Le caratteristiche 43 Valentina Giuffra, Gino Fornaciari della lesione e i risultati dell’analisi istologica depongono per una diagnosi di fibroadenoma, un tumore benigno della mammella18. Ancora dall’Egitto, l’autopsia effettuata su una mummia trovata nell’oasi di Dakleh e datata al Periodo Romano ha rivelato un’escrescenza papillare a livello della vescica, interpretata come un papilloma vescicale, o carcinoma di basso grado, un tumore vescicale poco aggressivo19. Tra le mummie sudamericane, quella di un adolescente di circa 14 anni proveniente dal Cile settentrionale e datata tra il 1100 e il 1200 d.C. mostrava una massa subcutanea di circa 6 cm sotto l’ascella destra. Le caratteristiche macroscopiche e istologiche hanno permesso di identificare questa formazione come un lipoma, un tumore benigno del tessuto adiposo20. Il cosiddetto “Principe di El Plomo”, un bambino di 9 anni che fu oggetto di sacrificio umano sulla cima della montagna andina Cerro El Plomo, presentava lesioni ulcerate alle gambe variabili tra 0,5 e 1 cm di diametro. Lo studio istologico ha dimostrato trattarsi di un angiocheratoma, un tumore benigno della cute che si manifesta principalmente negli arti inferiori e nel tronco. Nella stessa mummia sono state osservate due piccole lesioni alla base del pollice e dell’indice della mano sinistra, diagnosticate come verruche volgari, nelle quali l’esame ultrastrutturale ha evidenziato la presenza di particelle simil-virali, evidentemente il papillomavirus21. Tra le mummie conservate nel Convento di S. Giorgio degli Osservanti a Goriano Valli (L’Aquila), il corpo di una donna di circa 43-50 anni risalente alla seconda metà del XIX secolo (Fig. 3A) ha rivelato una neoformazione a livello della cavità addominale, osservata tramite esame TAC (figg. 3B-C), in quanto l’autopsia non è stata eseguita per ragioni conservative. La neoformazione è stata interpretata come un cistadenoma o un teratoma, anche se non è possibile determinare il grado di malignità senza un esame istologico22. 44 I tumori nelle mummie Fig. 3. La mummia di Goriano Valli (A); immagini TAC che evidenziano una neoformazione di carattere tumorale a livello della cavità addominale (B-C). Infine, la mummia di Maria d’Aragona (1503-1548), Marchesa del Vasto (fig. 4A), conservata nella Basilica di S. Domenico Maggiore a Napoli, presentava una piccola formazione cutanea peduncolata alla radice della coscia destra di 2 x 7 mm (fig. 4B). L’esame istologico ha rivelato un caso di condiloma acuminato, una lesione squamosa causata dal papillomavirus umano (HPV) (fig. 4C). L’eccellente stato di conservazione dei tessuti ha incoraggiato le analisi molecolari, grazie alle quali è stata identificata la presenza dell’HPV 18, un virus a trasmissione sessuale ad alto potenziale oncogeno, in particolare per le neoplasie epiteliali del tratto genitale femminile (fig. 4D); inoltre è stata verificata anche la presenza del virus JC9813, 45 Valentina Giuffra, Gino Fornaciari Fig. 4. La mummia di Maria d’Aragona (A); neoformazione peduncolata (3x12 mm) sulla radice della coscia destra, vista allo stereomicroscopio (X 7) (B); sezione istologica del condyloma acuminatum (X 10 Masson) (C); sequenziamento dell’HPV. Linea 1: prodotto dell’amplificazione PCR di HPV (141 bp). Linea 2: campione arricchito PCR di HPV; linea 3: controllo positivo; linea 4: campione in bianco (D). un altro papillomavirus con basso potenziale oncogeno23. Questo ritrovamento rappresenta la prima diagnosi molecolare di HPV nelle mummie e può aprire la strada ad ulteriori ricerche sull’evoluzione biologica di questi virus, molto importanti in oncologia umana. Conclusioni I casi di tumori fino ad ora diagnosticati nelle mummie e pubblicati in letteratura sono in totale 15, di cui solo 4 rappresentano neoplasie maligne. In particolare, secondo la classificazione basata sul tipo di cellula e tessuto di origine, sono attestati 3 tumori maligni epiteliali (1 carcinoma colo-rettale, 1 carcinoma rettale e 1 carcinoma cutaneo) e solo 1 di tipo connettivale (rabdomiosarcoma); anche tra i tumori benigni la maggior parte sono di tipo epiteliale (2 adenomi, 46 I tumori nelle mummie 2 verruche volgari, 2 papillomi, 1 angiocheratoma e 1 condiloma acuminato), mentre i restanti sono di tipo connettivale (1 istiocitoma e 1 lipoma). La rarità dei tumori diagnosticati nelle mummie, in particolare quelli maligni, è un problema controverso in paleopatologia24, soprattutto se si considera la totale assenza di neoplasie degli organi interni, quali i polmoni, il fegato, la prostata, lo stomaco, la tiroide, che risultano molto frequenti nelle casistiche cliniche attuali e che non sono stati osservati in nessuna delle centinaia di mummie esaminate in diverse parti del mondo. Tuttavia occorre fare una serie di considerazioni che, in parte, spiegano questa rarità. Innanzitutto alcune categorie di mummie, come quelle egizie di epoca dinastica, venivano sottoposte a trattamenti conservativi che includevano la rimozione della maggior parte degli organi interni, che ne ha impedito l’osservazione agli studiosi moderni. In ogni caso, la scarsità di evidenza di neoplasie nelle mummie indica certamente una minore incidenza di queste patologie nelle società del passato. Come già sottolineato, l’alta aspettativa di vita delle popolazioni attuali spiega l’elevata incidenza del cancro; infatti il cancro è la prima causa di morte nei paesi sviluppati e la seconda causa di morte nei paesi in via di sviluppo25. Nelle società del passato l’età media della vita era molto inferiore, nonostante differenze significative si riscontrino a seconda dell’area geografica o del periodo cronologico considerato, e dunque la morte arrivava prima che i tumori potessero manifestarsi. D’altro canto, molti fattori cancerogeni legati alla moderna società industriale, come il fumo da sigaretta, l’inquinamento, i composti chimici e le radiazioni artificiali, che non erano presenti in passato, hanno indubbiamente accresciuto l’incidenza del cancro nei tempi attuali. Oltre al fatto che i resti mummificati rappresentano reperti molto più rari rispetto ai resti scheletrizzati, le centinaia di mummie scoperte 47 Valentina Giuffra, Gino Fornaciari nel corso del XIX secolo sono state gravemente danneggiate dai metodi di studio invasivi in uso in quell’epoca, rivolti più a recuperare oggetti del corredo o a soddisfare la curiosità suscitata dalle mummie che non allo studio delle patologie che le affliggevano. Tuttavia, se gli studi più recenti si sono orientati all’uso di metodologie meno invasive, come l’osservazione macroscopica esterna e le indagini radiologiche, è anche vero che queste tecniche non sono sufficienti per poter fare diagnosi di neoplasie; infatti solo l’esame autoptico associato alle indagini istologiche può assicurare l’osservazione di lesioni suggestive di tumori, anche se negli ultimi decenni questi metodi di indagine sono stati evitati per il loro carattere distruttivo. In conclusione, nello studio delle mummie è importante prestare la massima attenzione a ogni piccolo segno di lesione neoplastica, al fine di accrescere le nostre conoscenze, fino ad ora limitate di paleo-oncologia. BIBLIOGRAFIA E NOTE Ringraziamenti Questo lavoro è stato supportato da una borsa di studio della Fondazione Arpa (www.fondazionearpa.it). 1. 2. 3. 4. 5. 6. WELLS C., Two Medieval Cases of Malignant Disease. BMJ 1964; 1: 16111612; MICOZZI M.S., Disease in Antiquity. The Case of Cancer. Arch Pathol Lab Med 1991; 115: 838-844. STROUHAL E., Malignant Tumors in the Old World. Paleopathol Newsl 1994; 85: 1-6; CAPASSO L., Antiquity of Cancer. Int J Cancer 2005; 113: 2-13; JEMAL A., SIEGEL R., XU J., WARD E., Cancer statistics, 2010. CA Cancer J Clin 2010; 60: 277-300. Kumar V., Abbass A.K., Fausto N., Aster J.C., Robbins. Pathologic basis of disease. 8th Edition, Philadelphia, Elsevier, 2010, p.273. Kumar V., Abbass A.K., Fausto N., Aster J.C., op cit., pp.270-276. 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JEMAL A., BRAY F., CENTER M.M., FERLAY J., WARD E., FORMAN D., Global cancer statistics. CA Cancer J Clin 2011; 61: 69-90. Correspondence should be addressed to: Giuffra Valentina, Divisione di Paleopatologia, Storia della Medicina e Bioetica, Dipartimento di Oncologia, dei Trapianti e delle Nuove Tecnologie in Medicina Via Roma 57, 56126 Pisa E-mail: [email protected] 50 MEDICINA NEI SECOLI ARTE E SCIENZA, 25/1 (2013) 51-84 Journal of History of Medicine Articoli/Articles DNA antico: principi e metodologie Flavio De Angelis, Gabriele Scorrano, Olga Rickards Centro di Antropologia Molecolare per lo Studio del DNA Antico- Dipartimento di Biologia Università degli studi di Roma Tor Vergata, Roma, I SUMMARY Ancient Dna: Principles and methodologies Paleogenetics is providing increasing evidence about the biological characteristics of ancient populations. This paper examines the guiding principles and methodologies to the study of ancient DNA with constant references to the state of the art in this fascinating disciplin. La storia della paleogenetica, seppur affascinante, ha origini relativamente recenti. I primi tentativi, effettuati utilizzando cloni batterici, di amplificare tracce di materiale genetico da frammenti tissutali mummificati non vanno oltre gli inizi degli anni 801,2,3. Da questi primi esperimenti, molti risultati sono venuti alla luce evidenziando molteplici aspetti dell’analisi molecolare: infatti attraverso lo studio del DNA recuperato da materiale biologico di campioni antichi è possibile indagare in profondità la variabilità genetica umana e i processi che la sottendono. Cospicue infatti sono le pubblicazioni relative alle relazioni filogenetiche tra Homo neandertalensis e la nostra specie4,5 così come alle analisi delle dinamiche popolazionistiche e alla struttura sociale di nuclei arcaici6,7. Ma lo studio della paleogenetica è un utile strumento anche per indagare processi Key words: aDna – Paleogenetics – Molecular anthropology 51 Flavio De Angelis, Gabriele Scorrano, Olga Rickards evoluzionistici8 e per ricostruire le caratteristiche fenotipiche di popolazioni antiche9,10,11. Inoltre, notevoli sono stati, negli anni, gli sviluppi della Paleogenomica, cioè la ricostruzione degli interi genomi di specie estinte12. Oggetto delle ricerche molecolari è il DNA antico (ancient DNA, aDNA), residui di materiale genetico che possono essere recuperati da una grande varietà di materiali biologici, di diversa origine, stato di conservazione ed età, come ossa, denti, coproliti13, corpi mummificati, sangue coagulato, frammenti vegetali e microrganismi. Anche tessuti molli possono comunque essere una fonte di aDNA in cui analizzare notevoli porzioni di genoma14; e persino elementi cheratinici come le unghie15 possono essere utilizzati come fonte primaria di aDNA. Diverse sono le fonti cellulari di tale materiale genetico, essendo il genoma costituito da varie frazioni compartimentalizzate. Se da una parte la genomica generalmente descrive la variabilità del genoma nucleare di un dato organismo, la paleo-genetica utilizza un secondo marcatore di elezione per lo studio della variabilità eucariotica, il DNA contenuto in organelli intracellulari quali i mitocondri16 e, seppur meno frequentemente, i plastidi delle cellule vegetali17. Infatti, il DNA mitocondriale, essendo presente in numerose copie (da centinaia a migliaia di copie per cellula18 rispetto alle sole due copie di genoma nucleare, risulta facilmente analizzabile in reperti antichi19. Tuttavia, lo studio del aDNA, soprattutto per quanto riguarda la specie umana, è soggetto a sostanziali limitazioni dovute alla presenza di materiale genetico moderno. Il DNA moderno, infatti, è presente in un più elevato numero di copie rispetto al materiale genetico endogeno del campione in esame, essendo quest’ultimo esposto a deterioramento diagenetico. Tale condizione rende quindi gli studi del aDNA estremamente impegnativi a causa della contaminazione da materiale moderno. La natura del campione biologico riflette in parte la qualità del materiale genetico ricavabile: infatti, se ossa e denti sono tessuti facilmente preservati per la loro natura calcificata, essi appaiono maggiormente 52 Dna antico: principi e metodologie contaminabili rispetto ai capelli, che tuttavia sono meno presenti nel record archeologico20. Il rinvenimento di falsi positivi rimane ancora oggi una delle maggiori problematiche della ricerca basata sull’analisi del aDNA. Non pochi sono gli studi che storicamente hanno evidenziato risultati a dir poco sorprendenti come frammenti genetici ricavati da elementi scheletrici fossilizzati pertinenti a dinosauri21 o a partire da insetti inclusi in materiale organico22,23. Tuttavia, molto spesso la rianalisi di tali dati24 ha permesso di correggere sostanziali errori che hanno reso, perciò, gli albori della paleogenetica antica, come uno dei terreni più fertili per le stravaganze scientifiche. Non meno importante è il problema della conservazione del reperto. Infatti, l’estrazione di DNA comporta la distruzione, seppur minima, di materiale biologico per cui è bene scegliere parti, per esempio, dello scheletro, di scarsa importanza per lo studio antropometrico oppure ricavare la quantità necessaria operando carotaggi di pochi millimetri di diametro in zone tali da non compromettere la successiva analisi morfologica25. Nonostante queste precauzioni nel campionamento, alcuni ricercatori sono restii ad applicare analisi genetiche su esemplari antichi per non compromettere l’integrità delle collezioni. La tematica in questione viene ad assumere importanza anche nei casi in cui la comunità odierna presso la quale un reperto è conservato riconosca al record archeologico una relazione culturale, come nel caso di discendenza biologica: difficilmente quindi permetterà l’analisi distruttiva di frammenti appartenenti ai loro antenati26,27. Per tali ragioni sarebbe estremamente utile riuscire a estrarre aDNA attraverso processi mini-invasivi ovvero utilizzando metodiche che non comportino la distruzione del materiale biologico. Attualmente si stanno elaborando dei protocolli che prevedono l’estrazione del DNA in fase liquida28. Questi metodi non compromettono l’integrità del reperto in quanto possono produrre alterazioni chimiche con conseguenti modificazioni fisiche che non sono però rilevabili macroscopicamente. 53 Flavio De Angelis, Gabriele Scorrano, Olga Rickards Nelle cellule l’integrità delle molecole di acido nucleico è mantenuta da complessi sistemi enzimatici che dopo la morte non garantiscono ulteriormente la loro attività funzionale29. In tal modo, il DNA è soggetto a danneggiamenti da parte di fattori esogeni quali attacchi batterici o fungini che ne limitano la preservazione30. Da qui è comprensibile la notevole difficoltà di reperire materiale genetico endogeno da campioni antichi, seppure tale scopo possa essere raggiunto in modo relativamente agevole nei rari casi in cui il materiale biologico risulti essere stato soggetto a rapido disseccamento o a fenomeni di assorbimento su matrici mineralizzate31. Un altro fattore che sembra influenzare positivamente la conservazione del aDNA è la bassa temperatura32. Infatti, le analisi dei reperti più antichi si riferiscono a campioni biologici non umani provenienti da regioni sub-artiche; in particolare, le ossa preservate nel permafrost si sono dimostrate idonee al recupero di aDNA permettendo l’amplificazione di frammenti lunghi dalle 100 alle 900 bp33,34. Diversi studi hanno altresì proposto come le dimensioni medie dei frammenti non possano eccedere le 100-500 bp e che non possa essere recuperato DNA da reperti che eccedano il milione di anni, anche in condizioni climatiche tra le più favorevoli35. Fondamentale per gli studi del aDNA è stata l’invenzione della metodica della polimerizzazione a catena (Polymerase Chain Reaction, PCR)36, mediante la quale è possibile amplificare selettivamente tratti di DNA. Tecnicamente, la PCR è un metodo di clonaggio di DNA che non prevede l’utilizzo di vettori, cosa precedentemente indispensabile per amplificare tratti di materiale genetico37. Questo metodo permette la selezione rapida, l’isolamento e l’amplificazione in vitro di qualsiasi tratto di DNA di cui siano note le estremità al 5’ ed al 3’ della molecola: ciò avviene grazie all’utilizzo di una DNA polimerasi termostabile (Taq polimerasi), isolata dal batterio termofilo Thermus aquaticus, e di due sequenze oligonucleotidiche lunghe 18-25 paia di basi (base pairs o bp), dette primers, com54 Dna antico: principi e metodologie plementari alle regioni fiancheggianti il segmento di interesse. La metodica prevede la ripetizione ciclica di temperature in 3 fasi principali: denaturazione del DNA originale, appaiamento dei primers alle regioni fiancheggianti e allungamento del filamento a partire dai primers sullo stampo fornito dal DNA originale. Nello specifico, la denaturazione prevede una temperatura elevata (in genere 94°C-96°C) per far avvenire la separazione dei due filamenti della doppia elica del genoma che si intende analizzare; a questa segue la fase di allineamento in cui la temperatura viene diminuita al fine di permettere l’appaiamento tra gli oligonucleotidi e il template secondo la regola che una purina sarà complementare a una pirimidina (la guanina alla citosina; mentre l’adenina alla timina). La fase finale di estensione avviene a un temperatura di 72°C-74°C, in cui l’enzima raggiunge la massima efficienza. E’ stato provato che a questa temperatura la polimerasi lega da 35 a 100 nucleotidi al secondo, perciò, in un minuto si possono amplificare almeno 2000 basi. Il numero di cicli varia tra i 25 e 40, in relazione alle molecole di DNA bersaglio iniziali38. Il risultato finale è un accumulo esponenziale di copie del DNA stampo dell’ordine di 2n (con n uguale al numero di cicli eseguiti). L’ottenimento di numerose copie di uno stesso segmento genetico di per sé non consente l’analisi della variabilità genetica. Infatti, tale processo è solo la prima fase dell’esperimento: le molecole ottenute devono essere quindi processate al fine di identificare l’esatta sequenza delle basi costituenti il filamento di DNA39. Inoltre, nello studio del aDNA è sicuramente consigliabile non fermarsi al sequenziamento diretto dei prodotti di PCR ma è fondamentale procedere al clonaggio dei vari amplificati e sequenziare più ampliconi. L’analisi di questi permette di discriminare tra le mutazioni presenti in tutte le sequenze da quelle che si verificano solo occasionalmente in uno o pochi cloni. Tale presupposto consente di distinguere la contaminazione da DNA esogeno umano, artefatti derivanti da lesioni al DNA e anche errori della Taq polimerasi. Il clonaggio permette 55 Flavio De Angelis, Gabriele Scorrano, Olga Rickards di ottenere numerose copie identiche di un frammento specifico di DNA sfruttando il meccanismo di replicazione del materiale genetico all’interno di cellule batteriche, solitamente di Escherichia coli, il cui ciclo riproduttivo di pochi minuti garantisce di ottenere in poche ore un numero elevato di cellule procariote. Per effettuare un clonaggio si deve inserire il tratto a doppia elica di interesse, ottenuto tramite PCR, all’interno di batteri, grazie all’utilizzo di plasmidi capaci di attraversare facilmente la membrana plasmatica della cellula. Il plasmide utilizzato come vettore di clonaggio deve possedere almeno un gene che conferisca resistenza agli antibiotici e un sito di inserzione per il frammento di DNA esogeno all’interno di un gene la cui espressione fenotipica possa essere monitorata. Uno dei sistemi maggiormente utilizzati prevede l’utilizzo di un vettore contenente il sito di inserzione dei frammenti localizzato sul gene LacZ che codifica per l’enzima β-Galattosidasi, in modo tale che l’inserzione del DNA amplificato tramite PCR impedisca, per frameshift, la sintesi di quella particolare proteina. Le cellule batteriche trasformate vengono quindi fatte crescere su un terreno di coltura contenente galattosio, il cui metabolismo può essere identificato. L’utilizzo di galattosio da parte della cellula procariota provocherà un viraggio cromatico delle colonie batteriche: lo stato metabolizzato conferirà alla colonia un cromatismo blu, mentre il mancato metabolismo del substrato potrà essere identificato da una colonia incolore. Al termine della crescita avverrà lo screening per riconoscere le colonie cellulari contenenti il plasmide ricombinante (quindi che ha il frammento di DNA internalizzato) che appariranno bianche rispetto a quelle prive di plasmide o con il plasmide non coniugato all’inserto, che saranno di colore blu. Almeno 15 cloni devono essere successivamente analizzati e sequenziati in modo da ottenere una sequenza consenso significativa. L’analisi della sequenza è l’ultimo passaggio e permette la discriminazione della successione delle basi di un frammento di DNA amplificato: in particolare è possibile discriminare tutti i tipi 56 Dna antico: principi e metodologie di polimorfismi puntiformi (che equivalgono alla sostituzione delle basi azotate nella molecola di DNA), ma anche inserzioni e delezioni di basi. La reazione di sequenza consiste in una PCR asimmetrica, dove viene utilizzato un solo primer che consente l’amplificazione di un singolo filamento, che tramite interpolazione con software specifici, permette di delineare la sequenza delle singole basi azotate nel filamento amplificato. Sebbene tale metodica rimanga alla base di molte ricerche relative al DNA di campioni antichi, oggi le nuove frontiere tecnologiche hanno permesso di aumentare la specificità e la sensibilità dei procedimenti per la valutazione delle sequenze di DNA endogene, permettendo di sequenziare ampi tratti dei genomi antichi. Come precedentemente esposto, le tecniche di analisi del aDNA prevedono la polverizzazione di frammenti ossei o di denti per il successivo recupero del materiale genetico40. E’ bene precisare che il prodotto di estrazione è costituito non solo dal DNA endogeno del reperto, ma è in realtà una complessa miscela contenente DNA di batteri, funghi, e contaminanti presumibilmente presenti sulla superficie del campione biologico. Se per l’amplificazione di sequenze note, specialmente quelle mitocondriali, la PCR rimane la metodica elettiva, per l’analisi genomica si preferirà coprire stocasticamente l’insieme del genoma totale seguendo due metodi: la costruzione di una libreria di DNA; oppure il processamento con il “Next Generation Sequencing” (NGS). Per la costruzione della libreria il DNA è frammentato enzimaticamente e inserito in plasmidi che saranno impiegati per la trasformazione di cellule batteriche. Quindi il clonaggio consiste nella moltiplicazione di un segmento di DNA appartenente al genoma del reperto antico. Il clonaggio, prevede l’utilizzo di endonucleasi di restrizione che tagliano sia la totalità dei genomi estratti che i vettori, secondo specifiche sequenze nucleotidiche. Dalle colonie formatesi si potrà quindi sequenziare il frammento clonato che varierà in funzione del segmento inserito, che sarà una frazione casuale derivante dalla digestione del DNA totale estratto 57 Flavio De Angelis, Gabriele Scorrano, Olga Rickards dal reperto. Tuttavia tale tecnica non risulta facilmente percorribile, infatti per ottenere sequenze endogene è necessario sequenziare un gran numero di cloni: le percentuali di successo nel clonare sequenze endogene del reperto variano da 1% a 6%41. Inoltre, attraverso tale metodologia, è impossibile sequenziare una regione specifica del genoma, perché i frammenti ottenuti rappresentano frazioni randomizzate del genoma stesso. I procedimenti noti come NGS permettono di analizzare un enorme dataset di sequenze mediante una particolare tecnologia. Il DNA estratto dal campione, costituito da frammenti di dimensioni variabili, è unito a due linkers oligonucleotidici al 3’ e al 5’ della molecola template. Tali frammenti sono poi amplificati mediante una PCR a emulsione, dove ogni goccia di soluzione acquosa rappresenta un micro reattore in cui si verifica l’amplificazione utilizzando primers complementari ai linkers. Inoltre, l’amplificazione è condotta in modo tale che il nuovo filamento possa legarsi covalentemente a delle micro-sfere: così, dopo l’amplificazione in emulsione, saranno prodotte centinaia di migliaia di microsfere, ognuna delle quali sarà legata a un frammento di DNA a singolo filamento originato da una molecola stampo. Le sfere saranno poi inserite in una piastra contenente più di un milione di pozzetti entro i quali si localizzeranno, e quindi verranno sequenziate le frazioni di DNA tramite pirosequenziamento in loco. Questa tecnica sfrutta la produzione di pirofosfato (PPi) che si evidenzia quando si aggiunge un nucleotide alla catena polinucleotidica. La sequenza da analizzare, dopo essere stata amplificata con la PCR, viene incubata come singola elica insieme agli enzimi DNA polimerasi, ATP solforilasi, luciferasi e apirasi e ai substrati adenosinsolfofosfato (ASP) e luciferina. Uno dei quattro deossi-nucleotide-tri-fosfato (dNTP) è aggiunto alla reazione. La DNA polimerasi catalizza l’aggiunta di tale base solo se è complementare al residuo del templato. In tal caso si ha la concomitante liberazione di pirofosfato inorganico PPi. Il PPi così prodotto viene 58 Dna antico: principi e metodologie trasformato in ATP per opera della solforilasi mediante l’utilizzo di ASP come substrato. L’ATP ottenuto consente la conversione della luciferina a ossiluciferina grazie alla luciferasi con produzione di un segnale luminoso che viene rilevato da un’apposita camera fotosensibile (CCD). L’enzima apirasi degrada il dNTP che non è stato incorporato e l’ATP prodotto dalla solforilasi. Solo quando la degradazione è terminata si aggiunge un secondo dNTP per far progredire la reazione di polimerizzazione. Si aggiungono ciclicamente tutti e 4 i dNTP fino a ottenere la sequenza completa. Il segnale luminoso prodotto dalla luciferina, viene registrato in un apposito “pirogramma” in modo proporzionale all’ATP prodotto e quindi al nucleotide inglobato: un picco di intensità doppia, per esempio, rileva che nello stesso ciclo sono stati inglobati 2 dNTP (se presente una ripetizione della stessa base sul templato). Viceversa un segnale nullo indica che il dNTP aggiunto in quel ciclo non è complementare. In questo modo è possibile raggiungere frammenti di sequenze che sovrapponendosi parzialmente (costituendo un contig) consentono di avere sequenze consenso lunghe fino a 20-30 milioni di nucleotidi42, ed è quindi evidente il potenziale applicativo di questa tecnica allo studio dei genomi antichi. Proprio la natura antica del campione tuttavia aumenta le difficoltà di analisi: infatti, le molecole di aDNA sono contenute in cellule non più pertinenti a tessuti vivi, quindi sono sottoposte a una serie molteplice di fattori esogeni che tendono a provocare danni non più riparabili dai sistemi cellulari. Infatti, come conseguenza della morte, il DNA contenuto nell’organismo va incontro a una serie di processi degradativi che ne modificano le proprietà chimico-fisiche. I fattori che contribuiscono alla degradazione della molecola sono principalmente: idrolisi (che porta alla perdita delle basi azotate); azione ossidativa delle radiazioni ionizzanti (con la produzione di radicali liberi); modificazioni del pH (che rompe i legami idrogeno, reagisce con i gruppi ossidrili o provoca la depurinazione), ra59 Flavio De Angelis, Gabriele Scorrano, Olga Rickards diazioni UV (che causano interazioni intermolecolari denominate crosslink) e la presenza di acidi umici nel terreno. Il principale danno a carico degli acidi nucleici estratti a partire da reperti antichi è in prima istanza identificabile relativamente alle esigue dimensioni dei prodotti di amplificazione (tra 100 e 500 bp43). Questi frammenti di piccole dimensioni possono essere il risultato di diverse reazioni a carico della molecola di DNA. Per esempio, possono essere prodotti per un blocco della DNA polimerasi: l’enzima presenta un’attività polimerasica principale in direzione 5’->3’ del filamento, con la formazione del legame fosfodiesterico fra un terminale 3’-OH di un nucleotide di innesco e il fosfato alfa sul 5’-trifosfato di un nucleotide libero (dATP, dGTP, dCTP, dTTP), con rilascio di pirofosfato (PPi). L’enzima segue le regole di complementarità fra le basi (A-T/C-G) imposte dal templato, inoltre un terminale 3’-OH è sempre richiesto, come per tutte le DNA polimerasi, ed è sempre necessario un primer per iniziare la sintesi. Danni indotti da radicali presenti durante i processi decompositivi possono essere facilmente arrecati ai doppi legami delle molecole organiche delle purine e delle pirimidine, provocando rottura degli anelli eterociclici ovvero causare la rottura degli zuccheri che conseguentemente non consentono alla polimerasi di esplicare la sua funzione44. Altri danni a carico del aDNA possono essere provocati da reazioni, enzimatiche e non, di rottura della catena fosfodiesterica: ciò può quindi provocare una frammentazione del singolo filamento interessato45. Altre frammentazioni possono occorrere nel legame tra le basi azotate e la catena fosfodiesterica, con la conseguente formazione di siti privi della base azotata46 che può quindi provocare scissione del filamento47. Infine il DNA può anche essere danneggiato quando i gruppi amminici della citosina, adenina e guanina (la timina non possiede un gruppo amminico) vengono eliminati a seguito di reazioni di idrolisi (deaminazione idrolitica). Le basi deaminate vengono rimosse in vivo da particolari meccanismi di riparazione enzimatica, con le DNA-glicosilasi che idrolizzano i 60 Dna antico: principi e metodologie legami glicosidici tra basi deaminate e desossiribosio. L’idrolisi del legame glicosidico di una purina deaminata produce un sito apurinico, mentre quello di una pirimidina deaminata un sito apirimidinico. Il tratto di DNA alterato (cioè contenente un sito apurinico o apirimidinico) viene riconosciuto da una endonucleasi che taglia il filamento di DNA a una distanza di circa 4-8 nucleotidi a monte e a valle del nucleotide danneggiato. Delle elicasi e delle esonucleasi rimuovono e degradano il filamento singolo danneggiato48. E’ evidente che, nel caso di reperti antichi, tale complesso enzimatico non può riparare l’alterazione che così provocherà la sostituzione di basi nelle molecole neo formate dalla PCR. Tale fenomeno è stato ampiamente studiato e due metodiche permettono di identificarlo: l’utilizzo del uracil-DNA-glicosilasi, in quanto l’uracile presente nel aDNA a causa di deaminazione della citosina viene rimosso da tale enzima49; e la comparazione delle mutazioni riscontrate con eccesso di mutazioni C-T e G-A in cloni ottenuti da sequenze antiche deaminate50: infatti la citosina deaminata è un uracile che porta all’incorporazione nel filamento complementare di una adenina piuttosto che una guanina. Anche la Taq polimerasi può incorporare nucleotidi erronei nei nuovi filamenti e per questo risulta importante il clonaggio dei prodotti amplificati utilizzando vettori batterici51. Purtroppo, le attuali conoscenze sui danni a carico del aDNA sono tutt’altro che complete e necessitano di ulteriori ricerche circa le possibilità di incorporare nucleotidi errati o di analizzare molecole ampiamente danneggiate dal tempo e da fattori esogeni. Associato a queste problematiche vi è anche il problema della contaminazione. Fonte primaria di contaminazione sono i microrganismi che crescono a spese del materiale cellulare, degradandolo, impoverendolo del DNA originale e arricchendolo del loro. Nel caso di resti umani tuttavia è possibile, attraverso l’analisi di marcatori specifici, discriminare tra componente primaria (endogena) degli acidi nucleici e quella secondaria (batterica o fungina). Problema ben più oneroso è 61 Flavio De Angelis, Gabriele Scorrano, Olga Rickards rappresentato dalla contaminazione del campione con DNA moderno umano che, necessariamente più integro del residuo, tende a venire amplificato preferenzialmente durante la PCR. Questo tipo di contaminazione può facilmente avvenire con le manipolazioni dei resti umani compiute, in successione, dall’archeologo, dal personale del museo, dall’antropologo e infine dal biologo molecolare. Per evitare questo problema sarebbe meglio analizzare anche il DNA degli operatori che sono entrati in contatto con i reperti. Al rischio d’inquinamento da manipolazione va aggiunto quello causato dall’ambiente e dagli strumenti: la polvere è un potente veicolo di contaminazione perché contiene peli e cellule desquamate oltre a microbi, acari e altri organismi. Nei laboratori di antropologia molecolare i prodotti stessi della reazione di amplificazione enzimatica, veicolati sotto forma di aerosol, diventano la principale causa di inquinamento dell’aria, delle apparecchiature e dei reagenti usati per le analisi. Esiste poi la contaminazione dovuta alla presenza di DNA umano nelle plastiche da laboratorio52. I controlli negativi (ovvero miscele formate dagli stessi costituenti della miscela per la PCR in cui manca DNA) costituiscono in questi casi un efficace sistema per identificare la contaminazione. Un tipo particolare di contaminazione è quello dovuto alla presenza di sostanze che inibiscono l’azione della polimerasi e che possono provenire da trattamenti di imbalsamazione o dal restauro subito dopo il recupero, ma anche dall’interramento del reperto: può trattarsi di composti del suolo come acidi umici, acidi fulvici e altre sostanze53. Esistono, tuttavia, sistemi di purificazione del DNA estratto che consentono di ridurre efficacemente l’effetto inibitorio di queste sostanze. Infine, la contaminazione da DNA eterologo umano può aver avuto origine anche in momenti precedenti al recupero e può essere dovuta, per esempio, a gesti funerari quali la preparazione o il trattamento del cadavere, o a pratiche post-sepolcrali, quali l’apertura della tomba, la manipolazione dei reperti, la riesumazione. Oltre ai riti funebri, fonti di contaminazione sono costituite da sepolture multiple e da 62 Dna antico: principi e metodologie agenti patogeni. E’ importante, quindi, una documentazione accurata sul reperto e sulla sua storia post-mortem, necessaria per prevedere la possibilità di recuperare DNA originale dal reperto. Risulta quindi necessario che, durante il recupero nel corso dello scavo archeologico e in tutte le fasi successive di immagazzinamento temporaneo, di trasporto, fino alla consegna ai vari laboratori di analisi e di restauro, siano seguite tutte le procedure e siano usati accorgimenti atti a tutelare la materia organica residua per ottenere il maggior numero possibile di informazioni54. Come norma generale, i reperti dovrebbero sempre essere manipolati, durante il recupero, con guanti e mascherina; anche nel laboratorio di antropologia molecolare il reperto non deve venire a contatto con DNA amplificato o con altro DNA più recente: è quindi indispensabile l’uso di guanti chirurgici, camice, cuffia e mascherina sterili e monouso. È di grande importanza la pulizia giornaliera dell’area di lavoro e la sua decontaminazione per mezzo di ipoclorito di sodio, la sterilizzazione degli strumenti e l’utilizzo di reagenti monouso sterilizzati55. Obiettivo primario diviene dunque la riduzione al minimo degli agenti contaminanti, per esempio lavorando con la massima sterilità durante tutte le varie fasi della ricerca. Sono stati inizialmente redatti i seguenti criteri di autenticità56: (a) eseguire degli estratti di controllo in parallelo con quelli dei campioni antichi per rilevare la presenza di contaminazione all’interno dei reagenti utilizzati durante questa procedura; (b) su ogni campione deve essere eseguito più di un estratto e tutti gli estratti devono restituire sequenze di DNA identiche; (c) ci deve essere una correlazione inversa tra efficienza di amplificazione e dimensione del prodotto amplificato, che riflette la contaminazione, la degradazione e il danno nel aDNA. Infatti, è stato dimostrato che amplificando frammenti lunghi al massimo 100 bp aumenta la probabilità di amplificare il DNA endogeno riducendo quindi la contaminazione esogena57. Tali criteri sono stati costantemente ampliati e aggiornati: oggi vi è una lista di procedure a cui attenersi rigorosamente per azzerare il 63 Flavio De Angelis, Gabriele Scorrano, Olga Rickards rischio di contaminazione nei laboratori di indagine genetica58,59: a) clonare gli amplificati nel caso di contaminazioni avvenute nel tempo sulle quali non è più possibile intervenire (permette di determinare il rapporto tra le sequenze endogene/esogene: l’ideale sarebbe trovare frammenti sovrapponibili per accertarsi che l’eventuale variazione della sequenza è reale e non il prodotto di errori); b) determinare attraverso Real-Time PCR la quantità di molecole di DNA amplificabili presenti in un estratto; la quantificazione deve essere eseguita per ciascun coppia di primers che vengono utilizzati per poter ottimizzare l’esperimento60,61 c) indagare lo stato di conservazione del reperto osseo. Tale analisi preventiva merita un approfondimento. In primo luogo, perché è uno screening rapido per identificare i reperti che potrebbero contenere DNA, in secondo luogo perché permette di confermare l’esperimento in quanto in un esemplare ben conservato è più probabile che il DNA sia preservato. Per questa indagine sono state proposte diverse tecniche: l’analisi dei cristalli di idrossiapatite dell’osso tramite spettroscopia infrarossa in trasformata di Fourier (FT-IR)62 e l’analisi degli amminoacidi presenti nella componente organica. Metodi alternativi comprendono la stima del rapporto tra i frammenti peptidici a singoli amminoacidi tramite spettrometria di massa63, l’analisi istologica64,65,66,67, la determinazione dei danni del DNA tramite gas cromatografia/spettrometria di massa68, la misurazione della porosità e densità ossea69 e la microscopia elettronica a trasmissione70. L’analisi all’FT-IR deve essere eseguita secondo la procedura standard che utilizza la pasticca di Bromuro di Potassio (KBr)71. Andando ad analizzare gli spettri ottenuti con questa tecnica si ottengono molte informazioni sull’idrossiapatite, uno dei costituenti principali del tessuto osseo, e in generale sul suo stato di preservazione; per esempio si può evidenziare se l’osso ha assorbito carbonato di calcio proveniente dall’ambiente circostante la sepoltura attraverso la presenza del picco a 713 cm-1 72; oppure se il cristallo di idrossiapatite ha subìto ricristallizazione, incorporando ioni come il 64 Dna antico: principi e metodologie fluoro (F) e quindi portando alla formazione della francolite, attraverso la presenza del picco a 1098 cm-1 73. Tramite questa indagine è possibile anche calcolare il rapporto tra carbonato e fosfato (C/P), stimato a partire dalle altezze dei picchi, prese in riferimento a una linea di base tra le altezze dei picchi a 1435 cm-1 (per C) e 875 cm-1 (per P), che evidenzia contatti tra l’osso e l’ambiente circostante e possibili incorporazioni diagenetiche, del carbonato nel cristallo74. Infine, si può calcolare lo splitting factor (SF) o indice di cristallinità (CI), parametro fondamentale per determinare la diagenesi della matrice ossea mediante il quale è possibile riflettere la reale dimensione del cristallo e l’estensione del reticolo degli atomi costituenti il tessuto osseo. Con questa tecnica si evidenziano i segnali relativi ai moti vibrazionali (di tipo torsionale) dell’orto-fosfato che assorbe tra 500 e 600 cm-1 sia per il fosfato di calcio amorfo che per l’apatite cristallina (Fig. 1). Fig.1 Esempio di spettro, in assorbanza, ottenuto tramite l’FT-IR per un campione osseo 65 Flavio De Angelis, Gabriele Scorrano, Olga Rickards Fig. 2: Assorbanze utilizzate per il calcolo dello SF (cfr testo). L’apatite ha un assorbimento ben definito in due bande e attraverso lo SF si può misurare l’ammontare di questa separazione75; più aumenta, più l’apatite è stata diageneticamente deteriorata, secondo la seguente formula: A+ B SF = C dove A e B sono le altezze dei picchi a 563 cm-1 e 603 cm-1, mentre C è quella relativa al picco tra A e B. Tutte le assorbanze sono riferite a partire dalla linea di base76. Per completare l’analisi dello stato di preservazione osseo si deve analizzare anche la componente organica valutando il tasso di racemizzazione degli amminoacidi D-amminoacidi/L-amminoacidi tramite gas cromatografia-spettrometria di massa (GC-MS). Esso rappresenta un importante strumento di indagine nelle analisi del 66 Dna antico: principi e metodologie aDNA77 perché tutti gli amminoacidi, a eccezione della glicina (Gly), otticamente inattiva, presentano due isomeri ottici (enantiomeri): D (destro giro) e L (levo giro). Dei due, solamente l’enantiomero L viene utilizzato in natura nella biosintesi delle proteine. Dopo la morte di un individuo, gli L-aminoacidi si trasformano in D-enantiomeri fino a che le due forme sono presenti in egual misura (D/L=1) secondo un processo influenzato da vari fattori tra i quali temperatura, umidità e presenza di ioni metallici. In teoria gli L-aminoacidi prodotti dagli organismi viventi impiegherebbero un tempo di 105-106 anni per racemizzare completamente78, ma tra loro l’acido aspartico (Asp) presenta uno dei tassi di racemizzazione più veloci, ed è simile al tasso di depurinazione del DNA79,80,81. Quindi la racemizzazione dell’Asp può essere utilizzata come indicatore della degradazione del DNA. Dato che l’Asp presenta una velocità di racemizzazione maggiore degli altri amminoacidi quali l’alanina (Ala) e la valina (Val), ci si aspetterebbe a parità d’età di trovare un valore D/L più alto per l’Asp rispetto agli altri due (D/L Asp > D/L Ala > D/L Val)82. Al contrario, un rapporto D/L di Val o Ala maggiore di quello di Asp è prova di contaminazione esogena da amminoacidi83. Negli ultimi anni84 è stato messo in evidenza che non vi è una diretta correlazione tra preservazione organica e conservazione del DNA antico, ma sicuramente tale approccio costituisce un ulteriore strumento per comprendere la storia biomolecolare del campione oggetto di studio. Ulteriori criteri per il controllo della contaminazione sono: d) mantenere le aree di lavoro prePCR e postPCR fisicamente isolate e dedicate solo allo studio del aDNA per diminuire contaminazione da aerosol di prodotti amplificati; e) indossare sempre tute protettive e guanti per eliminare il contatto con il materiale oggetto d’analisi; f) tutte le plastiche e gli ambienti adibiti allo studio del aDNA devono essere regolarmente decontaminati con irradiazione di luce UV a 254nm; g) far riprodurre l’intera fase sperimentale ad altri operatori e in laboratori diversi per individuare un contaminante in laborato67 Flavio De Angelis, Gabriele Scorrano, Olga Rickards rio: la replica in un secondo laboratorio è pertanto un’ulteriore precauzione per escludere la presenza di contaminati. Le applicazioni dello studio del aDNA sono molto variegate. Sebbene inferenze sulla filogenesi delle popolazioni umane sono ampiamente sviluppate tramite l’analisi delle popolazioni viventi85, le relazioni tra le popolazioni moderne possono essere confrontate anche con gruppi umani estinti attraverso lo studio dell’aDNA. Per esempio, sono diverse le analisi svolte sul genoma mitocondriale neandertaliano, ottenuto sia tramite sequenziamento Sanger che NGS86. Tali analisi hanno spesso evidenziato una variabilità del genoma neandertaliano non paragonabile a quella presente nella nostra specie, escludendo, per lo meno a livelli significativi, il mescolamento tra H. neanderthalensis e H.sapiens87,88. Tuttavia, ulteriori analisi condotte sul genoma nucleare sembrerebbero evidenziare un certo grado, anche se minimo, di commistione89,90. Un’altra applicazione dello studio del aDNA è tesa a esplorare le affinità e le interazioni tra popolazioni conspecifiche, andando a integrare evidenze di tipo linguistico-culturale. Infatti, attraverso lo studio del aDNA si può ricostruire l’evoluzione diacronica di una popolazione, correlando i cambiamenti genetici a modificazioni demiche o culturali. Tale approccio è stato ampiamente utilizzato per indagare la continuità genetica delle popolazioni mesoamericane precolombiane91 o per spiegare le dinamiche del processo di neolitizzazione in Europa92,93. Se da una parte le ricerche menzionate analizzano il DNA antico a livello popolazionistico, approcci maggiormente selettivi possono essere valutati conoscendo specifiche regioni genomiche. Attualmente si stanno sempre più diffondendo ricerche tese a identificare marcatori genetici nei genomi antichi, tali da essere considerati buoni indicatori fenotipici grazie a studi di comparazione funzionale con genomi moderni. Infatti l’identificazione di polimorfismi nei genomi antichi, può essere indicativo nel delineare caratteristiche fenotipiche delle popolazioni passate, intese come insieme di singoli individui, tali da poter essere relazionate a fenomeni di adat68 Dna antico: principi e metodologie tamento94. Uno dei polimorfismi più studiati è quello relativo alla capacità anche in età adulta di digerire il lattosio, uno zucchero presente nel latte che ne costituisce circa il 2-8%. E’ un disaccaride costituito da glucosio e galattosio, digerito nell’intestino tenue dall’enzima β-D-galactosidasi (lattasi) e trasformato in zuccheri semplici che possono essere assorbiti. La principale fonte naturale di lattosio è il latte, che spesso è l’unica fonte di alimento per i neonati. Nella maggior parte dei mammiferi la produzione dell’enzima lattasi diminuisce con l’età quando il latte non è più consumato ed è la ragione per la condizione nota come “intolleranza al lattosio”. Se il latte o un altro prodotto lattiero-caseario continuano a essere assunti nella dieta dopo che la produzione dell’enzima è stata ridotta a livelli insufficienti, il lattosio che non è assorbito passa nel colon dove è metabolizzato dai batteri con il processo della fermentazione, creando una miscela di diossido di carbonio, idrogeno e metano. E’ questa produzione di gas che causa i sintomi addominali dell’intolleranza al lattosio: crampi addominali, gonfiore e flatulenza. Tale caratteristica sembra essersi originata in eventi indipendenti come forme di evoluzione convergente in diverse popolazioni95. Studi sul aDNA hanno mostrato come nella popolazione europea la persistenza è un’acquisizione relativamente recente, che non riguarda le popolazioni neolitiche che occupavano i territori europei96. Tali indicazioni quindi suggeriscono come la persistenza in Europa si sia sviluppata solo dopo che il consumo di latte è andato crescendo con l’adozione della pastorizia: circa 7500 anni fa una mutazione è avvenuta nell’Europa centrale in una zona di allevamento da latte, risultante nella produzione continua dell’enzima lattasi anche negli adulti. È probabile che la mutazione, nel gene LCT97, sia stata sottoposta ad una pressione selettiva in quanto il latte è un’importante fonte di calcio e vitamina D (soprattutto nelle regioni del nord dove il clima è più freddo e poco soleggiato). Caratteristiche molecolari con riflessi fenotipici sono state identificate anche nel genoma neandertaliano: i geni FOXP298 e il gene MCR199 sono stati 69 Flavio De Angelis, Gabriele Scorrano, Olga Rickards recentemente identificati nel materiale genetico di H. neandertalensis. Nello specifico è stato possibile identificare come il gene FOXP2 sia condiviso tra H. neandertalensis e H. sapiens, e poiché tale gene è stato relazionato alla nascita del linguaggio articolato nella nostra specie, sono evidenti le implicazioni culturali che da tale condivisione possano essere generate100. Anche il gene che codifica per il recettore della melanocortina (MCR1) è stato analizzato in due reperti neandertaliani provenienti dalla Spagna (El Sidrón 1252) e dall’Italia (Monti Lessini) in quanto correlato a funzionalità regolatorie dei pigmenti della pelle e dei capelli. I reperti neandertaliani evidenziarono come la sequenza genica del recettore era caratterizzata da una mutazione responsabile di minor efficienza (loss of function): la mutazione provocherebbe un cambiamento amminoacidico che risulterebbe in pelle di colore chiaro e capelli tendenti al rosso. La mutazione neandertaliana è a oggi assente nelle popolazioni umane, suggerendo come le diverse varianti geniche possano essere derivate da eventi mutazionali disgiunti. Sebbene tali approcci siano stati ampiamente utilizzati negli ultimi anni, la potenzialità informativa degli SNP identificati nei genomi antichi è tuttora limitata, in quanto le variazioni fenotipiche prodotte sono spesso riferite e comparate alle variazioni fenotipiche prodotte da mutazioni in genomi moderni101. Altra applicazione degli studi di aDNA è la ricostruzione dei rapporti di parentela tra gli individui di un sito: è il caso in cui il rinvenimento di piccoli gruppi umani consenta di ipotizzare rapporti di parentela da districare attraverso l’analisi molecolare, che di norma permette anche di determinare il sesso, a livello molecolare, degli individui. Tale applicazione è stata eseguita su molteplici campioni, che vanno da gruppi neandertaliani102; fino a necropoli mongole103 e dell’età imperiale romana (Catalano et al., comunicazione personale). Infine il DNA antico può essere utilizzato anche per caratterizzare patologie presenti in reperti antichi. Diverse sono le tipologia patologiche riscontrabili su materiale antico, e spesso riguardano non direttamente 70 Dna antico: principi e metodologie il aDNA umano quanto piuttosto il materiale genetico di parassiti. Il primo DNA patogeno rinvenuto in campioni antichi è stato quello del batterio Mycobacterium tuberculosis104, rapidamente seguito dal Mycobacterium leprae105. Tali ricerche spesso sono andate caratterizzando casi documentati di epidemie, in cui tali microrganismi patogeni potevano aver avuto un ruolo chiave nella patogenesi106. La preservazione e la persistenza di DNA batterico antico, se da una parte può apparire controversa107, è stata dimostrata da diverse ricerche che indicano come i microrganismi possano attuare una serie di meccanismi che permettano di sopravvivere in condizioni sub-ottimali, mantenendo la stabilità del loro materiale genetico108. Diverse sono le ricerche incentrate su tali assunti, tra le quali l’analisi di una tomba israeliana datata al I sec. d.C.109, che rappresenta la prima sepoltura a datazione certa di un individuo sofferente di tubercolosi e lebbra, identificate a livello molecolare. Altro caso di utilità dello studio molecolare dei reperti antichi è quello che prevede l’identificazione molecolare di patogeni in reperti archeologici con diagnosi paleopatologiche indefinite. Nella cittadina albanese di Butrint (X-XIII secolo d.C) l’analisi antropologica aveva infatti evidenziato lesioni osteolitiche circolari sulle vertebre toraciche e lombari conformi a diverse patologie come tubercolosi o brucellosi, altra patologia di origine batterica da Brucella sp. Lo screening genetico incentrato su tali agenti eziologici ha permesso di identificare il materiale genetico di Brucella sp., batterio facilmente trasmissibile attraverso contatti tra uomo e bovini. Tale osservazione ha confermato come la Brucellosi fosse endemica dell’area a partire dal Medio Evo110. Recentemente, infine, è stato analizzato il genoma completo del batterio Yersinia pestis isolato da reperti scheletrici pertinenti ad individui deceduti durante la Peste del 1300111. Tale ricerca ha permesso di accertare come non sussistano sostanziali modificazioni della sequenza batterica rispetto al patogeno moderno, non consentendo quindi di identificare la motivazione per la quale la Morte Nera del 1300 fosse stata particolar71 Flavio De Angelis, Gabriele Scorrano, Olga Rickards mente aggressiva e virulenta. Tale epidemia sorse in Europa dal 1347, forse proveniente dall’Asia, e velocemente si diffuse su tutto il continente europeo obbligando i governi a predisporre aree cimiteriali dedicate, per accogliere i numerosi decessi. Proprio da una di queste aree cimiteriali sono stati campionati gli elementi dentari per estrarre il aDNA. Attraverso una metodologia di selezione dei genomi batterici si è riuscito a trascurare il materiale genetico umano e di contaminanti ambientali (ad esempio altre forme batteriche presenti nel suolo) per sequenziare, attraverso metodiche NGS, l’intero genoma di Y. pestis. L’analisi del genoma ha quindi dimostrato come, non essendoci sostanziali differenze tra ceppi batterici, la estrema gravità della Morte Nera poteva essere ascritta alle condizioni epidemiologicoambientali caratteristiche del periodo112. Parimenti ai batteri, anche alcuni parassiti possono essere identificati tramite il loro materiale genetico conservato nel tempo. Infatti, spesso, l’interesse non è solo quello di identificare gli effetti di alcune parassitosi su corpi mummificati, ma il recupero di materiale genetico pertinente agli agenti parassitari e la possibilità di analizzare tale materiale genetico. Uno degli articoli pioneristici sulla presenza di patologie causate da parassiti era relativo al Chagas, causata da Trypanosoma sp., identificato in mummie provenienti dal deserto di Atacama113 attraverso l’analisi delle lesioni cardiache. A partire dalla fine degli anni ’90 sono iniziate una serie di ricerche atte ad identificare ed isolare, a partire da mummie peruviane datate 4000 anni fa, il DNA del Trypanosoma cruzi114. Ricerche successive portarono alla pubblicazione di diversi lavori circa l’isolamento del aDNA pertinente il parassita anche in mummie Chinchorro datate 9000 anni fa115, che permise di identificare come il morbo di Chagas fosse presente nelle società pre-Colombiane e che i gruppi umani preistorici probabilmente ebbero contatti con il parassita in diverse modalità116. Infine un’altra classe di patologie possono esser evidenziate tramite lo studio del aDNA: i tumori. Esempio di questa applicazione è stata l’ana72 Dna antico: principi e metodologie lisi dei resti mummificati appartenenti al Re Ferrante I d’Aragona117. In questo caso la dissezione del corpo mummificato aveva evidenziato una massa neoplasica nella pelvi. Le analisi molecolari dei tumori antichi offre la preziosa possibilità di valutare la storia delle neoplasie e porle in relazione alle alterazioni genetiche, allo stile di vita ed ai fattori di rischio ambientali. Data la esigua numerosità campionaria disponibile per tumori dei tessuti molli, è evidente come il caso di un Re, con la sua vita dettagliatamente vivisezionata da cronache coeve, possa rappresentare un ottimo campione per investigare il ruolo di fattori esogeni allo sviluppo della cancerogenesi. A livello molecolare lo sviluppo di un tumore è legato all’insorgere di mutazioni in geni denominati proto-oncogeni, spesso legati a funzioni del ciclo cellulare118. Nello specifico sono stati analizzati il proto-oncogene K-ras, particolarmente correlato, se “attivato” da mutazioni, a tumori colorettali119 , e il gene BRAF, mutato in un ampio ventaglio di espressioni tumorali120. I risultati ottenuti concordarono con un pattern mutazionale nel gene K-Ras, che comporta anche una mutuale esclusione delle mutazioni in BRAF nei tumori colo-rettali, rappresentando fattori indipendenti nella carcinogenesi del colon121. Le molteplici applicazioni menzionate evidenziano come il DNA antico possa esser senza dubbio considerato un utile strumento per l’analisi della variabilità genetica delle popolazioni passate. Nonostante le numerose limitazioni imposte sia dal carattere estremamente labile del aDNA che dagli approcci metodologici di ultima generazione, di cui progressivamente si perfezionano le applicazioni, è evidente come tale componente possegga delle qualità intrinseche che possano esser tramutate in notevoli ambiti di ricerca differenziali. Tali ambiti, se da una parte non permetteranno ai dinosauri di tornare sulla Terra, né ai neandertaliani di ricolonizzare l’Europa, tuttavia possono essere una ricchissima fonte di conoscenza sulla biologia e sull’evoluzione delle specie del nostro Pianeta. 73 Flavio De Angelis, Gabriele Scorrano, Olga Rickards BIBLIOGRAFIA e note 1. HIGUCHI R., BOWMAN B., FREIBERGER M., RYDER O.A., WILSON A.C., DNA sequences from the quagga, an extinct member of the horse family. Nature 1984; 312: 282-284. 2. PÄÄBO S., Molecular cloning of Ancient Egyptian mummy DNA. Nature 1985; 314: 644-645. 3. PÄÄBO S., HIGUCHI R.G., WILSON A.C. Ancient DNA and the polymerase chain reaction. The emerging field of molecular archaeology. J. Biol. Chem. 1989; 264: 9709-9712. 4. GREEN R.E., KRAUSE J., PTAK SE, BRIGGS A.W., RONAN M.T., SIMONS J.F., DU L., EGHOLM M., ROTHBERG J.M., PAUNOVIC M., PÄÄBO S., Analysis of one million base pairs of Neanderthal DNA. Nature 2006; 444: 330-336. 5. 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Sciubba Mariangela°, Paolucci Assunta °, D’anastasio Ruggero*, Capasso Luigi* * Università degli Studi “G. d’Annunzio” Chieti – Pescara, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Chieti, I °Museo Universitario di Chieti, I Summary Paleopathology of Herculaneum’s population (79 d.C.) In 1982, some occasional excavations in the area corresponding to the ancient beach of Ercolano brought to light the rests of around 250 individuals, victims of the eruption of the Vesuvius. This exceptional recovery constitutes an essential patrimony for the reconstruction of the paleobiology and the paleopathology of the human populations in Roman epoch, in relationship not only to the style of life but also to the social and economic status. Notwithstanding the bone alterations due to the exposition to high temperature, the human remains present traces of illness. Among these we find rheumatic pathologies and arthrosis of the vertebral column. The high frequency of occupational markers (enthesopaties and sindesmopaties) suggests that the most part of the population (juveniles included) exercised hand work. Among the infectious pathologies we report cases of the tuberculosis and brucellosis. Introduzione Nella notte tra il 24 e il 25 agosto del 79 d.C., durante l’eruzione del Vesuvio, la città di Ercolano fu seppellita da quasi trenta metri di materiali vulcanici. Dell’antica città si perse la memoria fino a quando Key words: Herculaneum – Paleopathology – Tuberculosis - Pott’s disease Brucellosis 85 Sciubba Mariangela et al. nel 1738, durante lavori occasionali, ebbero inizio i primi ritrovamenti archeologici. Da oltre due secoli ormai, scavi sistematici hanno permesso il rinvenimento di quasi un terzo dell’antica estensione della città e della sua periferia, con strade, edifici pubblici e privati, oggetti, suppellettili di ogni tipo, persino mobili in legno ben conservati, ma anche resti di cibo e tessuti; tuttavia, all’interno della città furono rinvenuti i resti di sei individui soltanto. Per questo motivo, si era fatta largo l’ipotesi di un’efficace evacuazione, che aveva permesso di mettere in salvo la quasi totalità degli abitanti, a differenza di quanto accaduto nella vicina Pompei. Nel 1982, giunge la smentita, quando gli scavi vennero estesi all’area che corrispondeva all’antica spiaggia di Ercolano: infatti, tanto all’interno dei ricoveri per le barche, quanto sulla spiaggia aperta, furono rinvenuti ammassati i resti di oltre 250 persone, sorprese mentre erano in attesa di mettersi in salvo per l’unica via di fuga possibile: il mare (Figg. 1 e 2). Il materiale preso in esame per lo studio paleopatologico è costituito dai resti prevalentemente scheletrici, appartenenti a 163 individui, diversi per età, sesso e stato di salute. Per quanto concerne lo stato di conservazione, questo risulta essere generalmente eccellente, grazie al particolare processo di seppellimento e, soprattutto, alla granulometria fine del sedimento. Infatti, il processo di disidratazione dei corpi si completò al di sotto della spessa coltre di deposito piroclastico (di circa 600°-800°C)1, che favorì al tempo stesso una vera e proprio sterilizzazione, dovuta alle elevate temperature, e fenomeni di impregnazione da parte di sali minerali prodotti all’interno delle ceneri per azione degli acidi presenti nel materiale eruttivo2. Pertanto tali condizioni hanno consentito da un lato la perfetta conservazione delle strutture scheletriche, perfino le più delicate, anche se talune ossa si presentano allo stato frammentario e alcuni scheletri sono incompleti, dall’altro, invece, la straordinaria conservazione di tessuti molli (dando origine a fenomeni di mummificazione minore). Complessivamente sono stati esaminati circa 30.000 segmenti 86 Aspetti di paleopatologia della popolazione di Ercolano (79 d. C.) Fig. 1 - Ricostruzione della spiaggia di Ercolano al momento dell’emissione del primo surge nella notte fra il 24 e il 25 agosto del 79 d.C.; è messo in evidenza il percorso compiuto dai fuggiaschi per raggiungere la linea di costa. (Disegno di Nicola Di Nardo) scheletrici, mediante l’utilizzo di radiografie, analisi istologiche e chimiche, talvolta anche in microscopia elettronica. Di questo cospicuo campione sono stati analizzati diversi aspetti: quello antropometrico, valutando i principali parametri metrici dello scheletro, paleodemografico, fornendo una stima del sesso e dell’età, diagenetico, studiando le alterazioni subite post–mortem, chimico, eseguendo analisi microelementari per la ricostruzione della dieta, e soprattutto paleopatologico, analizzando le numerose tracce lasciate sulle ossa dalle malattie. Nel presente lavoro queste alterazioni scheletriche (peraltro già oggetto di separate pubblicazioni specialistiche) sono state prese in 87 Sciubba Mariangela et al. Fig. 2 - Mappa della distribuzione dei morti sull’antica spiaggia di Ercolano. (Disegno di Nicola Di Nardo) considerazione con lo scopo di proporre una ricostruzione sintetica dello stato di salute della popolazione, anche in relazione allo stile di vita e di lavoro ed in relazione all’ambiente sociale ed economico3. Paleodemografia Il campione oggetto di studio del nostro lavoro costituisce un caso particolare, poiché trattandosi di un gruppo di persone vittime di un unico evento catastrofico, esso rappresenta un campione di popolazione “viva”, e pertanto riflette la stessa composizione esistente nella città (campione “sincrono”)4. Per questa ragione la sua analisi non può affidarsi a modelli statistici propri della paleodemografia, ma si deve avvalere dei metodi specifici delle popolazioni vive e quindi dei dati relativi ai censimenti. Da un’attenta stima dell’età alla morte effettuata mediante analisi macroscopiche (valutazione del grado di usura dentaria (Lovejoy, 88 Aspetti di paleopatologia della popolazione di Ercolano (79 d. C.) 1985; Miles, 1963), stato di riassorbimento delle suture craniche, alterazione della sinfisi pubica (Katz and Suchey, 1986), ossificazione delle coste cartilaginee), radiografiche ed istologiche dei reperti, è stato possibile costruire una piramide delle età, dalla quale risulta evidente che i 163 individui rappresentino tutte le classi di età comprese fra 0 e 60 anni (Fig. 3). La piramide, inoltre, dimostra la presenza consistente di bambini al di sotto dei 5 anni di età che, insieme alle fasce di età compresa fra 20 e 25 anni, e fra 25 e 30 anni (tutte con una percentuale dell’11,9%), risultano essere le più rappresentative della popolazione. Un dato significativo è la bassa percentuale degli individui compresi fra i 15 e i 19 anni (Fig. 3). Tale anomalia potrebbe essere dovuta ad una crisi di natalità verificatasi in seguito al terremoto del 62 d.C. Aspetti di Paleopatologia I segni ossei lasciati dalle differenti patologie sul nostro campione ci hanno permesso di ipotizzare un quadro globale sullo stato di salute della popolazione di Ercolano. Da un’analisi attenta e approfondita è possibile dedurre che, accanto a malattie di tipo occasionale, quali i tumori, pur attestati nel campione di riferimento, le patologie riscontrate con maggiore frequenza sono quelle strettamente connesse con le attività lavorative e con le abitudini ed i comportamenti particolari (tab. 1). Fig. 3 - Piramide della distribuzione della popolazione di Ercolano per classi di età, a sessi unificati. 89 Sciubba Mariangela et al. Difetti di prima formazione e tratti epigenetici Tratti paleoergonomici da sovraccarico Tratti legati a comportamenti o abitudini peculiari Sofferenze generalizzate aspecifiche Patologia dentaria collegata alla composizione della dieta Epizoonosi, parassitosi, patologia da inquinamento patologia Apofisi lemuroide della mandibola Forame parietale agenetico Ossa wormiane lambdoidee Schisi archi vertebrali Ponticula atlantis versus forame arcuate Anomalie costali Anomalie sternali Perforazione olecranica Articolazione sacro – iliaca accessoria Piccolo trocantere duplicato di Burman Rotula emarginata Processus posterior dell’astragalo Os tibialis laterale Agenesie dentarie Parastilo nei molaretti Trema Artrosi (tutte le localizzazioni) Artrosi (colonna vertebrale) Osteocondriti Ernie intraspongiose Fossa romboide (maschi) Fossa romboide (femmine) Faccette del Poirier Bursite di Wells Lesioni post – traumatiche da calzatura Periostite da stasi Fratture scheletriche Usura extramasticatoria denti anteriori Cribra orbitalia Linee ipoplastiche dello smalto Linee di Harris Tartaro Carie Denti deiscenti Usura dentaria extramasticatori degli incisivi Tubercolosi Brucellosi Depressione sovra - iniaca Pleurite pregressa (?) Tab. 1 Morbilità delle principali patologie (patocenosi) 90 % 4,4 6,3 13,8 8,8 17,2 8,6 6,9 16,3 6,5 3,2 7,5 2,5 4,4 16,5 11,1 4,4 74,2 63,4 21,3 50,5 41,3 6,5 16,1 6,5 25,8 15,1 10,6 18,4 7,5 70,0 16,9 30,2 40,3 37,4 18,4 2,2 17,2 21,9 11,9 Aspetti di paleopatologia della popolazione di Ercolano (79 d. C.) Appartengono proprio a questo ambito alcuni esempi selezionati che riportiamo di seguito. Traumi e attività lavorative Le malattie riscontrate con più frequenza derivano da traumi connessi soprattutto ad attività lavorative, prime tra tutte quelle di carattere reumatico come l’artrosi della colonna vertebrale, che colpiva più della metà della popolazione adulta. Pertanto si può supporre uno stile di vita che sottoponeva la colonna vertebrale a sforzi ripetuti e gravosi, e quindi ad un sovraccarico di tipo cronico. L’ipotesi di un’esposizione della popolazione a fattori di rischio correlati a lavori usuranti sembra essere confermata dallo studio delle enteso- e sindesmopatie. E’ possibile riscontrare nel 41,3% dei maschi adulti e nel 6,5% delle femmine adulte tracce di sindesmopatia del legamento costo-clavicolare, sottoposto a sovraccarichi dall’azione congiunta dei muscoli degli arti superiori e del capo. Si evince, pertanto, che la popolazione di Ercolano svolgeva attività lavorative pesanti e continuative nel tempo ed erano soprattutto i maschi adulti le persone più esposte a questo tipo di patologia. Accanto alla percentuale degli individui adulti, però, troviamo anche un 11,5% di fanciulli (anche bambini fra i 5 e gli 8 anni di età), con lesioni sindesmopatiche. Pertanto non risulta difficile ipotizzare che il lavoro minorile doveva essere una prassi abituale nella società romana di Ercolano5. Fratture o malattie traumatiche Nel nostro campione, le fratture e i loro esiti si presentano con aspetti differenti da quelli solitamente riscontrabili in paleopatologia; questo perché, come già accennato, la morte istantanea degli individui ha “cristallizzato” anche le patologie traumatiche dello scheletro che ci appaiono pertanto in tutti i loro stadi di riparazione, e ciò costituisce un ulteriore e importante motivo di interesse del campione. 91 Sciubba Mariangela et al. Sono 17 i soggetti portatori di fratture e loro esiti, si tratta in prevalenza di soggetti maschili. In molti casi, inoltre, il meccanismo di insorgenza della lesione ossea rivela la dinamica del trauma e, accanto a traumi sicuramente di natura accidentale, come caduta a terra sull’avambraccio (E 8) o sul mento (E 109), sono dimostrati anche meccanismi connessi a comportamenti violenti (E 14). I resti scheletrici, al tempo stesso, rappresentano per noi una preziosa testimonianza dei trattamenti medici e dell’assistenza nei confronti dei malati, documentata anche dal rinvenimento di strumentaria chirurgica. Ad Ercolano sono numerosi i casi di intervento a scopo terapeutico; in particolare ricordiamo il caso di un fanciullo di 8 anni di età (E 8), al quale, in seguito ad una frattura dell’avambraccio, fu applicato un mezzo di contenzione esterno, sottoforma di un’asticella di legno di vite, peraltro descritta da Aulo Cornelio Celso come “ferula”6 (Fig. 4) Altrettanto ricorrenti nei soggetti adulti sono le neoformazioni ossee subperiostali a carico della faccia superiore e mediale del I metatarsale e di quelle superiore e laterale del V metatarsale. Queste ossificazioni corrispondono ai punti di contatto fra il dorso del piede e parti della tomaia delle calzature. Infatti alcune calzature tipiche Fig. 4 - Scheletro dell’avambraccio dell’epoca erano rappresentate da destro con frammenti di ferulae di le- sandali e calcei, in entrambi i casi gno di vite, componenti del canalis. una parte della tomaia prevedeva il 92 Aspetti di paleopatologia della popolazione di Ercolano (79 d. C.) Fig. 5 - Calzature tipiche del I sec. d.C. e lesioni a carico del navicolare – II cuneiforme e dei metatarsi I e V. (Disegno dell’articolazione di Nicola Di Nardo) contatto con il primo e l’ultimo metatarsale. Inoltre anche la parte più elevata del dorso del piede poteva subire le sollecitazioni dirette provocate dal contatto. E’ stato dimostrato che tendono a sviluppare una malacia del navicolare i piedi nei quali il navicolare non si presenta esattamente allineato alla curva che le altre ossa del tarso disegnano sul dorso del piede7. Questa patologia si manifesta con la comparsa di piccole cavità geodiche a livello dell’angolo antero-superiore del navicolare e dell’angolo postero-posteriore del II cuneiforme; inoltre, compaiono anche irregolarità dei margini ossei e metaplasia ossea del legamento dorsale fra navicolare e II cuneiforme (Fig. 5)8. Malattie infiammatorie Gran parte delle lesioni ossee, inoltre, sono dovute a reazioni di tipo infiammatorio, come nei numerosi casi riscontrati di affezione dell’albero respiratorio (20,4 % della popolazione adulta), dimostrate sia sottoforma di sinusiti mascellari che di aderenze pleuroparietali con periostite costale (Fig. 6). Queste forme senza dubbio sono da collegare al possibile inquinamento casalingo prodotto dalla combustione domestica di materiali organici a scopo di illuminazione, di riscaldamento e di cucina9. 93 Sciubba Mariangela et al. Fig. 6 - Neoformazioni ossee e docce sulla faccia pleurica sulle coste. Malattie infettive Tra le patologie più ricorrenti troviamo quelle di natura infettiva. Sicuramente di derivazione epizoonotica è la tubercolosi, provocata dall’infezione da parte del Mycobacterium tubercolosis. Nei casi in cui l’infezione colpisce lo scheletro, le ossa più colpite risultano essere quelle a struttura spongiosa, in particolar modo le epifisi delle ossa lunghe, le ossa corte, come vertebre, ossa del tarso e del carpo e le coste. Una forma particolare di tubercolosi, denominata morbo di Pott, colpisce prevalentemente i corpi vertebrali delle vertebre toraciche causandone, a volte, il collasso, con conseguente formazione di un gibbo. Tale patologia risulta essere attestata anche ad Ercolano (Fig. 7). Causa del contagio potrebbe essere stata l’impiego alimentare di carne bovina, viscere e interiora, nel corso di riti sacrificali, piuttosto che il consumo di latte vaccino a scopo alimentare, che non risulta essere attestato in questo periodo10. Oltre alla tubercolosi ossea, molto frequente era la brucellosi, causata dall’infezione da parte delle brucelle. La brucellosi umana 94 Aspetti di paleopatologia della popolazione di Ercolano (79 d. C.) è una polisierosite cui fanno seguito localizzazioni articolari che lasciano segni ossei. La localizzazione alla colonna vertebrale comporta una caratteristica epifisite vertebrale anteriore, prevalentemente a carico della 4ª e 5ª vertebra lombare, con distruzione dell’angolo vertebrale anteriore superiore (senza lesioni sul corpo vertebrale affrontato) e con sottostante reazione endostale di addensamento (Fig. 8). Ad Ercolano almeno il 16% della popolazione presenta lesioni della colonna vertebrale compatibili con quelle provocate dalla Fig. 7 - Lesioni tipiche da tubercospondilite brucellare. La ragione di losi alla colonna vertebrale. questa elevata frequenza è da ricercare nella grande diffusione di ovini nel mondo romano. Proprio la pecora, infatti, è l’animale più allevato dai Romani per la carne (soprattutto quella di agnello) ed il latte, sia fresco che sottoforma di derivati, come le molte varietà di formaggi. Lo studio microbiologico del formaggio caprino conservatosi carbonizzato (Fig. 9) nel nostro sito ha dimostrato la presenza di brucelle quali fonti dell’infezione umana11. Infine, tra le malattie infettive più diffuse nella popolazione troviamo l’infestione da pidocchi del capo (pediculosi). Infatti, in molti dei soggetti analizzati, risultano essere frequenti i fenomeni di alterazione erosiva del tavolato cranico esterno (depressione al disopra dell’inion), dovuti all’attivazione del periostio locale, quando questo viene coinvolto in infezioni a provenienza transcutanea. Si tratta di lesioni da grattamento del cuoio capelluto, associate proprio a pediculosi del capo, e rappresentano la causa più ricorrente 95 Sciubba Mariangela et al. Fig. 8 - Vertebra lombare colpita da epifisite anteriore brucellare. E’ possibile riconoscere la caratteristica distruzione dell’angolo vertebrale anteriore superiore limitatamente alla zona di impronta dell’anulus fibrosus; la stessa vertebra radiografata in proiezione latero– laterale dimostra un addensamento al di sotto dell’angolo distrutto dall’osteolisi (segno di PEDRO-Y-PONS); la sezione sagittale della stessa vertebra dimostra che l’aumento della radio-opacità visibile radiograficamente è dovuto ad un addensamento e ad un ingrossamento delle trabecole al di sotto dell’area di osteolisi (sclerosi endostale). Fig. 9 - Resti carbonizzati di formaggio caprino; Brucellae melitensis osservate al microscopio elettronico a scansione. dei rimodellamenti del tavolato esterno della volta cranica, nella regione al disopra dell’inion. Quasi il 22% della popolazione presa in esame presenta alterazioni di questo tipo. Un caso particolare è rappresentato da un soggetto di sesso femminile (E 52). In esso a seguito di un processo di impregnazione di sali di ferro, derivanti dall’ossidazione di un fermaglio per capelli, si sono conservati non solo i capelli della donna ma anche uova di pidocchi carbonizzate, ma perfettamente riconoscibili (Fig. 10)12. 96 Aspetti di paleopatologia della popolazione di Ercolano (79 d. C.) Fig. 10 - La vasta incrostazione a destra del vertex è il risultato dell’ossidazione di un fermaglio; i sali derivati hanno impregnato i capelli circostanti ed il sottostante cuoio capelluto preservandoli fino ad oggi con un vero e proprio processo di fossilizzazione; evidente sviluppo della linea nucale superiore con presenza di una depressione al di sopra dell’inion; frammento di capello con adeso il lendine osservato al microscopio elettronico a scansione (101x). Conclusioni Le fonti paleopatologiche dirette (rappresentate da resti scheletriche da resti organici quali capelli e alimenti) ci hanno consentito di delineare un quadro complessivo dell’assetto paleopatologico della comunità ercolanense in epoca romana. Ad Ercolano la patocenosi si presenta per lo più dominata da patologie legate alle attività lavo97 Sciubba Mariangela et al. rative usuranti, come artrosi, osteocondriti e soprattutto entesopatie e sindesmopatie. I bambini e gli adolescenti non erano esentati dai lavori usuranti, come dimostra l’elevata frequenza della sindesmosi costo-clavicolare nelle prime fasce di età. Inoltre, una parte consistente della popolazione era affetta da patologie di natura infettiva, in particolare dalla brucellosi, che colpisce il 17% della popolazione di derivazione epizoonotica attraverso il largo uso del latte ovino, sia fresco che trasformato in formaggi. Si segnala, inoltre, la presenza di tubercolosi ossea di possibile derivazione epizoonotica attribuibile all’uso alimentare di carne bovina usata nel corso di sacrifici religiosi. Risultano, inoltre, essere piuttosto frequenti le lesioni ossee dovute a grattamento del cuoio capelluto, causato da pediculosi. Bibliografia e note 1. CELSUS, De medicina. Loeb Classical Library, Cambridge, Harvard University Press, 1971. 2. CAPASSO L., Bacteria in two-millennia-old Cheese, and related epizoonoses in roman populations. Journal of Infection 2002; 45(2): 122-127. 3. CAPASSO L., Brucellosis at Herculaneum (79 AD). International Journal of Osteoarchaeology 1999; 9: 277-278. 4. CAPASSO L., CAPASSO L., Mortality in Herculaneum before volcanic eruption in 79 AD. The Lancet 1999; 354 (9192): 1826 5. CAPASSO L., CARAMIELLO S., LA VERGHETTA M., DI DOMENICANTONIO L., D’ANASTASIO R., Lice and related skull lesions in a female subject from Herculaneum (79 AD, South Italy). 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This work is focused on the description and interpretation of trauma in the skeletal remains: the sample consist of 218 individuals, coming from Roman imperial necropolis of Castel Malnome (I-II century AD). The trauma incidence has been considered by the calculation of frequencies per individual and per bone. The examination of the pattern of fractures in the skeleton for this site indicates that the individuals are characterized by high level of trauma and reveals that ulna and ribs were the most frequently affected bones. The evidence of trauma in this population may reflect many factors about the lifestyle of individuals, for example their occupation and environmental conditions, moreover the state of healing of the injuries may also indicate the availability of treatments. Key words: Roman Imperial Age – Fractures – Population - Life conditions 101 Paola Catalano et al. Introduzione Lo studio popolazionistico può avvalersi dell’esame delle lesioni traumatiche per ottenere informazioni, anche se indirette, sulle attività lavorative e sui rischi ad esse connesse; le modalità di guarigione possono inoltre chiarire il grado di assistenza medica e di cooperazione sociale all’interno di una comunità1. Un campione di 218 individui, afferenti al complesso cimiteriale di via di Castel Malnome2, all’estremo Suburbio occidentale di Roma, ha evidenziato un interessante modello traumatologico. Lo studio antropologico ha fatto registrare un’elevata frequenza di entesopatie e traumi che suggerisce l’impiego della popolazione in lavori gravosi. La necropoli è adiacente alla via Portuense, importante asse di collegamento tra Roma ed Ostia. La preponderanza di maschi e la presenza limitata di subadulti in associazione al quadro fornito dagli indicatori di attività biomeccanica, suggeriscono l’impiego della popolazione nel duro lavoro delle saline, rinvenute nel corso di recenti scavi effettuati nelle immediate vicinanze del sepolcreto. La lesione traumatica rappresenta un’alterazione dello stato anatomico e funzionale di un organismo, prodotta dall’azione violenta di una causa esterna. I traumi sono classificabili in: accidentali (legati allo stile di vita), intenzionali (causati da atti violenti), rituali, punitivi (amputazioni) e terapeutici (chirurgici). In questo lavoro sono state esaminate soltanto le lesioni del primo tipo ed in particolare le fratture, descrivendone morfologia e gravità e tentando, ove possibile, di identificarne la causa e l’azione; sono state poi analizzate: l’incidenza, la tipologia e la distribuzione, al fine di ottenere indicazioni sull’ambiente e lo stile di vita della popolazione di riferimento. La frattura è un’interruzione, parziale o totale, nella continuità dell’osso, della cartilagine o di entrambi ed è quasi sempre associata 102 Analisi traumatologica e stile di vita a Castel Malnome ad un danno dei tessuti molli circostanti; generalmente è determinata da una sollecitazione esterna di intensità superiore alla resistenza meccanica del segmento osseo. Sulla base dell’eziologia, le fratture possono essere distinte in: traumatiche, patologiche e da stress o fatica. Le fratture traumatiche sono le più comuni e derivano dall’applicazione di una forza improvvisa ed anomala in una regione delimitata dell’osso. Le patologiche occorrono secondariamente a disfunzioni preesistenti che rendono l’osso più vulnerabile a fratture spontanee o a stress biomeccanici relativamente ordinari. Malattie sistemiche, disturbi metabolici e deficienze nutrizionali possono condurre ad un indebolimento osseo; ad esempio, gli individui affetti da osteoporosi (come donne in post menopausa e persone anziane), sono maggiormente predisposti. Le fratture da fatica o da stress, infine, sono causate dall’esposizione di un segmento osseo ad una costante e prolungata sollecitazione biomeccanica. Di solito, le aree maggiormente colpite sono quelle degli arti inferiori: ad esempio, le fratture a livello del collo dei metatarsali sono frequenti nelle giovani reclute militari alle quali sono imposte delle lunghe marce; quelle relative alla diafisi tibiale possono riscontrarsi negli sportivi, in seguito ad un sovra-allenamento (es. fratture delle danzatrici e dei corridori)3,4,5,6. L’entità, la sede, il decorso della rima, il numero e la posizione dei frammenti, rappresentano altrettanti criteri di orientamento nella valutazione di una lesione traumatica dello scheletro. L’analisi degli eventi traumatici è stata indirizzata al rilevamento del numero di fratture, distinte per distretto scheletrico e sesso (Fig.1); si è inoltre tentata una possibile classificazione, in base alla morfologia e all’eziologia, cercando di ricostruire uno specifico modello traumatologico degli individui adulti e giovanili della popolazione in esame. 103 Paola Catalano et al. Risultati Cranio Particolarmente interessante è l’alterazione rilevata a carico dello splancnocranio dell’individuo T.132, identificata come anchilosi temporo-mandibolare bilaterale: fusione ossea o fibrosa delle componenti anatomiche dei capi articolari7,8 (Fig.2). I traumi sono la causa predominante della anchilosi “vera” o “intracapsulare”. La formazione di tale blocco determina una limitazione funzionale di tutti i movimenti della bocca, che si manifesta, nei casi più gravi, con un’apertura quasi assente, dovuta al progressivo impedimento dei normali processi di rotazione e di traslazione della testa condilare. La presenza di una edentulia del settore anteriore, superiore ed inferiore, è da riferirsi ad un intervento di estrazione dentaria volontario, necessario probabilmente per consentire la nutrizione del soggetto, rivelando un particolare interesse, da parte della comunità di appartenenza, alla sua sopravvivenza. Fig. 1 Elenco degli individui con fratture 104 Analisi traumatologica e stile di vita a Castel Malnome Fig. 2 Anchilosi temporo-mandibolare bilaterale, Tomba 132 Clavicola e Scapola Le fratture clavicolari sono spesso causate da cadute sulla spalla o sulla mano aperta (trauma indiretto) e interessano prevalentemente la porzione intermedia o quella distale dell’osso. Otto individui mostrano fratture clavicolari: quattro (tombe: 141, 151, 219, 257) di esse riguardano l’estremità acromiale, una quella sternale (T.301) e tre la metà diafisi (tombe: 137, 194, 263) (Fig.3). Le fratture della scapola sono poco comuni e di solito sono il risultato di un trauma diretto. Un solo individuo (T.295) presenta una frattura del corpo della scapola destra risaldato in deformità (Fig. 4). Omero Le fratture omerali sono più frequenti in corrispondenza: del collo, della grande tuberosità e della diafisi. Le fratture diafisarie interessano di solito la terza porzione intermedia e possono essere dovute 105 Paola Catalano et al. a traumi diretti o indiretti; quelle condilari, al contrario, sono piuttosto rare e possono derivare da una caduta. Fig. 3 Frattura diafisaria scomposta della clavicola sinistra, Tomba 194 Fig. 4 Frattura scomposta della scapola destra, Tomba 295 106 Analisi traumatologica e stile di vita a Castel Malnome Nei traumi indiretti, nei quali la diafisi omerale è sollecitata a flettersi o torcersi su se stessa, la rima di frattura presenta un decorso spiroide o obliquo, come nel caso della lesione che ha interessato la terza porzione intermedia dell’osso dell’inumato T.72. Nella frattura alta riscontrata sull’omero dell’individuo 97a si osserva una deformità angolare, con apice all’esterno e in avanti, probabilmente da ricondursi ad una scomposizione dei frammenti per azione delle masse muscolari (frattura trasversa). Una caduta sul gomito o sulla mano potrebbe essere la causa della frattura diretta riscontrata sull’epicondilo laterale (T.150) e di quelle indirette a carico del collo (T.236) e della regione sovracondiloidea (T.132). In quest’ultima la rima compie un decorso a spirale lungo il segmento interessato, e sul piano frontale il frammento distale è angolato rispetto alla diafisi (Fig.5). Radio e Ulna Le fratture biossee della diafisi del radio e dell’ulna, definite convenzionalmente “fratture di antibraccio”, sono riferibili prevalentemente a traumi diretti. Tre individui (tombe: 47, 86, 117) presentano lesioni, con rima spiroide, localizzate sulla porzione intermedia e prossimale della diafisi. Un individuo (T.131) mostra la frattura di Colles9, una tra le più frequenti lesioni traumatiche dello scheletro; la rima di frattura ha sede circa 2 cm al di sopra della superficie articolare distale radiale, ed è associata all’avulsione dell’apofisi stiloide ulnare (Fig.6). Tale frattura è attribuibile a traumi indiretti come una caduta sul palmo della mano. Tra le fratture che hanno coinvolto unicamente il radio si riscontrano: una frattura diafisaria, con rima spiroide riparata in deformità, e due fratture di Colles (tombe: 26, 97a, 115). Quattro individui presentano fratture isolate sulla porzione distale della diafisi ulnare, tutte con rima a decorso spiroide/obliqua (tombe: 71, 148, 189, 278). Un caso, invece, di frattura con rima a decorso 107 Paola Catalano et al. Fig. 5 Frattura sovracondiloidea dell’omero destro, Tomba 132. Fig. 6 Frattura di Colles del radio sinistro, Tomba 131 trasversale interessa l’individuo T.225. L’interruzione individuata sulla porzione prossimale è complicata dalla non unione delle due estremità (pseudoartrosi)10(Fig.7a; 7b). La mancata immobilizzazione, l’interposizione di tessuti molli, adiposi e/o muscolari, l’eccessiva distanza tra i due segmenti fratturati sono la causa della non unione dei monconi ossei. Le estremità delle ossa possono essere, in questo caso, avvolte esclusivamente da tessuto fibroso che forma una pseudoarticolazione. Femore Le fratture femorali sono state osservate in quattro individui. Uno (T.277) presenta una frattura mediale destra che ha interessato la zona immediatamente adiacente alla testa femorale, o la porzione inter108 Analisi traumatologica e stile di vita a Castel Malnome Fig. 7a-7b Pseudoartrosi dell’ulna destra, Tomba 225 media del collo anatomico. Non si osservano extrarotazione e accorciamento significativo dell’arto, ma si assiste ad una complicazione rappresentata dalla necrosi ossea della testa femorale, dovuta a danneggiamenti alla vascolarizzazione dell’articolazione. La conseguente anchilosi dell’articolazione coxo-femorale (Fig.8) avrebbe comportato una rigidità articolare, con diminuzione delle capacità motorie. In un individuo (T.130) si osserva una frattura spiroide, con formazione di spicole ossee sulla terza porzione prossimale della diafisi sinistra, causata da forze torsionali o da forze applicate indirettamente. La porzione intermedia della diafisi di un altro femore sinistro (T.141) mostra gli esiti di una frattura scomposta, saldata in deformità, con slittamento e sovrapposizione dei due monconi e conseguente accorciamento staturale. L’ultimo caso (T.148) è quello di una frattura sopracondilare di un femore sinistro, con neoformazione ossea sulla superficie mediale. 109 Paola Catalano et al. Tibia e fibula Le fratture della gamba possono essere distinte in: fratture isolate della tibia, del perone, o biossee (vere e proprie fratture della gamba). Sono causate più spesso da traumi ad alta energia, sia diretti che indiretti. Le fratture del piatto tibiale sono fratture articolari dell’estremità prossimale, che possono interessare entrambi i condili o, più frequentemente, solo quello esterno. L’individuo della tomba 152 presenta una frattura comminuta dell’emipiatto laterale della tibia sinistra (Fig. 9), anche se l’incompleta conservazione della porzione prossimale non consente di escludere che l’evento traumatico avesse coinvolto entrambi i condili. La frattura è riconducibile ad infossamento della spongiosa subcondrale, con conseguente slivellamento della superficie articolare. Fig. 8 Frattura del femore destro ed anchilosi coxo-femorale, Tomba 277 Fig. 9 Frattura del condilo laterale della tibia sinistra, Tomba 152 110 Analisi traumatologica e stile di vita a Castel Malnome Fig. 10a-10b Frattura con distorsione/dislocazione della caviglia destra, Tomba 80 Un trauma indiretto, dovuto ad una sollecitazione del piede sottocarico in iperflessione plantare, ha provocato in un individuo (T.271) una frattura del malleolo tibiale destro. Alla stessa tipologia traumatica può essere ricondotta la frattura osservata sulla terza porzione distale delle diafisi di tibia e fibula dell’individuo T.159 (Fig.10a; 10b). In quest’ultimo caso, si osservano neoformazioni con aspetto mammillare nella zona d’inserzione del legamento tibio-fibulare, dovute ad un principio di sindesmosi interossea. Fratture sulla caviglia sono state riscontrate su altri due individui (tombe: 20a, 118): nel primo è interessata la superficie dorsale dell’epifisi distale della tibia destra, nel secondo la superficie mediale della fibula sinistra. Le fratture diafisarie conseguono solitamente a traumi ad elevata energia, per caduta dall’alto o per iperflessione dorsale o plantare dell’articolazione tibio-tarsica. Due individui (tombe: 150, 155) mostrano lesioni a carico delle superfici ventrali, sia della tibia che della fibula; uno solo sulla superficie mediale della tibia (T.262). 111 Paola Catalano et al. Mani e piedi Nel nostro campione le ossa delle mani e dei piedi sono scarsamente interessate da forme traumatiche. Due quinti metacarpali destri (tombe: 163, 227) ed una terza falange prossimale destra (T.146) mostrano fratture diafisarie. Solo 3 individui (tombe: 49, 130, 281) presentano fratture sui piedi: terzo metatarsale destro, prima falange destra e seconda falange sinistra. Coxale e sacro Lesioni traumatiche a carico del coxale e del sacro sono state rilevate in due casi: in uno (T.238) si osserva un’alterazione dell’articolazione sacro-iliaca, con incuneamento di un frammento dell’ala sacrale nella superficie auricolare del coxale; nell’altro (T.142) si ha la fusione della seconda, terza e quarta vertebra coccigea, dovuta a probabile frattura. Coste e vertebre Le fratture vertebrali si verificano generalmente nei movimenti in accentuata flessione anteriore (compressione), o estensione posteriore (schiacciamento) della colonna. Cinque individui (tombe: 98, 204, 255, 281, 289) presentano fratture somatiche: il trauma si è estrinsecato esclusivamente a livello della spongiosa equatoriale delle vertebre toraco-lombari, schiacciando a cuneo il corpo vertebrale11. Un individuo (T.260) mostra la fusione delle vertebre cervicali, comprese nel tratto C3-C7, possibile complicazione di una frattura di uno o più corpi vertebrali. Il danno subito dal disco intervertebrale sarebbe stato compensato da osteofitosi marginale che, saldando a ponte (sinostosi) il corpo vertebrale leso con quelli adiacenti, avrebbe escluso da ulteriori sollecitazioni meccaniche il disco danneggiato, arrestandone la progressiva degenerazione. Tre individui (tombe: 172, 179, 273) evidenziano invece spondilolisi della quinta vertebra 112 Analisi traumatologica e stile di vita a Castel Malnome Fig. 11 Spondilolisi della quinta vertebra lombare, Tomba 273 lombare: una separazione, uni- o bilaterale, dell’arco vertebrale dal corpo (Fig.11), riconducibile a movimenti di flessione, iperestensione, inclinazione sotto sforzo e rotazione del distretto lombare del rachide12,13. In nove individui (tombe: 46, 128, 146, 152, 159, 163, 178, 203, 295) si sono riscontrate fratture costali localizzate, nella maggior parte dei casi, in prossimità dell’estremità sternale, provocando in due di essi l’ossificazione delle cartilagini con anchilosi del manubrio. Conclusioni L’analisi degli eventi traumatici, distinti per distretto scheletrico e sesso (Fig.12), mostra come ad essere maggiormente colpiti siano lo schele113 Paola Catalano et al. Fig. 12 Distribuzione delle fratture per distretto scheletrico e sesso Fig. 13 Frequenze percentuali delle lesioni traumatiche distinte per sesso tro appendicolare superiore e lo scheletro assile. Il maggior numero di fratture si osserva a carico di ulne, coste e vertebre. Per quanto riguarda lo scheletro appendicolare inferiore, la tibia è l’osso più coinvolto. Complessivamente, la popolazione presenta una frequenza di fratture pari al 24,3%. L’esame dei dati a sessi distinti evidenzia una lieve prevalenza di lesioni nella porzione maschile del campione (Fig.13). Le scarse differenze sesso-specifiche potrebbero riflettere un coinvolgimento della frazione femminile in attività lavorative stressanti, ma bisogna tener conto che nelle donne in età post-menopausale, discretamente rappresentate, l’osteoporosi14 potrebbe aver determinato una maggiore fragilità delle ossa, rendendole più suscettibili a lesioni traumatiche. Infine, è da non sottovalutare l’influenza della componente ambientale: terreni irregolari, accidentati o scoscesi, aumenterebbero il rischio di fratture, soprattutto a carico degli arti inferiori ed, in particolare, delle caviglie. Un limite all’interpretazione dei dati sulle fratture nelle serie scheletriche archeologiche è l’impossibilità di considerarne la distribuzione dell’occorrenza e della suscettibilità in base all’età: in presenza di una frattura guarita non è infatti possibile stabilire l’età in cui l’evento traumatico si è verificato15. 114 Analisi traumatologica e stile di vita a Castel Malnome Un’ulteriore difficoltà risiede nell’identificare le fratture peri-mortem: queste potrebbero essere confuse con quelle post-mortem, nei casi in cui non si osservino ancora processi riparativi dell’osso16. Tra gli individui con fratture, una percentuale non trascurabile (22,6%) mostra evidenze traumatiche su più di un elemento e/o distretto scheletrico; sebbene alcune lesioni potrebbero essere riconducibili ad un unico evento, non si può escludere che altre si siano verificate in tempi diversi: ciò potrebbe essere compatibile con un modello di vita logorante e probabilmente pericoloso. Una delle complicazioni a cui si può assistere, nel caso di fratture esposte, è l’inquinamento del focolaio da parte di germi patogeni (generalmente stafilococchi). Nel nostro campione, la risposta dell’osso è frequentemente visibile come infiammazione acuta o cronica del periostio (periostite), ma non si osservano infezioni severe che abbiano coinvolto la cavità midollare (osteomielite)17. In alcuni casi, sono stati osservati dei vizi di consolidazione, come: sovrapposizione, angolazione o rotazione (Fig.14). La formazione di calli ossei invalidanti, con conseguente incongruenza meccanica dei capi articolari, ha probabilmente causato delle alterazioni nella funzionalità degli elementi scheletrici interessati. Nei casi in cui il trauma ha coinvolto i fasci muscolari, provocando un ematoma, si è osservata la calcificazione del tessuto muscolare strappato, sotto forma di miosite ossificante18 (Fig.15). Degenerazioni artrosiche sono piuttosto diffuse negli individui con fratture. Sebbene l’età sia un fatto predisponente, non si può escludere che tali alterazioni possano, almeno in parte, rappresentare complicazioni tardive post-traumatiche19. Le indicazioni restituiteci dal campione di Castel Malnome suggeriscono quindi che la popolazione fosse probabilmente soggetta a dure condizioni di vita e di lavoro, ma consentono anche di ipotizzare che dovessero esistere trattamenti medici efficaci e un buon grado di cooperazione sociale all’interno della comunità di riferimento. 115 Paola Catalano et al. FIG. 14 Frattura diafisaria del femore sinistro, tomba 130 FIG.15 Miosite ossificante sul femore destro, tomba 273 BIBLIOGRAFIA E NOTE 1. BORGOGNINI TARLI S., PACCIANI E., I resti umani nello scavo archeologico. Metodiche di recupero e studio. Roma, Bulzoni Editore, 1993. 2. CATALANO P., BENASSI V., CALDARINI C., CIANFRIGLIA L., MOSTICONE R., NAVA A., PANTANO W., PORRECA F., Attività lavorative e condizioni di vita della comunità di Castel Malnome (Roma, I-II sec. d.C.). Med. Secoli 2010; 22:111-128. 3. WALDRON T., Paleopathology. Cambridge, University Press, 2009. 4. FORNACIARI G., GIUFFRA V., Lezioni di paleopatologia. Genova, ECIG, 2009. 5. STEINBOCK R.T., Trauma. In: STEINBOCK R.T., Paleopathological Diagnosis and Interpretation. Bone diseases in ancient human Populations. Springfield, Charles C. Thomas, 1976, pp. 17-59. 116 Analisi traumatologica e stile di vita a Castel Malnome 6. MANCINI a., MORLACCHI C., Clinica ortopedica. Manuale Atlante. Padova, Piccin Editore, 1985. 7. CATALANO P., IANNETTI G., BENASSI V., CALDARINI C., PANTANO W., TARTAGLIA G., DE ANGELIS F., Integrazione in una comunità romana di età imperiale di un individuo con anchilosi temporo-mandibolare. In: DELATTRE V., SALLEM R. (a cura di), Décrypter la différence. CQFD, 2009, pp. 63-68. 8. CATALANO P., BENASSI V., CALDARINI C., CIANFRIGLIA L., MOSTICONE R., NAVA A., PANTANO W., PORRECA F., op. cit. nota 2. 9. MANCINI a., MORLACCHI C., op. cit. nota 6. 10. AUFDERHEIDE A.C., RODRÍGUEZ-MARTIN C., The Cambridge Encyclopedia of Human Paleopathology. Cambridge, University Press, 2011. 11. CAPASSO L., KENNEDY K.R.A., WILCZACK C.A., Atlas of occupational markers on human remains. Teramo, Edigrafital S.p.A., 1999. 12. MORITA T., IKATA t., KATOH S., MIYAKE R., Lumbar spondylolysis in children and adolescents. J Bone Joint Surg Br. 1995; 77: 620-625. 13. ARRIAZA B.T., Spondylolysis in prehistoric human remains from guam and its possible etiology. Am. J. Phys. Anthropol. 1997; 104-3: 393-397. 14. LOVELL N.C., Trauma Analysis in Paleopathology. Yearbook Phys. Anthropol. 1997; 40: 139-170. 15. ROBERTS C., MANCHESTER K., Trauma. In: ROBERTS C., MANCHESTER K., The Archeology of Disease. III Ed. Ithaca, New York, Cornell University Press, 2005, pp.84-131. 16. 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Apollinare 8- 00186 Roma, I. 117 MEDICINA NEI SECOLI ARTE E SCIENZA, 25/1 (2013) 119-138 Journal of History of Medicine Articoli/Articles SALUTE E MALATTIA NELLA ROMA IMPERIALE ATTRAVERSO LE EVIDENZE SCHELETRICHE Simona Minozzi*, Paola Catalano**, Stefania di Giannantonio** e Gino Fornaciari* *Divisione di Paleopatologia, Storia della Medicina e Bioetica, Dipartimento di Oncologia, dei Trapianti e delle Nuove Tecnologie in Medicina, Università di Pisa, Pisa,I. **Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma. Palazzo Altemps, Roma, I. SUMMARY Palaeopathology in Roman Imperial Age The increasing attention of archaeological and anthropological research towards palaepathological studies has allowed to focus the examination of many skeletal samples on this aspect and to evaluate the presence of many diseases afflicting ancient populations. This paper describes the most interesting diseases observed in skeletal samples from some necropoles found in urban and suburban areas of Rome during archaeological excavations in the last decades, and dating back to the Imperial Age. The diseases observed were grouped into the following categories: articular diseases, traumas, infections, metabolic or nutritional diseases, congenital diseases and tumours, and some examples are reported for each group. Although extensive epidemiological investigation in ancient skeletal records is impossible, the palaeopathological study allowed to highlight the spread of numerous illnesses, many of which can be related to the life and health conditions of the Roman population. Key words: Palaeopathology - Roman Imperial Age - Bone diseases 119 Simona Minozzi et al. Introduzione La documentazione letteraria di storici e medici che descrivono nei loro trattati malattie e rimedi illustra spesso con dovizia di particolari i malanni che affliggevano gli antichi romani. Talvolta, attraverso la descrizione di sintomatologia e cura è possibile individuare il tipo di malattia a cui veniva fatto riferimento, in altri casi l’eziologia resta confusa. In particolare, sembra difficile su base letteraria conoscere il reale stato di salute della popolazione romana, mentre un valido aiuto può essere rappresentato dall’interpretazione dei dati antropologici e paleopatologici ottenuti attraverso lo studio dei resti scheletrici umani. Grazie alle indagini antropologiche condotte negli ultimi anni da parte del sevizio di Antropologia della Soprintendenza Speciale ai Beni Archeologici di Roma, disponiamo di un ampio database antropologico relativo a centinaia di sepolture di Età Imperiale (tra il I ed il III sec. d.C.) provenienti dal territorio romano, che costituisce un’occasione unica per indagare le condizioni di vita e di salute ed arricchire le fonti di conoscenza relative alle malattie presenti all’epoca. Naturalmente, il principale limite di questo approccio è legato al fatto che non tutte le malattie lasciano le loro tracce sulle ossa, e che la maggior parte delle infezioni acute portano alla morte un individuo prima che i loro effetti raggiungano lo scheletro. Inoltre, alcune malattie colpiscono l’osso indebolendolo o demineralizzandolo, rendendo così i resti meno resistenti al trascorrere del tempo. In ogni caso, diverse malattie lasciano tracce indelebili sull’osso permettendo il riconoscimento dell’agente eziologico che le ha provocate, mentre altre inducono risposte monotone ed alterazioni simili sullo scheletro fornendo comunque indicazioni generali sulle condizioni di vita e di salute della popolazione. Le malattie riscontrate nel record archeologico romano possono essere raggruppate nelle seguenti categorie: malattie infettive, malattie metaboliche o nutrizionali, artropatie, lesioni traumatiche, malattie 120 Paleopatologia nella Roma Imperiale congenite e neoplasie. Alcune di queste patologie sono legate alla disponibilità delle risorse o allo stile di vita e quindi possono contribuire alla ricostruzione del quadro socio-economico e della qualità di vita della popolazione. La maggior parte delle osservazioni sono state fatte sui resti scheletrici provenienti da una tra le più vaste necropoli di età imperiale del territorio romano: la necropoli Collatina, datata tra il I ed il III sec. d.C., e situata a pochi chilometri dal centro di Roma1. Malattie infettive Le malattie infettive sono causate da un’ampia gamma di microrganismi (soprattutto virus e batteri) che entrano in contatto con l’uomo in diversi modi, ad esempio attraverso l’ingestione di acqua e cibo contaminati, il contatto con animali domestici o il contagio interpersonale. Le condizioni igienico sanitarie sono perciò molto importanti per la diffusione delle infezioni, in particolare in insediamenti abitativi a forte pressione demografica, come poteva essere la Roma imperiale con il suo milione di abitanti, dove il contagio tra persone era favorito dalla forte densità umana; oppure con l’allevamento e lo stretto contatto uomo-animale, condizione che poteva invece verificarsi nelle campagne del suburbio romano. La maggior parte degli eventi infettivi causano nell’osso risposte simili, come la periostite e l’osteomielite, piuttosto comuni nel record archeologico, e possono essere causate da infezioni di diverso tipo, ad esempio batteriche, oppure possono essere l’esito di eventi traumatici (colpi inflitti, ematomi, ecc.). Molte di queste infezioni sono aspecifiche, nel senso che non è possibile risalire al microrganismo scatenante l’infezione sulla base della risposta ossea, in altri casi è invece possibile effettuare una diagnosi differenziale. In questo gruppo sono comprese malattie quali la tubercolosi, la sifilide, la lebbra e la brucellosi o infezioni virali come la poliomielite. 121 Simona Minozzi et al. Nei campioni romani sono stati osservati diversi casi di malattie infettive, per lo più riferibili a brucellosi e tubercolosi ossea. Attualmente, la tubercolosi colpisce le classi più povere delle grandi città, soprattutto nei paesi in via di sviluppo dove è correlata alla forte urbanizzazione ed al degrado sociale2, e così doveva essere anche nel passato in una città come Roma. Un caso di possibile tubercolosi è stato osservato nella necropoli Collatina nei resti scheletrici di una giovane donna (18-30 anni) il cui cranio presentava alterazioni della superficie interna dell’osso frontale conosciute come serpens endocrania symmetrica (Fig. 1). Si tratta di modifiche della superficie endocranica con porosità associata a canalicoli serpentiformi che da diversi autori sono state attribuite ad infezioni polmonari non specifiche3, mentre altri le hanno collegate a meningite tubercolare4. Il resto dello scheletro purtroppo è in cattivo stato di conservazione e solo pochi frammenti ossei si sono preservati, pertanto non sono osservabili altre alterazioni legate all’infezione. Nella necropoli Collatina sono stati osservati almeno cinque casi sospetti di tubercolosi ed un caso di morbo di Pott è stato descritto nella necropoli di Via Nomentana (I-II sec. d.C.)5. Considerando il fatto che la tubercolosi colpisce il tessuto osseo nel 10-20% dei casi6, le evidenze scheletriche osservate nel record archeologico ro- Fig.1. Tavolato interno dell’osso fronmano suggeriscono che doveva tale caratterizzato da un fitto reticolo di essere una malattia piuttosto piccoli solchi ad andamento vermicolare (serpens endocrania symmetrica), in una diffusa nella Roma imperiale e donna adulta proveniente dalla necropoli nel suburbio; e come testimo- Collatina. 122 Paleopatologia nella Roma Imperiale nia Ippocrate negli Aforismi, la tisi era già nel V sec. a.C. una malattia che causava febbre ed emottisi e che mieteva più vittime di altre. Malattie metaboliche Le malattie metaboliche sono legate a disturbi del metabolismo di elementi indispensabili all’organismo, come proteine e vitamine, ed in alcuni casi colpiscono lo scheletro come l’osteoporosi, lo scorbuto, il rachitismo e l’osteomalacia. L’esito di queste malattie è stato registrato in diversi casi nel record archeologico romano; due casi gravi di rachitismo, ad esempio, sono stati osservati nella necropoli Collatina7, mentre testimonianze della sua presenza nella Roma Imperiale provengono dalle fonti storiche. Sorano di Efeso, nel primo secolo d.C. descrisse per primo le conseguenze del rachitismo nei bambini8. Il rachitismo è causato da carenza di vitamina D durante la crescita che, nella maggior parte dei casi, è dovuta a scarsa esposizione al sole poiché essa viene sintetizzata nell’epidermide durante l’irraggiamento solare. Altri fattori di rischio sono rappresentati da dieta inadeguata, patologie intestinali croniche, disfunzioni renali e difetti genetici di sintesi9,10,11. La vitamina D regola l’assorbimento intestinale di calcio e fosforo, elementi essenziali alla costruzione della matrice organica dell’osso, pertanto la sua assenza causa, durante i primi anni di vita, una caratteristica deformazione delle ossa lunghe, con appiattimento delle metafisi ed ispessimento della corticale; tipiche sono le curvature delle tibie e dei femori. Si osservano pure anomalie nella curvatura della colonna vertebrale, come cifosi e scoliosi, assottigliamento della volta cranica ed ispessimento delle ossa frontali12. Nel caso in cui l’avitaminosi colpisca un soggetto adulto, si parla di osteomalacia, che colpisce prevalentemente le donne con gravidanze ripetute ed allattamento. Il caso di rachitismo proveniente dalla necropoli Collatina riguarda una donna adulta (tra i 27 ed i 37 anni di età) di piccola statura (144 123 Simona Minozzi et al. Fig. 2 - Anchilosi, collasso e forte distorsione a sinistra del tratto toracico della colonna vertebrale in una donna adulta affetta da rachitismo, proveniente dalla necropoli Collatina. A: norma anteriore; B: norma posteriore. cm), il cui scheletro mostra i segni tipici del rachitismo. Le alterazioni più evidenti riguardano la colonna vertebrale, dove il tratto toracico superiore (T3-T7) presenta fusione dei corpi vertebrali e dell’arco neurale, con collasso di T3, T4 e T5 ed una forte torsione e flessione a sinistra del tratto toracico (Fig. 2). Altri segni tipici del rachitismo, dovuti a perdita di mineralizzazione nelle cartilagini di accrescimento, sono i femori leggermente curvati e le tibie che invece sono marcatamente ricurve (Fig.3). Benché la letteratura paleopatologica non riporti altri casi di rachitismo a Roma, questo disturbo doveva essere piuttosto diffuso, in particolare nei quartieri dell’Urbe a più forte densità abitativa, dove tra alte costruzioni e insulae l’esposizione solare doveva essere scarsa. Come riporta Galeno: “Le donne, e in particolare le madri, restavano in casa, non eseguivano lavori pesanti e non si esponevano alla luce diretta del sole13”. Un’altra malattia metabolica riscontrata nelle serie romane è lo scorbuto, disturbo causato da un mancato apporto alimentare di vitamina C, elemento importante per il normale sviluppo dei tessuti, come ad esempio il collagene, componente fondamentale della matrice ossea e cartilaginea14,15. 124 Paleopatologia nella Roma Imperiale L’organismo umano non può sintetizzare la vitamina C, che quindi deve essere assunta con la dieta. La vitamina C è presente in una grande varietà di cibi, principalmente nella frutta fresca e nei vegetali crudi. Quindi la mancanza di vitamina C determina una formazione ossea difettosa o assente con effetti disastrosi sulla crescita scheletrica, in particolare nei bambini. Le alterazioni scheletriche indotte dallo scorbuto sono state osservate nei resti ossei appartenenti a un bambino di 3-5 anni proveniente dalla necropoli Collatina. Lo scheletro, incompleto e in mediocre stato di conservazione, presenta evidenti alterazioni: la superficie cranica inter- Fig.3 - Lo stesso individuo di na ed esterna è caratterizzata da forte Fig.2 mostra un tipico aspetto del periostite (Fig. 4A), mentre nel tetto rachitismo con entrambe le tibie ricurve di entrambe le orbite si osservano gravi cribra orbitalia con apposizione di tessuto osseo neoformato (Fig. 4B). Il processo di reazione periostale era attivo al momento della morte perché non vi sono segni di riparazione. L’osso sfenoide mostra un’anormale mineralizzazione e porosità della superficie interna, mentre le ossa zigomatiche, la mascella e la mandibola presentano i segni di ampie reazioni periostitiche con apposizione di osso neoformato e sviluppo di piccole spicole. La mandibola, in particolare, presenta rigonfiamento e riassorbimento degli alveoli con perdita di alcuni denti decidui. Infine, reazioni periostitiche evidenti e diffuse sono osservabili anche lungo le diafisi di femore e tibia. 125 Simona Minozzi et al. Fig. 4 A e B. - Bambino di 3-5 anni, proveniente dalla necropoli Collatina, affetto da scorbuto. A: area a forte porosità sul parietale sinistro esterno B: orbita destra colpita da grave cribra orbitalia. Le alterazioni osservate sono tipiche dello scorbuto, infatti, la principale manifestazione di questa malattia è rappresentata da emorragie sottoperiostali dovute a rottura dei capillari che causano periostiti diffuse, inoltre, la formazione dell’osso viene inibita con perdita di mineralizzazione, osteopenia e fratture, parodontopatia e perdite dentarie 16,17. Malattie articolari Colpiscono le articolazioni ossee causando la degenerazione delle capsule articolari. L’artrosi è l’artropatia più diffusa poiché strettamente legata agli stress biomeccanici a cui è sottoposta un’articolazione e all’avanzare dell’età (molto comune a partire dai 40 anni). E’ una malattia ad andamento cronico ed interessa principalmente la cartilagine articolare, che degenera fino a scomparire, manifestando sulla superficie articolare porosità ed eburneazione, mentre neoproduzioni ossee (osteofiti) proliferano attorno ai margini articolari. Le articolazioni soggette a maggior stress meccanico, come colonna vertebrale, anca, ginocchio, mani e piedi sono le più colpite18,19. Poiché l’artrosi è comunemente diffusa nei materiali scheletrici e facilmente correlabile ad attività occupazionali, viene considerata un 126 Paleopatologia nella Roma Imperiale indicatore di stress biomeccanico, assieme ad altre alterazioni vertebrali, come ernie di Schmorl e schiacciamenti vertebrali. Altre malattie articolari, che presentano spesso un esito osseo simile all’artrosi o che possono essere accompagnate da fenomeni osteolitici, sono state osservate sporadicamente nei resti scheletrici esaminati. I casi più interessanti osservati sono rappresentati dall’Iperostosi Scheletrica Idiopatica Diffusa (DISH), dalla spondilite anchilosante e dalla gotta. Quest’ultima in particolare rappresenta un evento raramente descritto tra i romani. La gotta è una malattia metabolica caratterizzata da iperuricemia, ossia elevati livelli di acido urico nel sangue, che si deposita sottoforma di cristalli di urato di sodio nei tessuti molli periarticolari, causando erosioni nell’osso e nelle cartilagini articolari. La gotta colpisce prevalentemente le articolazioni dei piedi, meno frequentemente si manifesta presso la testa del femore e nell’articolazione del ginocchio20. Un caso di particolare interesse è stato osservato nello scheletro ben conservato di una donna adulta di 35-45 anni d’età, rinvenuta nella necropoli Collatina. Lo scheletro è caratterizzato da dimensioni corporee molto ridotte, ai limiti del patologico, infatti, la statura stimata mediante le formule di regressione di Sjovold21 è intorno ai 143 cm. Sono state osservate diverse alterazioni scheletriche, legate a fenomeni degenerativi dovuti a stress fisico ed all’età, come artrosi vertebrale ed osteocondrite dissecante sulle superfici articolari dei condili femorali, ma le alterazioni più evidenti, e riconducibili ad un processo patologico di una certa entità, riguardano mani e piedi, e soprattutto questi ultimi dove è possibile osservare lesioni litiche delimitate da lievi osteofiti nelle ossa tarsali e metatarsali (Fig. 5). Piccole lesioni simili, ma meno evidenti sono state osservate in alcune ossa carpali e metacarpali. La diagnosi differenziale ha preso in considerazione le diverse malattie che possono provocare un quadro simile alla gotta, come 127 Simona Minozzi et al. Fig. 5 - Alterazioni nelle ossa dei piedi imputabili a gotta in una donna adulta proveniente dalla necropoli Collatina l’artrite reumatoide, le micosi ed alcuni tipi di tumore come l’encondroma ed il mieloma multiplo. La valutazione del quadro patologico corredato anche dall’analisi radiologica ha portato ad una diagnosi di gotta. Questa malattia, che raramente insorge prima della quarta decade di vita e colpisce prevalentemente gli uomini rispetto alle donne ha un’eziologia ancora sconosciuta, anche se ormai è accertata una componente genetica influenzata da fattori dietetici, soprattutto una dieta ricca in carne e consumo eccessivo di alcool. La gotta può anche essere associata ad ipotiroidismo22,23 che può causare 128 Paleopatologia nella Roma Imperiale un ritardo nella crescita; questa associazione potrebbe spiegare la bassa statura rilevata in questo soggetto. Traumi Le lesioni traumatiche, assieme alle artropatie, rappresentano le alterazioni patologiche più diffuse nei resti esaminati, in virtù del fatto che è piuttosto comune procurarseli durante il corso della vita e che spesso interessano direttamente le ossa con fratture e fenomeni riparativi. Lo studio dei traumi e dei modelli traumatologici di una popolazione fornisce utili indicazioni sui rischi connessi all’attività lavorativa quotidiana o all’intensità con la quale il lavoro veniva svolto. Oppure, documentano il grado di violenza interpersonale nel gruppo o al di fuori di esso. In quest’ultima categoria rientra il caso di traumatologia inflitta e ripetuta osservata in resti scheletrici provenienti dalla necropoli Collatina. Lo scheletro appartiene ad una donna di età superiore ai 50 anni, di media statura (153 cm), con costituzione gracile, ma con forti inserzioni muscolari ed indicatori di stress funzionali che indicano una considerevole attività lavorativa. Le ossa mostrano le tracce di diversi eventi traumatici, molti dei quali ben riparati. I danni maggiori sono a carico del cranio, dove si osservano sei larghe e profonde depressioni sulle ossa parietali e sull’occipitale (Fig. 6A), ed una profonda sul frontale vicino al bregma. Queste lesioni testimoniano un traumatismo ripetuto e non contemporaneo: infatti, le depressioni sono delimitate da margini circolari che in alcuni casi si sovrappongono. Inoltre, se fossero il risultato di solo uno o due eventi non avrebbero probabilmente avuto la possibilità di guarire, con una così ampia estensione, suggerendo differenti atti di violenza ripetuti nel tempo. La superficie endocranica ha un aspetto alterato lungo il solco dell’arteria meningea che appare più largo e profondo. Numerosi canali vascolari e porosità circondano l’area, caratterizzata da piccoli solchi interconnessi e circonvoluti. 129 Simona Minozzi et al. Queste lesioni endocraniche possono essere l’esito di reazioni infiammatorie dovute ad emorragie meningee causate dai ripetuti traumi. La mandibola mostra gli esiti della frattura di entrambi i rami mandibolari: a destra la frattura è riparata mentre a sinistra la mancata saldatura dei due monconi fratturati ha dato origine ad una pseudoartrosi (Fig.6B). Segni di traumatismo da difesa sono stati osservati nell’avambraccio destro con una “frattura da parata”, una tipica frattura ossea causata dal sollevare il braccio nel tentativo di parare un colpo durante un’aggressione. L’esame radiografico conferma l’origine traumatica della lesione, che risulta comunque completamente riparata nel radio. Anche le clavicole mostrano gli esiti di strappi muscolari e di una possibile lussazione della clavicola destra. Nell’osso coxale si osservano marcatori di parti ripetuti, in particolare, un solco preauricolare molto profondo ed allargato24. I segni dei numerosi eventi traumatici evidenziati sullo scheletro di questa anziana donna rivelano una vita caratterizzata da diver- Fig. 6 A e B. - Resti scheletrici di un’anziana donna proveniente dalla necropoli Collatina con segni di numerosi traumi subiti. A: esiti di traumi ripetuti sulla volta cranica. B: ramo mandibolare di sinistra non riparato con pseudoartrosi. 130 Paleopatologia nella Roma Imperiale si episodi di violenza, suggerendo che sia stata vittima di ripetuti maltrattamenti. Non conosciamo il ruolo sociale della donna, benché l’assenza di oggetti di corredo e la semplicità della fossa in cui era sepolta suggeriscano umili origini, oppure che si trattasse di una schiava. Nella maggior parte delle culture l’uomo rappresenta la figura dominante, mentre la donna rappresenta la vittima più comune di abusi. La legge romana non permetteva gli abusi domestici da parte del marito, ma sappiamo che il ruolo della donna era scarsamente riconosciuto, tanto da non essere neppure considerata civis romanus. Le fonti storiche non descrivono a sufficienza la vita femminile tra i ceti popolari25 ed i pochi esempi di mariti violenti o di abusi domestici riguardano le classi sociali facoltose o importanti. Se da un lato abbiamo quindi alcune descrizioni degli scarsi diritti costituzionali delle donne ed il loro ruolo nell’antica Roma, dall’altro conosciamo molto poco sulle reali condizioni di vita e sulla violenza domestica. Questo caso rappresenta un esempio di come la paleopatologia può aiutarci a ricostruire aspetti della vita sociale e della condizione femminile nella popolazione romana. Malattie congenite Si tratta di anomalie di sviluppo o malformazioni che vengono trasmesse per via ereditaria, e consistono in un anormale sviluppo dell’osso a causa di alterazioni genetiche di vario tipo. Sono patologie piuttosto rare nel record archeologico, anche perché spesso causano la morte in età infantile o prima dell’età riproduttiva. Nei campioni romani sono state più frequentemente osservate anomalie congenite di scarsa gravità come la fusione dell’ultima vertebra lombare al sacro (sacralizzazione) oppure la più rara disgiunzione dal sacro della prima vertebra sacrale (lombarizzazione), la perforazione del corpo dello sterno, e la spina bifida occulta. 131 Simona Minozzi et al. Fig. 7. Resti scheletrici appartenenti ad un individuo affetto da nanismo acondroplasico, si può osservare l’accorciamento delle ossa lunghe e la deformazione degli arti superiori. Tra le anomalie più rare è il caso di nanismo acondroplasico osservato in resti scheletrici incompleti e scarsamente conservati provenienti dalla necropoli Collatina ed appartenenti ad un giovane adulto (20-25 anni) di sesso non determinabile. Le ossa lunghe degli arti sono decisamente più corte del normale e in parte deformate (Fig.7), la statura calcolata in base alla lunghezza degli arti doveva essere tra i 131 ed i 134 cm. Benché il cranio non sia conservato, le alterazioni osservate suggeriscono che si tratti di nanismo acondroplasico, una malattia congenita caratterizzata da accorciamento degli arti e tronco quasi normale. Attualmente colpisce 1 persona su 10.000, lasciando un’aspettativa di vita quasi normale, senza alterare le capacità intellettive26. La presenza ed il ruolo dei nani nella Roma imperiale è ben documentata nella letteratura e nell’iconografia poiché i nani erano particolarmente apprezzati tra i membri dell’alta società come intrattenitori, giocolieri e buffoni. Sembra che gli imperatori Marco Antonio, Tiberio e Alessandro Severo avessero un nano come consigliere personale 27,28. L‘interesse per i nani è testimoniato anche da alcuni reperti, come un pupazzo a forma di nano, rinvenuto nella tomba di un bambino ad Osteria del Curato (I-II sec. d.C.). 132 Paleopatologia nella Roma Imperiale Neoplasie I tumori sono anormali produzioni di tessuto che possono avere origine direttamente dall’osso o diffondersi nello scheletro da altri organi del corpo; questi ultimi sono detti anche maligni perché hanno un’alta velocità di accrescimento, si infiltrano nei tessuti circostanti e si diffondono dando origine a tumori secondari in altre parti del corpo (metastasi), portando poi alla morte l’individuo colpito. I tumori maligni che coinvolgono l’apparato scheletrico sono quelli primitivi dell’osso, come l’osteosarcoma, ed il mieloma multiplo che origina nel midollo emopoietico e si diffonde poi al tessuto osseo e tumori secondari come il carcinoma metastatico29. Molte neoplasie sono invece di tipo benigno perché non si diffondono e solitamente creano pochi disturbi. I tumori benigni più diffusi nei materiali scheletrici sono quelli che originano nelle cartilagini (condromi ed osteocondromi) e nel tessuto osseo (osteomi). Nei resti scheletrici romani, i tumori sono piuttosto rari perché in genere colpiscono in età avanzata, mentre l’età media della popolazione romana si aggirava attorno ai 35 anni. Inoltre, molti agenti cancerogeni, alquanto diffusi ai nostri giorni (inquinamento, additivi alimentari, pesticidi, fumo di sigaretta, ecc.), non erano presenti. Un caso di tumore maligno è stato osservato in resti scheletrici appartenenti ad un uomo adulto rinvenuto nella necropoli di Castel Malnome. La neoplasia è localizzata lungo il terzo prossimale della diafisi della tibia sinistra dove un’abbondante neoproduzione ossea con osteofiti disposti a raggiera, avvolge la diafisi (Fig.8). La neoplasia è dovuta ad un osteosarcoma, il più comune tumore maligno che colpisce l’osso negli adolescenti e nei giovani adulti, più spesso tra gli uomini rispetto alle donne. Colpisce le zone dell’osso dove la crescita endocondrale è più attiva come la porzione distale del femore, quella prossimale dell’omero o la prossimale della tibia, come in questo caso. 133 Simona Minozzi et al. Fig. 8 - Tibia sinistra con osteosarcoma che interessa il terzo prossimale della diafisi di un uomo adulto proveniente dalla necropoli di Castel Malnome. La reazione periostale di osso neoformato ha un’apparenza a raggio di sole. A: norma anteriore; B: norma posteriore. I tumori benigni sono invece più comuni, come ad esempio gli osteomi, osservati in quattro casi nella necropoli Collatina e cinque casi in quella di Castel Malnome. Conclusioni Lo studio paleopatologico dei resti scheletrici di età imperiale ha permesso di ampliare la casistica delle malattie diffuse a Roma e nel suburbio, e per alcuni casi documentare “biologicamente” le fonti storiche che ne descrivevano la presenza. 134 Paleopatologia nella Roma Imperiale Alcune di queste malattie possono essere messe in rapporto con il declino igienico-sanitario di cui doveva soffrire la città di Roma, con le sue strade affollate e sporche, dove la diffusione di infezioni e malattie doveva essere favorita. Perché se da una parte l’aumento di popolazione è andato di pari passo ad un’estesa pianificazione della città, con l’organizzazione delle risorse idriche e degli scarichi fognari, dall’altra la pressione demografica e le scarse misure igieniche devono avere messo in crisi la salute della popolazione, in particolare nei ceti socioeconomici più bassi. Benché sia difficile ricostruire un quadro epidemiologico esauriente, i numerosi casi osservati nel record archeologico romano possono aiutarci a comprendere le condizioni di salute e le malattie maggiormente diffuse nella Roma antica. Bibliografia e Note Ringraziamenti Desideriamo ringraziare Carla Caldarini, Walter Pantano, Stefania Di Giannantonio, (Soprintendenza Speciale ai Beni Archeologici di Roma), Agata Lunardini e Federica Bianchi (Università di Pisa) per il loro aiuto nello studio del materiale scheletrico; il Prof. Davide Caramella e il Dott. Davide Giustini (Università di Pisa) per le indagini radiologiche. 1. BUCCELLATO A., CATALANO P., ARRIGHETTI B., CALDARINI C., COLONNELLI G., DI BERNARDINI M., MINOZZI S., PANTANO W., SANTANDREA E., Il comprensorio della necropoli di Via Basiliano (Roma): un’indagine multidiscilìplinare. Mélanges de l’école Française de Rome, 2003; 115(1): 311-376. 2. SHRESTHA O.P., SITOULA P., HARISH S., HOSALKAR H.S., BANSKOTA A.K., SPIEGEL D.A., Bone and Joint Tuberculosis. University Of Pennsylvania Orthopaedic Journal 2010; 20:23-28. 135 Simona Minozzi et al. 3. HERSHKOVITZ I., GREENWALD CM., LATIMER B., JELLEMA LM., WISH-BARATZ S., ESHED V., DUTOUR O., ROTHSCHILD BM., Serpens Endocrania Symmetrica (SES): A New Term and possible clue for identifying intrathoracic disease in skeletal population. Am. J. Phys. Anthropol. 2002; 118:201-216. 4. SCHULTZ M., Paleohistopathology of bone: a new approach to the study of ancient diseases. Am J Phys Anthropol. 2001; 33:106–147. 5. CANCI A., NENCIONI L., MINOZZI S., CATALANO P., CARAMELLA D., FORNACIARI G., A case of healing spinal infection from Classical Rome. Int. J. Osteoarch. 2005; 15:77-83. 6. MARUDANAYAGAM A., GNANADOSS J.J., Multifocal Skeletal Tuberculosis: A Report of Three Cases. The Iowa Orthopaedic Journal 2006; 26:151–153. 7. 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Cambridge, Cambridge University Press, 1999, pp. 47-48. 14. JAFFE H., Metabolic, degenerative, and inflammatory diseases of bones and joints. Philadelphia, Lea and Febiger, 1972; vd. anche op cit. nota 11 15. ROBERTS C., MANCHESTER K., The Archaeology of Disease. 3rd edition, Cornell University, 2007, pp.33; vd. anche op.cit nota 11. 16. ORTENER D.J., ERICKSEN M.F., Bones changes in human skull probably resulting from scurvy in infancy and childhood. Int. J. Osteoarch. 1997; 7:212-220; vd. anche op cit. nota 11. 136 Paleopatologia nella Roma Imperiale 17. ORTNER D.J., BUTLER W., CAFARELLA J., MILLIGAN L., Evidence of probable scurvy in sabadults from archaeological sites in North. Am. J. Phys. Anthropol. 2001; 114:343–351; cfr. anche op. cit. nota 11. 18. WALDRON T., Palaeopathology. Cambridge, Cambridge University Press, 2009. 19. AUFDERHEIDE A.C., RODRIGUEZ-MARTIN C., The Cambridge encyclopedia of human pathology. Cambridge, Cambridge University Press, 1998. 20. 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Philadelphia. 1963; 2(12):703-708. 28. DASEN V. Dwarfs in Ancient Egypt and Greece. Oxford Monographs on Classical Archaeology, Clarendon Press, 1993. 29. Cfr. op cit. nota 18. Correspondence should be addressed to: [email protected] 137 MEDICINA NEI SECOLI ARTE E SCIENZA, 25/1 (2013) 139-166 Journal of History of Medicine Articoli/Articles RICOGNIZIONI CANONICHE ED INDAGINI SCIENTIFICHE SULLE MUMMIE DEI SANTI Ezio Fulcheri* Sezione Anatomia Patologica, Dipartimento DISC, Scuola Medica e Farmaceutica dell’Università degli Studi di Genova, Genova, I SUMMARY Canonic Recognitions and Scientific Investigations on the Mummies of Saints The Mummies of Saints represent a peculiar category in Italian scene; they are very different for each type of mummification, suffer from numerous environmental interference and rituals, from conservation work or handling repeated over time. An analytical and critical review of all known cases and an inventory is presented. In the present work the topics of canonic recognitions is briefly considered. The study of the bodies of the Saints is characterized by particular techniques and by very close bonds that first puts the conservation of the venerable rest to analytical study of them. However, these investigations are of particular interest not only in the anthropological, paleopathological and biological profile but also from an historical, cultural, religious, literary and artistic point of view. Premessa Interessandoci da molto tempo delle reliquie insigni rappresentate dai corpi dei Santi, dei Beati, Servi di Dio o Venerabili personaggi della Chiesa Cattolica, spesso siamo stati richiesti di un parere specifico, da paleopatologo e da patologo, relativo al mai risolto problema della loro conservazione e più in generale dal presupposto conflitto Key words: Mummies - Saints- Catalogues - Investigations – Paleopathology 139 Ezio Fulcheri che si viene ineluttabilmente a creare tra fede e scienza, in un territorio di confine tanto fragile e a margini sfumati. In questo campo, più che in altri, la poesia della mistica, il fascino delle tradizioni ed il profumo della nostalgia del Santo e dell’uomo Beato, si stemperano facilmente nella superstizione, nel senso del magico e nell’eccezionale, nell’evento tinto di imperscrutabile mistero. Molte persone, e spesso tanto più se agnostici o dichiaratamente atei, subiscono il fascino di una parola quasi magica – “gli incorruttibili” e, più che i devoti credenti, sono attenti e curiosi di scoprire le radici e cercare le evidenze di questo fenomeno1. Si sentono voci contrastanti e dissonanti spesso ispirate dal desiderio di far prevalere una o l’altra ipotesi ma quasi mai serenamente aderenti alle evidenze scientifiche ed alla fiduciosa consapevolezza che la verità possa arricchire sempre. In alcuni nostri lavori, dove era stato richiesto di esprimere un parere sul problema della conservazione mirabile ed eccezionale dei corpi, avevamo ricordato, come premessa, che la santità di un notabile personaggio della Chiesa non si misura dal fatto che siano stati conservati o meno i suoi resti mortali, in modo naturale o in modo non naturale; o ancora che questi resti mortali siano o non siano affatto conservati. Si annoverano infatti grandi figure di Santi il cui corpo non è giunto a noi, ma questo, come ovvio, nulla toglie alla loro grandezza2. In un momento storico in cui i mass media esercitano una forte pressione alla ricerca del sensazionale e di tutto ciò che fa notizia e internet, quale macchina prodigiosa e splendida espressione di una sistema che sta diventando filosofia di vita, trasmette tutto ed il contrario di tutto senza controlli di qualità, si rende necessaria una riflessione su questo tema e questa riflessione deve essere proposta anche e soprattutto su una rivista scientifica. Presupposti teologici In molti punti delle Sacre Scritture si parla esplicitamente del ritorno dell’uomo, dopo la morte, alla polvere dalla quale era venuto. “Col 140 Le mummie dei Santi sudore della tua fronte mangerai il pane, finché non ritornerai nella terra dalla quale fosti tratto; perché tu sei polvere ed in polvere ritornerai” (Genesi 3,19 ) ed ancora “Dio formò l’uomo dalla terra, Lo creò a sua immagine, E di nuovo lo fa ritornare alla terra”. (Ecclesiastico 17,1) Alla condizione umana di caducità e di fragilità la morte pone un sigillo ineluttabile e realizza questa tremenda realtà con la polverizzazione del corpo. Tale evento viene più volte ricordato a monito. “Ricordando che son carne, Un soffio senza ritorno” (Salmi 77, 39) ed ancora, “Perché Egli sa bene come siamo fatti, E ricorda che siamo polvere”. (Salmi 102,14) o sempre più esplicitamente “E torni la polvere alla sua terra da cui ebbe origine E lo spirito torni a Dio che l’aveva dato”. (Ecclesiaste 12, 7) È proprio in questa ultima proposizione che si trova, per il credente, la chiave di tutto il mistero dell’uomo che si dissolve nella terra per lasciare libera l’anima di tornare a Dio. L’imbalsamazione dei corpi L’imbalsamazione dei defunti sembra contrapporsi nettamente alla tradizione biblica. In effetti in Egitto nei primi secoli del cristianesimo l’imbalsamazione dei cadaveri ed i riti funerari ad essa correlati vennero assolutamente proibiti. La proibizione per i cristiani di Egitto era motivata dalla necessità di differenziare nettamente le pratiche religiose dei cristiani da quelle ispirate alla vecchia religione egizia. Per tale motivo, proibire l’imbalsamazione era segno di frattura netta e di cambiamento radicale nei confronti della religione di stato, di qualsiasi forma di religiosità tradizionale popolare ma anche di qualsiasi forma di superstizione. Tuttavia se venne abbandonato il rituale della imbalsamazione non venne del tutto trascurata una certa pratica di conservazione dei cadaveri. Molto più semplicemente ed in modo artigianale, (un pragmatismo che comunque lasciava spazio ad ogni eventuale possibilità 141 Ezio Fulcheri e nulla precludeva nella remota ipotesi che quella dei Cristiani non fosse proprio una verità così assoluta tale da escludere ogni aspetto del precedente impianto teologico) i corpi venivano cosparsi in una mistura naturale di Sali, il natron, e successivamente coperti nel sepolcro. In questo modo si praticava una imbalsamazione semplice e ridotta all’essenziale, che escludeva manipolazioni dei corpi ed eviscerazioni ma nel contempo evitava la dissoluzione delle carni (la fase putrefattiva dei fenomeni post mortali – distinta in cromatica, gassosa e colliquativa) e consentiva la conservazione del corpo grazie all’azione del sale ed alle condizioni climatiche estremamente favorenti. Tuttavia questa osservazione potrebbe dimostrarsi estremamente confondente nello studio delle radici giudaiche dell’imbalsamazione. Per comprendere come nella tradizione giudaico-cristiana la pratica della imbalsamazione fosse invece profondamente radicata occorre andare molto più indietro nel tempo; occorre ritornare al momento della fuga dall’Egitto dopo la lunga schiavitù. Gli Ebrei usciti dall’Egitto portarono con loro, oltre a svariati usi e costumi, la pratica dell’imbalsamazione e questa si radicò nelle più profonde tradizioni del popolo. La tradizione giudaica della imbalsamazione la possiamo chiaramente trovare documentata proprio a proposito della morte di Gesù. Nel Vangelo di San Giovanni si può leggere: Venit autem et Nicodemus, qui venerat ad Iesum nocte primum, ferens mixturam myrrhae et aloes, quasi libras centum. Acceperunt ergo corpus Iesu, et ligaverunt illud linteis cum aromatibus, sicut mos est iudaeis sepelire (Jo.19,39-40). Inoltre, nel Vangelo di San Marco leggiamo “Et cum transisset sabbatum, Maria Magdalene, et Maria Iacobi, et Salome emerunt aromata ut venientes ungerent Iesum (Mrc,16,1)”, e nel Vangelo di San Luca “Et revertentes paraverunt aromata et unguenta: et sabbato quidem siluerunt secundum mandatum (Lu, 23, 56)”. 142 Le mummie dei Santi Nella basilica del Santo Sepolcro in Gerusalemme la tradizione ha fatto riconoscere e conservare la cosiddetta “pietra dell’unzione” (erroneamente detta anche “pietra dell’unione”). Appare immediatamente il rapporto di tali usanze ebraiche con le tradizioni egiziane di imbalsamazione probabilmente assimilate dagli ebrei durante il lungo periodo di prigionia; comunque sia derivata, l’usanza di ungere con balsami i corpi dei defunti si consolidò presso gli Ebrei: sicut mos est iudaeis sepelire (Jo.19,40). Con tale autorevole tradizione è ovvio che i corpi di persone Sante o “in odore di santità”, venissero, nei secoli successivi, per devozione e rispetto, lavati ed unti con balsami ed aromi e pertanto “imbalsamati”. I cristiani di Roma iniziarono a conservare i corpi dei fedeli nelle catacombe e a venerare le reliquie dei martiri raccolte dopo il martirio. Tuttavia dobbiamo attendere che il cristianesimo si radichi pienamente nella popolazione per iniziare il culto pubblico dei defunti e, con questo, il culto diversificato dei defunti di eccezionale e straordinaria calibratura e statura come appunto quei personaggi della Chiesa morti in odore di santità. Questi corpi venivano lavati e trattati con cura e le spoglie deposte in sepolcri privilegiati in chiese, basiliche o cattedrali. In queste condizioni molto caratteristiche la mummificazione poteva instaurarsi abbastanza facilmente. Proprio il concorso dei balsami, degli aromi e degli incensi con le condizioni di un microclima particolare, fecero sì che in Europa, ed in Italia soprattutto, venissero a conservarsi un gran numero di corpi; Santi, Beati o semplicemente Religiosi notabili divennero, e sono tutt’ora, silenziose presenze in svariati luoghi di culto. Evidenze speciali in Italia Dal 1990 stiamo raccogliendo i dati per un catalogo importante relativo alle reliquie insigni dei Santi e dei Beati. In questo “corpus” cerchiamo ogni notizia relativa alle precedenti ricognizioni e ogni 143 Ezio Fulcheri possibile traccia o documentazione relativa allo stato di conservazione dei corpi. Questo catalogo e la sistematizzazione di esso verrà descritto in seguito; ora preme, per rendere più lineare il ragionamento, estrapolare dal tema solo alcuni concetti. L’elenco dei corpi mummificati conservati in Italia evidenzia come su quarantadue mummie in nove casi siano stati documentati sicuramente interventi complessi di imbalsamazione. Per due di questi, Santa Margherita da Cortona e la Beata Margherita Vergine di Città di Castello potemmo addirittura ritrovare i segni delle incisioni e studiare la tipologia dell’intervento di imbalsamazione. Nella regione addominale si ritrovarono le incisure a tutto spessore, necessarie per la rimozione dei visceri, chiuse con punti di sutura a sopraggitto. Per la Beata Margherita Vergine di Città di Castello si trattava di un’incisura a croce con due tagli, l’uno sulla linea xifo – pubica ed il secondo dal fianco destro a quello sinistro. Santa Margherita da Cortona presentava invece anche tagli longitudinali sulle gambe e sulle cosce, sempre accuratamente suturati, che dovettero servire per una mummificazione molto più complessa che prevedeva anche la rimozione del pannicolo adiposo sottocutaneo3. L’incorruttibilità dei corpi La tradizione dell’incorruttibilità dei corpi santi si basa invece su una frase molto nota del Salmo 15 che viene spesso riproposta nella liturgia ed in particolare l’ottava di Pasqua, nel lunedì santo. “Anche il mio corpo riposa al sicuro, perché non abbandonerai la mia vita nel sepolcro, né lascerai che il tuo santo veda la corruzione” (Salmo 15) In effetti il patriarca Davide parlava della profezia e del giuramento fatto da Dio di far sedere sul suo trono (il trono di Davide) un suo discendente prevedendo anche la risurrezione di Cristo e ne parlò chiaramente affermando che la carne del suo santo (cioè Cristo) non avrebbe conosciuto la corruzione. 144 Le mummie dei Santi Su questa base si fonda la tradizione dell’incorruttibilità dei corpi dei Santi che, proprio in virtù della loro santità non devono seguire le vie naturali della decomposizione ma possono preservarsi inalterati ed incorrotti sfidando le leggi della natura per volere e disegno superiore. Nel nostro catalogo abbiamo evidenziato che alcuni corpi vennero sicuramente imbalsamati mentre in una gran parte dei casi vi è una notevole variabilità di situazioni e di caratteristiche del corpo mummificato. Dunque se nove corpi vennero imbalsamati i restanti trentatre come si conservarono? Dopo tale riflessione occorre ragionare serenamente sulla base di alcuni elementi scientifici. La mummificazione naturale è ampiamente documentata in tutte le epoche storiche e in tutte le regioni del mondo. È un evento inusuale che necessita di condizioni ambientali particolari, di speciali caratteristiche del luogo in cui si trova il corpo ed ancora di specifiche caratteristiche del corpo stesso4. Una lunga serie di “pseudo scienziati” ha preteso di poter ragionare, un po’ speciosamente, sul problema dei cosiddetti “incorruttibili”, corpi di Santi o Beati che si sono conservati miracolosamente incorrotti. Il tema dell’incorruttibilità tuttavia viene da questi affrontato con un senso di sfida intellettuale, nella contrapposizione cercata e compiaciuta tra fede e scienza, oppure nella ricerca del sensazionale. Molte volte siamo stati chiamati a intervenire su questo tema e costantemente abbiamo potuto constatare il senso di delusione negli interlocutori e negli intervistatori allorquando si sviluppava il ragionamento con serenità e logica attenzione alle evidenze scientifiche. La nostra riflessione era già stata pubblicata sulla rivista Alba Pompeja in occasione della ricognizione canonica sul Beato Corpo di Margherita di Savoia5. La Ricognizione avvenne ad Alba dove Margherita aveva fondato il monastero di clausura delle suore domenicane. Si tratta di un corpo naturalmente mummificato. Brevemente ricordiamo che la mummificazione naturale, per instaurarsi, necessita di condizioni ambientali e di microclima particolari. 145 Ezio Fulcheri Abbiamo accennato che proprio l’uso di lavare i cadaveri ed ungerli con balsami favorisce enormemente la mummificazione. La sepoltura poi in ambienti chiusi ed a temperatura costante e bassa può costituire l’elemento determinante e la chiave di volta di tutto il sistema. Se dunque la conservazione dei corpi può essere favorita da particolari condizioni di sepoltura, abbiamo ragione di ritenere che per moltissimi casi questa sia la spiegazione della conservazione del loro corpo. Non infrequentemente abbiamo ritrovato, nella fase documentaristica della ricognizione, elementi importanti relativi al rituale di seppellimento, agli aromi o le sostanze chimiche impiegate nella lavanda del corpo, alle caratteristiche del sepolcro e dei materiali con cui erano state costruite le casse (spesso più di una, poste a costituire multistrati) o del sepolcro stesso in pietra o marmo. Differente il caso di quando il corpo venne tumulato in ambienti privi di protezioni (ampie camere umide, contatto con altri soggetti deposti) e dove, come nel casi di sepolture multiple, i restanti corpi andavano regolarmente incontro ai naturali processi di decomposizione. È proprio il caso della Beata Margherita di Savoia conservato nel Monastero delle Suore Domenicane in Alba (Cuneo)6, e della Beata Giovanna Scopelli, carmelitana, conservato nella Cattedrale di Reggio dell’Emilia. In questi casi l’agnostico cercherà sempre le cause di tale particolare conservazione mentre il credente potrà vedere un particolare e provvidenziale percorso intrapreso dal Beato corpo. Nessuno tuttavia potrà immaginare una poderosa sfida alle leggi della natura e nessuno immaginerà di trovarsi di fronte a soggetti incorruttibili. Proprio per contrastare definitivamente le illazioni pesanti e fantasiose sui cosiddetti “incorruttibili” basti pensare alle numerose ricognizioni che vengono effettuate per stabilire lo stato di conservazione del corpo, monitorarne l’eventuale degrado e in ultima analisi porre in atto tutti i procedimenti che la scienza moderna offre per garantirne una conservazione lunga e protratta nel tempo. 146 Le mummie dei Santi La scienza dunque interviene pesantemente per conservare il corpo di coloro che, qualora fosse veramente incorruttibili secondo quella fantasiosa accezione del termine, non avrebbe bisogno di alcun aiuto. Alcuni anni or sono venimmo definiti medici dei Santi per il gran numero di corpi esaminati e proprio questa definizione ci pare ora, come allora, estremamente calzante per spiegare la conservazione eccezionale dei corpi. Solo tre anni or sono un importante canale televisivo statunitense (Sleeping Beauties. The incorruptibles. National Geographic Channels) realizzò un documentario sulla eccezionale conservazione di alcuni corpi di Santi; il documentario venne realizzato con una base scientifico-tecnica di elevata qualità presso centri specializzati statunitensi e con riprese documentaristiche in Europa ed in Italia in particolare. Tra i santi italiani largo spazio venne dedicato a Don Orione come esempio di una conservazione eccezionale che dovette essere consolidata e rafforzata mediante tecniche e procedimenti chimici di elevata raffinatezza e specificità7,8. Il documentario venne trasmesso poi ripetutamente sulle reti televisive internazionali per via satellitare suscitando grande interesse e molte persone contattarono i responsabili per chiedere se veramente le immagini fossero reali piuttosto che frutto di abili montaggi e ritocchi al computer. Al comitato scientifico che realizzò il documentario, per quanto riguarda il caso di San Luigi Orione, vennero in effetti fornite tutte le documentazioni scientifiche ed in particolare i verbali delle precedenti due visite ispettive, l’ultima delle quali effettuata in modo complesso con l’estrazione del Santo corpo dall’urna ed una visita medicotecnica complessa e completa, corredata anche di prelievi istologici. Occorre infatti spiegare che il Santo corpo viene sottoposto periodicamente ad ispezioni al fine di ottenere una serie di informazioni idonee a monitorarne ogni seppur minima variazione o modificazione strutturale. Va tenuto infatti sempre presente con chiarezza 147 Ezio Fulcheri che trattandosi di un corpo naturale, questo continua, seppur molto lentamente, a subire ed instaurare una serie di processi biologici di adattamento all’ambiente come solo le strutture biologiche possono fare a differenza dei metalli o dei minerali. Queste ultime considerazioni verranno riprese più oltre quando verrà affrontato il tema specifico delle ricognizioni canoniche. Prima però si ritiene utile presentare il lavoro di catalogazione dei corpi di Santi o Beati conservati sino ai nostro giorni ed un particolare criterio catalogativo di essi. Introduzione alla catalogazione dei reperti Un primo catalogo relativo alle Reliquie insigni dei corpi dei Santi, dei Beati, dei Venerabili o dei Servi di Dio venne pubblicato da noi nel 1990 nel corso del XVIII International Congress of The International Academy of Pathology9. Il numero di casi a cui pervenimmo, grazie ad una indagine capillare condotta sui principali testi (Bibliotheca Sanctorum ed Analecta Bollandiniana), portava ad un valore importante ma certamente di sottostima del reale10. Infatti avevamo identificato in Italia 238 luoghi di culto con reliquie notevoli e 25 mummie di Santi o di Beati. Il tentativo era quello di dimostrare come in Italia, unico esempio in tutt’Europa, ci fosse un patrimonio biologico eccezionale. In analogia a quanto accadde nell’antico Egitto, anche qui, per motivazioni religiose, erano stati raccolti e custoditi i corpi dei defunti in un modo particolare11. Il fenomeno si sviluppò in Italia, più che in altri Paesi d’Europa, perché la ricerca mistica e spirituale della santità e conseguentemente il culto dei Santi, dei Beati e del Servi di Dio fu molto sentito dalle autorità ecclesiastiche e dalla popolazione. Supportati dalla tradizione e dalle pratiche di culto della Chiesa Cattolica, vennero riproposti differenti modelli di conservazione dei corpi che contribuirono, nel corso dei secoli, a costituire una realtà unica. Per loro ed attorno a 148 Le mummie dei Santi loro si costruì progressivamente un patrimonio ingente di fede, cultura ed arte12. Oggi il catalogo generale conta 403 segnalazioni e altrettante schede sono allestite nell’ambito di un complesso database che sostiene un programma di ricerca. Sotto un profilo strettamente biologico tuttavia l’importanza delle segnalazioni raccolte divenne via via sempre più rilevante poiché accanto a molti corpi scheletriti, o parti di essi, emergeva un numero sempre maggiore di mummie. Altri studiosi (Terribile, Fornaciari, Ventura) stavano parallelamente portando evidenze delle pratiche imbalsamatorie su di un altra importante categoria sociale e su altre fasce di popolazione rappresentate dai potenti, notabili, nobili o signori. Anche per essi, attorno al cadavere o al corpo mummificato, si era stratificato nel corso dei secoli un patrimonio ingente di cultura, storia ed arte. Prima categoria Ad Innsbruch, durante il convegno di consenso per la mummia del Similaun riprendemmo il tema delle reliquie insigni meglio focalizzandolo sulle mummie dei Santi e Beati13. Lo studio delle mummie dei Santi portò a distinguere le mummie naturali da quelle artificiali documentando con sicurezza, per la prima volta, casi di mummificazione intenzionale. I punti essenziali della nostra disamina furono infatti due. In primo luogo venne presentato il primo catalogo relativo alle mummie dei Santi. Si trattava di un elenco di 25 soggetti distribuiti in un arco di tempo che andava dal 304 DC al 1923. In secondo luogo venne documentata una mummificazione artificiale (imbalsamazione) per alcuni di essi. Una ricerca bibliografica accurata, svolta in specie su antichi testi relativi ai Santi di due regioni particolari quali la Toscana e l’Umbria, portò alla raccolta di testimonianze molto particolari e specifiche relative alle pratiche imbalsamatorie. 149 Ezio Fulcheri In fine venne presentato il caso di Santa Margherita da Cortona che, come risultava anche dai documenti storici, venne imbalsamata con grande concorso di gente. Vennero mostrati i segni inequivocabili delle incisioni e successivamente lo splendido stato di conservazione di essa mediante esame istologico su prelievi di cute. Oltre alle convenzionali metodiche istochimiche vennero presentati i risultati eccezionali delle colorazioni con anticorpi anti citocheratine volte a dimostrare la conservazione delle caratteristiche immunofenotipiche dell’epitelio malpighiano14,15. Quelle immagini ed il catalogo restarono impressi nella mente dei presenti e vennero riprese in trattati importanti sulle mummie editi poco dopo16,17,18. Oggi il catalogo delle mummie naturali ed artificiali dei Santi e Beati d‘Italia conta 42 casi19,20,21,22,23 di questi 9 con sicure dimostrazioni di imbalsamazione (Tab. 1)24. Seconda categoria Caratterizza tutto il settecento e gran parte dell’ottocento la cura e l’istituzione dei “Corpi Santi”. Dobbiamo alla accurata e meticolosa indagine condotta sui Corpi Santi della Chiesa di Monselice, effettuati dal Professore Cleto Corrain con il Professor Vito Terribile Wiel Marin la puntualizzazione di un terzo e particolarissimo esempio di mummificazione anzi, potremmo dire, di “pseudo imbalsamazione”25. In effetti, nell’impossibilità di possedere il Santo corpo mummificato, veniva costruita artificialmente una massa corporis attorno alle reliquie costituite essenzialmente dalle parti scheletriche. Si tratta spesso di rozze ricostruzioni anatomiche con imbottiture pesanti di bambagia e garze attorno a sostegni di legno o tralicciature metalliche. In questi casi, come già detto, la reliquia insigne è costituita dai soli resti scheletrici ma l’immagine che ne deriva per l’esposizione alla venerazione dei fedeli è quella di una vera e propria mummia, vestita degli abiti ecclesiastici o dei paramenti. 150 Le mummie dei Santi Si potrebbe parlare di falsi ma la mente ancora una volta torna all’antico Egitto quando la mummificazione veniva effettuata anche su parti di corpi o, in caso di mummificazioni mal riuscite, su parti scheletrite. Sorprese queste, oggi, per gli antropologi ed i paleopatologi quando rinvengono miseri resti umani ornati e preparati in sontuose pseudo- mummie. Tuttavia allora, come oggi, il desiderio di possedere il corpo a tutti i costi era la molla che spingeva a queste ardite invenzioni di materialità. Si parla infatti di “Corpi Santi” per sottolineare che il corpo è il reliquiario del Santo. Al contrario, il corpo di un Santo è detto Santo Corpo per indicare che in quel corpo, vero, albergava l’anima del personaggio Santo e che quindi santo è anche il corpo. Nel catalogo di Monselice vengono registrati ventisette “Corpi Santi” ma molti altri vennero costruiti in ogni luogo d’Italia per raccogliere le reliquie e presentarle alla venerazione dei fedeli in una forma più diretta e immediata che non nella lontana e fredda urna o nella tomba chiusa. Nei reliquiari e nelle tombe chiuse ma esposte alla venerazione, l’immagine del santo veniva riproposta oltre che con scritte anche con bassorilievi o dipinti proprio per ricordarne la presenza vera e reale nella chiesa. Indubbiamente il corpo è un tramite più diretto ed efficace per ricordare l’umanità di un Santo e tenerlo “vivo” in mezzo ai suoi devoti fedeli. Noi abbiamo direttamente effettuato la ricognizione su uno dei più affascinanti “Corpi Santi”, quello di Santa Chiara d’Assisi26 ed il restauro ha in parte mantenuto le caratteristiche della presentazione antica dei Santi Resti. “Exuviae Santae Clarae” si legge oggi nel carteggio appoggiato al Corpo Santo che ne racchiude i resti scheletrici. Sotto un profilo strettamente tecnico e considerando il problema della conservazione dobbiamo necessariamente sottolineare che questi resti sono, più che altri, a rischio. La grande quantità di ovatta e stoffa che avvolge i segmenti ossei, con il tempo accumula umidità, muffe e colonie di artropodi che con le loro larve intaccano la materia organica. 151 Ezio Fulcheri In molti casi è in atto una vistosa polverizzazione. In un catalogo che solo ora abbiamo iniziato a comporre, contiamo altri 5 oltre a quelli di Monselice ma crediamo che il numero sia desinato certamente ad aumentare (Tab. 2). Riteniamo infatti che molte mummie, esposte alla venerazioni nelle chiese, ed in particolare quelle il cui volto è ricoperto da una maschera, in effetti siano dei “Corpi Santi”. Terza categoria È noto come l’imbalsamazione dei corpi di personaggi insigni della vita civile sia sempre rimasta come prassi estremamente ben consolidata a partire da Medio Evo sino ai nostri giorni. Uomini politici, sovrani, principi, letterati e scrittori vennero imbalsamati dopo la loro morte. Tuttavia per i personaggi illustri della Chiesa si tratta di una vicenda più articolata e per certi versi molto più complessa. A partire dalla seconda metà dell’ottocento si assiste ad un nuovo fenomeno relativo alla conservazione dei corpi. Un notevole gruppo di sacerdoti, vescovi o laici particolarmente impegnati nella vita della Chiesa vennero tumulati in sepolcri di particolare struttura. In tali condizioni, all’interno delle chiese e protetti da molteplici strati ed involucri, confinati in un particolare microclima, si determinarono le condizioni più favorevoli per la loro conservazione. Questo evento era stato già da noi osservato e studiato per tipizzare le caratteristiche del microclima in ambiente confinato. Dopo alcuni decenni, nel corso di ricognizioni effettuate nell’ambito dei processi di canonizzazione, molti corpi vennero trovati in eccellenti condizioni e pertanto, per migliorare o stabilizzare il risultato ottenuto, vennero sottoposti a specifici interventi conservativi; delle vere e proprie imbalsamazioni differite nel tempo, a distanza dalla morte che, parafrasando la terminologia propria delle tappe della guarigione delle ferite, potremmo definire “per seconda intenzione”27,28,29,30. 152 Le mummie dei Santi Come si può vedere nella tabella allegata (Tab. 3) che elenca i dati dei primi 27 casi raccolti, molti di questi corpi si trovano a Roma poiché si tratta di pontefici o di sacerdoti e religiosi deceduti nella Casa Generalizia dell’Ordine da loro fondato. Lo studio delle tecniche di imbalsamazione differita è di notevole interesse e apre un nuovo ed interessante capitolo sulla conservazione dei corpi. Grande impulso allo sviluppo delle metodologie per la conservazione dei corpi di soggetti parzialmente trattati, si deve all’appassionato e competente lavoro del Dott. Gabrielli, già direttore del gabinetto Scientifico dei Musei Vaticani31. I metodi di studio In passato avevamo affrontato il tema delle ricognizioni canoniche sulle reliquie insigni dei Santi, Beati e Servi di Dio32 ponendoci il problema di quale fosse il ruolo del patologo in tali circostanze e quali fossero gli interventi richiesti. Da allora abbiamo avuto l’occasione di intervenire in un gran numero di casi e poco alla volta abbiamo maturato un’esperienza particolare che è andata sviluppandosi parallelamente allo sviluppo delle tecnologie e delle metodiche d’indagine. Ora, a distanza di vent’anni riprendiamo brevemente il tema meglio specificando l’iter che è necessario seguire allorquando si intraprenda una ricognizione su una reliquia insigne e sul corpo di un Santo in particolare che, per l’appunto, rappresenta il grado più elevato delle reliquie insigni. Le ricognizioni canoniche possono essere distinte in tre principali categorie: la ricognizione storico-documentaristica; la ricognizione ispettiva, la ricognizione conservativa. Nel primo caso viene costituita una commissione storica che si affianca a quella canonica e vengono prese in esame tutte le documentazioni relative al caso mediante ricerche di archivio, diocesano o vaticano, o ancora con la ricerca delle fonti minori. Mediante questa 153 Ezio Fulcheri indagine vengono confermati o meno gli aspetti storici ed agiografici relativi alla vita del personaggio ed alla conservazione del corpo. Altri elementi di novità possono emergere dalla reinterpretazione delle fonti o dall’esame di fonti fino ad ora ignorate. Parallelamente vengono riesaminati e valutati i testi delle precedenti ricognizioni. Nel secondo caso viene effettuata una ricognizione volta alla verifica dell’integrità dei contenitori (urne e reliquiari) e della resistenza degli stessi. È noto che la Chiesa è custode delle reliquie dei Santi e con complessi procedimenti canonici certifica e documenta questo ruolo e la sua funzione. In questo modo l’autenticità del reperto viene progressivamente certificata ed attestata nei secoli. Nel corso di tale procedimento di regola viene effettuato anche un esame ispettivo del corpo che non prevede vestizione, rimozione o spostamenti del corpo ma semplicemente consiste in un esame esterno (per l’appunto ispettivo) che spesso viene effettuato senza togliere il corpo dall’urna che lo contiene. Solo nel caso in cui siano evidenziate anomalie della superficie corporea, alterazioni degli abiti o infiltrazioni di agenti esterni di qual si voglia natura (siano essi chimici o biologici) viene ipotizzato un secondo intervento più importante e radicale, viene cioè proposta una ricognizione a carattere conservativo. La ricognizione a carattere conservativo oggi viene svolta con una procedura del tutto particolare ed aderente ai progressi della scienza e della tecnologia. Mentre un tempo questa veniva effettuata di regola da una o due persone (per lo più un medico di chiara fama – clinico medico o medico legale - ed un chimico, naturalista o biologo) che si affiancavano alla commissione canonica, oggi occorre che, a condurre i lavori, sia un vero e proprio gruppo di esperti guidati da un responsabile. Il principio fondamentale che deve caratterizzare la ricognizione si basa sulla necessità di conservare ed in quest’ottica occorre tener presente altri due concetti che guidano le operazioni. 154 Le mummie dei Santi In primo luogo, si tratta di interventi che si ripetono solo a distanza di centinaia di anni e quindi occorre documentare tutte le operazioni per consegnare ai posteri evidenze documentaristiche complete ed esaustive. In secondo luogo, proprio la rarità ed eccezionalità dell’intervento obbligano alla ricerca di tutti i segni e le tracce delle precedenti operazioni per documentare (sotto un profilo storico) anche queste ma, nel contempo, trarre informazioni su eventuali altri interventi conservativi effettuati in passato. Proprio questo secondo aspetto si rivela di estrema importanza per impostare i trattamenti conservativi futuri con sostanze che non interagiscano o contrastino con quelle precedentemente impiegate ma semmai con esse siano sinergiche. Effettuata dunque la scelta e la conseguente nomina del coordinatore responsabile della parte scientifica della ricognizione, questi deve costituire il gruppo (Comitato Scientifico) scegliendo accuratamente gli esperti cui affidare le specifiche indagini. Questo gruppo deve essere attentamente calibrato e soprattutto coordinato con una logistica e un piano operativo molto rigido. Preliminarmente devono essere identificati i responsabili delle operazioni documentaristiche sia con immagini statiche che in movimento. Le tecniche di ripresa e fotografia digitale offrono ora eccezionali strumenti di straordinaria duttilità e perfezione. È possibile così effettuare riprese dirette di grande qualità che documentano ogni fase delle operazioni e nel contempo registrano le impressioni ed i commenti vocali degli operatori. Al momento dell’apertura del reliquiario è necessario documentare le caratteristiche del microclima venutosi a creare all’interno dello stesso e iniziarne lo studio. Il microbiologo e il perito chimico potranno effettuare prelievi per le indagini sui contaminanti di natura organica (microorganismi) ed inorganica (polveri). Teniamo a ribadire che le condizioni che hanno garantito la conservazione dei reperti per centinaia di anni sono ora drasticamente e 155 Ezio Fulcheri tumultuosamente mutate in epoca post industriale a causa dell’inquinamento fisico (calore, vibrazioni e fonti luminose) e chimico (inquinanti ambientali e smog). Prima di effettuare qualsivoglia intervento sul corpo o sugli abiti (spesso paramenti o divise d’epoca) è necessario sottoporre il corpo ad una completo esame radiologico. Ancora una volta, la tecnica offre meravigliose soluzioni al problema e rende non più necessaria quella gran quantità di radiogrammi che dovevano essere effettuati un tempo. Con una sola indagine TAC possono essere infatti acquisite informazioni innumerevoli sul corpo e sugli indumenti. La possibilità poi di poter analizzare e scomporre le immagini, ricalibrarle e ricomporle tridimensionalmente sui piani desiderati consente di effettuare quella che oggi viene comunemente definita come “autopsia virtuale”. Mai come in questo caso l’autopsia virtuale consente di evitare inutili e devastanti svestizioni o dissezioni del corpo mummificato. Tramite essa vengono non solo identificate eventuali aree di minor consistenza e di degrado dei tessuti ma anche eventuali lesioni patologiche. Un antropologo avrà poi il compito di effettuare, a completamento, un esame morfologico e fisico del soggetto. Se richiesta la svestizione, questa dovrà prevedere la presenza, oltre ai tecnici esperti in restauro dei tessuti, nuovamente del microbiologo e del chimico per effettuare prelievi nelle cavità e sui piani che mano a mano vengono alla luce. Effettuata la svestizione dovranno essere effettuati prelievi istologici per definire lo stato di conservazione della cute e dei tessuti33,34. Tali prelievi consentiranno altresì di evidenziare eventuali precedenti procedimenti conservativi posti in atto sul corpo o ancora sostanze impiegate per un’eventuale imbalsamazione. Una serie di prelievi dovrà, anche in questo caso, essere sottoposta ad analisi chimico - fisiche per la tipizzazione delle eventuali sostanze estranee ai tessuti presenti o ancora per evidenziare sostanze presenti nei tessuti sia di natura esogena che endogena. 156 Le mummie dei Santi I prelievi per l’esame istologico vanno effettuati in aree esposte, precendentemente fratturate o in contesti degradati tenendo a mente di campionare comunque sempre anche un lembo di tessuto macroscopicamente indenne che documenti la parte meglio preservata del soggetto. Personalmente abbiamo, nel corso degli anni, adottato la tecnica di inclusione in resina che offre importanti vantaggi35,36. In primo luogo è possibile operare con prelievi minimi, standardizzati nell’ordine di alcuni millimetri. Tali prelievi potranno essere pertanto molto numerosi e condotti in aree di particolare criticità senza alterare il corpo. L’inclusione in resina consente poi di non dover sottoporre i prelievi ai procedimenti di reidratazione37 ed in tal modo preserva sulla superficie ogni traccia di contaminazione batterica o di sostanze estranee organiche o inorganiche38,39. Tutti i risultati delle indagini, discussi collegialmente, potranno integrare le relazioni peritali dei singoli in un ragionamento epicritico completo. Un gruppo di esperti coordinati in questo modo consente di effettuare veramente un’indagine esaustiva a tutto tondo e soprattutto, con la raccolta dei campioni, consente di poter in ogni momento riesaminare ed approfondire le indagini. Solo a questo punto ed alla luce di quanto emerso dalla commissione scientifica potrà essere pianificato l’intervento conservativo che sarà ovviamente di entità e complessità proporzionali alla tipologia del soggetto ed alla entità del danno. Con tali metodi abbiamo potuto effettuare le ricognizioni canoniche sui corpi di Santa Margherita da Cortona, della Beata Margherita Vergine di Città di Castello, del Beato Giovanni Gueruli di Verucchio, di Sant’Odorico da Pordenone, della Beata Margherita di Savoia, della Beata Giovanna Scopelli di Reggio Emilia e del Venerabile Giovanni di Gesù Maria di Montecompatri. 157 Ezio Fulcheri Conclusioni La Paleopatologia non poteva non interessarsi delle mummie dei Santi40. Abbiamo detto all’inizio che un grande patrimonio storico e artistico si è stratificato nel corso dei secoli su questi personaggi e ne consegue che molte sono le domande storiche che ancora oggi non hanno trovato piena risposta41. Ogni volta che si procede all’esame di una mummia si scoprono dettagli e particolari sulla storia fisica e patologica del personaggio; questi si integrano con il profilo storico e agiografico e ne completano alcuni tratti. L’esperienza è sempre affascinante e stimolante42. Tuttavia non va mai dimenticato che l’indagine antropologica e paleopatologica non può e non deve essere condotta con la metodologia abituale di studio propria della nostra disciplina. In questo caso il primo obiettivo è quello di conservare il soggetto. Per tale ragione la ricognizione non può e non deve prevedere assolutamente indagini invasive o dissezioni che, ancorché estremamente interessanti, danneggino l’integrità del corpo. Tutto ciò che si può studiare deve essere prelevato con cautela e rispetto. Oggi le tecnologie moderne permettono indagini non invasive o minimamente invasive in analogia a quanto avviene nella diagnostica medica; tali metodologie diagnostiche hanno soppiantato le procedure e le tecniche diagnostiche un tempo impiegate sui corpi mummificati. Una gran quantità di osservazioni viene effettuata per determinare lo stato di conservazione dei tessuti e quindi impostare i successivi trattamenti conservativi. Nel corso di queste operazioni vengono rilevati aspetti antropologici e caratteristiche fisiche del soggetto in esame mentre le osservazioni di carattere paleopatologico vengono effettuate basandosi sull’ispezione delle parti esposte, sugli elementi forniti dalla diagnostica per immagini e su minimi prelievi mirati. Ancora una volta, in chiusura di questo breve excursus, la mente corre all’antico Egitto ed al tema della profanazione delle tombe; le 158 Le mummie dei Santi mummie dei faraoni sono ora rispettate con la dignità regale che loro è propria. Altrettanto dobbiamo fare noi con le mummie dei Santi per la sacralità che le pervade. 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 Santi , Beati e Venerabili d’Italia Santa Lucia San Ciriaco Sant’Anselmo da Baggio Sant’Ubaldo da Gubbio Beata Beatrice d’Este Beata Elena Enselmini Beato Giordano Forzatè Santa Rosa da Viterbo Santa Zita Santa Margherita da Cortona Santa Chiara da Montefalco Sant’Agnese da Montepulciano Beata Margherita Vergine Beato Giovanni Gueruli Beata Diana Giuntini Sant Odorico da Pordenone San Corrado Confalonieri Santa Caterina da Siena Santa Francesca Romana San Bernardino da Siena Beato Giovanni Bassando Santa Rita da Cascia San Giovanni da Capestrano Beata Cristina da Spoleto Sant’Antonino da Firenze Beata Margherita di Savoia Santa Caterina da Bologna Beata Antonia da Firenze Beato Pacifico Ramati Beato Damiano Fulcheri Santa Eustochia Calafato Sede Anno del- Mummifila morte cato Venezia 304 * Ancona 363 * Mantova 1086 * Gubbio 1160 * Este 1226 * Padova 1231 * Padova 1248 * Viterbo 1252 * Lucca 1278 * Cortona 1297 Montefalco 1308 Montepulciano 1317 * Città di Castello 1320 Verucchio 1320 * Pisa 1321 * Udine 1331 * Noto 1351 * Siena 1380 Roma 1440 * L’Aquila 1444 L’Aquila 1445 * Cascia 1447 Capestrano 1456 * Spoleto 1458 Firenze 1459 * Alba 1464 * Bologna 1465 * L’Aquila 1472 * Cerano 1482 Reggio Emilia 1484 * Messina 1485 * 159 Imbalsamato * * * * * * * * Ezio Fulcheri 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 Santi , Beati e Venerabili d’Italia Beata Giovanna Scopelli Beata Marina da Spoleto Beato Vincenzo da L’Aquila Ven Gacobba Pollicino Santa Caterina Fieschi Adorno San Lorenzo da Villamagna Beata Angela Merici Beato Mansueto da Comiso Ven Giovanni di Gesù e Maria San Gregorio Barbarigo Beata Centurione Bracelli Sede Anno del- Mummifila morte cato Reggio Emilia 1491 * Spoleto 1503 L’Aquila 1504 * Messina 1509 * Genova 1510 * Villamagna 1535 * Brescia 1540 * Comiso 1600 * Montecompatri 1615 * Padova 1627 * Genova 1651 * Imbalsamato Tab. 1 Mummie dei Santi e Beati d’Italia 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 Santi e Beati San Martino San Celestino San Teodoro Santa Liberata San Fruttuoso San Gregorio San Rusticiano Santa Felicita San Pio San Bovo San Rusticiano Santa Faustina V,M, San Valentino Sant Alessandro Sant Elite San Costantino Santa Faustina M. Sant Emiliano San Clemente Santa Chiara Anno della morte ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ 160 Sede Monselice Monselice Monselice Monselice Monselice Monselice Monselice Monselice Monselice Monselice Monselice Monselice Monselice Monselice Monselice Monselice Monselice Monselice Monselice Monselice * Le mummie dei Santi 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 Santi e Beati Santa Febronia San Bonifacio San Venanzio Sant Iloco Santa Veneranda San Benedetto San Giustino Santa Colomba Santa Vittoria Beato Giacomo Solomani Santa Chiara Beato Battista da Firenze San Josaphat Beata Antonia Mesina Anno della morte ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ ~ 1231 1253 1510 1623 1935 Sede Monselice Monselice Monselice Monselice Monselice Monselice Monselice Bari Sassari Venezia Assisi Campli Roma Orgosolo Tab. 2 Corpi Santi 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 SECOLO XIX e XX Corpi di Santi, Beati e Servi di Dio Giuseppe Benedetto Cottolengo San Pio IX Beato Gaetano Catanoso San Giovanni Bosco Beato Vescovo Scalabrini San Pio X Santa Francesca Saverio Cabrini Beato Luigi Tezza Santa Savina Petrilli Pier Giorgio Frassati Giuseppe Allamano Sant Annibale Maria di Francia Servo di Dio Atistide Leonori Santa Orsola Ledochowska Beata Gabriella Sagheddu San Luigi Orione Sede Torino Roma Reggio Calabria Torino Roma Roma Siena Torino Torino Messina Roma Roma Grottaferrata Tortona 161 Anno del Anno trattamento della morte conservativo 1842 // 1878 // 1879 1963 1888 // 1905 1996 1914 // 1917 1985 1923 2000 1923 1987 1925 2008 1926 // 1927 // 1928 1987 1939 1980 1939 // 1940 1980 Ezio Fulcheri 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 Beata Maria Teresa Fasce Beato Luigi Beltrame Quattrocchi Beato Card Shuster Beata Maria Crocifissa Curcio Servo di Dio Padre Felice Cappello Beato Giovanni XXIII Beata Maria Corsini San Padre Pio da Pietrelcina San Giacomo Alberione Ven Padre Pio Delle Piane Cardinale Josyf Slipyj Cascia Vitorchiano Milano Roma Roma 1947 1951 1954 1957 1962 1997 1994 1994 2004 // Roma Vitorchiano S. Giovanni Rotondo Alba 1963 1965 1968 1971 1976 2001 1994 2008 // 2000 Roma 1984 1986 Tab. 3 Corpi dei Santi, beati e servi di Dio conservati per seconda intenzione BIBLIOGRAFIA E NOTE 1. CRUZ J.C., The Incorruptibles. Rockford-Illinois, Tan Books and Publishers, 1977. 2. NOLLI G., GABRIELLI N., VENTURINI M., FULCHERI E., BENEDETTUCCI M., Santa Chiara d’Assisi. Relazioni sul trattamento conservativo eseguito sui resti del suo corpo. Roma, Elettrongraf. 1987. 3. FULCHERI E., Mummies of saints: A particular category of Italian mummies. In: SPINDLER K., WILFING H., RASTBICHLER-ZISSERNIG E., ZUR NEDDEN D., NOTHDURFTER H. (eds). The Man in the ice, Vol 3. Human Mummies. Berlin, Springer Verlag, 1995; Fornaciari A, Giuffra V, Marvelli S., Fornaciari G., The Blessed Christina from Spoleto: a case of 15th century artificial mummy from Umbria (central Italy). In: Mummies and Science World Mummies Research: Proceedings of the VI World Congress on Mummy Studies. 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Cfr. op. cit. nota 7. 28. FULCHERI E., Seconda relazione medica. In: NOLLI G., Cardinale Josyf Slipyj. Relazioni sul trattamento conservativo eseguito sul suo corpo. Roma, Elettrongraf, 1987. 29. FULCHERI E., Il Santo Corpo di Don Orione. Testimone autentico e diretto. Messaggi di Don Orione 2007; 124: 29-46. 30. FULCHERI E.. Cura e conservazione del corpo di Don Orione. In: MATRICARDI C., Villa Santa Clotilde a Sanremo. Una storia di Santità. Opera Don Orione Sanremo. Genova, Stampa N.B. Marconi, 2007, pp. 40-46. 31. Gabrielli N., Approche méthologique pour la conservation des os et des corps humains. In: Philippe C., Ostéoarcheologie et techniques médicolégales tendances et perspectives. Pour un «Manuel pratique de Paléopathologie humaine». Collection Pathographie - 2. Paris, De Boccard, 2008, pp. 229-238 32. FULCHERI E.. Il patologo di fronte al problema della perizia in corso di ricognizione sulle reliquie dei Santi. Pathologica 1991; 83: 373-397. 33. FULCHERI E., BOANO R., GRILLETTO R., SAVOIA D., LEOSPO E., RABINO MASSA E.. The preservation status of ancient Egyptian mummified remains estimated by histological analysis. Paleopathology Newsletter 1999; 108: 8-12. 34. BOANO R., DONADONI ROVERI A.M., RABINO MASSA E., FULCHERI E.. Le mummie del Museo Egizio di Torino: indagini diagnostiche preliminari sulo stato di conservazione. Seminari ANMS di Pavia. Preparazione, conservazione e restauro dei reperti naturalistici: metodologie ed esperienze. Pavia, Seminari ANMS 2001. Atti in: Museologia Scientifica Memorie 2008; 3: 107-111. 164 Le mummie dei Santi 35. Fulcheri E., Boano R., Grilletto R., Leospo E., Donadoni Roveri A.M., Rabino Massa E., The Ancient Egyptian Mummies: histological examinations to estimate the presence of contaminats or pollutants. In: Lynnerup N., Andreasen C., Berglund J., Mummies in a new millennium. Copenhagen, Greenland National Museum and Archives and Danish Polar Center, 2003, pp. 89-92. 36. 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Correspondence should be addressed to: Ezio Fulcheri, Anatomia Patologica dell’Università di Genova, Via De Toni n°14, 16132, Genova – Italy. 165 MEDICINA NEI SECOLI ARTE E SCIENZA, 25/1 (2013) 167-204 Journal of History of Medicine Articoli/Articles Corpi, mummie e testi per una storia dell’imbalsamazione funebre in italia Silvia Marinozzi Dip. Medicina Molecolare, “Sapienza” Università di Roma Unità di Storia della Medicina e Bioetica, Roma, I Summary BODIES, MUMMIES AND TEXTS FOR AN HISTORY OF EMBALMING IN ITALY In the early 80’s, a systematic investigation was started of the series of mummies from Central and Southern Italy, in particular from important Renaissance depositions. Radiological exams were carried out on each individual, not only to determine the age at death of those subjects lacking any indication of age, but also to detect possible pathological findings. Furthermore, X-rays allow greater understanding of the techniques and the substances used for embalming, including the type of craniotomy, the partial or complete evisceration, and the identification of the embalming substances used to fill the body cavities. The great number of artificial mummies, examined by G. Fornaciari and his equipe, allowed the study of human embalming techniques, related to methods and procedures described by medical and non-medical authors in Early Modern age. The history of the art of mummification has been here reconstructed, from the ‘clyster’ techniques to the partial or total evisceration of the corpses, to the introvascular injection of drying and preserving liquors. A partire dall’ultimo ventennio del secolo scorso, l’équipe di paleopatologia dell’Università di Pisa, diretta da Gino Fornaciari, ha avviato una lavoro di ricerca di archeologia funeraria, riesumando corpi e Key words: Mummies- Embalming history- Italian funerary customs 167 Silvia Marinozzi mummie in diversi cimiteri e sepolcri dell’Italia centro-meridionale di evo moderno. Il primo importante step di questo progetto avvenne nel 1983, con la riesumazione delle salme di nobili e principi napoletani e aragonesi conservate nella Sacrestia della Basilica di San Domenico Maggiore in Napoli, che datano tra il XV ed il XIX secolo1. Lo scopo principale era essenzialmente di interesse paleopatologico, ossia la ricerca di lesioni e di agenti patogeni che potesse servire alla storia delle malattie e delle terapie. Per questo, ogni individuo venne sottoposto ad esami diagnostici, radiologici, istologici, immunologici ed immunoistochimici, con risultati molto importanti2. Ma la quantità delle deposizioni analizzate ha reso possibile avviare anche lo studio della pratica funeraria dell’imbalsamazione, confrontando le mummie con le tecniche descritte e tramandate nei testi medici. Escludendo le salme di santi e beati, sono state analizzate trentotto mummie artificiali riesumate dall’équipe della Divisione di Paleopatologia dell’Università di Pisa, riferibili ad un periodo storico compreso tra il XVI ed il XIX secolo, che rappresentano pertanto esempi oggettivi tanto della diffusione dell’imbalsamazione chirurgica come rituale funerario per i sovrani quanto delle tecniche a tal fine utilizzate in questi secoli in Italia3. Dalla letteratura medica, sappiamo che sistemi di conservazione dei corpi erano già largamente diffusi nell’alto medioevo. In generale, con la trascrizione e traduzione dei testi medici arabi, si diffonde il sistema di imbalsamazione di Rhazes che, vietando ogni forma di mutilazione come profanazione del defunto, non prevede alcuna mutilazione del cadavere. Questa procedura, ancora usata in Europa sino al periodo rinascimentale, consisteva in lavaggi interni ed esterni del corpo, mediante unzioni e iniezioni di liquori corrosivi ed antisettici effettuati con clisteri, per liquefare gli organi interni e pulire le cavità. Si compone un suppositorio a base di coloquintide e baurach (i.e. nitro) rosso da iniettare, attraverso l’ano, negli intestini; una volta riempitone il ventre, si effettuano pressioni sull’addome, in modo da far 168 L’imbalsamazione funebre in Italia fuoriuscire tutti gli escrementi e le impurità. Si prepara poi un’altra soluzione a base di aloe, mirra, acacia, ramisch (i.e. galla moscata), canfora, sumach (i.e. sommacco), allume e sale disciolti in aceto e acqua rosata, da iniettare nuovamente negli intestini sino a riempire completamente gli organi, avendo cura di chiudere, al termine dell’operazione, l’orifizio anale con stoppe o cotone, in modo che il liquore non fuoriesca; nelle narici, nelle orecchie e nella bocca si versa dell’argento vivo, in modo da prevenire la putrefazione e la fuoriuscita dei liquami del cervello; l’intero corpo viene cosparso del liquore preparato e di alkitran, che gli autori medievali identificano con il liquore cedria, ovvero la pece nera4. Il sistema della clisterizzazione per la conservazione funebre dei corpi viene descritto ancora da medici e chirurghi di primo evo moderno, con indicazioni variegate sulle sostanze da impiegare sugli ingredienti per le soluzioni con cui praticare i clisteri, la cui composizione prevede sempre, comunque, le sostanze sopraindicate e soprattutto su ulteriori operazioni da effettuare. Un accento particolare si pone infatti sul trattamento successivo del cadavere, che deve esser cosparso di polveri e balsami conservativi e impermeabilizzanti ed avvolto in uno sparadrappo, ossia in tele incerate, variamente composte, che isolino definitivamente il corpo dai fattori esterni, impedendo, al tempo stesso, che le esalazioni indotte dalla putrefazione possano infestare l’aria e l’ambiente circostante. Tale pratica diviene nota con il termine di “conditura” dei corpi morti, ossia di condimento dei cadaveri, termine lungamente usato dagli autori medievali e di primo evo moderno per indicare il trattamento dell’imbalsamazione dei cadaveri anche con la procedura chirurgica dell’eviscerazione dei corpi, cui seguiva comunque il lavaggio del cadavere con liquori antisettici, come aceto e vino, e il riempimento delle cavità e l’aspersione del corpo con sostanze assorbenti e disidratanti, come il sale, e polveri aromatiche, per contrastare gli effluvi putrefattivi dell’aria, anche nell’imbalsamazione chirurgica. 169 Silvia Marinozzi Già nel periodo carolingio si era affermato in Francia un sistema di imbalsamazione chirurgica come trattamento funebre dei cadaveri dei re sovrani deceduti lontano dal regno o, più semplicemente, dai luoghi di sepoltura prescelti, per garantire una maggiore conservazione del corpo attraverso l’asportazione delle parti più prontamente putrescibili, ossia degli organi interni; il corpo e le cavità eviscerate venivano poi aspersi di vino o aceto, sale e polveri aromatiche. A differenza di quanto tradizionalmente tramandato, A. ErlandeBrandenbourg ha sottolineato come tale pratica sembri diffondersi tanto in Occidente quanto in Oriente già a cavallo tra l’XI e il XII secolo, divenendo semplicemente più frequente con l’inizio delle Crociate5. A partire dal XII secolo, infatti, vi sono esempi di trattamento chirurgico dei cadaveri dei re deceduti fuori dalla propria terra sia nel regno francese che in quello inglese, ma è soprattutto in Inghilterra che l’imbalsamazione diviene un costume abbastanza frequente, poiché numerose sono le morti dei sovrani avvenute in terra straniera: il corpo di Enrico I, morto nel 1135 nei pressi di Rouen, fu completamente eviscerato, così come successivamente si effettuò nel 1199 per il corpo Riccardo I, e nel 1216 per Giovanni senza Terra. In Francia, è soprattutto a partire dal XIII secolo che si afferma la pratica dell’eviscerazione del cadavere, quando più frequenti diventano i decessi dei re fuori dal regno. Ma questo sistema di imbalsamazione funebre comporta un tempo di esecuzione prolungato e strumenti e sostanze specifici. Per questo, durante le Crociate si afferma un altro sistema di trattamento del corpo del re, noto con il termine di “bollitura”, in quanto consiste nel cuocere i cadaveri in acqua salata e condita con sostanze aromatiche e antisettiche, per smembrarli e agevolarne la conservazione ed il trasporto delle reliquie nei luoghi di sepoltura; in genere, le parti molli, separate dallo scheletro, venivano sepolte nel luogo di morte del re o principe defunto, mentre le ossa venivano riportate nel regno per ricevere degni funerali ed esser conservate nelle cappelle o nelle terre sante delle 170 L’imbalsamazione funebre in Italia cattedrali. Questa pratica viene proibita nel 1300, con l’emanazione della bolla papale “De sepolturis” nota come Detestandae feritatis abusum con cui Bonifacio VIII scomunica la bollitura dei corpi come artefatto crudele e contro natura atto a disintegrare i corpi per trasportarli nei luoghi di sepoltura scelti senza aspettare il naturale processo di putrefazione e scomposizione dei cadaveri, che ne permetterebbe comunque la raccolta e il trasporto dei resti6. Ma J. Huizinga, nel suo “Le décline du Moyen-Age” ricorda che i successori di Bonifacio VIII accordarono dispense per poter smembrare e cuocere i cadaveri di sovrani deceduti nelle zone di guerra nel periodo delle crociate, e che ancora nel XV secolo tale pratica era usata in Francia e in Inghilterra: Les cadavres d’Edouard d’York, de Michel de la Pole, comte de Suffolk, morts à Azincourt, furent encore traités de cette manière. Il en est de même pour Henri V lui-même, pour Guillaume Glasdale qui périt à Orléans au temps de la délivrance de la ville par Jeanne d’Arc, pour un neveu de sir John Fastolfe tué en 1435 au siège de Saint-Denis7. In questo modo sono stati trattati anche i corpi di Luigi IX Re di Francia, deceduto nel 1270 a Tunisi, di Carlo d’Angiò, Re di Napoli e Sicilia (1226-1285), e di Filippo III l’Ardito di Francia (1245-1285). L’uso di fare a pezzi e cuocere i cadaveri, seppellendo i resti in luoghi diversi, si sarebbe affermato in Francia a partire dal XII secolo, in particolare con Luigi VIII, deceduto nel 1226 a Montpensier, il cui scheletro venne sepolto a Saint-Denis, mentre il cuore e le altre viscere restarono ad Auvergne8. La bollitura del cadavere sarebbe stata eseguita nel 1313 per conservare il corpo dell’imperatore Arrigo VII, morto a Suvereto, in Tosacana, e sui cadaveri di Francesco della Faggiola e del principe Carlo, nipote di Re Roberto di Napoli, entrambi deceduti nella battaglia di Montecatini nel 13159. La scomunica della pratica della bollitura incrementa comunque sempre più l’imbalsamazione chirurgica, che prevede l’eviscerazione delle cavità toraco-addominali e l’estrazione delle parti carnose. Non è 171 Silvia Marinozzi un caso che l’imbalsamazione si diffonda soprattutto nei Paesi cattolici che partecipano alle crociate: i corpi di sovrani e principi deceduti in territorio asiatico o africano vengono sottoposti a trattamenti che, sebbene rudimentali e distruttivi, tendono a conservarne quanto più possibile le spoglie, perché possano ricevere degno funerale in patria. Soprattutto in seguito alla bolla papale di Bonifacio VIII, che interdice la bollitura e la macerazione in acqua dei cadaveri, l’imbalsamazione chirurgica trova un più ampio riscontro, sino a divenire parte integrante delle ritualità funebri dei regnanti: l’istituzionalizzazione del Cattolicesimo comporta l’ufficializzazione di cerimonie funerarie che prevedono una prolungata esposizione pubblica della salma, che l’imbalsamazione chirurgica garantisce con l’eliminazione di quelle parti del corpo più velocemente soggette alla putrefazione. Intorno alla seconda metà del XX secolo sono stati effettuati importanti studi storici sulle cerimonie funebri nel primo evo moderno nei Regni cattolici, in cui sono state analizzate le valenze simboliche, culturali e sociali dei “due corpi del Re”, ossia sul valore e significato dell’effige reale, come “corpo politico” o “corpo mistico” del sovrano defunto, esposta nel corso dei rituali funerari come simbolo del potere monarchico e delle virtù spirituali che sopravvivono alla morte ed al disfacimento del corpo. Fondata presumibilmente sulla christomimesis, regola di condotta per i re nella teologia politica medievale, la distinzione tra corpus verum, ossia le spoglie mortali, ed il corpus mysticum, l’anima immortale, assume una valenza politica, soprattutto in seguito alla proclamazione del dogma della transustanziazione, nel 1215, che risolve definitivamente il dualismo della natura del corpo di Cristo. L’effige reale, maschera mortuaria che riproduce le sembianze del corpo del re, diviene rappresentazione del corpus politicum, intangibile ed incorruttibile, in antitesi allo stato cadaverico del corpus verum.10 L’imbalsamazione religiosa dei corpi dei sovrani rientra, quindi, in questa valenza simbolica di conservazione, attraverso il corpo reale, 172 L’imbalsamazione funebre in Italia del corpo politico o mistico. Per questo motivo sin dall’Alto Medioevo i grandi trattati di chirurgia forniscono indicazioni per imbalsamare i corpi dei papi e dei re, per i quali si deve garantire la conservazione almeno di quelle parti del cadavere pubblicamente esposte, ossia il viso, le mani ed i piedi, durante i riti funebri. Guy de Chauliac11 e Henry de Mondeville12 raccomandano infatti l’imbalsamazione chirurgica per il trattamento dei corpi di re e principi, dal momento che i rituali funebri dei personaggi pubblici prevedevano un lungo tempo di esposizione del corpo e l’eviscerazione del corpo permetteva di eliminare le parti più putrescibili, impedendo così l’esalazione di quei miasmi morbiferi che, contaminando l’aria, potevano provocare l’insorgenza di malattie tra quanti partecipavano alle esequie. Il sistema della clisterizzazione di Rhazes, raccomandato per le esequie di nobili e personaggi di alto rango, viene perfezionato praticando piccole incisioni nella regione addominale, in modo da far evacuare i gas prodotti dalla putrefazione degli organi interni, liquefacendoli con la soluzione corrosiva iniettata nel ventre in modo da poterli poi far fuoriuscire più facilmente, e rendere più permeabile il corpo all’azione antisettica e conservativa dei balsami e delle polveri con cui si asperge il cadavere; il corpo viene completamente avvolto con bende intrise di un balsamo composto con resine, gomme e polveri aromatiche e antiputride, e qualora si volesse lasciare il volto scoperto per tutto il tempo delle esequie, si riempiranno le narici, la bocca e le orecchie di argento vivo e il viso viene più volte imbibito con una soluzione a base di acqua rosata e sale in modo che la salma così imbalsamata possa restare esposta sino a otto giorni dal decesso. L’imbalsamazione diviene una vera e propria procedura medicochirurgica nel Rinascimento, soprattutto in Francia, dove quella del corpo del re era un fattore essenziale per il rito funerario e per la sua valenza politica e sociale. Abbondano così capitoli dedicati al modo di imbalsamare i corpi nei trattati redatti dai chirurghi alla corte francese, come Ambroise Paré13, Pierre Pigray (1532 ?-1613)14 o Jacques 173 Silvia Marinozzi Guillemeau (1550-1613)15, che descrivono le procedure da loro stessi eseguite per l’imbalsamazione funebre dei sovrani. Dalla lettura dei testi, emerge chiaramente l’influenza dell’anatomia e delle tecniche dissettive: infatti, per eviscerare le cavità cranica e toraco-addominale, gli autori prescrivono una craniotomia circolare, come si usava per lo scalottamento del cranio nelle dimostrazioni pubbliche, e l’esecuzione di un’unica incisione longitudinale giugulo-pubica, per estrarre gli organi interni e, talvolta, lo sterno. Se necessario, ossia in presenza di un corpo grasso, si esegue la scarnificazione e l’estrazione di muscoli e carni; si praticano lavaggi interni ed esterni con distillati alcolici, per lo più lo spirito di vino, la trementina, l’acquavite, usati anche come antiputrefattivi durante le dimostrazioni pubbliche; le cavità eviscerate vengono riempite con resine, gomme, balsami e sostanze aromatiche ritenute antisettiche; il cadavere viene cosparso di balsami e resine; ogni singola parte del corpo viene fasciata separatamente con bende di lino o di cotone; la salma viene cosparsa di bitume, o altre gomme e resine, vestita dei suoi abiti abituali, avvolta in uno sparadrappo e deposta in un sarcofago di piombo, riempito di balsami, o bitume, ed erbe aromatiche. In genere, sino ai primi decenni del XIX secolo la maggior parte degli autori di testi inerenti l’imbalsamazione funebre descrive questa procedura chirurgica, forse perché considerata la più sicura per una conservazione duratura del corpo. Importante anche il riempimento del sarcofago in cui viene deposta la salma di porzioni di vegetali fortemente odoriferi, disposti in modo da circondare interamente il corpo sino a riempire tutti gli spazi interni della bara, al fine di contrastare con gli effluvi profumati delle piante le esalazioni cadaveriche putride, considerate contaminanti e patogene, e di isolare e proteggere al contempo anche la stessa mummia dal potere fermentativo e putrefattivo dell’aria. Le stesse operazioni descritte dai chirurghi della corte francese sono riportate anche da autori di altri paesi, tra cui medici, chirurghi, apotecari e eruditi italiani16. 174 L’imbalsamazione funebre in Italia Già nel 1410 Pietro d’Argelata († 1423) esegue l’imbalsamazione del corpo del pontefice Alessandro V mediante l’eviscerazione della cavità toraco-addominale, che poi lava ed asperge di acquavite e riempie di bombace, stoppe e una miscela di polvere aromatiche considerate antisettiche; avvolge poi il corpo in uno sparadrappo, composto di pece nera, colofonia, mastice, gomma arabica, dragante e la stessa polvere utilizzata per la composizione del suppositorio usato per la clisterizzazione e il lavaggio del corpo17. Giovanni da Vigo (1450?-1525), nella sua Practica copiosa in arte chirurgica, trascrive le due procedure da eseguire a secondo della dimensione del corpo da imbalsamare: per gli individui di minuta costituzione riprende infatti la tradizione di matrice araba, ossia il lavaggio interno ed esterno mediante clisteri ed iniezioni di soluzioni a base di vino aromatizzato nelle cavità interne, mentre per i cadaveri più grossi consiglia l’eviscerazione, mediante un’incisione longitudinale giugulo-pubica, ed il riempimento delle cavità con stoppe e polveri aromatiche. Il corpo viene poi cosparso di pece nera e coperto con un lenzuolo preparato con pece nera, resina di pino, colofonia, incensi, mastice, storace, gomma arabica. Il cadavere così imbalsamato viene riposto in una cassa di legno odorifero, sigillata con stoppa e pece, all’interno della quale vengono sparse sostanze aromatiche18. L’Italia è ricca di esemplari di mummie di evo moderno ottenute mediante questo sistema d’imbalsamazione chirurgica, alcune delle quali sono state oggetto di studio archeo-funerario. In particolare, si esporranno in questo contesto alcuni esempi particolarmente suggestivi di mummie, per la maggior parte di sovrani e principi, riesumate dall’equipe della Divisione di Paleopatologia dell’Università di Pisa, come fonti oggettive per la ricostruzione delle tecniche impiegate per l’imbalsamazione funebre in Italia. Nello specifico, si sono analizzate le mummie artificiali dei re aragonesi e dei principi napoletani conservati nella Basilica di San Domenico Maggiore a Napoli, la serie più importante sia per la 175 Silvia Marinozzi quantità che per lo stato di conservazione delle salme, di alcuni membri della famiglia Gonzaga Colonna a Mantova e dei Della Rovere ad Urbino, e altre mummie di individui meno noti ma altrettanto importanti per la definizione delle ritualità e delle procedure della mummificazione. Segni di imbalsamazione, come esiti di craniotomia ed incisione dello sterno, sono riscontrabili anche su undici dei venti individui della famiglia granducale Medici riesumati ed analizzati nel corso dei lavori di ricognizione e scavo delle quarantanove deposizioni funebri conservate nelle cappelle medicee della Chiesa di San Lorenzo a Firenze; ma le manipolazioni delle mummie avvenute nel corso delle riesumazioni precedenti, che hanno comportato anche la scarnificazione e lo smembramento dello scheletro per condurre studi antropologici ed antropomorfici dei crani e delle ossa, non permettono di ricostruire completamente i sistemi d’imbalsamazione usati. Eccetto che per i tre corpi mummificati ancora integri, due bambini non identificati e la salma del Granduca Giangastone (1671-1737), gli altri otto individui presentano esiti di tagli ed incisioni scheletriche riferibili ad esami autoptici o/e trattamento imbalsamatorio19. Segni di craniotomia circolare orizzontale sono osservabili sui resti di Cosimo I (1519-1574), Ferdinando I (1549-1609) e Don Filippino (1577-1582), mentre una sezione obliqua venne praticata per l’eviscerazione della cavità cranica sul Principe Francesco (1594-1614); sezioni dello sterno e/o delle vertebre, per l’autopsia e l’imbalsamazione, sono inoltre osservabili sulle ossa di Francesco I (1541-1587), Giovanna d’Austria (1548-1578), del principe Francesco, di Cristina di Lorena (1565-1637) e del Cardinale Carlo (1596-1666). I corpi dei due bambini non ancora identificati presentano segni di eviscerazione della cavità toraco-addominale e riempimento con materiale vegetale; in particolare, la mummia più integra, di un individuo di cinque anni, è stata ottenuta mediante un’incisione xifo-pubica congiunta ad altra ombelicale traversa. 176 L’imbalsamazione funebre in Italia Fig. 1. Cranio di Cosimo I (a e b) e di Ferdinando I (c e d) Se l’eseguità del numero degli individui riesumati e la non integrità dei corpi non ha permesso un esame compiuto delle tecniche imbalsamatorie, le fonti storiche forniscono invece elementi importanti per comprendere il valore sacrale dell’imbalsamazione come parte integrante delle ritualità funebri dei sovrani. I funerali di Cosimo I sembrano infatti analoghi alle cerimonie funebri dei re 177 Silvia Marinozzi francesi, con l’allestimento del carro, del corteo e del baldacchino recante l’effige reale: Il suo cadavere fu esposto alla pubblica vista in una sala del Palazzo con abito e corona Regale, e tumulato poi privatamente nel Sepolcro gentilizio de’ Medici. Volle però il successore onorare la memoria di sì gran Padre con una magnifica Pompa funebre appuntata per il dì diciassette di Maggio, e a tale effetto oltre al fastoso apparato nel Tempio di San Lorenzo furono intimati tutti i Prelati e Feudatari del dominio, e invitati tutti i parenti della Casa Medici e i principali Signori d’Italia a intervenire preferenzialmente alle Esequie. I Cleri, la Corte, i Magistrati e tutti gli Ordini della Città, le Milizie a piedi e a cavallo, e i Cavalieri di S. Stefano con gran cerimonia componevano il treno funebre, che dal Palazzo alla Chiesa percorrendo le principali contrade risvegliava l’ammirazione dell’universale. L’effige del Defunto G. Duca era trasportata sotto un baldacchino e accompagnata dalla presenza del Successore, del Cardinale, e di Don Pietro de’ Medici, e dei parenti più prossimi… 20 Descrizioni analoghe si ritrovano anche per i funerali degli altri membri della famiglia granducale medicea, e per le famiglie reali di altri regni italiani21. Lo stesso tipo di celebrazione funebre si esegue infatti per i defunti della dinastia reale aragonese nel Regno di Napoli22, che presentano segni di imbalsamazione analoghi a quelli riscontrabili sulle altre mummie riesumate in diverse località italiane, ad indicare l’esistenza di una procedura sommariamente messa a punto nei diversi regni italiani a partire dal primo evo moderno. La maggior parte delle mummie artificiali esaminate presenta infatti esiti di craniotomia per l’estrazione della materia cerebrale: su ventiquattro individui recanti segni di eviscerazione della cavità cranica, dodici di loro presentano una craniotomia circolare mediante lo scalottamento completo della sfera cranica, come nelle autopsie e nelle dimostrazioni anatomiche; in questo tipo di craniotomia vi può esser una sezione circolare orizzontale, come effettuata per Cosimo I de’ Medici, circolare verticale, come la mummia rinascimentale di un bambino, tradizionalmente identificato con Vincenzo Milano (1792-1793), o 178 L’imbalsamazione funebre in Italia circolare obliqua, come quella della mummia di Vespasiano Gonzaga Colonna, conservata nella Chiesa dell’Incoronata di Sabbioneta (Mantova). Altre otto mummie, di cui sette appartengono alla serie di San Domenico Maggiore, presentano una craniotomia posteriore, spesso non ben eseguita, a volte grossolana, come quella riscontrabile sulla salma di Antonio d’Aragona (1540-1584), o dell’individuo storiograficamente identificato con Giovanni d’Avalos, sebbene gli esami di datazione abbiano rivelato un’età di morte diversa da quella che avrebbe dovuto avere; particolari, la craniotomia eseguita su Giacomo Francesco Milano d’Aragona (1699-1780) a forma di V e quella praticata sul principe Francesco Branciforte (1575-1621), conservato nella Chiesa di San Benedetto a Militello, con sezioni laterali verticali lungo le bozze parietali ed una orizzontale nella regione del bregma, che formano un angolo retto. Fig 2. Craniotomia posteriore a V di Giacomo Francesco Milano Fig 3. Craniotomia posteriore di Francesco Branciforte 179 Silvia Marinozzi Molto suggestiva, e unica, la craniotomia quadrangolare eseguita sul cranio di Luigi di Gonzaga (1565-1580), figlio di Vespasiano, Duca di Sabbioneta. Per l’eviscerazione della cavità toraco-addominale, la maggior parte delle mummie complete presentano un’incisione longitudinale giugulo-pubica, come indicato nei testi medici. Ma tra le sedici mummie artificiali napoletane ancora intatte, undici presentano questo tipo di incisio- Fig. 4. Craniotomia di Luigi Gonzaga di Sabbioneta ne, mentre altre cinque mostrano un’incisione longitudinale xifopubica, congiunta, su quattro individui, ad un’altra incisione ombelicale traversa, come osservato anche sulla salma del bambino di cinque anni sepolto nelle cappelle medicee di Firenze. Questo sistema di eviscerazione dei corpi è stato descritto da autori italiani del XVII secolo, come Cinzio d’Amato (XVII sec.), barbiere chirurgo, e Marco Aurelio Severino (1580-1656), che ha spiegato il modo in cui si pratica l’imbalsamazione a Napoli in un manoscritto di argomento chirurgico, conservato alla Biblioteca Lancisiana a Roma. Nel fornire le istruzioni per imbalsamare i cadaveri, D’Amato raccomanda infatti di praticare due incisioni distinte per la cavità toracica e per quella addominale, la prima a croce, tagliando “primieramente il ventre prima per lungo, e poi per largo, cioè pertraverso”, per asportare le viscere; la seconda per aprire “il petto dall’una e l’altra parte, dove le coste si terminano in cartilagine”. Il corpo, lavato prima con acqua fredda, poi con aceto ed infine con acquavite, viene riempito di una polvere a base di sostanze aromatiche e stoppe intri180 L’imbalsamazione funebre in Italia se di acquavite. Ricucite le cavità eviscerate e riempite, si procede all’estrazione del cervello “perforato il cranio o seccato (come dir vogliamo) con una ferra”, ed al lavaggio e riempimento del cranio. Il corpo imbalsamato viene infine avvolto in un lenzuolo cerato, intinto di pece navale23. Anche Severino propone un’analoga procedura d’imbalsamazione dei corpi: essendosi tagliato il ventre prima di lungo, et poi di largo cioè pertraverso, si esprimono l’intestina staccate con lo stomaco, i reni, il fegato, et la milsa. Di poi aperto il petto dall’una et dall’altra parte, dove le coste si terminano in cartilagine; si cacciano fuora i membri spiritali, qual sono il cuore, il pulmone, l’esofago, tagliati infino all’epiglottide. Eseguita anche l’estrazione del cervello, le cavità vengono lavate prima con acqua fredda, poi con aceto ed infine con acquavite, in ultimo cosparse di una polvere appositamente preparata e riempite di “faldelle di stoppa o di bombace bagnate d’acqua vite”. Il cadavere viene poi avvolto in un lenzuolo incerato, “di maniera però, che ogn’un deto resti separato dall’altro”, e cosparso di pece navale. Per garantire risultati ottimali, Severino consiglia di praticare anche la scarnificazione completa, asportando i muscoli24. Dell’affermazione dell’imbalsamazione chirurgica come il sistema più sicuro per la conservazione dei corpi in Italia offre testimonianza un altro celebre autore napoletano del XVII secolo, Giuseppe Donzelli (1596-1670), che nel suo Petitorio Napolitano riferisce che Frà le Provincie di Europa la Campagna, che s’intende il felicissimo Regno di Napoli, abbonda di Spiriti grandi Emulatori degli Antichi, e in conseguenza imitatori delle più Nobili usanze, havendo ricevuto per familiare quella della preservazione de i cadaveri de i Grandi, alla quale io procurerò di accordare le mie osservazioni in questa materia, acciò nelli bisogni, massimamente improvisi, possano farsi servire da i Chirurghi, senza gl’instrumenti de’ i quali pare che tale operatione non si possa debitamente effettuare. 181 Silvia Marinozzi Fig. 5. Particolare della mummia di Maria d’Aragona con incisione longitudinale xifo-pubica ed altra ombelicale-traversa Raccomanda che si proceda all’imbalsamazione il giorno dopo il decesso, iniziando con un bagno di vino per detergere il cadavere e proseguendo poi con l’estrazione degli organi interni, l’incisione dei grandi vasi e la scarnificazione. Le cavità vengono poi lavate con acquavite e aceto ed asperse della polvere e del balsamo di cui fornisce la ricetta25. Sempre tra le mummie conservate a San Domenico Maggiore, ve ne è una naturale, acefala, che la storiografia aveva identificato con Cesare d’Avalos, figlio di Alfonso (1502-1546), Marchese del Vasto, e di Maria d’Aragona (1503-1568), sebbene gli esami antropologici abbiano indicato discordanza tra l’età anagrafica e quella antropologica, ossia un’età di morte di molto antecedente a quella che avrebbe dovuto avere. La mummia esaminata era stata conservata in posizio182 L’imbalsamazione funebre in Italia ne da seduta; collo, polsi e vita presentano solchi da legatura, e nella regione interscapolare, alla base del collo, sono stati trovati porzioni di canna appuntite; questi elementi fecero supporre che si trattasse di una mummificazione ottenuta con il sistema della scolatura, una pratica funeraria largamente diffusa tra la popolazione napoletana, che consisteva nel deporre il cadavere in appositi locali, detti “cantarelle”, in genere collocati sotto le sacrestie delle chiese; le pareti di questi locali erano scavate in modo da formare tante piccole nicchie, in cui venivano disposti i corpi, in piedi o seduti, e fissati alla parete, con chiodi e lacci. Ma studi recenti hanno evidenziato che i colatoi fossero strumenti per la doppia sepoltura dei defunti, ossia luoghi in cui deporre e nascondere il cadavere per tutto il tempo della putrefazione, per poi recuperare e seppellirne lo scheletro, inteso come la parte integra e non corruttibile del corpo, simbolo dell’avvenuto processo della morte fisica e della purificazione di quanto di putrescibile esiste per il definitivo passaggio dei defunti alla vita eterna. I corpi venivano sepolti coperti di poca terra e nel momento in cui i meccanismi putrefattivi erano così avanzati da render visibili le ossa, si collocavano nelle apposite nicchie per permettere la scarnificazione del cadavere, ossia l’asportazione delle carni ad opera dei familiari, dei parenti26. Questa ritualità è connessa al culto delle anime purganti, fortemente radicato nel Regno di Napoli, ossia all’idea di agevolare il passaggio dell’anima del defunto alla dimensione finale della morte, alla vita eterna. La lunga durata della morte, intesa non come momento di cessazione delle funzioni vitali, rapido e immediato, ma come trasformazione dello stato identitario materiale quanto spirituale dell’individuo, nelle sembianze corporee con la disgregazione del corpo e nell’anima con il percorso di purificazione, si fenomenizza in una ritualità funebre religiosa che da una parte accelera concretamente i tempi naturali della disintegrazione delle carni e dall’altra rafforza il suffragio per il passaggio dal purgatorio al paradiso con i lamenti, i pianti e le preghiere di quanti del defunto si occupano. 183 Silvia Marinozzi L’idea di fondo è che il tempo necessario alla purificazione dell’anima sia tangibilmente misurabile in corrispondenza a quello della trasformazione del corpo indotta dalla putrefazione, terminato il quale, il corpo ormai scheletrizzato è pulito della materia corrotta così come l’anima lo è dalla corruzioni avute nella vita terrena. Solo al termine di questo periodo le spoglie trovano la loro sepoltura definitiva, all’interno delle terre sante prescelte, con una sorta di secondo funerale. Tale rito funebre non è certamente stato utilizzato per il presunto corpo di Cesare d’A- Fig. 6 Pucara (SA), cripta del monastero dei Santi Giuseppe e Teresa valos, per il quale si può solo quindi ipotizzare che la temporanea deposizione del cadavere in una cantarella abbia provocato, casualmente o strumentalmente, un processo di mummificazione, reso possibile da condizioni ambientali e climatiche favorevoli. Tale ipotesi può esser confortata dal ritrovamento delle porzioni di legno debitamente levigate a punta e dai solchi presenti nei tessuti della regione dei polsi, riferibili a lacci o corde con cui il cadavere sarebbe stato contenuto. Ma si tratterebbe comunque di un’induzione artificiale di una mummificazione naturale, senza scarnificazione ed asportazione dei tessuti molli, una pratica, questa, del resto diffusa in vari territori italiani, soprattutto nel meridione, sin dal primo evo moderno. Esempi analoghi si ritrovano infatti in diversi siti sepolcrali 184 L’imbalsamazione funebre in Italia Fig. 7. Napoli, Santa Maria del Purgatorio, la Terrasanta della penisola, con particolare frequenza nel meridione. Già dai primi del XVII secolo, per esempio, i frati cappuccini del famoso convento di Palermo notarono che i corpi dei confratelli defunti sepolti nelle cripte sotterranee si erano preservati dalla putrefazione, e continuarono ad utilizzare questi luoghi per la sepoltura dei frati, sino ad adibire, nel tempo, specifici locali per la scolatura dei corpi anche per famiglie nobiliari e uomini di rango. Il rito della doppia sepoltura prevede in questo caso l’immediata deposizione del cadavere su un colatoio, che può esser a forma di sedile, come le cantarelle napoletane, o orizzontale, ossia una sorta di lettiga, composta da assi di legno disposte a reticolo, per agevolare la 185 Silvia Marinozzi colatura dei liquami cadaverici. I cadaveri venivano lasciati in questi luoghi per tutto il tempo necessario a disidratare e disseccare le carni sino alla completa mummificazione; il corpo veniva poi lavato con aceto o altro liquore alcolico, vestito e esposto lungo le pareti delle catacombe o deposto in una bara27. I recenti studi condotti sulle mummie conservate nelle cripte e nei conventi in Sicilia hanno dimostrato che questa pratica funeraria ha continuato ad esser eseguita sino ai primi del XX secolo28. Dunque, l’imbalsamazione chirurgica è semplicemente uno dei tanti sistemi di conservazione del corpo, ed i metodi usati per mummificare variano in base ai costumi, alle credenze religiose ed alla cultura dei popoli. Nel XVII secolo iniziano a circolare in Europa veri e propri trattati monografici sull’imbalsamazione funebre, in cui ne viene tracciata la storia a partire dalle tecniche usate nell’antico Egitto e descritte da Erodoto e Diodoro Siculo sino alle diverse procedure sviluppate in evo moderno, come dimostrano i testi di Antonio Santorelli (15831653)29, Giuseppe Lanzoni (1663-1730)30, G.W. Wedel (1645-1721), Philibert Guybert (1579?-1633)31, Andreas Rivinus (1600-1656)32, Théophile Raynaud (1583-1663)33, Gregor Horst (1578-1636)34, e di Louis Penicher (fl. 1698)35, che testimoniano la larga diffusione e la forte valenza sociale e culturale che questa pratica assume sia come ritualità religiosa che come disciplina medica. Dalla fine del XVII secolo, nei paesi fiamminghi e tedeschi si era diffuso un tipo di imbalsamazione che usava i metodi delle preparazioni anatomiche, e che gli autori distinguono in humida e sicca balsamatio. La prima, detta anche balsamatio sine effusione sanguinis, prevede due fasi: l’immersione del cadavere in una soluzione disseccante ed antisettica, per un mese o più, e l’esposizione del cadavere a sorgenti di calore per essiccarlo. Sul corpo vengono praticate solo piccole incisioni, ossia fori, per permettere la penetrazione del liquore conservativo, che, dalle formule indicate nei testi, risul186 L’imbalsamazione funebre in Italia terebbe composto da un distillato di soluzioni alcoliche ed alcaline, come la salamoia, l’acquavite, la lisciva di calce viva e l’aceto, con spirito di vino, trementina, sale o zolfo, ed essenze varie. Terminata la fase di macerazione, il cadavere viene poi esposto ad una fonte di calore, o addirittura lasciato in una sorta di stufa36. Dall’analisi delle fonti letterarie di evo moderno concernenti l’imbalsamazione si può dedurre che questa tecnica rappresenti l’evoluzione della procedura di imbalsamazione di tradizione araba, diffusasi in Europa nell’Alto Medioevo e ancora descritta da diversi autori del XVI e del XVII secolo, che prescrivono lavaggi endocavitali e bagni in acqua condita con acquavite e altri distillati alcolici. Certamente, lo sviluppo della chimica permette l’elaborazione di nuovi liquori antiputrefattivi e disseccanti che rendono il sistema della purgazione e della macerazione del cadavere più efficace. La seconda, la sicca balsamatio, si ottiene con iniezioni intravascolari di liquidi conservativi, mediante appositi sifoni, come in anatomia. Quando il corpo è stato purgato dei suoi liquidi organici, i vasi sanguigni vengono riempiti di cera colorata, e le parti esposte, in particolare viso e mani, vengono dipinte, in modo da ridare al corpo i suoi colori naturali. Gli autori sottolineano l’importanza dei trattamenti estetici, come la tintura dei capelli, l’applicazione di occhi di vetro, vernici per colorare la pelle, per restituire alla salma l’aspetto che aveva intra vitam37. Con l’espansione dell’impero napoleonico, i chirurghi francesi apprendono ed applicano questa tecnica, anche in abbinamento all’imbalsamazione chirurgica. Testimonianza di ciò è l’esempio di J. D. Larrey (1766-1842), Primo Chirurgo della Grande Armata Napoleonica, che, nelle sue Mémoires de chirurgie militaire et campagnes (1812-1817), afferma che l’affinamento dell’arte dell’imbalsamazione si deve al progresso dell’anatomia e della chimica, con espliciti riferimenti ai corpi conservati nei gabinetti anatomici in Germania: 187 Silvia Marinozzi Les progrès que l’anatomie et la chimie on faits depuis le milieu du dernier siècle, ont porté l’art d’embaumer les corps au plus haut degré de perfection. J’ai vu des sujets de tout age dans différens cabinet d’anatomie, surtout en Allemagne, préparés sans bitume, de manieére à conserver les formes, l’attitude naturelle, et même la couleur de la peau38. Riferisce poi di aver seguito questo esempio per imbalsamare il corpo del Generale Morland, deceduto nella battaglia di Austerliz: il suo metodo prevede l’eviscerazione del cranio, mediante craniotomia posteriore, ed estrazione degli altri organi solo se necessario, o per le cattive condizioni del cadavere, o per fattori ambientali, come il clima caldo; si eseguono poi lavaggi endocavitali e vascolari e si procede a riempire le cavità e i vasi con “materia bituminosa” rossa, per restituire forma e colore al corpo; il cadavere viene poi fatto macerare per circa tre mesi in una soluzione di muriato di mercurio, e fatto essiccare. Larrey ha conservato la mummia di Morland in una teca di vetro, nella sua biblioteca. Secondo Pierre Pelletan (1782-1845), autore della voce “Embaumement” nel Dictionnaire encyclopedique des sciences medicales, Larrey ha usato una soluzione a base di sublimato corrosivo, utilizzato dagli imbalsamatori francesi di primo ‘800, che utilizzano la tecnica anatomica di iniezioni endocavitali ed intravascolari di dissoluzioni alcoliche ed alcaline39. Si diffonde infatti il costume di custodire i corpi mummificati, soprattutto quelli dei bambini, in teche di vetro, vestiti, adornati e disposti in modo da riprodurre sembianze e movenze che li facciano sembrare vivi40. Le tecniche delle preparazioni anatomiche trovano così larga applicazione nell’imbalsamazione funebre, garantendo sia una più duratura conservazione che una maggiore integrità dei corpi. La letteratura secondaria ha infatti spesso sottolineato il grande incremento che la pratica dell’imbalsamazione funeraria ha avuto a cavallo tra il XVIII ed il XIX secolo. Nel pensiero medico, la concezione vitalistica della materia organica considera ogni fenomeno vitale come proprio del corpo stesso. La morte, privata della sua va188 L’imbalsamazione funebre in Italia lenza di sacralità, viene analizzata come un naturale processo fisiologico, nelle sue manifestazioni di putrefazione e decomposizione della materia organica, in concomitanza con lo sviluppo delle politiche cimiteriali, che portano alla costruzione di cimiteri extraurbani. Le politiche cimiteriali che si sviluppano a fine Settecento presentano la costruzione dei cimiteri extra-urbani come misura igienica, per la tutela della salute pubblica, attraverso l’allontanamento dei cadaveri, fonti di esalazioni morbifere prodotte dalla putrefazione, dalla società civile41. Adibire un luogo di sepoltura unico per tutti, vietando i fasti funerari, i monumenti funebri e le inumazioni nelle terre sante delle chiese, assume un significato civile e politico molto forte, rappresentativo delle trasformazioni culturali e sociali dell’epoca, che spingono verso una secolarizzazione della società, ed all’equiparazione ed all’uguaglianza civile. La morte, soprattutto nella sua accezione religiosa di passaggio alla vita eterna, era finora stata dominio assoluto della Chiesa, attraverso l’istituzionalizzazione di riti e pratiche funerarie che aveva garantito un controllo sia spirituale che sociale e politico sulle comunità cristiane. Evento naturale ed imprescindibile per tutti, la morte non può più contemplare differenziazioni di ceto e di classe e i cadaveri, materia corruttibile e, quindi, morbifera, devono esser allontanati dalla società civile o opportunamente trattati perché non inquinino l’aria e non compromettano la salute dei cittadini. In tal senso, l’imbalsamazione funeraria rappresenta una manifestazione concreta del processo culturale di secolarizzazione del corpo, considerato nel suo aspetto prettamente materiale, che riflette una politica di laicizzazione di un intero sistema sociale e culturale. Al significato religioso va quindi sempre più sovrapponendosi il valore dell’imbalsamazione come misura igienica e di prevenzione medica, che impedisce l’esalazione di quei miasmi patogeni che causano l’insorgenza delle malattie epidemiche. L’allontanamento dei morti dalla società civile comporta l’affermarsi di una sorta di “culto laico” della morte, che 189 Silvia Marinozzi si esprime attraverso una nuova ritualità funebre, con tributi sulle tombe che divengono il simbolo della continuità degli affetti espressi con l’attaccamento ai resti mortali. L’imbalsamazione funeraria risponde quindi alle nuove esigenze culturali, perdendo il vecchio statuto di una ritualità riservata solo ai Re, agli esponenti delle istituzioni governative ed ecclesiastiche e, più in generale, alla nobiltà, e divenendo, invece, una pratica accessibile a chiunque possa pagarla, come intervento atto ad impedire, o almeno arrestare, i processi putrefattivi. Non è quindi un caso che, a partire dai primi dell’Ottocento, proliferi una trattatistica specifica su tale tematica, soprattutto in considerazione tanto della laicizzazione e secolarizzazione delle pratiche funerarie e delle politiche di igiene e sanità pubblica, che contemplano il controllo e l’allontanamento dagli agglomerati urbani dei luoghi di concentrazione di sostanze organiche putride, dai mercati ai laboratori e alle botteghe tessili e di lavorazione di carni e pelli animali, alle discariche e ai cimiteri, considerati, in coerenza con il pensiero medico dell’epoca, causa principale di insorgenza delle malattie epidemiche, per via delle esalazioni patogene derivanti dalla putrefazione della materia animale. Impedire, o almeno allontanare, i rischi indotti dai processi putrefattivi diviene pertanto il presupposto fondamentale delle regolamentazioni igieniche e sanitarie che si adottano già a partire dalla fine del XVIII secolo, e che trovano definitiva attuazione nell’impero napoleonico. Le nuove conoscenze sulla composizione della struttura e sulle dinamiche chimiche del vivente consente di agire direttamente e manipolare i meccanismi naturali, sino a poterli modificare e gestire. Gli sviluppi della chimica organica permettono infatti di individuare ed applicare i nuovi derivati minerali e metallici per arrestare i processi putrefattivi, fissare e conservare i tessuti organici: il corpo morto viene epurato dei fenomeni vitali che si sviluppano con la morte, divenendo materia asettica, ed innocua per i vivi, tanto da poter continuare a restare tra loro42. Si diffonde infatti l’usanza di conservare mummie artificiali in 190 L’imbalsamazione funebre in Italia teche di vetro o cristallo, esposte in luoghi pubblici come in abitazioni private, trattate, rivestite e truccate in modo da sembrare corpi vivi43. Pierre Pelletan (1782-1845), nel ripercorrere la storia dell’arte dell’imbalsamazione dei corpi umani, fornisce un quadro delle tecniche e delle sostanze utilizzate nell’esercizio di questa pratica all’inizio del XIX secolo in Francia. Così apprendiamo che Jean-Pierre Boudet (1778-1849), farmacista a Parigi e membro dell’Accademia Reale di Medicina, incaricato di imbalsamare i corpi dei senatori del primo impero44 procede nella sua arte incidendo in profondità le carni e le viscere, spremendole finché non sia uscito tutto il sangue; ogni organo viene allora lavato con aceto e alcol canforato, e cosparso di una miscela di polveri di tanno, di sale decrepito, di china, di cannella e di altre sostanze astringenti ed aromatiche, di bitume di Giudea, di benzoino. Si applica poi con un pennello una soluzione di sublimato di mercurio sulle pareti delle cavità, su tutte le incisioni e sugli organi, su cui si asperge poi la suddetta polvere che, ricollocate le viscere al loro posto, andrà a colmare i vuoti. Il corpo imbalsamato viene poi bendato in ogni sua parte e deposto in un sarcofago di piombo riempito della stessa polvere usata per riempire le cavità. Analizzando il metodo di Boudet, Pelletan constata che tale processo si basa essenzialmente sul tener lontani i cadaveri dall’aria libera e rimprovera il fatto che i corpi così trattati non abbiano subito un reale processo di essiccazione, e che le droghe impiegate assorbono le umidità del corpo rimandone cariche a loro volta. Propone così di eviscerare il corpo e lasciarlo immerso in una dissoluzione sub-carbonato di sodio per qualche settimana, e poi metterlo a bagno in un liquore alluminoso per eliminare residui alcalini. Riempite le cavità di stoppe, aromi e sostanze resinose, si pone il corpo in una stufa per operare la disseccazione. In considerazione degli studi di Chaussier sulle proprietà conservative del sublimato corrosivo di mercurio, sottolinea l’efficacia del 191 Silvia Marinozzi bicloruro di mercurio nella conservazione di interi cadaveri, e riporta il sistema di conservazione dei cadaveri adottato da Pierre Béclard (1785-1825), Capo dei lavori anatomici nella Scuola di Medicina: praticando un foro nell’addome, altri due all’altezza delle ascelle ed un’apertura nel cranio, ha potuto accedere agli organi interni, tagliarli, spremerli e lavarli; ha poi iniettato una soluzione mercuriale nell’arteria-trachea ed immerso l’intero corpo in un bagno saturato di sublimato. Dopo circa un mese, per fermare il processo putrefattivo, Béclard ha nuovamente praticato altri fori nel peritoneo attraverso un foro praticato nell’addome, e rigirato il cadavere perché il sublimato coprisse e penetrasse tutte le parti. Al termine di due mesi di immersione, il corpo, disseccatosi rapidamente all’aria, è stato conservato in una teca di vetro perché potesse esser esposto. . Pelletan prosegue poi riportando il metodo adottato da Boudet, Farmacista a Parigi, per l’imbalsamazione di una bambina di dieci anni, che la madre voleva conservare in casa dentro una teca. Il corpo è stato immerso in un bagno di alcol puro, in cui è stato successivamente versato del sublimato, per tutta la durata delle operazioni di eviscerazione e riempimento delle cavità con stoppe secche. Il cadavere è poi stato lasciato a bagno in acqua distillata satura di sublimato e sale per tre mesi, durante i quali si è versato del muriato dolce. Una volta che il corpo si è disseccato all’aria, sono stati messi occhi di vetro nelle orbite oculari, il viso è stato truccato in modo da tornare al colore naturale e la bambina, vestita dei suoi abiti, è stata chiusa e conservata in una teca vitrea45. Esempio di tale sistema, sono le mummie di Caroline, Letizia e Joachim Napoleon Agar, figli di Jean Michel Antoine Agar, Ministro delle Finanze del Regno di Napoli di Joachim Murat, deceduti tra il 1811 ed il 1813 e conservate, anche loro, nella sacrestia di San Domenico Maggiore a Napoli. Queste sono le sole mummie che non sono state analizzate dal punto di visto medico, e solo quella di Joachim Agar è stata sbendata ed esaminata. Pertanto, il sistema di imbalsamazione 192 L’imbalsamazione funebre in Italia è stato ricavato solo dall’esame obiettivo e dalle lastre RX. Tutte e tre presentano esiti di craniotomia (orizzontale circolare per Letizia e Joachim Napoleon, e posteriore per Caroline), eviscerazione della cavità toraco-addominale, che sembra esser stata praticata con un’unica incisione giugulo-pubica, e riempimento delle cavità. Le radiografie mostrano presenza di materiale radiopaco, riferibile a mercurio o suoi derivati, tra le sostanze che riempiono le cavità del corpo. Il sistema di imbalsamazione usato per i tre bambini Agar sembra quindi analogo a quello descritto dai chirurghi francesi di quel periodo, che prevede l’eviscerazione dei corpi nei paesi con clima caldoumido, come a Napoli, e l’uso di iniezioni e bagni con soluzioni mercuriali. Fig. 8. Particolare del volto della mummia di Joachim Napoleon Agar Fig. 9. Rx della mummia di Joachim Napoleon Agar 193 Silvia Marinozzi la mummia di Joachim Napoleon aveva il volto scoperto e le orbite oculari completamente svuotate; le radiografie evidenziano un decubito del materiale d’imbalsamazione nelle parti inferiori delle cavità cranica ed addominale; questo significa che il corpo è stato conservato, almeno nei primi tempi, in posizione eretta. È quindi probabile che la mummia di Joachim Napoleon, unico figlio maschio del Ministro delle Finanze, sia stata esposta, forse in una teca vitrea, e che le cavità orbitali contenessero occhi artificiali, e solo in un secondo momento (probabilmente con la fine del Regno murattiano) sia stata deposta nell’attuale sarcofago. Possiamo pensare che il metodo di imbalsamazione utilizzato per i corpi dei tre bambini Agar fosse lo stesso che veniva praticato in Francia in quegli anni, basato su un connubio tra l’antica pratica di eviscerazione e riempimento delle cavità con sostanze naturali aromatiche ed i nuovi sistemi di conservazione della materia organica con bagni ed imbibizioni di soluzioni mercuriali. Ancora nel 1824 il corpo del re di Francia Luigi XVIII (1755-1824), dopo esser stato eviscerato e scarnificato, viene lavato prima con una soluzione di cloruro d’ossido di sodio, poi con un’altra alcolica di deuto-cloruro di mercurio, e le cavità riempite di polveri composte di spezie aromatiche e resine. Il cadavere imbalsamato è poi stato fasciato tre volte, alternando bende di diachilon gommoso e bende di taffetà46. Una particolarità delle tre mummie è il tipo di bendaggio che è stato usato: in genere, ogni parte del corpo viene fasciata singolarmente, mentre per queste tre gli arti sono stati fasciati dapprima singolarmente e poi riuniti al tronco con un secondo bendaggio, che avvolge l’intero corpo, come le mummie egiziane. Inoltre, le tre salme non sono state rivestite dei loro abiti, come invece era tradizione fare. Sappiamo che in seguito alla Campagna di Egitto, si era sviluppato in Francia un rinnovato interesse per la storia e la cultura egiziana e si avvia anche uno studio scientifico e sistematico sulle mummie, sulle tecniche e sugli strumenti chirurgici, e soprattutto sulle 194 L’imbalsamazione funebre in Italia sostanze utilizzate per la mummificazione nell’antico Egitto. Le mummie, considerate nella loro valenza antropologica e culturale, e non più come oggetti sacri dai poteri occulti, vengono analizzate per individuarne la composizione e scoprire le metodologie con cui vennero preparate: si studiano le tecniche e gli strumenti usati per l’imbalsamazione, come le diverse tipologie di incisione per l’eviscerazione delle cavità toracoaddominali e craniche; i sistemi di fasciatura; le sostanze impiegate per essiccare e conservare i corpi. In particolare, si analizzano le sostanze utilizzate dagli antichi egizi Fig. 10. Le mummie di Carolina, Letizia e Joachim Napoleon Agar nella preparazione delle mummie, in particolare il natron47, il liquore di “cedria” ed il bitume di Giudea, identificati come gli ingredienti fondamentali dei processi di mummificazione48. Le mummie egiziane costituiscono ancora, dunque, un paradigma di riferimento, anche come riscontro dell’efficacia delle nuove tecniche e delle nuove sostanze chimiche usate per imbalsamare i corpi. Il tipo di bendaggio usato per i bambini Agar rappresenta quindi la riproposizione di un sistema antico, un gusto dell’epoca, la suggestione e l’influenza che le mummie egiziane esercitarono nei costumi funebri francesi. Più in generale, queste tre mummie costituiscono un esempio concreto delle permanenze e delle evoluzioni dell’arte dell’imbalsamazione nel periodo napoleonico, che usa ancora l’antico metodo 195 Silvia Marinozzi chirurgico ma si avvale anche delle tecniche anatomiche di conservazione dei corpi. Infatti, già nella metà dell’Ottocento, scompare l’imbalsamazione chirurgica, e si afferma definitivamente il sistema dell’imbibizione dei corpi e delle iniezioni intravascolari di liquori conservativi. Oltre alla ritualità funeraria dell’imbalsamazione, queste tecniche trovano larga applicazione per la conservazione di interi cadaveri e per le preparazioni anatomiche a scopo didattico. Il valore scientifico e didattico dell’anatomia e dell’anatomia patologica come discipline fondamentali nei curricula delle professioni mediche, e come settore di ricerca per la clinica e la patologia, rende sempre più necessario l’impiego di corpi da notomizzare, nonché di un numero sempre maggiore di reperti dimostrativi della morfologia o dei segni patologici degli organi. Diviene quindi indispensabile trovare sistemi di conservazione dei cadaveri, che permettano di mantenere inalterati meati e tessuti delle parti, e che vengono, conseguentemente, adottati anche per l’imbalsamazione funeraria: arrestando la formazione e l’esalazione dei effluvi cadaverici, l’imbalsamazione diviene presupposto essenziale sia per le dimostrazioni anatomiche che per l’esposizione del corpo nelle esequie funebri. La conservazione temporaria non invoca ragioni metafisiche; essa si propone di utilizzare i residui dell’uomo e degli animali in un interesse scientifico, oppure di prevenire, nell’interesse dell’igiene, le emanazioni putride prima dell’inumazione. Queste due maniere di imbalsamazione, di cui i processi sono distinti, devono esser studiati separatamente49. In Italia, in particolare in Sicilia, a partire dagli anni Venti, si utilizza un distillato di arsenico, la cui efficacia viene definitivamente attestata con la diffusione del metodo di Giuseppe Tranchina (1797-1837), reso pubblico con gli articoli comparsi su La Cerere, nel 1834 e sull’Osservatore Medico del 1835, che consiste in una semplice 196 L’imbalsamazione funebre in Italia iniezione, attraverso la carotide, di una soluzione ottenuta disciogliendo 2 libbre di polvere di arsenico, con un po’ di cinabro per colorare il fluido, in ventiquattro libbre di acqua distillata o di spirito di vino50. Un esempio concreto di mummia ottenuta con il sistema tranchiniano è quella di Gaetano Arrighi, prigioniero politico nella fortezza di Livorno deceduto il 10 marzo 1836, rinvenuta nei sotterranei dell’Ospedale di Livorno. Le radiografie effettuate mostrano radiopacità dei vasi sanguigni, in particolare del sistema arterioso, riconducibile, verosimilmente, alla presenza di mercurio nella soluzione iniettata. Sulla base delle testimonianze storiche, sappiamo infatti che tale sistema d’imbalsamazione dei corpi prevedeva l’impiego di dissoluzioni mercuriali, in particolare di deutoclorulo di mercurio. L’incisione sopracaveale sinistra indica che il liquore conservativo è stato iniettato nella carotide51, secondo le indicazioni dell’epoca. Anche gli esami radiologici recentemente condotti su dieci mummie databili alla metà dell’Ottocento conservate nelle catacombe dei Cappuccini di Palermo hanno mostrato tracce di materiale radiopaco riferibile a componenti mercuriali e/o arsenicali nelle cavità nasali, anali e in alcuni casi anche in quella addominale, cosa che fa riecheggiare l’antico sistema dell’uso di clisteri ed iniezioni di composti alcolici e marcuriali propugnato da Rhazes. Su due individui è invece stato riscontrato materiale radiopaco intra-arteriale, riferibi- Fig. 10. Mummia di Gaetano Arrighi 197 Silvia Marinozzi le al sistema delle iniezioni vascolari propugnato da G. Tranchina, che praticava proprio in quel periodo l’imbalsamazione dei corpi di esponenti nobiliari e borghesi a Palermo52. Lo stesso sistema viene adottato da altri autori siciliani, come Placido Bugliarelli, Giuseppe Salmi e Gioacchino Romeo di Palermo e Giuseppe Genovese di Messina, ma il nome di Tranchina diviene celebre anche nei paesi d’oltralpe, soprattutto in Francia dove viene elogiato ed emulato da altri autori53. I suoi preparati vengono addirittura paragonati a quelli di Girolamo Segato (1792-1836), conservati nel Museo della Facoltà Medica di Firenze, considerati, ancora sino alla metà dell’Ottocento, oggetti inimitabili, per la loro consistenza, per il mantenimento dei colori naturali dei tessuti e per l’elasticità intrinseca che conservano. Il metodo di G. Tranchina si presenta immediatamente come un sistema efficace e facilmente eseguibuile, poco costoso e veloce, ma i cadaveri preparati con l’arsenico, pur conservando forme, volume e colori, non risultano idonei alla pratica settoria, poiché il fluido utilizzato resta sempre liquido, e la tossicità dell’arsenico rende comunque nociva la manipolazione dei cadaveri54. Nel 1846 in Francia viene infatti proibito l’impiego dell’arsenico per conservare i corpi, sia per motivi medico-legali, poiché impedisce il riconoscimento di un’eventuale causa di morte da avvelenamento, che per i rischi tossici cui sono esposti tanto docenti e tirocinanti durante le esercitazioni anatomiche e chirurgiche, tanto i partecipanti alle esequie funebri nel caso di salme imbalsamate con soluzioni arsenicali; allo stesso modo, viene riconosciuta anche la nocività del sublimato corrosivo, e medici e anatomisti si trovano a dover sperimentare altre sostanze che diano gli stessi risultati antiputrefattivi. Ciò nonostante, arsenico e bicloruro di mercurio continuano ad esser utilizzati in Italia come componenti delle soluzioni usate nell’imbalsamazione funebre sino a fine Ottocento, come dimostrano i testi di medici ed imbalsamatori, che distinguono ormai la procedura da usare nella conservazione dei corpi a scopo anatomico e didattico 198 L’imbalsamazione funebre in Italia da quella impiegata per l’imbalsamazione indefinita dei corpi, da destinarsi ai riti funerari delle persone “eccellenti”, ossia a quegli esponenti dell’ideologia e della lotta risorgimentale che più rappresentano la nuova Italia unita. Dalle fonti letterarie sappiamo infatti che nel 1876 una soluzione alcolica a base di arsenico cristallizzato venne composta dal celebre anatomo-patologo Ludovico Brunetti (1813-1899) per imbalsamare il corpo di Vittorio Emanuele II, e che ancora nel 1882 Enrico Albanese (1834-1889) effettuò un’iniezione di una soluzione di bicloruro di mercurio nell’arteria femorale destra per mummificare la salma di Giuseppe Garibaldi55. Malgrado la testata tossicità di queste sostanze, la deposizione in sarcofagi debitamente sigillati rende le salme di questi personaggi innocue, mentre altre soluzioni metalliche vengono sperimentate e utilizzate per le preparazioni anatomiche, sino alla scoperta della formaldeide e alla dimostrazione dell’efficacia della formalina nella conservazione dei corpi. L’imbalsamazione funebre continua ad esser praticata in Italia ancora nei primi decenni del XX secolo, almeno nelle regioni in cui più radicata era questa usanza, come in Sicilia, il cui massimo esempio è rappresentato dalla famosa mummia di Rosalia Lombardo, imbalsamata dal celebre Salafia, e ancora oggi oggetto di interesse scientifico e di culto; ma diviene comunque sempre meno frequente, sia per il grande impulso ideologico dato alla promozione della cremazione durante il Risorgimento e dai primi governi unitari, che per quel processo di laicizzazione della morte che segna le politiche dello stato italiano. Ciò malgrado, quando la rivoluzione microbiologica pasteuriana dimostra la causa microbica della putrefazione, l’uso di soluzioni battericide, insieme alla formaldeide, incrementa lo sviluppo di una tanatoprassia efficace nell’esposizione funebre del defunto, come dimostra l’uso diffuso di tale pratica soprattutto nelle Americhe. A partire dalla fine dell’Ottocento, anatomisti italiani ed europei vengono chiamati a fondare scuole anatomiche nelle facoltà mediche del sud e del nord 199 Silvia Marinozzi America, con la conseguenza di un trasferendo anche di preparati e artefatti anatomici e anatomo-patologici per la costruzione di gabinetti e musei scientifici, e soprattutto delle tecniche di conservazione dei corpi, ivi incluse le procedure dell’imbalsamazione funebre. BIBLIOGRAFIA E NOTE 1. FORNACIARI G., The mummies of the Abbey of Saint Domenico Maggiore in Naples: a preliminary report. Archivio per l’Antropologia e l’Etnologia 1985; 115: 215-226. 2. FORNACIARI G. et al., Syphilis in a Renaissance Italian Mummy. The Lancet 1989; 8663: 614; FORNACIARI G. et al., Treponematosis (venereal syphilis?) in an Italian mummy of the XVI century. Rivista di Antropologia 1989; 67: 97-104; Fornaciari G., Marchetti A., Intact Smallpox virus particles in an Italian mummy of sixteenth century. 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Correspondence should be addressed to: [email protected] 204 MEDICINA NEI SECOLI ARTE E SCIENZA, 25/1 (2013) 205-238 Journal of History of Medicine Articoli/Articles Scheletrizzare o mummificare: pratiche e strutture per la sepoltura secondaria nell’Italia del Sud durante l’età moderna e contemporanea Antonio Fornaciari Divisione di Paleopatologia, Università di Pisa, I SUMMARY SKELETON OR MUMMY: PRACTICES AND STRUCTURES FOR SECONDARY BURIAL IN SOUTHERN ITALY IN MODERN AND CONTEMPORARY AGE The ancient concepts of death as duration and the practices of secondary burial, first analysed by Robert Hertz, still survive in many areas of southern Italy. According to these beliefs death was perceived not as a sudden event, but as a long-lasting process, during which the deceased person had to go through a transitory phase, passing from one state of existence to another. Recent archeological research documents the persistence of secondary burial rites in Southern Italy during the Modern Age. A survey conducted in the province of Messina in Eastern Sicily has identified two surviving architectural structures appointed for the treatment of the bodies: the ʻsitting colatoioʼ aimed at favoring the skeletonisation and the ʻhorizontal colatoioʼ used to obtain mummification by dehydration. Both these structures controlled the corpse’s decay and transformed the body in a stable and durable simulacra of the dead. La doppia sepoltura e la durata del processo di morte Robert Hertz nel celebre Contributo del 19071 ci ha rivelato che la morte, avvertita ormai nel mondo occidentale come un evento istanKey words: Secondary burial – Mummification – Skeletonisation - Southern Italy 205 Antonio Fornaciari taneo, in altre aree geografiche ed in altre epoche storiche è ed era percepita come un fenomeno prolungato, come un processo di transizione, spesso lento, verso un diverso stato di esistenza. Hertz ci ha anche mostrato come studiando dei casi geograficamente lontani dall’occidente, e delimitati geograficamente – egli si dedicò in particolare all’esame dei dati raccolti da etnografi ed esploratori sulle popolazioni del Borneo – , sia possibile giungere ad alcune conclusioni interpretative generali estremamente feconde per l’analisi delle società europee. L’analisi di Hertz che è stata compiuta da Huntington e Metcalf ha palesato le valenze di una sua fondamentale intuizione sul simbolismo del corpo, vale a dire che “l’attenzione per i contesti simbolici e sociologici del cadavere consente di formulare le più profonde spiegazioni sul significato della morte e della vita quasi in ogni società”2. I fenomeni biologici e corporei possono diventare metaforicamente immagini significanti di realtà altre3; così il cadavere, con le sue progressive trasformazioni ed i suoi cambiamenti di stato, diventa simbolo del cammino e del destino dell’anima, mentre lo svolgimento del processo di cambiamento coinvolge lo stato dei viventi in lutto. Il cadavere, l’anima e i superstiti sono i tre protagonisti, strettamente legati, del dramma che si consuma sul palcoscenico della morte. Nella sua analisi Hertz offre una spiegazione accettabile e generalizzata delle pratiche di doppia sepoltura: le manipolazioni del cadavere, il far avvenire la decomposizione in un determinato luogo e quindi lo spostamento dei resti, ormai trasformati e fissati, in altra collocazione, sono azioni rituali funzionali ad assicurare il compimento del passaggio del defunto ad una condizione di stabilità nell’al di là, una ubicazione opportuna nei confronti dei viventi, che garantisca una pacificazione dell’ anima approdata alla sua naturale collocazione altra. La fase liminale assume quindi un’importanza fondamentale e raggiunge il proprio periodo critico durante il processo biologico di trasformazione del corpo in putrefazione. Nella lettura della trasformazione del cadavere come metafora del viaggio 206 Scheletrizzare o mummificare dell’anima Hertz è stato influenzato dagli studi di Hubert e Mauss sul sacrificio: per approdare nell’altro mondo un bene, un oggetto o un animale devono essere distrutti in questo mondo4. Se seguissimo quest’intuizione dovremmo postulare che è proprio la carne del defunto, l’involucro che riveste l’impalcatura scheletrica e che ha la capacità di degradarsi e di mutare, ad essere assimilata all’anima. Il risultato del degrado è infatti uno scheletro inerte, non più capace di trasformazioni, osso disseccato e stabile. Il termine invalso nell’uso archeoantropologico di “sepoltura secondaria”, cioè di sepoltura ricostituita dopo l’avvenuta putrefazione del cadavere in altro luogo, troverebbe una immediata generalizzata sponda interpretativa nella decrittazione Hertziana delle doppie esequie. Ma quanto sia feconda una lettura in questa luce dei moltissimi fenomeni di rideposizione di resti scheletrici e degli stessi numerosissimi ossari che sono rinvenuti, ad esempio, nelle stratificazioni cimiteriali medievali e postmedievali europee, è ancora lontano dall’essere valutata in tutta la sua pienezza. La concezione della morte come accadimento istantaneo è un’acquisizione non molto antica anche per l’Occidente– ormai dal XX secolo supportata dalle moderne cognizioni biologiche – che trova affermazione nel corso dell’Età Moderna grazie soprattutto alla rinnovata religiosità riformata e ai dettami della chiesa romana controriformata. Se osserviamo gli sforzi esercitati dalla chiesa cattolica della Controriforma per disciplinare, attraverso una rigida concezione dei sacramenti, la durata dei riti, ci accorgiamo della volontà di delimitarli temporalmente e di contrarli fino a farli coincidere con la stessa amministrazione del sacramento da parte del sacerdote investito dell’autorità ecclesiastica5. Non più quindi una fase di separazione, di margine e di aggregazione, secondo il modello illustrato da Van Gennep6, ma un unico momento fondato sul sacramento religioso. Tra questi riti rientra naturalmente il rito di passaggio per eccellenza: il rito funebre. Si voleva eliminare l’idea di una fase di passaggio prolungata, liminale, caratterizzata da pericolosità 207 Antonio Fornaciari e instabilità, tra la morte corporale ed il definitivo arrivo del defunto nell’al di là. Tutto il bagaglio di credenze folkloriche legato alla liminarità veniva così ridotto, depotenziato, e ricondotto sotto l’ordine ed il controllo dell’autorità religiosa. Un processo simile, anzi ancora più estremo, si era verificato pure nel mondo protestante, dove la Riforma aveva soppresso quasi completamente le differenti configurazioni rituali e sacramentali. La chiesa di Roma aveva invece perseguito una strada meno esacerbante nel porsi in conflitto con i rituali tradizionali, spesso conservatisi a livello popolare, mirando alla concentrazione ed alla puntualità del mutamento sancito dal sacramento. Il rapporto con i defunti non fu negato come nell’Europa riformata, non fu combattuta la possibilità di intercedere per i morti attraverso i suffragi, ma si cercò di eliminare la visione della morte come passaggio prolungato e viaggio tormentato dell’anima. In questo senso il potenziamento dell’immagine del purgatorio, già individuato da Hertz come una forma dell’elaborazione storica della doppia sepoltura7, divenne un mezzo per inquadrare, sotto una visione teologicamente accettabile, una concezione che vedeva il cammino dell’anima verso la salvezza come qualcosa di prolungato. Tuttavia, rappresentazioni collettive come quelle descritte da Hertz continuarono a sopravvivere, per esempio nelle immagini folkloriche dei morti senza pace, la cui mancata cerimonia funebre, e quindi il mancato raggiungimento di una condizione pacificata nell’al di là, aveva condannato a vagare pericolosamente nel mondo dei vivi8. E accanto a queste credenze, estremamente diffuse, continuarono a sopravvivere nel cuore dell’Europa cristiana pratiche rituali di seconda sepoltura. Ne sono la prova le testimonianze riportate da missionari gesuiti intenti a rievangelizzare le campagne europee tra ‘500 e ‘600, oppure le descrizioni lasciate da scrittori del ‘700 e ‘800 che stupivano di fronte alla realtà di ritualità per loro poco comprensibili9. Pratiche di seconda sepoltura, ancora nel XX secolo e fino ai nostri giorni, sono seguite ai margini del mondo cattolico, nell’area slava 208 Scheletrizzare o mummificare meridionale10, ma pure si mantengono, a livello popolare, nei cimiteri urbani di Napoli11. Strutture per il trattamento dei corpi nell’Italia del Sud In Italia meridionale si conservano numerosi esempi di strutture funerarie, destinate al trattamento dei cadaveri, che rispondono ai bisogni di un universo rituale caratterizzato dalla concezione della morte come passaggio prolungato. Questi ambienti, funzionali all’esercizio di un “controllo” effettivo sulla decomposizione cadaverica, forniscono la prova materiale della diffusione e del perdurare, fino alle soglie dell’età contemporanea, di pratiche legate Fig. 1 – Fiumedinisi (ME), ambiente dotato di colatoi “a seduta” nei sotterranei della Chiesa Madre 209 Antonio Fornaciari alla “seconda sepoltura”. Nel corso di un’indagine archeologica effettuata prevalentemente nella Sicilia orientale, ma che ha coinvolto anche parti cospicue dell’Italia meridionale continentale, sono state documentate due tipologie principali di ambienti destinati al trattamento dei corpi: quelli dotati di colatoi “a seduta”, noti a Napoli come “cantarelle”12, diffusi in tutto il meridione d’Italia, e quelli caratterizzati da colatoi orizzontali, diffusi prevalentemente in Sicilia. Queste strutture non sono state costruite ed utilizzate con identiche finalità. Le differenze funzionali e strutturali sono evidenti e le descriveremo di seguito facendo riferimento ad una serie di siti che si prestano ad essere considerati come esemplificativi delle possibilità esistenti. Il colatoio “a seduta” La prima tipologia d’ambiente funerario, contenente quello che abbiamo definito “colatoio a seduta”, è un vano sotterraneo, solitamente ricavato sotto il pavimento delle chiese, che mostra lungo le pareti una serie di nicchie provviste di sedili in muratura ciascuno dotato di un foro centrale. Il cadavere del defunto era collocato in posizione seduta in modo da far confluire i liquami prodotti dalla putrefazione direttamente all’interno del foro collegato ad una canaletta di scolo. Nello stesso ambiente sono presenti generalmente almeno altri due elementi caratteristici: l’ossario e alcune mensole in muratura. Una volta che il processo di scolatura fosse terminato, che la decomposizione avesse fatto il proprio corso lasciando le ossa libere dalla parte putrescibile, i resti scheletrici del post craniale erano spostati nell’ossario, mentre il cranio, simbolo dell’individualità del defunto, era posizionato sulla mensola. Spesso nello stesso ambiente è presente un altare, che testimonia come occasionalmente vi fossero celebrate funzioni religiose. Il ciclo funerario, iniziato con la morte dell’individuo, si concludeva con la sua scheletrizzazione, ed aveva una durata che 210 Scheletrizzare o mummificare poteva variare sensibilmente da un minimo di pochi mesi ad un anno e più, in conseguenza delle condizioni climatiche dell’ambiente sepolcrale e della stagione della morte. Le caratteristiche architettoniche si ripetono nei diversi siti con poche variazioni, anche se si registrano differenze nella disposizione dei vari elementi e soprattutto nel grado di raffinatezza dei sepolcri che, nei casi più ricercati, sono decorati con stucchi e pitture. Il primo complesso funerario analizzato è situato in Sicilia, a San Marco d’Alunzio (ME), antico centro dei Nebrodi d’origine greca. Nella chiesa di Santa Maria dell’Aracoeli, sotto la cappella dedicata all’arcangelo Michele, in corrispondenza del transetto occidentale, si trova un piccolo ambiente ipogeo di 3,50 x 2 m, voltato a botte, a cui si accede attraverso una ripida scala di dodici gradini in marmo rosso aluntino. All’interno della camera sepolcrale si hanno otto nicchie, sei delle quali dotate di sedile con foro centrale per la scolatura dei cadaveri e collegate ad una canalizzazione che permetteva la raccolta dei liquami cadaverici e la loro fuoriuscita all’esterno dell’edificio religioso. Fig. 2 – San Marco d’Alunzio (ME), cripta della famiglia Greco, pianta (A) e prospetto orientale (B) 211 Antonio Fornaciari Fig. 3 – San Marco d’Alunzio (ME), cripta della famiglia Greco, particolare delle mensole per la posa dei crani Sulla parete opposta all’ingresso una sorta di vasca, larga 88 cm e alta 68, costituisce l’ossario in cui erano accumulati i resti scheletrici degli individui dopo la scolatura. Sopra le nicchie, lungo le pareti longitudinali, si trovano due cornicioni per la posa dei crani. Una finestra, aperta nella parete di fondo al di sopra dell’ossario, è l’unica fonte di luce dell’ambiente. La piccola camera sepolcrale è stata edificata dalla famiglia Greco, come si evince dalla lastra pavimentale che originariamente copriva l’accesso al sepolcro e che si conserva attualmente dietro il coro della chiesa. La lastra, divisa in due pezzi, porta lo stemma della famiglia Greco raffigurante due leoni rampanti affrontati sopra tre melograni e la seguente iscrizione13: 212 Scheletrizzare o mummificare GRÆCORVˇ, HVCPO SVIT, RADIX, BENEDOC TASEPVLCVˇSIHICARA ESTCÆLIPROXI§ÆTHER ADEST 1722 La famiglia Greco aveva il patronato della cappella di San Michele sotto la quale, nel 1722, aveva edificato la propria sepoltura14. Il secondo caso di studio proviene dalla Campania. Il convento di Pucara, monastero femminile dell’ordine carmelitano di Santa Teresa, a cui era annesso un conservatorio per le giovani, si trova sulle alture che sovrastano la costiera amalfitana, nel comune di Tramonti (SA)15. L’istituzione monastica e l’educandato femminile ebbero notevole importanza religiosa tra XVIII e XIX secolo, fino alla soppressione avvenuta nell’anno 1900. Tra i confessori e le guide spirituali delle monache si ricorda, nel ‘700, la figura di S. Alfonso Maria de’ Liguori16. Al centro del pavimento della chiesa del monastero, dedicato ai santi Giuseppe e Teresa, si trova una botola coperta da una lastra di marmo con la seguente iscrizione: D. O. M. FRANCISCUS ANTONIUS ET JOSEPH RICCA POST EXCITATUM SACRIS VIRGINIBUS MONASTERIUM, TEMPLUMQUE QUIETIS ETIAM HUNC LOCUM PARAVERUNT UT QUARUM VIVENTIUM ANIMOS CHARITAS, ET DISCIPLINA CLAUSTRALIS COADUNASSET DEFUNCTARUM OSSA SEPULCHRUM IDEM CONCLUDERET HAEREDES A.D. CIDDCCXXIV17 213 Antonio Fornaciari Fig. 4 – Pucara (SA), cripta del monastero di SS. Giuseppe e Teresa, pianta e prospetto ovest Sollevata la botola si accede, attraverso sette ripidi gradini, ad un locale ipogeo voltato. Lungo le pareti sono ricavate venti nicchie, cinque per ogni lato, dotate ciascuna di sedile in muratura con foro centrale circolare. Il piano di seduta è posto a cinquanta centimetri dal pavimento e l’apertura per la raccolta dei liquidi di decomposizione trova sfogo ai piedi del sedile, attraverso un pertugio rettangolare che versava i liquami direttamente sul pavimento in battuto. Un bastoncino, incastrato in fori laterali interni alle nicchie, era posizionato all’altezza delle braccia per evitare che i cadaveri seduti potessero cadere in avanti. L’eccezionalità del sito è data dalla conservazione negli stalli dei resti scheletrici delle monache sottoposte alla scolatura. Le ossa sono parzialmente o totalmente collassate su se stesse per effetto della forza di gravità, dopo il cedimento dei legamenti. L’apparato funerario delle defunte, che è possibile rico214 Scheletrizzare o mummificare struire in base ad alcuni reperti metallici e frammenti di stoffa, è costituito dall’abito monacale, fornito di una cinta in cuoio borchiata, da una coroncina metallica di rame, originariamente posta sul capo delle religiose, e dalla corona del rosario, che è stata posta tra le mani delle suore al momento della loro sistemazione sui colatoi. Sulle pareti intonacate a calce sono graffiti a carboncino i nomi e le date di morte di alcune delle monache; possediamo così un elenco suggestivo di nomi monacali: Grazia, Gaudiosa, Golendida, Letizia, Punita, Maria, Illuminata, Gemma Panico del Paradiso, di nuovo Gemma, Maria Illuminata, Maria Dilta Irace, e la possibilità di ricostruire la cronologia d’uso dell’ambiente, compresa tra il 1724, data riportata sulla lastra di chiusura, e il 1888, la data più recente tra quelle presenti internamente al sepolcro. Il complesso funebre di Pucara si distingue per la mancanza di alcuni elementi, quali l’ossario e l’altare, che invece si rinvengono con costanza negli altri siti. Si può ritenere che i corpi delle monache rimanessero sul colatoio fino alla completa scheletrizzazione, ed il notevole divario cronologico tra le date graffite a carboncino sopra le singole nicchie (anni 1763, 1790, 1848, 1857, 1888) fa pensare che questa potesse verificarsi con tempi anche molto diversi da individuo a individuo. Non sappiamo dove fossero deposti i resti una volta divenuti ossa disseccate, ma è probabile che i crani, come accade in altre località, fossero sistemati sulla mensola soprastante i colatoi. La struttura del complesso funebre richiama quella di un coro, un coro del tutto particolare formato dai resti mortali delle suore di Santa Teresa. In occasione di particolari celebrazioni, o durante una nuova tumulazione, lo spettacolo che si offriva ai visitatori dell’ambiente era quello di un coro di cadaveri in progressivo disfacimento, a gradi diversi di conservazione. Una visione che doveva assurgere nella mentalità del tempo, e ancor di più in quella delle religiose, ad un significato preciso, che trasfigurava l’arcaica concezione della doppia sepoltura in una più “cristianizzata” e controriformata riflessione sulla caducità del corpo mortale, 215 Antonio Fornaciari e che rispondeva al bisogno, proclamato per il buon cristiano dallo stesso Alfonso Maria de’ Liguori, di riflettere costantemente sul tema della morte18. Un altro esempio rilevante d’ambiente funerario dotato di sedili colatoio ci viene nuovamente dalla Sicilia orientale. Sulla collina di Pentefur nei monti Peloritani, affacciata in splendida posizione in vista del mar di Sicilia, si erge l’abitato di Savoca (ME). Nella Chiesa Madre si conserva un complesso architettonico funerario dalle forme che non esiteremo a definire monumentali: un’ampia aula è ricavata sotto il presbiterio della chiesa sfruttando lo spazio dell’emiciclo absidale ed è dotata di un’imponente scalinata d’accesso bipartita. Un altare è situato dirimpetto alla scala, in corrispondenza del culmine dell’abside. Ricavate nelle pareti ricurve sono dieci nicchie fornite di sedile colatoio, cinque a destra e cinque a sinistra dell’altare. A quest’ambiente più vasto è connesso, tramite un breve corridoio, un più piccolo locale quadrangolare dove trovano posto sei colatoi a sedile sistemati nelle consuete nicchie e collegati ad una piccola vasca centrale per la raccolta dei liquidi di scolatura. Sopra l’ingresso è graffita, sulla parete rozzamente scialbata, la data 1732, a cui risale probabilmente la costruzione del vano. La presenza di questi due ambienti, collegati ma distinti, fa ipotizzare un processo di scolatura diviso in due fasi: in un primo tempo il corpo, chiuso nel piccolo colatoio opportunamente sigillato, perdeva la maggior parte dei liquidi; in un secondo momento il cadavere, ormai in buona parte asciutto, era posto nella sala più ampia dove potevano essere celebrate funzioni in suffragio dei defunti. Non si conservano purtroppo documenti attendibili sull’identità degli usufruttuari dei locali funerari della Chiesa Madre di Savoca, ma è molto probabile che il loro uso fosse riservato ai membri di una delle confraternite cittadine. Un interessante modello di sepolcro confraternale, che differisce leggermente nell’impianto dai tipi più comuni a pianta centrale, è stato documentato a Tusa (ME). Sotto la porzione terminale della 216 Scheletrizzare o mummificare Fig. 5 – Savoca (ME), cripta della Chiesa Madre, planimetria e prospetto ovest del vano settentrionale navata sinistra della Chiesa Madre, dedicata alla SS. Annunziata, la confraternita del SS. Sacramento possedeva il proprio sepolcro, eretto nel XVIII secolo con l’unione di un nuovo ambiente, sviluppato in senso E-W e voltato a botte, ad un vano rettangolare preesistente con copertura a crociera, risalente al XV-XVI secolo, già facente parte della cripta della chiesa d’età aragonese19. Ai lati dell’ingresso due file di dodici sedili colatoio, con tanto di foro centrale e tappo in terracotta (Fig. 6), convergono in leggera pendenza verso il fon217 Antonio Fornaciari do dell’ambiente dove, con le rispettive canalizzazioni, si collegano a due piccoli vani in forma di parallelepipedo atti ad ospitare i cadaveri in posizione eretta. Da sotto questi vani rettangolari procedono due canalette, costruite con embrici di terracotta, che, riunendosi in un unico condotto a livello dell’altare, avevano la funzione di convogliare i liquami cadaverici verso l’esterno dell’edificio. Sul fondo è situato l’altare della confraternita, mentre nella parete meridionale Fig. 6 – Tusa (ME), cripta della Confraternita SS. Sacramento, particolare di un sedile dell’area presbiterale una del colatoio piccola apertura immette nell’ambiente utilizzato come ossario, ricavato nell’intercapedine esistente tra l’abside della navata centrale e l’ambiente di colatura. Sono quindi presenti in questo complesso funerario tutti gli elementi caratteristici: i sedili colatoio, sormontati dalla mensola per la deposizione dei crani, l’altare, l’ossario, ma in più vi sono attestati due ambienti diversi, collegati ai colatoi a seduta, la cui funzione era quella di ospitare i corpi dei defunti per favorirne una prima scolatura e far perdere ai cadaveri il grosso dei liquidi prodotti dalla fase iniziale della decomposizione; solo in un secondo momento i corpi erano spostati sui sedili, dove continuava il loro processo di degrado per un periodo più lungo di tempo. 218 Scheletrizzare o mummificare Fig. 7 – Tusa (ME), cripta della Confraternita del SS. Sacramento, planimetria Le Terresante napoletane: una variante strutturale Dalle tipologie fin qui descritte differiscono, offrendo ancora una volta l’immagine della varietà delle pratiche e delle strutture adibite al trattamento dei cadaveri orientate dai modi della doppia sepoltura, le “terresante” napoletane. Si tratta di ambienti sotterranei, in genere gestiti dalle confraternite laicali, dotati di spazi chiamati “giardinetti” costituiti da grandi vasche, quasi aiuole rialzate, riempite di terra, in cui erano sepolti superficialmente i corpi per una prima scolatura. Dopo un periodo di tempo insufficiente a scheletrizzarli completamente, i resti erano spostati entro nicchie ricavate nelle pareti, spesso strutturate come sedili-colatoio, dove i cadaveri continuavano il loro percorso di decomposizione. A scheletrizzazione completata, i resti ossei venivano raccolti nell’ossario, mentre i crani erano conservati a parte, in genere esposti sopra mensole e cornicioni. Un esempio ancora visitabile di terrasanta ben conservata - molte strutture infatti, da quando persero la loro funzione nel corso dell’800, non hanno 219 Antonio Fornaciari Fig. 8 – Napoli, Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco, la Terrasanta più mantenuto ben leggibili le originarie caratteristiche strutturali - è quella presente sotto la chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco in via dei Tribunali. Il colatoio orizzontale La seconda tipologia d’ambiente funerario, dotato di colatoi orizzontali, è diffusa in Sicilia, mentre non ne sono al momento noti esempi nel resto del meridione o in altre parti d’Italia. Come vedremo da alcune testimonianze materiali, e sulla scorta di alcuni documenti dell’epoca, la funzione di queste strutture era quella di favorire la mummificazione del defunto. I colatoi erano piccoli am220 Scheletrizzare o mummificare bienti dotati d’una griglia orizzontale, realizzata in legno o in tubuli di ceramica, sulla quale era posto il cadavere. Il corpo, disteso sulla griglia, perdeva lentamente i propri liquidi per semplice scollamento attraverso il derma. La ventilazione, assicurata da prese d’aria e la temperatura costante, mantenuta grazie alle caratteristiche dell’ambiente, ricavato nel sottosuolo dell’edificio religioso e talvolta direttamente nella roccia di base, garantivano l’essiccazione dei tessuti. Il corpo mummificato era quindi rivestito ed esposto in cripte o cappelle funerarie, dove poteva essere “visitato” da familiari e conoscenti. La struttura del colatoio orizzontale è sempre collocata nei pressi degli ambienti destinati all’esposizione, ed è integrata come piccolo annesso del medesimo complesso architettonico. Gli esempi che porteremo provengono dalla provincia di Messina dove è stato possibile documentare una serie di ambienti particolarmente Fig. 9 – Piraino (ME), Chiesa Madre, Sepolcro dei sacerdoti, planimetria 221 Antonio Fornaciari ben conservati. Notevole ai fini della nostra indagine si è rivelata la località di Piraino. Questo piccolo centro della Sicilia nord orientale, collocato in posizione dominante su uno sprone collinare che dal sistema montuoso dei Nebrodi si spinge verso il Tirreno, conserva nelle adiacenze della Chiesa Madre un sepolcro destinato ai sacerdoti articolato in tre ambienti diversi. Da una scala, il cui ingresso è posizionato all’interno della Chiesa Madre in corrispondenza dell’altare di Santa Bruna Vergine e Martire, si raggiunge un primo ripiano dal quale si accede alla camera di mummificazione: uno stretto ambiente dal discreto sviluppo verticale, a pianta rettangolare, dotato di una vasca ed una condotta per la raccolta ed il deflusso dei liquami cadaverici. Due protuberanze in muratura sui lati brevi del piccolo vano servivano da sostegno per la griglia di legno, ancora straordinariamente conservata in loco, su cui era adagiato il corpo del defunto. Tramite un breve corridoio il colatoio è collegato ad una prima camera sepolcrale rettangolare, con orientamento nordsud, dotata d’altare, e fornita alle pareti di cinque soppalchi lignei su cui sono deposti orizzontalmente, nella loro originaria collocazione, quattordici corpi mummificati di ecclesiastici che indossano le canoniche vesti talari, hanno la testa poggiante su di un coppo in terracotta, sono Fig. 10 – Piraino (ME), Chiesa Madre, Sepolin prevalenza privi di calzature. cro dei sacerdoti, camera di mummificazione 222 Scheletrizzare o mummificare Fig. 11 – Piraino (ME), Chiesa Madre, Sepolcro dei sacerdoti Un’ altra camera sepolcrale, simile alla precedente e collegata ad essa da un breve corridoio, ha orientamento est-ovest. Oltre che sui soppalchi lignei, due corpi sono posti verticalmente entro nicchie situate a metà dell’ambiente. La ventilazione e la luce sono assicurate da una finestra per stanza. Complessivamente nelle due camere sepolcrali sono alloggiati 26 corpi mummificati. Un prezioso documento proveniente dall’archivio parrocchiale della Chiesa Madre ci aiuta non solo a datare con precisione la costruzione dei locali, ma anche a comprenderne l’utilizzo ed il funzionamento20. L’edificazione del sepolcro, avviata col consenso di Vincenzo Denti Colonna, principe di Castellazzo, Duca di Piraino e Alagona, data al 1771. Si fece promotore dell’iniziativa l’Arciprete Abate Giovanni 223 Antonio Fornaciari Antonio Maria Scalenza, principale autorità ecclesiastica di Piraino, seguito e sostenuto dal clero sacerdotale del paese. La carta di fondazione è accompagnata da una serie di articoli che regolano la gestione del sepolcro, destinato ad accogliere esclusivamente sacerdoti, diaconi e suddiaconi pirainesi21, ed inoltre da una serie di istruzioni per la manutenzione della sepoltura che devono essere eseguite scrupolosamente dal Procuratore della Chiesa Madre. Tra queste ultime è particolarmente interessante la nota n. 6, che qui citiamo integralmente: La diligenza particolare deve essere quando si seppellirà qualche nuovo cadavere, in tal caso dovrà curare suddetto Rev. Procuratore che nel colatore si mettesse il cadavere solamente in tela e colle sole calsette, scoperto dabbasso per calarsi tutto; e doppo due mesi, quando si giudicherà il cadavere ben purgato, deve estraersi dal suddetto colatore e rivestito delle sue proprie vesti, che saran solamente il collare, la tonica nera, l’amitto, il camice, il cingolo e la berretta parrinesca, ad esclusione di scarpe e d’ogni altra veste di sotto, si dovrà situare nella sua scaffa, ben accomodato e rassettato colla sua propria iscrizione, e poi ciò fatto deve scoparsi, e pulirsi suddetto colatore e gradiglia d’ogni immondezza e lasciarlo aperto per svaporare ogni puzza e fetore; servendo tutto ciò per la decenza e polizia di detta sepoltura…. Il documento fornisce inoltre, alla nota 4, disposizioni sull’apertura del sepolcro in occasione del Giorno dei Morti, quando la comunità aveva libero accesso agli ambienti sotterranei e poteva visitare le salme dei congiunti ed assistere alle funzioni religiose celebrate di fronte agli altari interni: Nel giorno dei defonti (il Rev. Procuratore) deve curare di far aprire detta sepoltura dalli primi vesperi fin alli secondi, con farvi trovare apparecchiati e ben addobbati li due altaretti che vi sono dentro con suoi candelieri e candele ed altri paramenti propri di quel luogo, con suoi profumi d’incenso o di altre cose odorifere, specialmente quando si dovrà entrare il celebrante col clero a farvi il soprafosso. 224 Scheletrizzare o mummificare Fig. 12 – Novara di Sicilia (ME), Chiesa Madre, planimetria della cripta Particolarmente esplicativa è l’iscrizione posta in corrispondenza dell’individuo che occupa la terza nicchia ad oriente dell’altare, la quale fa riferimento apertamente alla salma esposta: SACERDOTIS MARIANI FONTANA AETATIS ANNORUM L. &. DIER XXX QUI E VITA MIGRAVIT SEXTO CALENDAS INNUARII. MDCCCLXXII CORPUS QUOD ASPICIS.24 225 Antonio Fornaciari Fig. 13 – Novara di Sicilia (ME), Chiesa Madre, particolare della cripta Dalle date riportate si desume che l’ambiente è stato utilizzato, con la finalità per la quale era stato progettato e costruito, almeno fino agli anni ’70 del XIX secolo. Notevoli sono le due camere di mummificazione, o colatoi orizzontali, situate ai lati dell’ingresso. Si tratta di due vani simili, ricavati a contatto della roccia di base, con soffitto alto oltre due metri e prese d’aria che garantiscono la ventilazione; al loro interno la temperatura resta costante, anche nei mesi estivi, grazie all’azione refrigerante generata dalla roccia. Vi si conservano ancora le griglie lignee di sostegno dei cadaveri e le tavole che servivano a sigillare l’ambiente durante la scolatura. Un terzo sito che desideriamo menzionare in questa breve rassegna è Galati Mamertino (ME), antico paese posto nel cuore dei Nebrodi 226 Scheletrizzare o mummificare Fig. 14 – Novara di Sicilia (ME), Chiesa Madre, colatoio orizzontale a 800 m s.l.m. Una piccola cripta è posizionata centralmente sotto il presbiterio della chiesa di S. Maria Assunta. Si tratta di un ambiente a pianta rettangolare, dotato d’altare; nei perimetrali sono ricavate dodici nicchie verticali. Dieci casse lignee, contenenti altrettanti individui, sono posizionate su mensole metalliche che sporgono dalle pareti, coprendo e rendendo inutilizzabili le edicole, originariamente destinate ad accogliere corpi mummificati in posa stante (Fig. 15). Le iniziali presenti sui fianchi delle casse, realizzate con piccoli chiodi dalla testa rotonda, testimoniano l’appartenenza dei defunti a un’unica famiglia25. La sistemazione di questa cripta è emblematica di un cambiamento: vi si nota una stratificazione tra caratteristiche architettoniche residuali e un nuovo utilizzo che fa a meno dell’e227 Antonio Fornaciari sposizione continuata dei cadaveri, ora racchiusi entro “tabbuti”. La tipologia delle casse, così come le guarnizioni e le decorazioni in stoffa rimandano alla seconda metà dell’Ottocento. Tutto il complesso funerario segna un momento di passaggio che precede l’espulsione definitiva delle sepolture dalla chiesa, ma in cui è già in atto una modifica sostanziale dell’ambiente ipogeo, ridotto a semplice cappella funeraria, senza più quella funzione espositiva che ne aveva determinato la costruzione e l’organizzazione degli spazi interni. Strutture espositive simili a quelle descritte sono riscontrabili in numerosi conventi cappuccini siciliani, a cominciare da quello celebre di Palermo, dove si conservano gli apparati per la scolatura orizzontale dei corpi, e non sono destinate solamente a religiosi ma anche Fig. 15 – Galati Mamertino (ME), Chiesa Madre, cripta 228 Scheletrizzare o mummificare a laici appartenenti alla classe media e medio alta, spesso generosi benefattori dei conventi stessi. Proprio il convento palermitano sembra essere, dal punto di vista della documentazione esistente, la più antica istituzione conventuale ad aver praticato la mummificazione, come dimostrerebbe tra l’altro una mummia risalente al 159926. Nella stessa Palermo numerose istituzioni confraternali utilizzavano tra XVIII e XIX secolo la scolatura orizzontale e l’esposizione su soppalchi dei corpi mummificati dei confrati27. Conclusioni La mummificazione o la scheletrizzazione, ottenute con il metodo della scolatura, erano il frutto di una comune concezione della morte che aveva come obiettivo di risolvere il momento incerto del cambiamento, quella fase liminale tanto temuta dai viventi in cui il corpo del defunto subiva una trasformazione irreversibile. Nel caso della mummificazione il problema era risolto bloccando il processo di degrado, e la fase liminale era circoscritta al periodo della giacitura sul colatoio orizzontale, a cui seguiva la reintegrazione con l’esposizione del corpo. Nell’altro caso il processo era più lungo, poteva attraversare diversi stadi in cui il corpo era sottoposto a successive fasi di colatura, ma terminava invariabilmente sui colatoi a seduta e con la scheletrizzazione. Una volta privato della parte putrescibile, il defunto era stabilizzato e per così dire neutralizzato. Dal punto di vista geografico, sempre sulla base delle attestazioni materiali e di alcune fonti documentarie, mentre la mummificazione risulta essere stata praticata soprattutto in Sicilia e sporadicamente in alcuni altri centri dell’Italia meridionale28, la scolatura sui sedili appare massicciamente diffusa in tutto il meridione d’Italia, ed addirittura in alcune aree del nord della penisola29. Una ricerca effettuata per redigere una prima mappatura delle strutture esistenti, per quanto necessariamente parziale, ha permesso già di censire oltre una sessantina di siti, restituendoci l’immagine di una pratica tutt’altro che inconsue229 Antonio Fornaciari ta30. Inoltre, mentre si può ritenere che il processo di mummificazione sia stato, per così dire, messo a punto dall’ordine dei cappuccini verso la fine del XVI secolo31, e solo in un secondo momento si sia esteso ad altre componenti del clero siciliano e ad alcune organizzazioni confraternali32, le origini della pratica della colatura su sedili sono molto più evanescenti33. Nel XVII-XVIII secolo, periodo al quale risale la documentazione materiale dei colatoi a seduta, ormai il processo funerario si mostra ben caratterizzato e definito nei suoi vari elementi. Possiamo quindi ipotizzare la sua esistenza prima del ‘600, ma non siamo in grado, almeno per il momento ed in base ai dati in nostro possesso, di definirne una precisa cronologia iniziale o di conoscerne i mutamenti e l’evoluzione materiale nel corso del tempo34, mentre è piuttosto evidente che la fine della pratica, almeno negli ambienti più conservativi, vada collocata nella seconda metà del XIX secolo. Due aspetti restano ancora da rilevare e da esaminare, peraltro strettamente legati: la dimensione comunitaria, esaltata dai sepolcri comuni, e la valenza di privilegio che un trattamento del genere comportava. In effetti, a parte alcuni sepolcri destinati ad un uso “familiare”, la maggior parte degli ipogei apparteneva a confraternite laicali o era pertinente a conventi (o istituzioni monastiche). La dimensione comunitaria dell’associazionismo religioso secolare andava di pari passo con la forza di privilegio emanata da istituzioni che godevano di notevole prestigio tra la popolazione. Le confraternite, fossero create con precise finalità assistenziali, fossero associazioni puramente devozionali o di mestiere, formavano di per sé un elemento di distinzione all’interno del più vasto corpo sociale paesano o cittadino; la disciplina comune della morte, attuata attraverso i sepolcri collettivi, aveva pure lo scopo di rimarcare questa differenziazione dal resto della comunità. Stesso valore di distinzione acquisivano i sepolcri di frati e suore, il cui stile di vita comunitario aveva continuità nella pratica funeraria con l’utilizzo di un unico sepolcro comune. A questa scelta non erano probabilmente 230 Scheletrizzare o mummificare estranee le suggestioni che derivavano da un sentimento religioso di cui restano abbondanti testimonianze nella letteratura devozionale del tempo35. E’ inoltre necessario rimarcare come la pratica funeraria dei sepolcri comuni dotati di colatoi a sedile non fosse appannaggio di un ordine religioso particolare, ma venisse usata indiscriminatamente da tutte le congregazioni con la sola importante eccezione dei cappuccini, vero e proprio ordine di frati mummificatori. Gli esempi materiali descritti in questo lavoro evidenziano che le pratiche di scolatura dei corpi erano connotate come trattamenti privilegiati ed elitari. Abbiamo cercato di quantificare statisticamente, sulla base di un campione geograficamente omogeneo di cinquanta siti siciliani, le varie istituzioni religiose o para-religiose che ebbero in uso queste due forme di manipolazione dei cadaveri (Fig. 16). Il dato che emerge suggerisce una gerarchia che sembra collocare la scheletrizzazione sui colatoi a seduta ad un livello leggermente inferiore rispetto alla mummificazione sui colatoi orizzontali. Le confraternite (ad eccezione forse di quelle palermitane) così come le comunità conventuali, specialmente femminili, preferiscono la scolatura sui sedili, mentre il clero sacerdotale ed i frati cappuccini, veri specialisti nella mummificazione ed abituati ad offrire i loro servizi ai ricchi benefattori dell’ordine, privilegiano invece l’altro tipo di trattamento che realizza la conservazione del corpo. Hertz stesso ci ha suggerito le coordinate per inquadrare all’interno del fenomeno della doppia sepoltura il significato dei processi di tanatometamorfosi36 seguiti nei colatoi. Egli, sempre nel suo saggio/contributo sulle rappresentazioni collettive della morte, assimila scarnificazione e mummificazione ed addirittura riconduce la cremazione allo stesso modello teorico, sostenendo che “l’imbalsamazione ha specificatamente la funzione di evitare la corruzione delle carni e la trasformazione del corpo in scheletro; e così la cremazione impedisce l’alterazione spontanea del cadavere riducendolo, tramite una rapida distruzione, in cenere. A nostro parere tali modi di seppelli231 Antonio Fornaciari mento artificiale non differiscono nella sostanza da quelle forme di sepoltura provvisoria già esaminate”37. Mummificazione e cremazione avrebbero cioè lo scopo di limitare, controllare o accelerare il processo di trasformazione del cadavere che costituisce il momento più pericoloso della fase liminale. Jane Buikstra e Gordon Rakita, alla luce di analisi sul significato della mummificazione e della cremazione presso popolazioni precolombiane del sud e del nord America, muovono una critica a queste considerazioni Hertziane così totalizzanti, sostenendo che sarebbe invece opportuno considerare la mummificazione e la cremazione come “eccezioni alla regola”38. In particolare questi studiosi vedono nella mummificazione qualche cosa di non immediatamente assimilabile ad un processo volto alla stabilizzazione del defunto nella dimensione ultraterrena, ma vi scorgono la volontà di bloccare il processo di trasmutazione dell’estinto fissandolo in una posizione intermedia e liminare. Mentre la scheletrizzazione segnerebbe quindi per il defunto il passaggio ad un’altra dimensione, la mummia permetterebbe il mantenimento dell’individuo deceduto a metà percorso. Una sorta di perenne oggetto di soglia, la cui funzione sarebbe quella di legittimare status e potere dei sopravvissuti. In questo senso una pratica che garantirebbe la conservazione dei ruoli sociali, non il loro dissolvimento e la ricostituzione dopo il periodo del lutto, ma la possibilità di fermare, insieme alla decomposizione della carne, anche il mutamento determinato dalla morte dell’individuo. In questa chiave potremmo vedere nella mummificazione l’esplicitarsi di una volontà conservatrice. Il cadavere mummificato esposto manterrebbe una sua identità sociale e simbolica, mentre lo scheletro terminerebbe la fase finale della doppia sepoltura nel riassorbimento collettivo dell’ossario. Resta comunque il fatto notevole che nel meridione d’Italia si siano conservate queste pratiche di manipolazione dei corpi inserite all’interno di una cornice religiosa ufficiale, addirittura fino all’elaborazione di ambienti strutturali complessi adibiti a tale scopo. La 232 Scheletrizzare o mummificare Fig. 16 – Percentuali di distribuzione delle due forme di trattamento dei corpi tra le istituzioni religiose siciliane sulla base di un campione di cinquanta siti conservazione all’interno del mondo cattolico, nonostante gli indirizzi post tridentini, di spazi concessi a pratiche rituali strettamente connesse alla seconda sepoltura, se da un lato possiamo postulare sia stata velata da significati altri: meditazione sulla morte, pratiche ascetiche monastiche, collettivizzazione dello spazio funebre in funzione del gruppo religioso e sociale, dall’altro dimostra quanto la chiesa controriformata sia scesa a patti con istanze arcaiche estremamente persistenti. In Sicilia, ed in altre aree del Sud, la nascita dei cimiteri pubblici suburbani ha segnato la fine di queste strutture ecclesiastiche, per quanto, come è possibile constatare ancora oggi nel mondo napoletano, molte pratiche abbiano seguito lo spostamento dei cadaveri e continuino ad accompagnare, in sacche di resistenza popolare, il periodo prolungato del lutto familiare nei moderni camposanti39. 233 Antonio Fornaciari Bibliografia e note Si riprendono in questo articolo alcune riflessioni e alcuni dati frutto delle ricerche condotte da Francesco Pezzini, Valentina Giuffra e dal sottoscritto, che hanno trovato già pubblicazione nei seguenti contributi: Pezzini F., Doppie esequie e scolatura dei corpi. Med. Secoli 2006; 18/3: 897-924. Fornaciari A., Giuffra V., La mummificazione nella Sicilia della tarda Età Moderna. Med. Secoli 2006; 18/3: 925-942. Fornaciari A., Giuffra V., Pezzini F., Processi di tanatometamorfosi: pratiche di scolatura dei corpi e mummificazione nel regno delle Due Sicilie. Arch. PostMed. 2007; 11: 11-49. Fornaciari A., Giuffra V., Pezzini F., Momification y descarnacion en la Italia meridional de la Edad Moderna tardia. VI World Congress on Mummy Studies, Lanzarote 19-24 February 2007, Santa Cruz de Tenerife 2008, pp. 537-543. Fornaciari A., Giuffra V., Pezzini F., Secondary burial and mummification practices in the Kingdom of the Two Sicilies. Mortality 2010; 15/ 3: 223-249. 1. Hertz R., Contribution à l’étude sur la représentation collective de la mort. Année Sociologique 1907; 10: 48-137. 2. Huntington R., Metcalf P., Celebrazioni della morte. Bologna, Il Mulino, 1985 (1979), p. 71. 3. A questo proposito ha fatto scuola l’altro fondamentale celebre saggio di Hertz Sulla preminenza della mano destra del 1909. Prosperi A., Cristianesimo e religioni primitive nell’opera di Robert Hertz. In: Hertz R., La preminenza della destra e altri saggi. Torino, Einaudi, 1994. 4. Hubert H., Mauss M., Essai sur la nature et la fonction du sacrifice. Année Sociologique 1899; 2: 29-138. Huntington R., Metcalf P., op. nota 2, pp. 68-69. 5. Prosperi A., Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari. Torino, Einaudi, 1996, pp. 661-662. Pezzini F., Doppie esequie e scolatura dei corpi. Med. Secoli 2006; 18/3: 897-924. 6. Van Gennep A., Les Rites de passage. Paris, 1909. (trad. it. I riti di passaggio. Torino, Boringhieri, 1981). 7. Hertz R., La preminenza della destra e altri saggi. Torino, Einaudi, 1994, pp. 133-134. 8. Ginzburg C., Chiarivari, associazioni giovanili, caccia selvaggia. Quaderni Storici 1982, 49: 164-177. Fornaciari A., Giuffra V., Pezzini 234 Scheletrizzare o mummificare 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. F., Processi di tanatometamorfosi: pratiche di scolatura dei corpi e mummificazione nel regno delle Due Sicilie. Arch. PostMed. 2007; 11: 11-49. Pezzini F. op. cit. nota 5, pp. 904-905; Fornaciari A., Giuffra V., Pezzini F., op. cit. nota 8, p. 14. Gasparini E., Sulla forma della “doppia sepoltura” presso gli slavi meridionali. Slovenski etnograf 1955; 8: 225-230. Danforth L. M., The death rituals of rural Greece. Princeton University Press 1982. Thomas L. V., Le cadavre. De la biologie à l’anthropologie. Bruxelles, 1980; Pardo I., L’elaborazione del lutto in un quartiere tradizionale di Napoli. Rassegna italiana di Sociologia 1982, 4: 335-369. Fornaciari A., Giuffra V., Pezzini F., op. cit. nota 8, p. 15. Galante G.A., Guida Sacra della città di Napoli. Napoli 1985, p. 309. Si propone questa lettura dell’epigrafe: “Qui pose la radice benedetta dei Greco il (proprio) sepolcro, se qui l’ara del cielo è vicina anche il paradiso è imminente 1722”. Santa Maria dell’Aracoeli è effettivamente la titolazione della chiesa in cui si trova il sepolcro. Bruno O. (a cura di), Istoria antica e moderna della città di S. Marco di Antonino Meli. Ms. (sec. XVIII) della Biblioteca dell’Assemblea Regionale Siciliana. Messina 1991. Per la conoscenza, l’esplorazione e la documentazione di questo sito è stato fondamentale l’aiuto prestatomi da Marielva Torino, che colgo qui l’occasione per ringraziare. Imparato G., La vita religiosa nella costa di Amalfi. Monasteri, conventi e confraternite. Salerno, 1981. Traduzione “A Dio Ottimo Massimo. Francesco Antonio e Giuseppe Ricca dopo aver innalzato il monastero per le sacre vergini, e il tempio di quiete, prepararono anche questo luogo affinché lo stesso sepolcro accogliesse le ossa di coloro le cui anime da vive aveva accomunato la carità e la disciplina claustrale. Gli eredi Anno del Signore 1724”. L’insistita immagine della contemplazione di un corpo in disfacimento e la descrizione delle varie fasi del degrado sono temi che ricorrono con frequenza nell’opera di Alfonso Maria de’ Liguori, in particolare nel secondo paragrafo (punto II) della considerazione “Ritratto d’un uomo da poco tempo passato all’altra vita” del suo “Apparecchio alla morte”, di cui riporto questo breve ma efficace frammento: “…Mira come quel cadavere prima diventa giallo e poi nero. Dopo si fa vedere su tutto il corpo una lanugine bianca e schifosa. Indi scaturisce un marciume viscoso e puzzolente, che cola per terra. In quella marcia si genera poi una gran turba di vermi, che si nutriscono delle 235 Antonio Fornaciari 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 28. stesse carni. S’aggiungono i topi a far pasto su quel corpo, altri girando da fuori, altri entrando nella bocca e nelle viscere. Cadono a pezzi le guance, le labbra e i capelli; le coste son le prime a spolparsi, poi le braccia e le gambe. I vermi dopo aversi consumato tutte le carni, si consumano da loro stessi; e finalmente di quel corpo non resta che un fetente scheletro, che col tempo si divide, separandosi l’ossa, e cadendo il capo dal busto…”. E’ difficile sottrarsi alla suggestione che Alfonso, mentre scriveva questo passo, non avesse in mente un ambiente simile al sepolcro di Pucara; lo proverebbero il riferimento al liquido della putrefazione “…che cola per terra…” e la menzione della caduta delle ossa e del cranio. Alcuni saggi di scavo, praticati ai piedi dei pilastri che sorreggono la volta a crociera, mostrano come il livello pavimentale in fase con la costruzione del XVI secolo si situasse circa 25-30 cm sotto la pavimentazione settecentesca. Si tratta del “Libro della Nuova Sepoltura dei Preti fondata nella Matrice Chiesa di Piraino l’anno del Signore 1771 per opera e diligenza del preg. mo Signor Arciprete Abbate D.D. Giovanni Antonio Maria Scalenza”, conservato nell’Archivio della Chiesa Madre di Piraino. Si ringrazia Don Salvatore Miracola, parroco di San Marco D’Alunzio, per la segnalazione del documento. La possibilità di accedere al sepolcro era riservata ai sacerdoti, diaconi e suddiaconi che avevano partecipato alle spese per l’edificazione della sepoltura. Per i sacerdoti che in futuro vorranno godere dello stesso diritto è prescritto di celebrare o far celebrare sette messe “…per le anime di tutti quei singoli preti che fecero de proprio le spese per detta nuova sepoltura…”. Mancuso N. P., Una storia per Piraino. Messina, 2002, p. 77. I corpi datati dalle iscrizioni risalgono al 1872, 1872 e 1873. E’ inoltre presente una mummia deposta all’interno di una cassa lignea posizionata di fronte all’altare e datata da un epigrafe al 1868. “Il corpo che vedi appartiene al sacerdote Mariano Fontana, di anni 50 e giorni 30, che lasciò la vita il sesto giorno delle Calende di Gennaio 1872.” Secondo la testimonianza del parroco di Galati, Giuseppe Pichilli, la famiglia a cui apparterrebbero le inumazioni è quella dei Marchiolo. Aufderheide A. C., The scientific study of mummies. Cambridge, 2002, p. 195. Rocca L., Raia E., Palermo. Luoghi del sottosuolo. Palermo, Edizioni Scientific Books, 2006. Ad esempio in Puglia nel convento dei cappuccini di Oria (BR), ed a Napoli, vero centro addensatore di molteplici costumi funebri. Fornaciari A., Giuffra V., Pezzini F., op. cit. nota 8, p. 21. 236 Scheletrizzare o mummificare 29. Nell’Italia padana siamo a conoscenza dell’esistenza di strutture funerarie con colatoio a sedile a Milano, rinvenute recentemente durante i lavori d’ampliamento dell’Archivio di Stato ed appartenenti all’ex convento di S. Primo, che risalirebbero alla prima metà del XVII secolo. Ancora a Milano esiste un altro ambiente con colatoi a seduta nei sotterranei del santuario arcivescovile di San Bernardino alle Ossa. In Valtellina strutture simili sono presenti a Ponte e a Mazzo. In Piemonte, a Valenza Po (AL), nella chiesa della SS. Annunziata, già chiesa del convento di S.Agostino, si trova un sepolcro settecentesco destinato alle suore di clausura con le medesime caratteristiche ed infine, sempre in Piemonte, un sepolcro rispondente alla stessa tipologia è attestato a Novara, nei sotterranei del tribunale di Palazzo Fossati, già convento di monache. 30. La grande diffusione che la pratica funeraria aveva nel mondo napoletano è testimoniata dell’espressione popolare partenopea “puozze sculà!”, dal trasparente significato malaugurale. Sorge M., A murì e a pavà…ovvero la “morte” nei detti napoletani. Napoli 2001, p. 74. 31. Cfr. op. cit. nota 26. 32. La pratica di mummificare su colatoi orizzontali è particolarmente diffusa tra le confraternite palermitane. Forte in questo caso deve essere stata l’influenza diretta del modello offerto dal grande Convento dei Cappuccini di Palermo. 33. Pratiche di “seconda sepoltura” con riesumazione e pulitura delle ossa sono già attestate in un sinodo diocesano messinese del 1588 che proibisce nel capitolo “De non exhumandis cadaveribus” di “… a sepulturis fidelium cadavera extruere, exenterare, dilacerare, et vestes eorum exuere, ac acquis immersa ignibus saepe exponere decoquenda”. Corrain C., Zampin P. L., Documento etnografici e folkloristici nei sinodi diocesani. Rovigo 1967, p. 31. 34. Strutture funerarie che hanno qualche consonanza con i nostri sedili-colatoio sono le cosiddette tombe “a caditoio” o “a colatoio” – come vengono anche chiamate –, diffuse in Puglia ed in Lucania nel XV-XVI secolo. Si tratta di strutture rettangolari profonde 1-1,5 m spartite in due settori sovrapposti da un setto discontinuo di lastre litiche. Il corpo del defunto era adagiato sopra le lastre, lì avveniva la putrefazione e la scheletrizzazione del corpo; al momento di una nuova inumazione i resti scheletrizzati erano lasciati cadere nella parte inferiore della tomba. Si tratta di strutture a carattere privilegiato, solitamente all’interno delle chiese e destinate ad accogliere più individui. Il loro uso sembra però rispondere essenzialmente ad esigenze pratiche di ottimizzazione dello spazio, più che essere il frutto di una ritualizzazione complessa, anche se spesso i confini tra esigenze pratiche e ritualità sono sfumati 237 Antonio Fornaciari 35. 36. 37. 38. 39. e non facilmente distinguibili. Un interessante lavoro di Fabbri su questa tipologia di tombe, prodotto dallo scavo accurato di tre strutture sepolcrali a Roca Vecchia (Melendugno, LE), ne spiega e rivela il preciso funzionamento sulla base dell’osservazione accurata della dislocazione delle ossa all’interno del deposito stratigrafico interno. Fabbri F., Sepolture primarie, secondarie e ossari: esempi dal cimitero medievale di Roca Vecchia (Lecce). Rivista di Antropologia 2001; 79: 113-136. Mi riferisco in particolare agli scritti del già citato Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787). Cfr. op. cit. nota 18. Il termine “tanatometamòrfosi” è stato proposto da Adriano Favole e Francesco Remotti per indicare la trasformazione intenzionale dei cadaveri messa in pratica dalle società umane. Favole A., Resti di Umanità. Vita sociale del corpo dopo la morte. Laterza 2003. Remotti F., Tanato-metamòrfosi. In: Remotti F. (a cura di), Morte e Trasformazione dei Corpi. Milano, Mondadori, 2006, pp. 1-34. Hertz R., op. cit. nota 7, p. 65. Rakita G.F.M., Buikstra J. E., Corrupting Flesh. Reexamining Hertz’s Perspective on Mummification and Cremation. In: Interacting with the Dead. Gordon F. M Rakita, Jane E. Buikstra, Lane A. Beck and Sloan R. Williams (edited by), Perspectives on Mortuary Archaeology for the New Millenium. University Press of Florida 2005, pp. 97-106. Pardo I., L’elaborazione del lutto in un quartiere tradizionale di Napoli. Rassegna italiana di Sociologia 1982, 4: 335-369. Correspondence should be addressed to: Antonio Fornaciari, via Dell’Aquila 8, 55049 Torre del Lago Puccini (LU), I. e-mail: [email protected] 238 MEDICINA NEI SECOLI ARTE E SCIENZA, 25/1 (2013) 239-250 Journal of History of Medicine Articoli/Articles LE MUMMIE EGIZIE COME MANUFATTI ANTROPOLOGICI Giovanni Bergamini Soprintendenza ai Beni Archeologici del Piemonte e del Museo Egizio di Torino, Torino, I. SUMMARY EGYPTIAN MUMMIES AS ANTHROPOLOGICAL ARTIFACTS Ancient human remains like Egyptian mummified bodies cannot be considered on a physical anthropological perspective only. So severe and invasive were the operations on the body, so various were the materials involved in the preservation techniques, so complicated was the embalming and wrapping procedure according to specific rituals, that the final result, the mummy, is to be considered a highly composite product. The human remains are a relevant part of it indeed, but a very wide set of information can be taken also from the other components, relating to environment, resources, technology, religious beliefs, cultural and technical traditions, skills and arts at the time of the individual’s life. That a plain anthropological approach could not be exhaustive on cataloguing such a kind of archaeological finds emerged during the sessions of the scientific board charged by the Italian ICCD of defining a data track for filing anthropological remains as a special kind of cultural heritage. Quando, agli inizi degli anni 2000, l’ICCD decise di redigere il tracciato per una nuova scheda AT- Reperti Antropologici, chiamò a collaborare – tra le altre istituzioni – anche l’allora Soprintendenza Speciale al Museo delle Antichità Egizie di Torino. Questo non soltanto per via dell’attività già svolta1 e in corso2 da parte dell’istituzione torinese nell’ambito della conservazione e della diagnostica Key words: mummies - anthropology - ICCD 239 Giovanni Bergamini sui reperti mummificati, umani ed animali, ma anche perché la collezione del Museo Egizio poteva costituire un banco di prova ottimale per una nuova sperimentazione catalografica nel settore. Chi scrive era all’epoca responsabile dell’Ufficio Catalogo della Soprintendenza, e fu designato a far parte del gruppo di lavoro che avrebbe redatto il nuovo tracciato e la normativa di compilazione della scheda3. Tra antropologia e archeologia Gli orientamenti iniziali del gruppo di lavoro – suggeriti soprattutto dai colleghi antropologi, naturali promotori dell’iniziativa di concerto con l’ICCD – prevedevano un tipo di scheda, corredata da osservazioni tafonomiche di base, in cui il bene antropologico doveva essere descritto secondo variabili riconducibili in massima parte ai principi dell’antropologia fisica. L’interesse prevalente era quello di creare una base dati in cui avessero particolare rilievo le informazioni derivate da ricerche paleopatologiche e fisiche sulle popolazioni antiche. Eventuali più complesse relazioni con il contesto archeologico dovevano essere espresse tramite i classici riferimenti (verticali e orizzontali, ROV e ROZ) già presenti in altri tracciati delle schede ICCD. Questo tipo di approccio era comunque condiviso dai colleghi delle Soprintendenze sul territorio, in quanto risultava pienamente funzionale a una schedatura di beni antropologici afferenti al territorio italiano, anche di provenienza di scavo. Tuttavia, man mano che il gruppo di lavoro procedeva nella disamina delle varie problematiche e nella definizione delle variabili descrittive, il metodo non si rivelò totalmente adeguato ed esaustivo, soprattutto nel caso di situazioni documentarie particolari e più complesse. Le mummie egizie: oltre l’antropologia fisica I reperti antropologici mummificati artificialmente, soprattutto quelli egizi, rappresentano una vera e propria borderline, in cui man mano 240 Le mummie egizie come manufatti antropologici che si procede all’analisi delle informazioni e alla loro descrizione risulta sempre più difficile distinguere in modo netto tra dato antropologico e dato archeologico. In un’ottica prettamente catalografica, ci troviamo in realtà di fronte a una tipologia di beni simile a quella che le norme ICCD in ambito artistico (OA) e archeologico (RA) definiscono “oggetti complessi”. Si tratta di veri e propri manufatti a sé stanti e in sé conclusi, in cui il resto umano non è che uno dei materiali componenti il prodotto finito. Nei “normali” contesti dell’archeologia funeraria molto di ciò che può essere documentato circa la manipolazione post-mortem sembra limitarsi in genere al tipo di posizionamento del corpo all’atto dell’inumazione, costituendo così uno dei principali marcatori tafonomici. Gli interventi sugli inumati nel mondo egizio sono invece ben più variati e consistenti; alcuni di essi sono fortemente invasivi e distruttivi, e tutti seguono modalità di volta in volta diverse, che a loro volta rispecchiano ritualità e tecniche evolutesi nei secoli4. Il bene antropologico diventa a sua volta un prodotto culturale composito, ben identificabile e tracciabile nel proprio orizzonte storico. I contesti: oltre il corredo Mentre nell’ambito di una situazione tafonomica consueta ai contesti territoriali italiani un trattamento dei dati distinto tra reperto antropologico e corredo archeologico non nuoce di massima alla generale comprensione dell’insieme, in contesti egizi è problematico definire un preciso confine concettuale tra le due categorie documentarie, e di conseguenza è più difficile attuare una esatta correlazione tra classi di informazioni che nel caso risultano invece non contigue ma strettamente interconnesse tra loro. Data la particolare natura composita del manufatto-mummia, che cosa s’intende per ciò che normalmente verrebbe definito abbigliamento del defunto, e corredo funerario? Qual è il confine tra tali differenti realtà documentarie? 241 Giovanni Bergamini Per esempio, non vi è dubbio che il complesso sistema di fasciatura con bende di lino non può essere ovviamente assimilato a tutto ciò che è riconducibile al termine abbigliamento in altri contesti. Nulla a che vedere con ciò che il defunto poteva aver indossato in vita, anche come simbolo di rango o di funzione sociale. La finalità -esclusivamente antisettica- della fasciatura risponde a istanze del tutto diverse, e attiene strettamente alla preparazione del corpo. La stessa eventuale presenza di piccoli oggetti tra le bende o perfino a diretto contatto della salma – per esempio l’occhio ujat poggiato di norma sull’incisione addominale, oppure il noto “scarabeo del cuore” frequente a partire dalla XVIII dinastia – attiene all’aspetto più strettamente magico-rituale di un procedimento conservativo assai complesso, nell’ambito di una pratica in sé conclusa ma soprattutto separata dal rito, susseguente, della sepoltura. Quest’ultima prevede invece l’apposizione di ciò che nella prassi catalografica abituale può essere definito correttamente come il corredo vero e proprio. Il fatto che gli egittologi odierni siano sempre più restii a consentire la sfasciatura delle mummie, prassi che talvolta è stata seguita ancora nel secolo scorso5, non è dovuto soltanto alla disponibilità di nuove tecnologie che permettono indagini non invasive impensabili sino a pochi decenni fa, ma anche alla consapevolezza che la mummia dev’essere conservata nella sua integrità in quanto manufatto complesso, polimaterico e polimorfico. Il tracciato della scheda Proprio per tutte queste ragioni, nella redazione del tracciato catalografico si è fatto in modo di tenere organicamente correlate le serie di informazioni relative al complesso procedimento di preparazione e manipolazione. Come si può vedere dall’estratto dal tracciato della scheda ICCD che segue, è stato previsto un percorso informativo particolare per quanto attiene ai reperti mummificati/imbalsamati: il campo “preparazione”, e i sottocampi “manipolazione”, “inter242 Le mummie egizie come manufatti antropologici venti”, “fasciatura”, “elementi di corredo individuati nell’analisi antropologica”, tutti ripetitivi, permettono infatti di rendere immediatamente evidenti al redattore e al fruitore della scheda una serie di informazioni di tipo archeologico che, nel caso, potranno essere approfondite tramite la redazione di apposite scheda RA, ma che rimangono richiamate in tali paragrafi in modo non dispersivo. Dal tracciato ICCD: DA NIA DATI ANALITICI NUMERO INDIVIDUI ATTESTATI NIAN Numero DES DESO DRS NSC DRZ SRC DESCRIZIONE Descrizione analitica Sintesi interpretativa Notizie storico-critiche Specifiche sulle relazioni REPERTI COMBUSTI/ PARZIALMENTE COMBUSTI NIAC SRCN SRCP SRCC SRCS SRM SRMT SRMC SRMS Lung 10 Criteri Stato dei frammenti 1000 5000 5000 5000 5000 Rip Obbl. * (*) (*) * * 10 Peso Cromatismo dominante Specifiche REPERTI MUMMIFICATI/ IMBALSAMATI Tipo di conservazione 20 250 1000 50 Specifiche 1000 Contesto ambientale conservativo si 250 si STS STIMA DEL SESSO Sesso 20 (*) STSC SEM SEME SEMC Criteri STIMA DELL’ETÀ ALLA MORTE Età Criteri 1000 (*) 10 1000 (*) (*) STSS Voc 243 si Giovanni Bergamini PR PREPARAZIONE PRME PRMP PRMN PRR Elemento Posizione Note Apposizione oggetti rituali a contatto 100 100 5000 5000 PRIP PRIT PRIS PRIN Posizione Tipo intervento Specifiche Note PRA PRT Trattamenti anomali Trattamenti cosmetici 100 100 5000 5000 1000 1000 1000 PRM PRI PRP PRF PRFP PRFT PRFL PRFA PRFI PRFM PRFC PRFN PRO PROD PROP PROS PRON MANIPOLAZIONE INTERVENTI Trattamenti parti esterne FASCIATURA Posizione Tipo Lunghezza Larghezza Inclusi Disposizione Condizioni di conservazione Note ELEMENTI DI CORREDO INDIVIDUATI NELL’ANALISI ANTROPOLOGICA Definizione Posizione Specifiche Note 100 100 10 10 150 100 1000 5000 si si si si si si si si si si si si 100 100 1000 5000 La preparazione Non a caso, nella normativa per la compilazione della scheda è specificato che “la puntuale descrizione delle procedure di preparazione è fondamentale per l’inquadramento storico-culturale del bene”. Come già accennato, tecniche e modalità di preparazione nell’antico Egitto variano di epoca in epoca, secondo quanto sarà 244 Le mummie egizie come manufatti antropologici descritto dai brevi cenni che seguono. Ovviamente, varianti ed eccezioni alle consuetudini dominanti nel singolo periodo sono ampiamente contemplate, e dipendono da situazioni locali e specificità culturali e sociali. Il posizionamento Per quanto concerne il posizionamento del corpo, la giacitura rannicchiata, già attestata in epoca predinastica, si mantiene di norma fino alla fine dell’Antico Regno e perdura, soprattutto in zone periferiche, sino al Primo periodo intermedio. Con l’avvento del Nuovo Regno prevale il decubito dorsale che si manterrà sino ad età greco-romana, con varianti nella posizione delle braccia e delle mani: fino alla XVIII dinastia prevalentemente lungo i fianchi, palmi verso l’interno, per gli inumati femminili, incrociate sul pube per quelli maschili. A partire dalla XVIII dinastia, fino alla XX s’impone la tradizionale posizione osiriaca, che per ambo i sessi prevede braccia incrociate sul petto, con mani presso le spalle. Dalla XXI dinastia si ritorna alla tradizione precedente6. Interventi distruttivi, ricostruttivi, conservativi, cosmetici La XVIII dinastia (quella, gloriosa, dei Thutmosidi e degli Amenofi, della prima metà del II millennio a.C.) si rivela innovativa anche in questo settore: l’ablazione dell’encefalo tramite sfondamento della lamina cribrosa dell’etmoide, rottura della lamina perpendicolare etmoidea e smembramento del tentorio cerebellare, diventa ormai la norma. L’operazione ha uno scopo assolutamente pratico: il cervello non era ritenuto organo vitale, era però tassativo estrarlo per accelerare la disidratazione del capo, ma avendo cura di mantenere il più possibile inalterata la fisionomia dell’individuo; la cavità cranica viene talvolta riempita con frustuli di lino. La prima mummia regale trattata a questo modo è quella di Ahmose I, non a caso il primo regnante della dinastia. 245 Giovanni Bergamini In questa stessa epoca, probabilmente grazie allo sviluppo di strumenti chirurgici più sofisticati7, all’incisione sul lato sinistro dell’addome si va sostituendo quella inguinale, attraverso la quale si riesce ora ad estrarre gli organi interni e, tramite il taglio del diaframma, i polmoni e i grossi vasi. L’organo cardiaco viene disidratato e mummificato separatamente per poi essere ricollocato nella cavità toracica. I vasi canopi, rappresentanti i quattro figli di Horus (simbolo di vita e di protezione divina), custodiscono gli altri organi ablati: il fegato (Amset), i polmoni (Hapi), lo stomaco (Duamutef) e gli altri visceri (Kebehsenuef). Soltanto a partire dalla fine del II millennio tali organi, sottoposti a trattamento analogo a quello del cuore, cominciarono ad esser ricollocati nella cavità toracica e addominale; nei tempi tardi, cioè nel pieno I millennio a.C., secondo nuove varianti del rituale funerario, poterono anche essere accostati agli arti inferiori, tra le bende della prima e la seconda fasciatura. Al termine del lungo procedimento di disidratazione, condotto probabilmente a secco con natron8, una miscela naturale di sali di carbonato, bicarbonato, cloruro e solfato di sodio, s’imponevano interventi di parziale reidratazione dei tessuti, effettuati con olii vegetali e animali, e resine9; il trattamento delle cavità prevedeva, tra l’altro, anche l’inoculazione di sostanze viscose calde nel cranio, oltre al riempimento di torace e addome con materiali vari, tessili e vegetali10, per ricostituire le originarie volumetrie. Gli stessi materiali furono spesso usati per ridare dignità morfologica a fianchi, seni, glutei e altre parti anatomiche. In alcuni casi, per le stesse ragioni e sempre a partire dalla XVIII dinastia, furono inserite tamponature di natron sotto la cute nel caso di un’eccessiva riduzione delle masse muscolari degli arti (Amenhotep II): la pratica ebbe seguito poi nelle dinastie XXI-XXII. Tra gli interventi integrativi più curiosi si segnala l’apposizione di bulbi di Allium cepa nelle cavità orbitali della mummia di Ramesse IV, al posto degli usuali dischi di faïence11: il fatto che sezioni di tuniche di Allium cepa fossero inserite anche nelle cavità 246 Le mummie egizie come manufatti antropologici nasali è pertinente probabilmente alla conoscenza delle particolari proprietà chimiche e organolettiche di questo bulbo. Tra i trattamenti più specificatamente cosmetici, era frequente la colorazione di viso e mani con ocra rossa per i maschi, gialla per le femmine. L’henné (un pigmento fulvo-brunastro estratto dalle foglie disseccate di Lawsonia inermis), come in vita, era applicato ai capelli; infine, molte mummie regali e di dignitari presentano unghie ricoperte di vernice dorata. Tali trattamenti estetici sono in qualche modo assimilabili a ciò che normalmente attiene alla volontà di conferire all’individuo l’aspetto e la dignità che lo contrassegnava in vita. Ma la complessa operazione di preparazione del corpo, dettata da regole molto precise, giunte fino a noi in redazione scritta su alcuni papiri12, può comprendere oggetti rituali specifici dell’imbalsamazione, come particolari tipi di amuleti apposti tra le bende, e insieme elementi dell’abbigliamento come anelli, bracciali, collane o pettorali, simili a quelli rappresentati nelle arti figurative, e che erano indossati in vita. Questa ulteriore frammistione di elementi di diversa origine e funzione non fa che accentuare il carattere composito di questa particolare classe di beni culturali. La confezione della mummia, dal Nuovo Regno in poi, si concludeva, dopo l’ultima fasciatura, con la sistemazione della “corazza magica”, la classica reticella di tubuli in faïence e pasta vitrea, in funzione apotropaica, e della maschera funeraria, quando prevista13. Conclusioni Il corpo, chimicamente sterilizzato e sacralmente purificato, era ormai pronto per il viaggio verso l’eterno; uno o più sarcofagi avrebbero difeso ulteriormente la sua integrità, mentre il corredo di oggetti, cibi e bevande ne avrebbe reso possibile la vita oltre la morte. Ma ciò che l’Egitto avrebbe consegnato alla nostra memoria e alla nostra scienza non sarebbe stato solo un mero reperto antropologico, ma un autentico microcosmo che comprende non soltanto l’indivi247 Giovanni Bergamini duo inumato, le sue caratteristiche fisiche, le sue eventuali patologie, il suo ruolo sociale, ma anche l’ambiente naturale, le risorse, le tecniche di produzione, le concezioni magico-religiose, le tradizioni e il gusto del tempo in cui visse. In sostanza, uno straordinario insieme di dati da correlare tra loro in un organico contesto catalografico, ineludibile punto di partenza per ricerche interdisciplinari, finalizzate ad una conoscenza sempre più approfondita di questo particolare “oggetto complesso”, che si rivela un vero e proprio spaccato del mondo in cui ha vissuto e che l’ha prodotto. Bibliografia e note Abbreviazioni egittologiche: ASAE Annales du Service des Antiquités de l’Égypte, Le Caire. BIFAO Bulletin de l’Institut Français d’Archéologie Orientale, Le Caire. JEA Journal of Egyptian Archaeology, London. JNES Journal of Near Eastern Studies, Chicago. SAE Service des Antiquités de l’Égypte, Le Caire. 1. Cfr. DELORENZI E., GRILLETTO R., Le Mummie del Museo Egizio di Torino, N. 13001-13026: Indagine antropo-radiologica. Catalogo Museo Egizio di Torino, II Serie, n.60, Milano, La Goliardica, 1989. FULCHERI E., BOANO R., GRILLETTO R., SAVOIA D., LEOSPO E., RABINO MASSA, E., The preservation status of ancient egyptian mummified remains estimated by histological analysis. Paleopathology Newsletter 1999; 108: 8-12. 2. FULCHERI E., BOANO R., GRILLETTO R., FERRARI L., LEOSPO E., DONADONI ROVERI A.M., RABINO MASSA E., Ancient Egyptian Mummies: Histological Examinations to Assess the Presence of Contaminants or Pollutants. In: Lynnerup N. (Ed.), Proceedings of the IV World Mummy Congress. Greenland, Greenland National Museum and Archives and Danish Polar Centre: 89-91; CESARANI F, MARTINA M.C, FERRARIS A, GRILLETTO R, BOANO R., DONADONI ROVERI A. M., GANDINI G., Three dimensional volume rendering with a multislice computed tomography of mummified human remains from the Egyptian Museum of Torino (Italy). 248 Le mummie egizie come manufatti antropologici 3. 4. 5. 6. 7. 8. In: Lynnerup N., Andreasen C., Berglund J. (a cura di), Mummies in a new millennium. Proceedings of the 4th World Congress on Mummy Studies. Copenhagen, Greenland National Museum and Archives and Danish Polar Center 2003; 89-92; CESARANI F., MARTINA MC., FERRARIS A., GRILLETTO R., BOANO R., FIORE MAROCCHETTI E., DONADONI A.M., GANDINI G., Whole-body three-dimensional multidetector CT of 13 Egyptian human mummies. American Journal of Roentgenology 2003; 180: 597-606; GANDINI G., BOANO R., CAPUSSOTTO V., CELIA M., CESARANI F., DONADONI ROVERI A.M., FERRARIS A., GIULIANO A., GRILLETTO R., MARTINA M.C., TAPPERO C., Analisi tomografica computerizzata delle mummie del Museo Egizio di Torino. Giornale della Accademia di Medicina di Torino 2003; CLXVI: 215–221; Boano R., Grilletto R., Donadoni Roveri A.M., Rabino Massa E., Fulcheri E., Le mummie del Museo Egizio di Torino: indagini diagnostiche preliminari sullo stato di conservazione. Museologia Scientifica 2008; 3: 107–111. Scheda AT: reperti antropologici. Files: ICCD_Normativa AT 3.01_01.pdf ; AT_Schema della struttura dei dati.doc, scaricabili da www.iccd.beniculturali.it/index.php?it/251/beni-archeologici. Derry D.E., Methods Practised at Different Periods. ASAE 1941; 41: 240269. Harris J. E., Weeks K.R., X-Raying the Pharaohs. London, Macdonald, 1973. Harris J. E., WENTE E.F., An X-Ray Atlas of the Royal Mummies. 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David A.R., Organic Materials: Mummification. In: Nicholson P.T., Shaw I. (Ed.), Ancient Egyptian Materials and Technology. Cambridge, University press, 2000: 372-389. 10. Baumann B., The Botanical Aspects of Ancient Egyptian Embalming and Burial. Economic Botany 1960; 14:84-104. 11. Gray P.H.K., Artificial Eyes in Mummies. JEA 1971; 58: 125-126. 12. Reymond e.A.E., Catalogue of Demotic Papyri in the Ashmolean Museum, 1: Embalmers’ Archive from Hawara. Oxford, University press, 1973. Sauneron S., Rituel de l’Embaumement: Pap. Boulaq III, Pap. Louvre 5.158. Cairo, SAE, 1952. 13. Ikram S., Dodson A., The Mummy in Ancient Egypt: Equipping the Dead for Eternity. Cairo, The American University in Cairo Press, 1998. Correspondence should be addressed to: Giovanni Bergamini, [email protected] 250 MEDICINA NEI SECOLI ARTE E SCIENZA, 25/1 (2013) 251-266 Journal of History of Medicine Articoli/Articles I reperti umani antichi nei musei: ricerca, conservazione e comunicazione. Le esperienze del Museo di Antropologia ed Etnografia dell’Università di Torino. Rosa Boano°, Renato Grilletto*, Emma Rabino Massa° * °Università di Torino, Dipartimento di Scienza della Vita e Biologia dei Sistemi. Laboratorio di Antropologia, Torino, I. * Museo di Antropologia ed Etnografia, Università di Torino, Torino, I. Summary HUMAN REMAINS IN MUSEUMS: RESEARCH, PRESERVATION AND COMMUNICATION. THE EXPERIENCE OF TURIN UNIVERSITY MUSEUM OF ANTHROPOLOGY AND ETNOGRAPHY The creation of large scientific collections has been an important development for anthropological and paleopathological research. Indeed the biological collections are irreplaceable reference systems for the biological reconstruction of past population. They also assume the important role of anthropological archives and, in the global description of man, permit the integration of historical data with those from bio-anthropolgical research. Thinking about the role of mummies and bones as scientific resources, best practice of preservation of ancient specimens should be of high priority for institution and researchers. By way of example, the authors mention their experience regarding ancient human remains preserved in the Museum of Anthropology and Ethnography at the University of Turin. Key words: Paleopathology - Human remains - Museum collection 251 Rosa Boano et al. I reperti umani antichi nei Musei: Archivio Antropologico e Beni Culturali In antropologia fisica la diffusione del concetto di “collezione” si colloca tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, quando Johan Friedric Blumenbach (1753-1840), medico e naturalista tedesco, autore di importanti testi che segnarono lo sviluppo dell’antropologia naturalistica, fu tra i primi a raccogliere dati antropometrici e morfologici del cranio per classificare l’umanità. Per giungere alla formulazione di considerazioni generali, occorreva studiare raccolte di grandi dimensioni e, tra esse, quelle craniologiche occupavano un posto di primaria importanza; per più di un secolo, il cervello, sede del pensiero, ed il cranio, suo contenitore, furono gli “oggetti” privilegiati per l’analisi scientifica dell’uomo e per lo studio comparativo dei diversi gruppi etnici, che all’epoca venivano spesso suddivisi in categorie gerarchiche. Negli anni si sono accumulati numerosi reperti antropologici provenienti dalle dissezioni anatomiche eseguite soprattutto sui cadaveri non reclamati di individui che morivano presso strutture ospedaliere o penali (malati mentali, suicidi, carcerati). Risalgono ai primi decenni dell’Ottocento importanti collezioni craniologiche come quelle allestite da Franz Joseph Gall (1758-1828), medico austriaco pioniere della frenologia, da Samuel George Morton (1799-1851) professore di anatomia americano, noto soprattutto per gli studi di craniometria e da Paul Broca (1824-1880), medico e antropologo francese1. Tra gli esempi italiani, vogliamo citare la collezione craniologica di Cesare Lombroso (1835-1909), custodita presso l’omonimo Museo dell’Università di Torino, messa insieme nella seconda metà dell’Ottocento; Lombroso, medico dedito agli studi di antropologia criminale, nelle sue ricerche affrontò argomenti delicati, ancora oggi oggetto di dibattito, come l’eugenetica, il razzismo, la malattia mentale, il concetto di devianza2. Continuando con i riferimenti torinesi, il Museo 252 I reperti umani antichi nei musei di Antropologia ed Etnografia custodisce un’interessante collezione cranio-cerebrologica di alienati mentali raccolta tra il XIX e il XX secolo da Antonio Marro (1840-1913), medico psichiatra, e Giovanni Marro (1875-1952), medico psichiatra ed antropologo, fondatore e primo direttore del Museo. In particolare, Giovanni Marro, direttore del Laboratorio neuro-patologico e di quello anatomico del Regio Manicomio di Torino, libero docente di clinica psichiatrica nella Regia Università, Senatore del Regno per meriti accademici, compì numerosi studi psichiatrici su individui affetti dalle varie forme di alienazione mentale dei quali conservò il cranio e, in alcuni casi, l’encefalo. Le problematiche proposte dal Marro rivestono ancora oggi caratteri di attualità, anche se poste in maniera differente. Queste raccolte selettive rispecchiano l’interesse e le competenze scientifiche dei loro collezionisti e non di rado il contesto ideologico del periodo di appartenenza legava molti scienziati a presupposti che inducevano ad una visione degli aspetti antropologici diversa da quella che oggi consideriamo corretta. Agli inizi del Novecento, viene ulteriormente sviluppato il collezionismo di reperti secondo modelli di raccolta sistematica, consentendo, così, studi più approfonditi grazie alla maggiore completezza del materiale. Appartengono a questo periodo le grandi collezioni, soprattutto americane, costituite da migliaia di scheletri completi la cui importanza risiede non solo nella quantità dei reperti ma anche nella qualità e nella tipologia della documentazione associata: i dati anagrafici completi dell’individuo, le informazioni mediche ante mortem, le analisi cliniche, i dati provenienti dall’autopsia, i trattamenti subìti durante la preparazione delle ossa. Dall’analisi di questo materiale si sono dedotti i principi scientifici oggi alla base dei metodi utilizzati dagli antropologi forensi per l’identificazione di scheletri sconosciuti. Tra queste collezioni ricordiamo quelle che ancora oggi sono un riferimento negli studi antropologici come la collezione di Carl August Hamann e T. Wingate Todd, quella di Robert J. Terry. 253 Rosa Boano et al. Sotto la spinta di questi rinnovati interessi verso l’osservazione, la misura, la statistica, la demografia, lo studio delle malattie e del rapporto con l’ambiente, le raccolte disseminate negli Istituti e Laboratori scientifici vengono rese disponibili in strutture attrezzate per la loro conservazione e fruizione. A seguito di queste premesse si afferma e si sviluppa sempre di più l’interesse verso i reperti umani antichi e le collezioni archeologiche. In questo periodo, sotto la direzione del Prof. Giovanni Marro, il Museo di Antropologia ed Etnografia di Torino si arricchisce di collezioni antropologiche complete provenienti da diversi contesti archeologici, in particolare, dall’Egitto. Nel 1912, su richiesta dell’egittologo Ernesto Schiaparelli (1856-1928), Marro si unisce alla Missione Archeologica Italiana in Egitto. La sua partecipazione agli scavi si inserisce bene in una nuova concezione dell’antropologia, che si basa sia sul concetto di “serie” sia sulla relazione tra l’uomo e il suo ambiente. E’ dunque in questa nuova prospettiva di classificazione dell’antica popolazione egiziana ma anche con l’intento di interpretarne la variabilità fisica, che Marro ha intrapreso l’opera di raccolta di scheletri completi: le misure dei distretti ossei non rappresentano più elementi di classificazione ma diventano buoni indicatori dei processi di adattamento. Egli riuscì a mettere insieme una cospicua collezione di resti umani scheletrici e mummificati, realizzando diversi studi antropologici che lo portarono a comparare le popolazioni egiziane antiche con le attuali, non solo relativamente alla sfera morfologica ma anche a quella etnologica e comportamentale. Sulla base di questa esperienza, nella seconda metà del Novecento, nasce a Torino una scuola di antropologia e paleopatologia in grado di richiamare studiosi di fama internazionale. La possibilità di analizzare reperti umani antichi eccezionalmente ben conservati negli aspetti strutturali, ultrastrutturali, genetici e molecolari, ha reso possibile la messa in opera di un ampio programma di ricerche antropologiche, paleobiologiche e paleopatologiche che indirizzarono la scuola 254 I reperti umani antichi nei musei torinese verso gli studi sulla biologia delle popolazioni antiche, con particolare interesse per gli egiziani antichi. Nel 1969 a Torino venne organizzato il primo Simposio Internazionale “Population biology of the ancient Egyptian”3. Nel 1978 il ruolo importante della scuola torinese è ulteriormente sottolineato dall’organizzazione del II Simposio della European Paleopathological Association4. In questi anni furono avviati diversi progetti di ricerca internazionali che aumentarono il valore storico e scientifico della collezione ed incentivarono lo sviluppo delle discipline correlate. Le raccolte anatomiche ed archeologiche realizzate tra l’Ottocento ed il Novecento nascono, quindi, come insostituibili strumenti di didattica e di ricerca che hanno contribuito, nel corso degli anni, a stimolare il dialogo interculturale sul tema dell’uomo, la sua natura, il suo adattamento. Non di rado esse rappresentano il nucleo storico attorno al quale si sono organizzati i gabinetti scientifici, gli Istituti e i musei universitari dell’epoca. Grazie a queste collezioni, alcune materie come l’osteologia umana, l’antropologia forense e la paleopatologia, hanno avuto grandi opportunità di crescita e di affermazione nell’ambito delle più tradizionali discipline scientifiche. Ormai da diversi decenni, i resti biologici umani antichi sono a tutti gli effetti considerati archivio biologico di informazioni indispensabili ai fini dello studio “naturalistico” dell’uomo; essi non esprimono solo un’eredità del passato da custodire e mostrare ma rappresentano un elemento chiave per il presente e il futuro della ricerca antropologica e paleopatologica, ora sempre più indirizzata allo studio delle popolazioni in senso diacronico. A partire dal 2004 le collezioni scientifiche, tra cui anche quelle di interesse antropologico come le collezioni anatomiche, paleontologiche ed etnografiche, hanno assunto il ruolo di “Beni Culturali” e le istituzioni consegnatarie, in virtù del loro mandato di custodi delle collezioni, hanno obblighi di tutela regolamentati dal Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (Decreto Legislativo 22 gennaio 255 Rosa Boano et al. 2004, n.42), anche noto come “Codice Urbani”. Il documento contiene indicazioni specifiche su temi di legislazione, gestione, ricerca, fruizione e salvaguardia delle raccolte. Il Codice dei Beni Culturali costituisce, quindi, un autorevole strumento atto alla tutela e alla valorizzazione dei reperti e dei Musei che li custodiscono. Nel 2005, in sintonia con le indicazioni fornite dagli standard minimi di funzionamento e di sviluppo dei musei della Regione Piemonte, il Museo di Antropologia ed Etnografia ha attivato il Laboratorio per la “Gestione dell’Archivio Antropologico” le cui attività hanno lo scopo di coordinare, facilitare e condurre la ricerca scientifica e le operazioni di conservazione e tutela sui reperti museali e sulle raccolte osteologiche provenienti da recenti scavi archeologici piemontesi, qui in deposito. Ricerca, conservazione e comunicazione L’introduzione del Codice dei Beni Culturali, preceduta nel 2002 dall’emanazione dall’ “Atto di indirizzo sui criteri tecnico-scientifici e sugli standard minimi di funzionamento e di sviluppo dei musei”, ha diffuso una maggiore considerazione e presa di coscienza nei confronti del valore intrinseco ed estrinseco delle collezioni antropologiche. Nella prospettiva di una più ampia e articolata visione di tutela del bene antropologico, il Museo di Antropologia ed Etnografia, come molti musei scientifici, opera in tre principali ambiti: ricerca, conservazione e comunicazione. La ricerca Si è detto come l’arrivo della raccolta antropologica egizia a Torino abbia fornito un’opportunità di affermazione per la Paleopatologia torinese. La disciplina si stava diffondendo proprio in questi primi anni del Novecento grazie agli studi di Sir Marc Armand Ruffer (18591917) medico inglese che partecipò anch’egli a campagne di scavo in Egitto. A lui si deve l’idea di dimostrare le malattie del passato, un 256 I reperti umani antichi nei musei concetto rigorosamente da anatomo-patologo, perché è proprio nella necessità di documentare aspetti morfologici e dimostrare la natura patologica che consiste l’essenza del procedimento diagnostico5. Con gli stessi intenti, Marro, fin da subito mise in atto un programma di studi paleobiologici e a lui si devono le prime descrizioni mediche, antropologiche e paleopatologiche sulla collezione6. Nell’arco di circa quarant’anni di ricerca sui reperti antichi, Marro passa dall’esame descrittivo e documentaristico del singolo individuo ad uno studio dinamico dell’evoluzione delle malattie nella popolazione, precorrendo le tematiche che saranno proprie della Paleopatologia delle seconda metà del Novecento7. Nel tempo, infatti, gli studi paleopatologici assumono sempre più una caratteristica di multidisciplinarietà dove l’interesse medico-antropologico si sposta dal caso studio descritto sul singolo individuo alla malattia, alla sua evoluzione nel tempo, al suo rapporto con la popolazione e con l’ambiente8. L’ottimo stato di conservazione del materiale biologico e la presenza oltre alle ossa anche di tessuti mummificati naturalmente ed imbalsamati9,10, ha dato avvio ad una serie di indagini istologiche che permisero non solo di identificare gli elementi figurati del sangue e giungere alla caratterizzazione dei diversi gruppi sanguigni11,12, ma anche di effettuare lo studio della biochimica delle globine, contribuendo a risolvere il problema della presenza o meno di emoglobinopatie, del tipo di quelle responsabili della talassemia e della falcemia, presso le antiche popolazioni egiziane13. La presenza di tessuti con caratteristiche strutturali ben conservate, motivò ulteriori studi istologici che portarono, tra l’altro, all’identificazione di patologie degenerative come l’arteriosclerosi14 . Alle indagini microscopiche e molecolari si sono da sempre affiancati studi più tradizionali di antropologia, antropometria e patologia con particolare attenzione verso le malformazioni congenite e le patologie dello sviluppo, tematiche di grande rilevanza sociale che necessitano di un archivio di dati biologici per essere comprese pie257 Rosa Boano et al. namente15,16,17,18,19. Oggi, la ricerca paleopatologica utilizza sofisticate strumentazioni diagnostiche non invasive, come la tomografia computerizzata, che garantiscono l’accesso a numerosi dati biologici20,21,22,23, in passato acquisibili solo tramite autopsie distruttive. Questa nuova tendenza dimostra come stia diventando sempre più importante un approccio “etico” allo studio dei reperti antichi che tenga in considerazione prima di tutto l’integrità del reperto poiché nessun risultato scientifico può compensare la perdita di un unicum biologico. Attualmente, le aree di investigazione e di intervento sulle collezioni del museo di Antropologia ed Etnografia sono molto varie e contemplano aspetti di tutela e conservazione, indagini bio-naturalistiche e approfondimenti storico-culturali. Sempre più frequentemente, secondo una più moderna concezione di Museo, ciascun reperto viene studiato e conservato come parte di un complesso inscindibile di Beni Culturali rappresentato anche dai documenti associati (manoscritti, carteggi, cartelle mediche, fondi archivistici, fotografici e librari), dagli strumenti utilizzati per l’attività di studio e di didattica, dagli arredi e quant’altro possa contribuire a contestualizzare le raccolte in ambito non solo scientifico ma anche storico24. Pertanto, in questa tendenza generalizzata volta a valorizzare l’”oggetto” unitamente al suo contesto, il significato culturale offerto dai reperti antropologici va oltre ai dati strettamente bio-naturalistici per includere anche nozioni di storia della disciplina e dei personaggi, informazioni relative all’evoluzione delle tecniche di raccolta e conservazione, di ricerca e di archiviazione, per giungere ad interessanti intersezioni con la storia e la politica locale, in una visione più estesa ed inclusiva del sapere scientifico ed umanistico. La conservazione Le collezioni museali oltre a rappresentare un archivio biologico unico per le informazioni contenute, conservano anche campioni di 258 I reperti umani antichi nei musei notevole valore storico, che attualmente sono impossibili da ricostituire. L’indagine di questi reperti può risultare molto importante soprattutto se condotta con i metodi e le tecniche di ricerca più innovative come quelli dell’antropologia molecolare. Ciò ha evidenziato la necessità di tener conto di nuove esigenze di conservazione in grado di garantire il mantenimento delle caratteristiche biologiche. In questa prospettiva, e in considerazione delle eccezionali possibilità di studio offerte dalla collezione egizia, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, il Museo di Antropologia ed Etnografia ha avviato un programma di ricerca volto alla valutazione dello stato di conservazione delle mummie e allo studio degli aspetti di degrado che possono presentarsi in ambito museale. Lo scopo finale è quello di giungere a una pianificata e programmata gestione del reperto che preveda processi primari, per rilevare e valutare le caratteristiche biologiche, e processi secondari, che mirino a mettere in atto sistemi di tutela per l’adeguata conservazione nel tempo. I processi primari prevedono valutazioni macroscopiche e microscopiche delle superfici esposte, la realizzazione di eventuali biopsie, minimamente invasive, in punti di frattura preesistenti, indagini istologiche e microbiologiche atte a verificare non solo la presenza e l’estensione di eventuali contaminazioni da parte di colonie fungine o batteriche ma anche la vitalità delle stesse, oltre alla presenza di particolato atmosferico e altri elementi inquinanti25, 26, 27, 28. Lo studio puntuale di agenti infestanti assume poi un significato rilevante per la scelta di appropriati interventi secondari sui reperti o sull’ambiente confinato. Per quanto riguarda gli interventi sui reperti, ricordiamo l’idonea pulitura delle superfici, la disinfestazione e il consolidamento, in relazione alle singole necessità, alle caratteristiche biologiche del reperto, alle esigenze espositive e di ricerca. Per gli interventi sull’ambiente confinato è bene ricordare l’uso di adeguate coperture a protezione dalle polveri e dai raggi ultravioletti (dall’impiego di fogli di carta velina alla collocazione del reperto all’interno di teche 259 Rosa Boano et al. e armadi idonei) e la predisposizione di impianti di condizionamento dell’aria per il controllo della temperatura e dell’umidità29. La definizione di protocolli operativi per la verifica delle attività di conservazione del “bene antropologico” nel Museo può rappresentare un requisito di garanzia e promozione della qualità della ricerca oltre che uno strumento di auto-valutazione utilizzabile per strutturare e gestire al meglio le risorse. La comunicazione Negli anni, i musei scientifici sono passati da luoghi di conservazione e celebrazione della scienza e del progresso a strutture con un ruolo sociale, intese a promuovere la comunicazione tra scienza e società, attraverso una divulgazione coinvolgente, critica e storicamente neutrale. Oggi, essi rappresentano luoghi privilegiati sia per la diffusione della cultura scientifica agli specialisti e al pubblico e sia per la promozione del rispetto e della comprensione tra le differenti culture. In questa prospettiva di dialogo vogliamo qui soffermarci brevemente sul tema particolarmente sensibile dell’esposizione dei corpi nei Musei, argomento in grado di scatenare tra il pubblico reazioni molto diverse come la paura, la repulsione o l’attrazione. Come già detto precedentemente, il reperto umano antico, se correttamente indagato, è portatore di informazioni molto utili per capire la natura biologica e culturale dell’Uomo; queste conoscenze, trasmesse con messaggi oggettivi e rispettosi del corpo e della memoria dell’individuo, possono diventare un elemento peculiare della moderna comunicazione museale. La letteratura fornisce alcuni esempi sui criteri più idonei per un’esposizione eticamente corretta dei reperti umani nei musei. L’elemento caratterizzante è rappresentato dal fatto che non esiste la scelta giusta ma esistono tante soluzioni in rapporto al tipo di reperto e al luogo di esposizione. Si può decidere di coprire completamente i corpi o di mostrare solo alcune parti (cranio, mani, piedi); si può creare una separazione, più o meno netta, tra il corpo e il pubblico (utilizzo di teche o barriere); 260 I reperti umani antichi nei musei possono essere realizzati spazi idonei ad accogliere i reperti secondo modalità che richiamano aspetti di sacralità (spazi ristretti, uso della penombra, invito al raccoglimento, assenza di testi scritti) ma anche di purificazione e/o sterilizzazione, quasi a ricordare i luoghi ospedalieri e di ricerca (ambienti ampi, uso ragionato dell’illuminazione, disposizione regolare dei corpi). Infine, molti musei scelgono di “accompagnare” i reperti, soprattutto quelli mummificati, con immagini di diagnostica medica come le radiografie o più frequentemente le tomografie computerizzate, presentando il reperto come un “soggetto” e non un oggetto museale. Far vedere al pubblico l’uso di metodiche di studio non distruttive lo rassicura sul fatto che la scienza non è “invasiva” e che gli scienziati hanno rispetto dei corpi e della morte30; contestualmente, le immagini radiologiche, così familiari per molti di noi, sono in grado di fornire quel “distacco emotivo” che rende accettabili visioni a volte difficili da sopportare: esse possono quindi contribuire a far avvicinare il pubblico al reperto umano senza che esso venga temuto o, peggio ancora, considerato un diverso o un estraneo da temere. Conclusioni A partire dal XVIII secolo musei e altre istituzioni di ricerca raccolgono, mostrano e studiano i reperti umani antichi. Ancora oggi essi sono oggetto di analisi multidisciplinare in cui l’archeologia, la storia, la biologia, le scienze naturali, le scienze mediche e forensi, collaborano per affrontare problematiche molto complesse quali la variabilità, la microevoluzione, i meccanismi di adattamento ambientale, la patocenosi. Recentemente, studi in campo istochimico, immunoistochimico e biomolecolare hanno dato ulteriore dimostrazione delle molteplici possibilità di analisi dei reperti in ambito paleogenetico. In ultimo, la diagnostica per immagini ha aperto un nuovo settore di studio rappresentato dalle “autopsie virtuali” che permettono esplorazioni dettagliate dei corpi antichi senza arrecare il minimo danno al reperto. 261 Rosa Boano et al. Da queste premesse si evince che i resti umani hanno un inestimabile valore scientifico e che le nostre conoscenze sul passato possono venire continuamente riconsiderate alla luce delle nuove tecniche di indagine applicate allo studio dei resti fisici. Tuttavia, affinché i reperti umani continuino ad essere una risorsa scientifica per la comunità, essi richiedono una considerazione “speciale” nella fase dello studio in laboratorio, di deposito nei magazzini e di esposizione nei musei. In questa prospettiva di rivalorizzazione delle collezioni antropologiche, i musei di antropologia oltre a rivestire il ruolo di enti preposti alla salvaguardia e alla tutela dell’archivio antropologico devono assumere una funzione più dinamica diventando sedi di studio, di divulgazione culturale e luoghi preposti alla raccolta dei reperti provenienti dal territorio. Se le collezioni antropologiche rappresentano uno stimolo per la ricerca scientifica e per lo sviluppo di un dialogo tra gli scienziati e il pubblico è altrettanto vero che è l’interesse dei ricercatori e dei visitatori che contribuisce a mantenere viva l’attività di studio e di conservazione dei reperti umani. Bibliografia e note 1. QUIGLEY C., Skulls and skeletons. Human bone collections and accumulations. Jefferson, North Carolina, McFarland & Company Publishers, 2001. 2. GIACOBINI G., CILLI C., MALERBA G., Il riallestimento del Museo di Antropologia criminale “Cesare Lombroso” dell’Università di Torino. Patrimonio in beni culturali e strumento di educazione museale. Museol. Sci. 2010; 4,1-2: 137-147. 3. BROTHWELL D., CHIARELLI B. (edit by), Population biology of the ancient Egyptian. Atti del I Simposio Internazionale, Londra, London Academic Press, 1973. 4. CHIARELLI B., RABINO MASSA E., Antropologia Contemporanea. Atti del II European Congress Paleopathological Association 1980; Vol. 3, n.1. 5. FULCHERI E., Su alcune ricerche di Giuseppe Bini: esempi di percorsi culturali tra anatomia patologica e storia. Pathologica 2001; 93: 244-247. 262 I reperti umani antichi nei musei 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. BOANO R., La scuola di paleopatologia di Torino: dall’istologia dei tessuti mummificati al monitoraggio e alla conservazione programmata delle mummie del Museo Egizio e del Museo di antropologia. Med. Secoli 2006; 18/3: 831-842. RABINO MASSA E., La collezione egiziana “G. Marro”: pubblicazioni scientifiche. Cd-rom. Parigi, Comedia, 2004. FULCHERI E., Paleopatologia: un percorso culturale tra medicina e Archeologia. Quaderni del Civico Museo del Finale 1997; 3:11-13. RABINO MASSA E., SACERDOTE M., REPETTI P., CHIARELLI B., Dati istologici sulla conservazione della cartilagine auricolare di mummie egiziane. Boll. Soc. It Biol. Sper. 1967; XLIII, 20: 1332- 1333. CHIARELLI B., RABINO MASSA E., La conservazione dei tessuti nelle mummie egiziane. Rivista di Antropologia 1967; LIV: 3-6. CHIARELLI B., RABINO MASSA E., Conservazione dei globuli in tessuti di mummie egiziane. Arch. Antropol. Etnol. 1967; XCVIII: 181-182 . 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C., BOANO R., GRILLETTO R., D’AMICONE E., VENTURI C., CARDENAS-ARROYO F., GANDINI G., MDCT study of gallbladder stones of a wrapped egyptian mummy from the egyptian Museum of Torino (Italy). Radiografics 2009; 24 (4): 1191-4. 23. PEDRINI L., CORTESE V., CESARANI F., MARTINA M.C., FERRARIS A., GRILLETTO R., BOANO R., BIANUCCI R., EVERSHED R.P, CLARK K.A., RAMSEY C., HIGHAM T., GANDINI G. RABINO MASSA E., The “Mummy in the dress” of the Museum of Anthropology and Ethnography of the University of Turin. J.Biol.Res. 2005; 80: 55-58. 24. GIACOBINI G., 150 anni di museologia scientifica in Italia: uno sguardo ai musei universitari. Museol. Sci. 2010; 4, 1-2: 7:23. 25. FULCHERI E., BARACCHINI P., DORO GARETTO T., PASTORINO A., RABINO MASSA E., Le mummie dell’antico Egitto custodite nei musei italiani. Stima preliminare dell’entità del patrimonio museologico e considerazioni sul problema della conservazione di esse. Museol. Sci. 1994; XI (1-2): 1-11. 26. FULCHERI E., BOANO R., GRILLETTO R., SAVOIA D., LEOSPO E., RABINO MASSA E., The preservation status of ancient egyptian mummified remains estimated by histological analysis. Paleopathology Newsletter 1999; 108: 8-12. 27. BOANO R., FULCHERI E., GRILLETTO R., LEOSPO E. E RABINO MASSA E., Histological analysis and staining techniques modified and verified on ancient mummified tissues to study microorganism infestations. J. Biol. Res. 1999; 7-8, LXXV: 39-45. 28. BOANO R.,GRILLETTO R.,DONADONI ROVERI A.M., RABINO MASSA E., FULCHERI E., Le mummie del Museo Egizio di Torino: indagini diagnostiche preliminari sullo stato di conservazione. Museol. Sci. 2008; 3:107-111 29. BOANO R., ROSANA S., MERLO F., FORTUGNO C., SEMERARO M., FULCHERI E., RABINO MASSA E., Nuove prospettive per il mantenimento e la conservazione dei reperti osteologici. Atti del XVI Congresso 264 I reperti umani antichi nei musei degli Antropologi Italiani. Cd rom. Milano, Edicolors Publishing, 2006, pp. 201-210 30. GOODNOW K., Bodies: taking account of viewers’ perspectives. In: LOHMAN J., GOODNOW K.(eds), Human remains and museum practice. Barcelona, Sagraphic 2006: 123-130. Correspondence should be addressed to: Rosa Boano, Università degli Studi di Torino, Dipartimento di Scienza della Vita e Biologia dei Sistemi. Laboratorio di Antropologia. Via Accademia Albertina 13, 10123 Torino [email protected] 265 MEDICINA NEI SECOLI ARTE E SCIENZA, 25/1 (2013) 267-294 Journal of History of Medicine Articoli/Articles LA RICERCA MEDICA ATTRAVERSO LA RICERCA STORICA: MOSTRI E MOSTRUOSITÀ. DI UNA MOSTRUOSITÀ PARASSITARIA FELICEMENTE RISOLTA CON OPERAZIONE CHIRURGICA Laura Ottini*, Annarita Franza^, Piera Rizzolo* Mario Falchetti*, Raffaella Santi^, Gabriella Nesi^ * Department of Molecular Medicine, “Sapienza” University of Rome, Rome, I ^ Division of Pathological Anatomy, University of Florence; Florence, I SUMMARY MEDICAL RESEARCH THROUGH HISTORICAL RESOURCES. TALKING OBJECTS: A CASE OF A PARASITIC PERINEAL MONSTROSITY A case of a parasitic perineal monstrosity from the collection of the Pathology Museum of the University of Florence, is described on the basis of the original medical records and illustrations. The surgeon Giorgio Pellizzari (1814-1894) first reported this extraordinary case of sacrococcygeal teratoma containing a rudimentary inferior limb. Reader of Descriptive Anatomy, Pellizzari was a well-known Anatomy Dissector and Curator of the Physiological Museum of the Regio Arcispedale di Santa Maria Nuova in Florence. This report underlines the importance of studying the archive material in order to thoroughly comprehend a single museum talking object. This handling of matters will help to turn anatomical collections into a unique teaching tool for modern medical practice and a noteworthy documentation of scientific, artistic and historical value. Through analysis of the original catalogue and investigation by means of modern scientific techniques, discovering the story behind the object becomes a feasible challenge. Key words: Paleopathology - Pathological anatomy – Teratology - Historical collections 267 Laura Ottini et al. I “mostri” tra mito e storia nell’antica Grecia Le anomalie corporee hanno sempre destato l’ammirazione degli uomini, fornendo materia a intendimenti diversi. Nella tradizione greca la comparsa dei mostri viene per lo più interpretata come un evento nefasto. Il kosmos greco, infatti, esprime l’ordine dell’universo come bello e perfetto nello stesso tempo. Analogamente, l’idea del bello è inscindibilmente connessa con l’idea del buono (kalòs kagathòs)1. In quest’ottica meglio si comprende la consuetudine spartana di gettare dalla rupe i neonati imperfetti, usanza che si riscontra anche in molte società primitive e che sarà perpetrata fino al XVII secolo2. Oltre ai mostri mitologici ed alle creature deformi, i Greci ne annoverano molte altre alle quali attribuiscono una reale esistenza nelle regioni dell’India e nelle meravigliose terre d’Oriente. Tra il V ed il IV secolo, Ctesia di Cnido, medico alla corte del re di Persia Artaserse Memnone, compone una Storia dell’India, ad oggi quasi interamente perduta. Ciò nonostante nei frammenti pervenutici si ritrovano le descrizioni di popoli mostruosi come i pigmei che combattono contro le gru; gli sciapodi, che possiedono un unico grande piede che permette loro sia di ripararsi dai raggi del sole sia di saltellare agilmente (altri autori, successori di Ctesia, li considerano Etiopi); i cinocefali, uomini semi-ferini dalla testa di cane che abbaiano invece di parlare ed infine gli uomini senza testa con occhi posti sulle spalle, naso e bocca sul petto (di essi ancora parlerà un compagno di Magellano, sulle orme dello spagnolo Pomponio Mela, identificandoli con i Blemmyes dell’Alto Egitto)3. A dispetto del maggior rigore e precisione sul piano geografico nella Storia dell’India di Megastene le credenze già attestate da Ctesia si ritrovano nelle descrizioni di individui mostruosi con i piedi rivolti verso la schiena (antipodi) oppure privi della bocca (astomi)4. 268 La ricerca medica attraverso la ricerca storica I “mostri” di Aristotele Nel 326 a.C. la conquista dell’India da parte di Alessandro Magno contribuisce a fare chiarezza sulla fantasmagoria di creature portentose che ivi dimora. Nelle cronache degli storici a seguito della spedizione, infatti, si descrivono con precisione tanto gli ambienti naturali quanto le popolazioni che in questi abitano. Dalle campagne d’Oriente, Aristotele commissiona l’invio di un gran numero di animali presentanti anomalie strutturali per studiarne l’eziologia da un punto di vista anatomico5. Questo approccio “scientifico” al problema dei mostri riecheggerà in modo manifesto nel XVIII secolo nelle opere di naturalisti del calibro di Georges-Louis Leclerc de Buffon (17071788)6. Come Empedocle, Democrito ed Ippocrate, anche Aristotele considera gli individui mostruosi alla stregua di fenomeni perfettamente naturali, la cui generazione è risolvibile all’interno di una teoria biologica ed embriologica che vede nel seme maschile la capacità di imprimere la forma del nascituro, deputando al corpo femminile l’esclusivo apporto della materia per la crescita e lo sviluppo del feto. Le creature mostruose vengono, quindi, dallo Stagirita suddivise in tre categorie: i mostri per difetto (focomelici etc.) generati per scarsità della semenza al momento del concepimento; i mostri per eccesso (bicefali etc.) originati da una sovrabbondanza di seme ed i mostri per ibridazione, esseri bigeneri nati dall’unione di animali di specie diversa, ma simili per dimensione e tempi di gestazione7. I “mostri” nell’epoca romana Le credenze degli antichi autori greci vengono riproposte nella nascente letteratura latina8. Oltre alla Naturalis Historia di Plinio il Vecchio9 è d’obbligo ricordare la Collectanea rerum memorabilium di Gaio Giulio Solino, scrittore romano vissuto fra la prima metà e la fine del III secolo, dove i mostri vengono descritti come creature mitologiche, bizzarre e curiose10. Le stesse leggende si riscontrano, 269 Laura Ottini et al. fino al V secolo d. C., nelle opere di Ambrogio Teodosio Macrobio (390-430) e Marciano Cappella11. Nella tarda epoca romana le storie meravigliose sulla generazione delle creature mostruose si conciliano con le interpretazioni cristiane. A questo riguardo è interessante la speculazione sull’origine dei mostri proposta da S. Agostino (354-430) il quale, muovendo da istanze schiettamente teologiche più che naturalistiche, attesta la naturalità dell’evento mostruoso all’interno dell’imperscrutabilità del disegno divino12. Le generazioni mostruose divengono quindi corollario per un quesito di ben più ampio respiro: unde Malum? Se in campo teologico, secondo l’Autore, non esiste il male, ma solo il peccato dell’uomo, la nascita dei monstra non deve essere interpretata come un evento contra naturam, bensì come una manifestazione particolare della Creazione e della Volontà Divina13. Bizzarre creature medievali In epoca medievale il termine portento descrive i fenomeni mostruosi a cui viene attribuita una reale esistenza, intrisa di significati allegorici, magici e religiosi14. Nel IX secolo un’ampia trattazione sull’aspetto e la generazione delle creature mostruose è compendiata nel De Universo di Rabano Mauro (780/784-856), erudito abate carolingio ed arcivescovo di Magonza15. Tra il 622 ed il 633 nelle Etymologiae, Isidoro di Siviglia (560-636) ripropone la teoria agostiniana della naturalità del fenomeno mostruoso, la cui manifestazione è risolvibile all’interno del disegno divino16. Dopo aver affrontato la problematica della sua generazione, Isidoro passa alla circostanziata enumerazione delle possibili degenerazioni mostruose delle razze e degli animali portentosi (unicorno etc.), spesso interpretabili come segni premonitori, sulla cui natura fausta o infausta non vengono forniti ulteriori ragguagli17. 270 La ricerca medica attraverso la ricerca storica I mostri nell’Umanesimo e nel Rinascimento La scoperta del Nuovo Mondo e il proliferare delle esplorazioni scientifiche favoriscono la composizione di racconti meravigliosi, in cui il mostruoso è spesso sinonimo di esotico18. Marco Polo19 e Cristoforo Colombo20, ad esempio, narrano di popolazioni mostruose come i cinocefali, mentre Magellano descrive amazzoni, pigmei e popoli che dormono nelle proprie orecchie21. Nella sua Cronaca del mondo, Hartmann Schedel (1440-1514) enumera le razze favolose che discendono da Adamo all’interno di una speculazione cristiana di agostiniana memoria22. Nel corso del XVI secolo le leggende di derivazione pliniana si arricchiscono di pseudo-testimonianze sulla veridicità degli eventi narrati oltre che di dettagliate illustrazioni a supporto del testo, allo scopo di meglio evidenziare agli occhi del lettore le fattezze delle creature mostruose. In questo modo l’iconografia mostruosa diventa un luogo letterario alternativo alla pagina stampata, fissandone la raccapricciante rappresentazione nell’immaginario collettivo del Rinascimento23. Tra le opere all’epoca più note si ricorda la Cosmographia Universalis di Sebastian Münster (1488-1552), ove la teoria medievale circa la generazione delle creature mostruose e favolose non viene in toto confutata per non limitare l’infinita potenza di Dio. Nel testo, inoltre, trova posto l’illustrazione xilografica della storia dei grifoni e delle popolazioni mostruose come gli sciapodi, i ciclopi, i cinocefali o gli uomini con il volto sul petto24. Con l’Umanesimo si registra un ritorno della concezione del mostruoso come prodigio contra naturam carico di infausti rimandi simbolici, religiosi, astrologici e superstiziosi. Il ricorso alla punizione divina è uno dei temi più ricorrenti, espresso, ad esempio, dall’idea che le popolazioni mostruose vengano generate da Dio dopo l’episodio della torre di Babele25. In questo contesto si colloca l’opera di Licostene (Conrad Wolfhart, 1518-1561), che nel Prodigiorum ac 271 Laura Ottini et al. ostentorum chronicon compendia assieme ai mostri, i fenomeni celesti ed i cataclismi terreni26. Nell’opera De monstruorum natura, caussis, natura, et differentiis libri duo, Fortunio Liceti (1577-1657) riprende le soluzioni aristoteliche riguardanti le generazioni mostruose, proponendo, tuttavia, un apparato iconografico in chiave mitica e favolosa27. Conrad Gessner (1516-1565), autore di una vasta Historia animalium, riportando le antiche leggende, classifica le sfingi, i satiri ed i cinocefali tra le scimmie28. Dello stesso parare è anche l’anatomista Caspar Bauhin (1560-1624) che nel Pinax Theatri Botanici (1623) include i satiri tra le scimmie. Notabile è la considerazione circa la generazione di tali creature risolvibile, oltre che nell’ira divina e nell’influenza astrale e meteorologica avversa, anche nelle speculazioni biologiche ed embriologiche di matrice aristotelica29. I parti mostruosi: Lemnio e Parè Autore del De miraculis occultis naturae, Levino Lemnio (Lievin Lemnes, 1505-1568) sottolinea l’influsso infausto dell’immaginazione materna che può imprimere al feto, durante il concepimento e/o la gravidanza, forme mostruose. Nella trattazione trovano spazio anche le credenze ebraiche e bibliche sull’attività corruttrice del mestruo che, qualora presente all’atto del coito, facilita la generazione degli individui mostruosi30. Analoghe posizioni sono sostenute da Ambroise Paré (1510-1590) nel Des monstres et prodiges in cui una donna, osservando durante il concepimento un’icona di S. Giovanni Battista, partorì una bambina simile ad un orso. A ragione considerata una pietra miliare sull’argomento, l’opera di Paré è infarcita di racconti favolosi mutuati dalla tradizione popolare tra cui celebre è la narrazione della nascita, nel 1567, di un agnello a tre teste presso il “villaggio chiamato Blandy, distante una 272 La ricerca medica attraverso la ricerca storica lega e mezza da Melun. La testa di mezzo era più grande delle altre e quando una delle tre prendeva a belare, anche le altre la imitavano”31. La “monstrorum historia” di Ulisse Aldrovandi Nella Monstrorum historia cum Paralipomenis historiae omnium animalium, il naturalista bolognese Ulisse Aldrovandi (1522-1605) sostiene la realtà delle creature mostruose, screditandone l’immagine tramandata dalle leggende e dalle cronache letterarie. Il saggio prende le mosse da una particolareggiata ricognizione circa la corretta confermazione dell’uomo “per rendere più appariscenti gli errori commessi dalla natura e per non difettare nell’esposizione di tutte le umane prerogative”. Segue l’elenco delle vere mostruosità secondo le cause che possono produrle, precisando l’epoca ed il luogo dove l’individuo è stato osservato ed il nome di chi l’ha reso notorio. Infine, l’esemplare viene descritto con singolare accuratezza, pur difettando di una esaustiva indagine anatomica32. L’ipotesi eziologica sostenuta da Aldrovandi combina le teorie biologiche ed embriologiche di Aristotele alle speculazioni di Liceto dando particolare risalto all’analisi da questi proposta che vede la generazione delle creature mostruose come “un impedimento sorto nei primordi della loro conformazione”, le cui cause (dall’Autore definite intrinseche), fanno capo alla cattiva influenza del seme (in più modi interpretata), alla corruzione dei mestrui, all’immaginazione dei genitori, ai vizi del ricettacolo del feto (utero, bacino), ad una scorretta posizione assunta ed a lungo mantenuta dalla donna incinta, alle vesti strette ed ad avvenimenti di origine traumatica. Il ricco e variegato apparato iconografico a corredo del testo spazia dall’Homo pedibus adversis al monstrum acephalon con gli occhi ed il naso sulla schiena, ai draghi ed altri animali fantastici (manucodiata etc.), mescolati ad alcuni generici casi di malformazioni strutturali33. 273 Laura Ottini et al. La teoria dell’incastro dei germi Negli anni settanta del XVII secolo, Francesco Redi (1626-1697) mostra come gli insetti si riproducono mediante uova, aprendo le porte alla teoria dell’ovismo, secondo cui tutti gli animali si riproducono mediante uova, come gli animali ovipari34. Nel contempo dalla microscopica osservazione del liquido seminale, Antoni Van Leeuwenhoek (1632-1723) si fa portavoce della contrapposta dottrina dello spermatismo, ovvero la sostenuta presenza dell’embrione nello spermatozoo, la cui nutrizione è garantita all’interno dell’uovo35. Seguendo le analisi dell’ottico e naturalista olandese, Nicolas Hartsoeker (1656-1725) ipotizza che l’intero feto si presenti come un omuncolo, ovvero una replica dell’essere in gestazione, alloggiando nello spermatozoo con l’estremità cefalica nella testa dello spermatozoo stesso36. Sia l’ovismo sia lo spermatismo, sottolineano l’importanza dello studio dei meccanismi riproduttivi per la corretta comprensione della struttura anatomica degli esseri viventi, condividendo l’ipotesi secondo cui l’animale adulto si presenti preformato nelle cellule germinali37. La teoria preformista è sostenuta dal biologo ed entomologo Jan Swammerdam (1606-1678) che nel Miraculum naturae sive uteri muliebris fabrica nega una progressivo sviluppo nella crescita degli insetti: la farfalla, ad esempio, è presente interamente, con i suoi organi distinti, nelle uova del bruco. Lo sviluppo degli esseri viventi e il loro svolgimento (evolutio) è quindi contenuto nel germe in successive mutazioni quantitative (accrescimento e allungamento). Tutti i germi, infine, preesistono fin dalla Creazione, essendo questa sola manifestazione di un unico atto della volontà di Dio 38. La polemica tra i fautori dell’epigenesi e quelli del preformismo sarà feroce per tutto il XVIII secolo e si concluderà solo nel XIX secolo con l’affermazione definitiva della teoria cellulare39. 274 La ricerca medica attraverso la ricerca storica Leibniz e Malbranche Le creature mostruose pongono ai sostenitori del preformismo dei quesiti di ordine teologico: conciliare la loro esistenza con la non ammissibilità della creazione divina di germi mostruosi. Non è quindi un caso se nel migliore dei mondi possibili, governato dalla Provvidenza, Gottfried Wilhelm von Leibniz (1646-1716) identifichi i mostri come manifestazioni disordinate all’interno della perfezione naturale. Le sue teorie supportano la grande catena dell’essere che, partendo dalle analogie riscontrate dall’anatomia comparata tra animali di specie diversa, vede compendiate nell’unico atto della Creazione tutte le sfaccettature del possibile, rendendo ragione, ad esempio, dell’omologia degli arti dei mammiferi. In questo paradigma esplicativo, gli individui mostruosi rientrano nelle infinite sfumature della Natura, riflesso dell’infinita insondabilità della potenza divina40. Sulle posizioni di Leibniz si attesta anche Nicolas Malebranche (16381715): pur lasciando spazio a possibili disordini, le leggi naturali stabilite da Dio non ne mettono in gioco il disegno provvidenziale. Il filosofo e scienziato pone così l’accento sulle cause esterne che portano alla generazione dei mostri, tra cui l’immaginazione della donna. Noto è il caso di quella madre che, avendo assisto durante la gestazione al supplizio di un condannato alla rota, partorì un figlio rotato41. XVIII secolo: le cause dei mostri, metafisica e anatomia Insistendo sull’onnipotenza di Dio e sull’imperscrutabilità dei suoi progetti, il teologo, filosofo e matematico francese Antoine Arnauld (1612-1694) esclude il concorso di accidenti causali nella generazione degli individui mostruosi42. Dello stesso parere è l’anatomista Joseph Guichard Duverney (1648-1730) che narra di un mostro, nato a Vitry il 20 settembre 1706, formato da due gemelli uniti per il bacino, la cui origine, dopo un attento esame necro- 275 Laura Ottini et al. scopico, è risolta come una particolare manifestazione dell’infinita potenza e libertà di Dio43. Il dibattito sull’eziologia delle creature mostruose vede, quindi, contrapposti i sostenitori degli eventi casuali che interferiscono con il disegno divino a quanti preferiscono considerare questi fenomeni il risultato di germi mostruosi. Nel 1721, Antonio Vallisnieri (1661-1730) ripropone la teoria della fusione dei germi per spiegare la nascita di mostri per eccesso e della mancanza di materia per quelli per difetto, in piena tradizione aristotelica44. Dopo la morte di Durverney, le sue ricerche vengono portate avanti dall’anatomista olandese Jacob Benignus Winslow (1669-1760), allievo dello stesso Durverney, che nega aspramente la concomitanza di cause accidentali nell’origine delle creature mostruose in una lunga polemica con Nicolas Lémery (1645-1715): questi non può accettare l’idea che Dio abbia creato dei germi mostruosi, mentre il primo nega la possibilità che i semi siano passibili di corruzione45. Con la pubblicazione della Dissertazione sul negro bianco, saggio imperniato sulla discussione di un caso di albinismo riscontrato in un bambino di colore, Pierre-Louis Moreau de Maupertuis (1698-1759) si schiera a sfavore della teoria del preformismo: se la vita è preformata in un germe, come è possibile che la progenie abbia i caratteri di entrambi i genitori? La risposta, compendiata nella Venere fisica, è che la vita si origini dal miscuglio di due semenze che partecipano in egual misura alla creazione di un nuovo individuo. In questo contesto l’origine dei mostri, come quella degli ibridi, è risolta grazie a spiegazioni puramente meccaniche: lo studio del negro bianco, come quello di un caso di esadigitismo, mostrano l’ereditarietà di tali anomalie che, di conseguenza, non possono né essere imputate né a germi difettosi né a loro eventuali danneggiamenti46. Nei Saggi di cosmologia, sotto l’influenza delle speculazioni filosofiche di Denis Diderot (1713-1784), Maupertuis rovescia la conce276 La ricerca medica attraverso la ricerca storica zione finalistica e provvidenziale della natura: i primi individui sono stati generati casualmente e solo un piccolo gruppo di essi era costituito in modo che ogni loro parte potesse assolvere con correttezza ai propri bisogni. Vi erano, quindi, innumerevoli mostri, individui incoerenti che si sono, col tempo, estinti. L’ipotesi embriologica viene dallo scienziato circostanziata grazie alla forza attrattiva delle particelle organiche (esattamente come quelle inorganiche sono sottoposte all’attrazione gravitazionale newtoniana) che permettono loro di aggregarsi seguendo precise leggi biologiche47. Le posizioni di Maupertuis sono le stesse che in quegli anni assume il ben più noto naturalista Buffon, autore di una monumentale Storia Naturale in trentasei volumi48. Per il filosofo Denis Diderot (1713-1784), al contrario, la natura genera spontaneamente una grande quantità di mostri e non ha in sé alcun elemento provvidenziale. Come Maupertuis, Diderot risolve tali considerazioni in senso evoluzionistico sino a concepire l’idea di un prototipo di tutti gli animali49. Buffon, al contrario, è più cauto e moderato, limitandosi ad un certo numero di specie originarie degeneratesi col tempo, ovvero localmente modificate a causa del clima e dell’ambiente50. La nascita della teratologia Nel XIX secolo si assiste alla nascita di una “scienza dei mostri” a opera di Etienne Geoffroy Saint-Hilaire (1772-1844) e Isidore Geoffroy Saint-Hilaire (1805-1861)51. Il programma anatomico di Etienne Geoffroy Saint-Hilaire individua, grazie al principio della prudente analogia tra animali appartenenti a specie diverse e tra esseri normali e mostruosi, una morfologia strutturale capace di formare dall’interno qualsiasi essere vivente. I complessi fenomeni che regolano la vita sono infatti riconducibili a un piano generale, la cui logica è ricercata attraverso un approccio conoscitivo di tipo morfologico che vuole evidenziare 277 Laura Ottini et al. rapporti costanti di struttura tra le varie forme animali. Il nucleo della teoria biologica ed embriologica di Etienne Geoffroy Saint-Hilaire è rappresentato da una struttura costante, comune a tutti gli esseri organizzati, evidenziata da un principio analogico, presentandosi come un comune ed unico piano di composizione, fornente lo schema delle possibili trasformazioni di ciascun organo di tutti gli esseri viventi. Il confronto delle forme normali ed anomale si rivela, in questo registro, un valido procedimento conoscitivo per individuare gli elementi invariabili che sottostanno alla formazione di qualsiasi specie animale52. Lo studio delle mostruosità nasce così come esigenza intrinseca al programma di ricerca di Etienne Geoffroy Saint-Hilaire, continuato poi dall’attività scientifica del figlio Isidore53. Per i due Geoffroy non solo le anomalie fanno capo al principio unitario che regola la formazione degli organismi normali, ma rappresentano esse stesse la prova che la natura si è servita di un solo principio organizzatore valevole per qualsiasi essere vivente. Perciò lo studio delle mostruosità, chiamato per la prima volta teratologia da Isodore, diviene uno strumento atto a fornire una considerevole quantità di esempi a conferma dell’uniformità della natura54. La nascita di un mostro non è più collocata tra i fatti miracolosi, sconcertanti o meravigliosi, ma è inserita, come qualsiasi altro evento che implica una metamorfosi, all’interno di una logica che lega a un sistema unitario qualsiasi manifestazione della realtà55. Di una mostruosità parassitaria felicemente risolta con operazione chirurgica Maria Conti in Fornarini, originaria di Jesi, di anni 22, di regolari e belle forme, il 20 agosto 1864 porta a termine la prima gravidanza. La gestazione è fisiologica e nessuna anomalia si riscontra nell’asse ereditario femminile e maschile. La donna conduce, però, una vita sedentaria essendo di professione tessitrice56. 278 La ricerca medica attraverso la ricerca storica Entrata la Conti in sovrapparto, viene riscontrata dalla levatrice la presentazione del vertice ed in breve tempo naturalmente si compie l’espulsione del feto. Il puerperio ha corso normale come spontanea ed abbondante si compie la mondata lattea57. Il nascituro non presenta aderenze con alcun punto della placenta né è avvolto dal funicolo: è una bambina nel più completo e rigoglioso sviluppo (50 cm di lunghezza per circa 5 Kg di peso). Eppure la neonata presenta un’assai rara e grave mostruosità, essendo provvista di tre arti inferiori. Scende l’arto accidentale tra l’una e l’altra coscia a guisa di una lunga e grossa coda, presentando all’estremità libera un piede sinistro ben conformato, munito di cinque dita. Diversa dagli altri due è la direzione del piede accidentale: in forzata estensione sulla gamba come una zampa equina, presenta il dorso rivolto a sinistra ed in avanti, la pianta a destra ed indietro. Anche la gamba è bene sviluppata ed è lunga e larga quanto le altre due. L’estremo superiore dell’arto accidentale è ricoperto da un manicotto cutaneo, originatosi dallo stiramento dell’epidermide della regione sacrale, alla cui base trovasi l’orifizio anale. L’arto accidentale è mobile e non ha nessun legame né col sacro né con altro punto della pelvi: si impegna nello stretto inferiore, scaturendo dalla escavazione pelvica fra l’intestino retto anteriormente, il sacro posteriormente ed i due ischi lateralmente. Con l’esplorazione rettale si percepisce l’arto prolungarsi entro la escavazione pelvica di circa due centimetri, terminando con un rigonfiamento osseo. La palpazione e la percussione del ventre danno risultati negativi. L’arto accidentale non sembra essere dotato di alcuna funzione oltre gli atti nutritivi, non avendo alcun movimento spontaneo ed essendo insensibile agli stimoli58. L’operazione chirurgica La grande mobilità della massa accidentale sia extra che intra pelvica e la posizione favorevole fra il sacro ed il retto intestino, ovvero fuori dal cavo perineale, risolvono Giorgio Pellizzari 279 Laura Ottini et al. (1814-1894)59, lettore di anatomia descritta, dissettore di anatomia sublime nonché conservatore del Museo Patologio del Regio Arcispedale di S. Maria Nuova, e Giuseppe Corradi (1830-1907)60, Aiuto alla Clinica Chirurgica presso il nosocomio fiorentino, all’atto eliminatorio (Figure 1-4). Fig. 1 - Busto di marmo di Giorgio Pellizzari (1874-1894) conservato presso il Museo di Anatomia Patologica dell’Università di Firenze Fig. 2 - Catologo originale contenente la descrizione (n. 1873) delle ossa del rudimentale arto inferiore 280 La ricerca medica attraverso la ricerca storica Considerata la presenza dell’apertura anale alla base del manicotto cutaneo, i clinici scelgono l’eliminazione della regione avventizia mediante sezione cruenta, incidendo alla maggiore distanza da questa61. La rimozione tramite lento processo di cancrenazione da effettuarsi con la legatura o col caustico alla maniera di Louis Manoury62 e l’incisione con l’écraseur di Edouard Pierre Marie Chassaignac (1804-1879)63, adoperato da Jacques Gilles Thomas Maisonneuve (1809-1897) per amputare negli adulti gambe e cosce, si dimostrano non praticabili vista la probabile suppurazione della piaga ad opera della frequente evacuazione degli escrementi in età neonatale64. La mattina del 19 settembre 1864 viene eseguita la rimozione chirurgica dell’arto soprannumerario: dopo aver messo a profitto la porzione di pelle del manicotto corrispondente all’apertura anale per crearvi un lembo, viene praticata un’incisione molto arcuata avente per centro l’ano, per raggio un pollice, per tangente l’orlo del manicotto. Fig. 3 - Disegni di Giorgio Pellizzari che illustrano l’infante prima del trattamento chirurgico (A), la proiezione anteriore (B) e la proiezione posteriore (C) delle ossa del rudimentale arto inferiore 281 Laura Ottini et al. Alla base di questo sporge così il retto intestino, il retto viene disteso, praticando l’incisione sopra un cellulare adiposo compatto e resistente. Disseccato l’arto sopra l’intestino per due centimetri circa e legate due arterie di grosso calibro, si guadagna l’apice della formazione avventizia dalla parte rettale dove viene praticata una seconda incisione arcuata a convessità con la prima. Rialzato il lembo viene praticata una sutura attortigliata con cinque spilli e viene completata in modo ordinario la medicatura. L’operazione viene così portata a termine senza complicazioni, in un breve lasso di tempo e con la perdita di una sola oncia di sangue65. Fig. 4 - Campione chirurgico del rudimentale arto inferiore conservato presso il Museo di Anatomia Patologica dell’Università di Firenze Decorso post-operatorio Nei giorni seguenti l’amputazione, i clinici tengono la piccola paziente in posizione prona per evitare la penetrazione della materia fecale all’interno della ferita. Durante il processo di cicatrizzazione, svoltosi regolarmente eccezion fatta per la manifestazione di una febbre effimera in seconda giornata, mirabile è constatare la progressiva divisione delle natiche e la scomparsa della cicatrice semilunata e trasversa all’interno di quest’ultima66. Studio anatomico della mostruosità L’epidermide che riveste l’arto avventizio presenta caratteri macroscopici normali. Studiandone la ripiegatura a forma di manicotto 282 La ricerca medica attraverso la ricerca storica appare evidente la contiguità anziché la continuità dei tegumenti. Sulla superficie esterna sono, inoltre, chiaramente tracciati i segni dell’innesto nella regione sacrale. L’interna conformazione dell’arto soprannumerario mostra una calza aponevrotica intimamente legata al derma. Gli stessi caratteri si riscontrano nell’analisi dell’epidermide del manicotto; le due aponevrosi risultano separate da uno strato cellulo-adiposo. Inoltre si vedono serpeggianti dei grossi vasi sanguigni sulla piega cutanea che si propagano lungo un solco creato dalle due ricordate aponevrosi. L’epidermide che si innesta su quella dell’autosita e le tramezze fibrose che si perdono nel cellulare vicino costituiscono i principali legami fra l’intera formazione accidentale e l’individuo ceppo. Disseccato e rimosso il comune integumento tutto l’arto appare come una massa informe di lardo bianco e compatto. Le glebe ipertrofiche sono separate da fitte tramezze in province e regioni ceche. Sulla parte superiore l’arto termina in un grosso orlo osseo foggiato a guisa di una cresta che, spogliato dalle glebe grassose, vedesi appartenere a un osso piano. Sulla sua faccia anteriore si distinguono tre organi facilmente isolabili che esaminati presentano gli stessi caratteri anatomici. Si diversificano, invece, per la forma ed i volume: uno è globoso come un cece, il secondo conformato come un fagiolo ed il terzo è multiplo degli altri due per lunghezza. Sezionati, rassomigliano a tre cisti a cavità unitaria, ripiena di una sostanza bianca come siero depurato. Esaminata al microscopio, questa risulta costituita da cellule epiteliali pavimentose67. Proseguendo nella sezione dell’arto soprannumerario si scorgono i prodromi del sistema muscolare, sanguigno e nervoso68. Il sistema osseo sembra, invece, quello maggiormente sviluppato. Eliminati i tendini ed i legamenti si riconosce un osso innominato di forma ovalare, recante ai poli due larghe placche di ossificazione; la parte media ed il corpo risultano cartilaginei. L’orlo inferiore verso il polo esterno è sormontato da un’eminenza ossea, rigonfiata 283 Laura Ottini et al. sull’estremità libera (forse un osso pubico rudimentale) che dà attacco alle masse muscolari. Al centro della faccia posteriore pende un grosso e robusto legamento che sorregge un lungo osso di forma cilindrica. L’arto misura 6 centimetri ed ha un diametro trasverso di 1 centimetro. La sua conformazione rammenta quella di un femore: il corpo è schiacciato ed arcuato lateralmente, mentre l’estremità superiore presenta tre rigonfiamenti, il mediano dei quali molto rassomiglia al gran trocantere. L’estremità inferiore accenna una conformazione condiloidea ove il femore forma col resto dello scheletro un angolo di 135°, unendosi ad esso tramite un’articolazione ginglimoidale. Le dita dell’arto rudimentale sono ben conformate, eccezion fatta per il secondo dito formato da una sola e lunga falange, impiantata sopra due ossa metatarsiche che divergendo si fissano in due punti diversi del tarso. Esaminando la sezione dorsale vedesi, infine, un dito soprannumerario, munito di tre falangi e del più lungo osso metatarsico69. Considerazioni cliniche Completata l’esposizione dell’inquadramento clinico, dell’operazione chirurgica, del decorso post-operatorio e delle analisi anatomopatologiche condotte sull’arto soprannumerario asportato, Pellizzari e Corradi passano alla valutazione del caso clinico, studiandolo analiticamente secondo l’ordine etiologico, semiologico e terapeutico. Cause Nel caso teratologico preso in esame, i clinici riconoscono nella formazione dell’arto soprannumerario l’azione nefasta di cause traumatiche quali la posizione sedentaria e molto curvata in avanti della Conti, di professione tessitrice, durante la gestazione e le continue scosse prodotte dal battere la tela. Non da ultimo sono da rilevarsi i traumi causati sul prodotto del concepimento dagli abusi della venere visto che gli sposi hanno avuto lunga luna di miele ed operosa assai70. 284 La ricerca medica attraverso la ricerca storica Criterio etiologico Confrontati i dati clinici raccolti tramite l’osservazione diretta dell’arto avventizio con la letteratura medica dell’epoca, Pellizzari e Corradi convengono non poter risolvere il caso oggetto di studio né nella classe delle anomalie unitarie71, perché l’individuo si presenta ben conformato in ogni sua parte, né all’interno della teoria dei doppi feti, riconoscendo in quest’arto soprannumerario, seguendo la speculazione di Isidore Geoffroy Saint-Hilaire, il resto di un secondo feto, il cui sviluppo si è arrestato, per cagione traumatica, all’interno del grembo materno72. Quest’ultima ipotesi mal si concilia, secondo i clinici, con la buona conformazione del piede avventizio, terminante in un arto inferiore unico in tutti i suoi organi componenti. Le ossa che lo costituiscono, poi, sono in tali rapporti col sistema scheletrico da non potersi in alcun modo riconoscere, ad esempio, nei due metatarsi del grosso dito, quale dei due sia proprio del dito e quale dei due sarebbe appartenuto all’altro piede73. Segni Il soggetto mostra tre estremità inferiori, separate, distinte e tra loro indipendenti. Gli arti normali si presentano regolari così come il bacino e la colonna vertebrale. L’accidentale ha sede sulla regione perineale e differisce per forma e per volume dagli altri due. Mobile in tutte le direzioni, non ha moti attivi né è sede di sensazioni. La pelle che lo riveste si innesta e non si continua con quella delle regioni limitrofe. Notomizzato si riscontrano in esso i prodromi di tutti i sistemi a differenti stadi di sviluppo. L’esame anatomico mostra più apertamente la sua indipendenza dalle parti vicine, presentando rapporti di continuità che appartengono a qualunque tessuto accidentale. Il soggetto ceppo è vitabile e perfettamente conformato in ogni sua parte74. Definito secondo queste caratteristiche il caso di studio, la classe di anomalie teratologiche entro cui sussumere l’arto avventizio sembra essere, ad un primo esame, quella delle polimelie75. Ciò nono285 Laura Ottini et al. stante, come osservato da Michael Föster (1836-1907), vi sono dei fenomeni che non possono con sicurezza essere risolti né all’interno delle polimelie né all’interno dei dipygus dibrachius o toradelphus di Saint-Hilaire, poiché, come da gradazioni non valutabili, dalle polimelie si scende alle dite soprannumerarie, così si può risalire al completo raddoppiamento di tutta la parte di un soggetto76. Nelle polimelie e nei dipygus dibrachius, sottolineano Pellizzari e Corradi, si verifica il raddoppiamento delle estremità inferiori, ma l’accidentale o si diparte da una delle normali (polimelie) o s’impianta sopra una regione comune che, successivamente, si biforca dalla prima (dipygus). Nel caso particolare la sede dell’arto accidentale è la regione perineale e l’anomalia ivi sorge come una qualunque altra massa avventizia (tumore etc.). Nel polimele l’arto normale, che fornisce l’impianto all’accidentale, ha alquanto impediti i movimenti e questo carattere è ancora più sensibile nel dipygus. Il soggetto, al contrario, ha liberissimi i suoi arti come tutta la persona. Nel polimele e nel dipygus gli arti avventizi sono conformati come i normali per sviluppo e lunghezza, sono dotati di movimenti attivi così come di sensibilità, l’epidermide è continua con quella delle regioni vicine. Nel nostro caso l’arto soprannumerario è molto più corto e deformato tanto da riconoscersi come un arto inferiore soltanto per la conformazione apparentemente regolare del piede, non presenta moti attivi, non è sede di alcuna sensazione e l’epidermide mostra una linea d’innesto marcatissima con l’individuo ceppo, tanto da poter essere definita contigua. Nel polimele e nel dipygus, inoltre, la massa accidentale è formata da tutti i sistemi organici ben sviluppati e comunicanti con quelli dell’individuo normale. Nell’arto parassitario oggetto di indagine, invece, si rinvengono solo i prodromi dei sistemi e la massa avventizia presenta soltanto i normali legami di un tessuto accidentale che vive a spese delle parti vicine. Il soggetto, infine, è vitabile come il tipo normale a termine della gravidanza intrauterina, mentre l’osservazione ha più volte mostrato che i poli286 La ricerca medica attraverso la ricerca storica meli e i dipygus o muoiono avanti il termine gestionale o poco dopo l’inizio della vita extrauterina. Risulta dunque come il caso preso in esame non possa appartenere né alla classe del dipygus (toradelphus del Saint-Hilaire) né a quella delle polimelie77. Ugualmente non è possibile ascriverlo all’interno della categoria dei pigopaghi che, secondo la classificazione del Förster, rappresenta un raddoppiamento quasi perfetto di due individui egualmente conformati e uniti per la regione sacrale78. Criterio semiologico Da quanto esposto è possibile individuare due quadri semiologici per tradurli in criteri. Il primo mostra come la massa accidentale nei polimeli, nei dipygus e nei pigopaghi sia una copia più o meno fedele della massa che le sta accanto, gode delle stesse facoltà, le sono affidate le medesime funzioni ed è con questa comunicante. Il secondo invece, sussunto dal caso di studio, rappresenta una massa inerte, dotata di alcuna funzione, vegetativa, mal conformata, accessoria e non comunicante col soggetto che la porta. Considerando l’anomalia particolare all’interno di quest’ultimo criterio semiologico, essa viene dai clinici ascritta ad una formazione neoplastica originatasi per traumatismo79. Criterio terapeutico L’operabilità dell’arto avventizio è stabilita seguendo le regole generali che si applicano alla rimozione di qualsiasi tumore omologo. L’asportazione, poi, non presenta complicazioni ed è coronata da felice successo. La disamina dei tre criteri diagnostici mostra come l’arto avventizio non sia ascrivibile alle classi dei polimeli, dei dipygus e dei pigopaghi poiché esso è semplicemente accidentale ed è simile ad un neoplasma sviluppatosi in un individuo già formato durante la vita intra o extra uterina. 287 Laura Ottini et al. Questa distinzione è di fondamentale utilità alla pratica medica perché addita la possibilità o impossibilità di una rimozione chirurgica ed l’esito clinico che l’operatore può legittimamente aspettarsi80. Le mostruosità parassitarie La teratologia è foriera di diversi casi patologici simili al caso studio, per lo più osservati su animali selvatici. Nell’uomo un caso è circostanziatamente descritto da José Gregorio Texeiria81. Questa particolare anomalia non interessa solo gli arti inferiori, ma anche la regione epigastrica e tutte quelle masse rappresentanti organo o regione di altro feto pendenti dalla bocca di un individuo ben conformato e vitabile (Polignatieni del Saint Hilaire)82. Notabili sono infine tre casi osservati sul cranio, di cui il primo fu riscontrato da Saint-Hilaire (un canario la cui testa è sormontata da un’estremità inferiore soprannumeraria)83, il secondo da Everard Home (17561832)84 e il terzo dal Professor Vottem, rappresentante una testa soprannumeraria inserita, per il suo vertice, sul cranio di un individuo autosita (epicomi)85. Il breve excursus all’interno della casistica teratologica mostra come alla grande classe in cui sono inclusi i polimeli, i dipygus e i pipopaghi, sia possibile affiancare una ulteriore suddivisione dal Pellizzari e dal Corradi identificata come Mostruosità parassitaria86. La nuova classificazione consente la distinzione dei casi in cui le anomalie sono parte integranti dell’individuo, da quelli in cui la regione soprannumeraria è avventizia e di origine neoplastica, permettendo una corretta valutazione del rischio terapeutico nell’ambito di una eventuale rimozione chirurgica87. Conclusione Lo studio delle fonti storiche e archivistiche per la museologia scientifica contribuisce alla diffusione di una cultura biomedica umanistica, promuovendo una ricerca interdisciplinare volta a ricostruire la 288 La ricerca medica attraverso la ricerca storica storia naturale delle malattie ed il ruolo che esse rivestono nella storia delle società umane. Sotto il profilo educativo, in particolare nell’ambito della Facoltà di Medicina, un percorso museale che includa le testimonianze oggettive della patocenosi del passato rappresenta un importante stimolo per la formazione culturale del medico moderno. Dalle osservazioni cliniche presentate, ad esempio, è possibile intraprendere uno studio metodologico che comprenda gli inquadramenti nosologici, i criteri tassonomici, i dati anamnestici e le ipotesi interpretative, consentendo la riflessione sul riconoscimento di determinate patologie e sulla loro possibilità di trattamento alla luce di una pratica medica che, in taluni casi di anomalie, oggi come in passato, si è mostrata essere un’arte. Bibliografia e note 1. PACHO J., The universe as cosmos: on the ontology of Greek world-image. In: VOGEL U. H., Concepts of nature: a Chinese-European cross-cultural perspective. Leiden, Brill, 2010, pp. 136-160. 2. LENFANT D., Monsters in Greek Ethnography and Society in the Fifth and Fourth Centuries BCE. In: BUXTON R., From Myth to Reason? Studies in the Development of Greek Thought. Oxford, Oxford University Press, 1999, pp. 128-214. 3. ROMM J., Belief and Other Worlds: Ktesias and the Founding of the Indian Wonders. In: SLUSSER E., RABKIN S. 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Vedi anche FÖRSTER A., op. cit., pp. 26-29. 79. CORRADI G., op. cit. nota 56, pp. 205-206. 80. CORRADI G., op. cit. nota 56, pp. 206-209. 81. Teixeira G. j., Descrizione di un mostro umano, appartenente alla classe dei mostri doppi eterotipiani. Gazzetta Medica Italiana Stati Sardi 1894; 1: 337-338. 82. Memorie del Regio Istituto Lombardo di Scienze e Lettere. Classe di Scienze matematiche e naturali. Milano, Bernardoni, 1891, Voll. 16-17, pp. 152-153. 83. TARUFFI C., op. cit. nota 71, Vol. 3, pp. 103ss. 84. PUCCINOTTI F., Lezioni di medicina legale. Milano, Per Borroni e Scotti, 1856, p. 53. 85. VOTTERN F., Description de deux foetus réunis per la tête. Liége, P. J. Collardin, Imprimeur de l’Université et Libraire, 1828. 86. CORRADI G., op. cit. nota 56, p. 209. 87. CORRADI G., op. cit. nota 56, p. 218. Correspondence should be addressed to: Laura Ottini, Department of Molecular Medicine, “Sapienza” University of Rome, Viale Regina Elena, 324, 00161, Rome, Italy. Phone: 39 06 49973009; Fax: 39 06 4454820 e-mail: [email protected] 294 MEDICINA NEI SECOLI ARTE E SCIENZA, 25/1 (2013) 295-306 Journal of History of Medicine Articoli/Articles collezioni ANATOMICHE antiche per musei moderni: il museo patologico dell’università di firenze Gabriella Nesi, Raffaella Santi Sezione di Anatomia Patologica, Università di Firenze, I summary antique anatomical collections for contemporary museums Anatomy and Pathology Museum collections display a great biological value and offer unique samples for research purposes. Pathological specimens may be investigated by means of modern radiological and molecular biology techniques in order to provide the etiological background of disease, with relevance to present-day knowledge. Meanwhile, historical resources provide epidemiologic data regarding the socio-economic conditions of the resident populations, the more frequently encountered illnesses and dietary habits. These multidisciplinary approaches lead to more accurate diagnoses also allowing new strategies in cataloguing and musealization of anatomical specimens. Further, once these data are gathered, they may constitute the basis of riedited Museum catalogues feasible to be digitalized and displayed via the Web. Introduzione I Musei di Anatomia Patologica, conservando non solo quanto vi sia di eccezionale, ovvero di mostruoso, nella patologia umana, ma anche il materiale chirurgico ed autoptico della pratica medica quotidiana, hanno svolto un insostituibile ruolo didattico per generazioni di medici in formazione e al tempo stesso costituiscono una testimonianza tangibile della ricerca medica che, fino a non molto tempo fa Key words: Pathology museum - Anatomical collections - Biological archive 295 Gabriella Nesi, Raffaella Santi e, sicuramente nel XIX secolo, quando molte di queste Istituzioni sono sorte, era strettamente legata all’osservazione macroscopica anatomo-patologica1. Il museo è dunque da considerarsi a tutti gli effetti un archivio biologico, suscettibile di essere indagato mediante le moderne tecniche radiologiche, istopatologiche e biomolecolari2. I reperti anatomici del passato documentano un’epoca profondamente diversa dalla nostra e consentono di studiare malattie le cui caratteristiche epidemiologiche o la cui storia naturale sono state notevolmente modificate dai progressi diagnostici e terapeutici3,4. Ancora, molte delle collezioni anatomiche italiane comprendono reperti di indubbio valore artistico, quali le riproduzioni in cera, in legno o in gesso di distretti anatomici o di quadri anatomo-patologici. Tali opere rappresentano strumenti educativi per il giovane medico, non solo degli aspetti tecnico-scientifici ma anche di quelli culturali ed umanistici della professione che si accinge ad esercitare. Fugata l’idea che i Musei di Anatomia Patologica siano luoghi stantii, insensibili al passare del tempo, la fotografia e la videoregistrazione in formato digitale, i media interattivi, le risorse World Wide Web possono essere impiegati per migliorare ed accrescere l’offerta museale e per stabilire innovative linee di ricerca e cooperazione didattica. Tale approccio consentirà ai Musei di Anatomia Patologica di essere qualcosa di diverso e di più dell’esposizione di reperti considerevoli per rarità o singolarità, ovvero di rappresentare innanzitutto luoghi vitali ed appassionanti per attività di studio e di ricerca. Il Museo Patologico dell’Università di Firenze La collezione del Museo Patologico dell’Università di Firenze, fondato nel 1824, comprende più di un centinaio di modelli in cera ed un ampio numero di preparazioni anatomiche osteologiche, essiccate o conservate in mezzo liquido fissativo, tra le quali malformazioni congenite, disordini genetici e neoplasie5. 296 Antiche collezioni anatomiche: innovazione e ricerca Fig. 1. Una veduta d’insieme del Museo Patologico afferente alla Sezione Biomedica del Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze Inoltre, il Museo conserva il Catalogo originale, in cui le preparazioni anatomiche ed i modelli in cera sono catalogati ed esaurientemente descritti, il Registro delle Autopsie, istituito nel 1839, e i volumi concernenti 1469 storie cliniche relative ai casi autoptici esaminati tra il 1839 ed il 1881. Recentemente, le collezioni del Museo Patologico sono state riportate al loro antico splendore e sono nuovamente accessibili sia per scopi didattici sia per ricerca. Per gli studenti della Facoltà di Medicina, la visita al Museo Patologico rappresenta un momento di istruzione scientifica e di accrescimento culturale in ambito storico-umanistico. Del resto, la formazione del medico fu uno dei presupposti alla base della costituzione del Museo, la cui storia è, non a caso, intimamente legata a quella dell’istituzione, presso l’Ateneo Fiorentino, della pri297 Gabriella Nesi, Raffaella Santi ma cattedra di Anatomia Patologica in Italia (1840)6. Attualmente, il Museo Patologico afferisce alla Sezione Biomedica del Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze. Il Museo Patologico di Firenze comprende dunque un insieme di collezioni diverse, ciascuna parte integrante e necessaria all’altra nel delineare un percorso conoscitivo: il preparato anatomico, dimostrativo di un particolare caso clinico-patologico, le notizie cliniche, i rilievi autoptici, il relativo manufatto in cera. Tali informazioni, interpretate sulla base delle conoscenze scientifiche attuali e implementate dai risultati ottenuti dall’utilizzo delle moderne tecniche radiologiche, istologiche e biomolecolari, consentono una più precisa definizione diagnostica degli antichi preparati anatomici e lo sviluppo di nuove strategie di catalogazione e musealizzazione delle collezioni7. Infine, le collezioni del Museo Patologico rappresentano un’importante traccia della storia dell’insegnamento anatomico, chirurgico e della ceroplastica scientifica a Firenze. Le cere patologiche I modelli in cera di anatomia normale e patologica rappresentano spesso tesori nascosti all’interno dei musei scientifici. La ceroplastica medica nasce dalla difficoltà di garantire un’adeguata conservazione dei materiali patologici, dall’altra dalla necessità di far conoscere ai giovani medici importanti quadri anatomo-patologici senza ricorrere alla dissezione di cadaveri. Realizzati sulla base delle scoperte anatomiche compiute nell’età dell’illuminismo scientifico, i modelli in cera consentivano agli studenti di medicina l’esperienza tattile dei processi normali quanto di quelli morbosi, considerando anche il fatto che, oltre alla tridimensionalità, questi preparati permettevano di esperire la “dimensione” del colore, elemento essenziale per una corretta diagnosi clinica. Nel contempo, essi sono un meraviglioso esempio del connubio tra Arte e Scienza8,9. 298 Antiche collezioni anatomiche: innovazione e ricerca L’arte ceraiola vanta una lunga e consolidata tradizione italiana e fiorentina in particolare: indirizzata verso gli studi anatomici dall’opera di Paolo Mascagni (1755-1815), essa aveva trovato forse la sua più alta espressione nelle collezioni di cere, ancora oggi oggetto di meraviglia e ammirazione, del Museo della Specola di Firenze, già Imperiale e Regio Museo di Fisica e Storia Naturale, primo fra i musei di questo genere ad essere fondato in Italia ed inaugurato dal Granduca Pietro Leopoldo nel 175510,11. La collezione comprende 116 riproduzioni in cera, opera in gran parte di Giuseppe Ricci, nominato Aiuto del Professore di Anatomia Patologica al momento in cui la cattedra di Anatomia Patologica venne istituita ed affidata a Carlo Burci e, in minor misura, di due talentuosi artisti afferenti al laboratorio della Specola, Luigi Calamai (1796-1851)e il suo allievo Egisto Tortori (1829-1893) il quale può essere considerato l’ultimo dei modellatori di questa prestigiosa istituzione12. I preparati anatomici Le collezioni di preparati anatomici e anatomo-patologici hanno rappresentato per migliaia di studenti, medici e ricercatori la prima opportunità loro concessa di osservare da vicino e in dettaglio la morfologia e la patomorfologia di un organo o un apparato. Oggigiorno è sempre più difficile ottenere nuovi campioni da avviare alla musealizzazione e, di conseguenza, l’arricchimento di molte collezioni è stato interrotto. Allo stesso tempo, l’integrità delle collezioni esistenti è minacciata dall’intrinseca fragilità dei preparati anatomici13. L’impegno dei curatori dei Musei di Anatomia e Anatomia Patologica è rivolto all’individuazione di strategie atte alla conservazione degli antichi preparati anatomici, con la finalità di mantenere gli stessi suscettibili di indagini morfologiche e molecolari. Recentemente, alcuni Autori hanno enfatizzato il ruolo che tecniche di diagnostica per immagini, quali la Risonanza Magnetica Nucleare 299 Gabriella Nesi, Raffaella Santi (RMN) e la Tomografia Computerizzata (TC) possono avere nello studio tanto dei preparati osteologici quanto di quelli conservati in mezzo liquido fissativo senza la necessità, per questi ultimi, di essere estratti dagli antichi vasi di vetro14,15. Oltre che una efficace soluzione conservativa, la creazione di una libreria digitale di immagini radiologiche rappresenta un utile strumento nella definizione diagnostica dei reperti musealizzati e, più in generale, nell’insegnamento della correlazione anatomo-radiologica. La collezione di preparati anatomici (osteologici, essiccati o conservati in mezzo liquido fissativo) del Museo Patologico di Firenze abbraccia tutti i campi di studio dell’anatomia patologica, comprendendo quadri malformativi, flogistici e tumorali. Tra i preparati che più suscitano stupore nel visitatore vi è un caso di idrocefalia di straordinaria gravità, osservato in un bambino deceduto nel 1831 e del quale il Museo conserva lo scheletro intero. Allo scopo di mantenere testimonianza iconografica di tanta singolarità Luigi Calamai, il già citato famoso maestro ceraiolo afferente al laboratorio della Specola, fu chiamato ad allestire un modello in cera che riproducesse a grandezza naturale la testa, il collo e la porzione superiore del torace del piccolo paziente così come si presentò ai dissettori. Tale opera consente ancora oggi di apprezzare le profonde 2. Scheletro intero del modificazioni cranio-facciali che le “30 Fig. “bambino nato colla fabbrica libbre di fluido”, raccolte negli spazi idrocefalica”. 300 Antiche collezioni anatomiche: innovazione e ricerca Fig. 3. La pagina del Catalogo del Museo Patologico di Firenze dove è riportata la descrizione dei risultati dell’autopsia eseguita sul corpo del piccolo paziente Fig. 4. Preparato n. 293 della collezione museale, corrispondente al modello in cera della testa del bambino, opera di Luigi Calamai. ventricolari, provocarono nel corso dei 18 mesi di vita extrauterina del bambino nato “colla fabbrica idrocefalica”. Nonostante le notizie cliniche e l’iconografia disponibili, così come la documentazione radiologica (radiografia tradizionale, tomografia computerizzata, risonanza magnetica nucleare), non abbiano consentito di escludere nessuna delle molteplici cause di idrocefalo congenito, la prevenzione della patologia infettiva nella donna in gravidanza (in particolar modo da Toxoplasma Gondii, Virus della Rosolia, Virus Citomegalico) ha drasticamente ridotto l’incidenza di questa patologia ai giorni nostri. L’avvento della metodica di polymerase chain reaction (PCR) ha aumentato l’interesse per gli antichi preparati conservati nei musei 301 Gabriella Nesi, Raffaella Santi Figg. 5 e 6. Scansioni TC del cranio: a livello della base e a livello del terzo medio. anatomici quali potenziali fonti di materiale genetico per lo studio di malformazioni congenite, neoplasie, malattie infettive o parassitarie16,17. Non sempre è possibile ottenere DNA da reperti anatomici musealizzati, dal momento che essi sono conservati in liquidi fissativi che non hanno la proprietà di preservare il DNA. Tuttavia, l’estrazione di DNA da tessuto mantenuto per lungo tempo in etanolo o in formalina è stata ampiamente descritta18,19. Tra gli aspetti più rilevanti concernenti le collezioni di preparati anatomici vi è lo studio dell’eziologia e della patomorfosi delle malattie in relazione alla profonda modificazione delle condizioni socio-economiche della popolazione tra il XIX ed il XX secolo. Infatti, i preparati conservati nei Musei di Anatomia e di Anatomia Patologica si riferiscono all’epoca pre-Industriale o al periodo precedente l’introduzione degli antibiotici. Oggigiorno è inoltre ben provato che le interazioni genoma-ambiente giocano un ruolo importante nella carcinogenesi umana. Le indagini molecolari sui tumori antichi possono offrire un aiuto prezioso per far luce sulla storia delle neoplasie e sulle relazioni tra le alterazioni genetiche, lo stile di vita, ed i fattori di rischio ambientale attraverso i secoli20. 302 Antiche collezioni anatomiche: innovazione e ricerca Fig. 7. Ricostruzione multiplanare (MPR) del cranio. Le antiche collezioni anatomiche sono pertanto molto preziose da un punto di vista scientifico, non solo per le finalità didattiche -per le quali erano state originariamente istituite- ma anche perché documentano patologie ormai debellate o rese estremamente infrequenti dai miglioramenti nella loro diagnosi e cura21,22. Conclusioni Negli ultimi anni il Museo Patologico dell’Università di Firenze è stato oggetto di molteplici interventi di restauro tali per cui la colle303 Gabriella Nesi, Raffaella Santi zione è oggi per gran parte restituita all’originale bellezza e fruibilità ai fini sia di didattica che di ricerca. La valorizzazione di questa antica istituzione museale è fondata tanto su approcci standardizzati inerenti la conservazione, la catalogazione e la musealizzazione, quanto sull’introduzione di sistemi multimediali ed interattivi. Questo approccio permetterà la creazione di archivi digitali permanenti delle collezioni anatomiche e potrà favorire l’istituzione di network di ricerca e cooperazione tra i musei di anatomia e di anatomia patologica, nazionali ed internazionali. bibliografia e note Ringraziamenti Si ringrazia l’Ente Cassa di Risparmio di Firenze per la generosa disponibilità dimostrata nella conservazione e valorizzazione di questa storica istituzione museale. 1. Ferrari L., Coda R., Fulcheri E., Bussolati G., Ruolo del Museo di Anatomia Patologica: glorie passate, crisi attuale e prospettive future. Pathologica 2001; 93: 196-200. 2. Fulcheri E., I musei di Anatomia Patologica: un settore troppo trascurato della museologia scientifica, degno di riconsiderazione. Pathologica 1996; 88: 291-296. 3. Turk J.L., The medical museum and its relevance to modern medicine. J R Soc Med 1994; 87: 40-42. 4. Barbian L.T., Sledzik P.S., Nelson A.M., Case studies in pathology from the National Museum of Health and Medicine, Armed Forces Institute of Pathology. Ann Diagn Pathol 2000; 4: 170-173. 5. Nesi G., Santi R., Taddei G.L., Historical outline of the Museum of Pathological Anatomy in Florence. Med Secoli 2007; 19: 295-303. 6. Nesi G., Santi R., Taddei G.L., Art and the teaching of pathological anatomy at the University of Florence since the nineteenth century. Virchow’s Arch 2009; 455: 15-19. 7. Fulcheri E., op. cit. nota 2, p. 2. 304 Antiche collezioni anatomiche: innovazione e ricerca 8. Nesi G., Santi R., Taddei G.L., op. cit. nota 6, p. 3. 9. Cooke R.A., A moulage museum is not just a museum. Virchow’s Arch 2010; 457: 513-520. 10. Lanza B., Azzaroli Puccetti M.L., Poggesi M., Martelli A., Le cere anatomiche della Specola. Firenze, Arnaud. 1979. 11. During M.V., Poggesi M., Didi-Huberman G., Bambi S., Encyclopaedia Anatomica. Cologne, Taschen. 1999. 12. Nesi G., Santi R., Taddei G.L., op. cit. nota 6, p. 3. 13. Jutras L.C., Magnetic resonance of hearts in a jar: breathing new life into old pathological specimens. Cardiol Young 2010; 20: 273-283. 14. Chemm R.K., Woo J.K.H., Pakkiri P., Stewart E., Romagnoli C., Garcia B., CT imaging of wet specimens from a pathology museum: how to build a “virtual museum” for radiopathological correlation teaching. Homo 2006; 57: 201-208. 15. Jutras L.C., op. cit. nota 13, p. 5. 16. Santos M.C., Saito C.P., Line S.R., Extraction of genomic DNA from paraffin-embedded tissue sections of human fetuses fixed and stored in formalin for long periods. Pathol Res Pract 2008; 204: 633-636. 17. Tonnies H., Gerlach A., Klunker R., Schultka R., Gobbel L., First systematic CGH-based analyses of ancient DNA samples of malformed fetuses preserved in the Meckel-Anatomical Collection in Halle/Saale (Germany). J Histochem Cytochem 2005; 53: 381-384. 18. Santos M.C., Saito C.P., Line S.R., op. cit. nota 16, p. 6. 19. Gobbel L., Schultka R., Klunker R, Stock K., Helm J., Olsson L., Opitz J.M., Gerlach A., Tonnies H., Nuchal Cystic Hygroma in five fetuses from 1819 to 1826 in the Meckel-Anatomical Collections at the University of Halle, Germany. Am J Med Genet Part A 2006; 143A: 119-128. 20. Ottini L., Falchetti M., Marinozzi S., Angeletti L.R., Fornaciari G., Gene-environment interactions in the pre-Industrial Era: the cancer of King Ferrante I of Aragon (1431-1494). Hum Pathol 2011; 42: 332-339. 21. Ferrari L., Coda R., Fulcheri E., Bussolati G., op. cit. nota 1, p. 2. 22. Fulcheri E., op. cit. nota 2, p. 2. Correspondence should be addressed to: Gabriella Nesi, Viale G.B. Morgagni 85 - 50134 Florence, Italy Phone: +39 055 4478114; Fax: +39 055 4379868 E-mail: [email protected] 305 MEDICINA NEI SECOLI ARTE E SCIENZA, 25/1 (2013) 307-318 Journal of History of Medicine Recensioni/Essay Reviews CSEPREGI I. and BURNETT C. (eds.), Ritual Healing. Magic, Ritual and medical Therapy from Antiquity until the Early Modern Period. Micrologus’ Library, Firenze, Sismel, Edizioni del Galluzzo, 2012. Il volume raccoglie gli atti di un colloquio di studio organizzato nel 2006 presso il Warburg Institute; esso è caratterizzato da un approccio fortemente connotato in senso multidisciplinare e dallo sforzo di individuare percorsi di ‘lunga durata’ attorno ai quali si articola una riflessione sui legami intercorrenti tra ritualità e pratiche di guarigione nel bacino del Mediterraneo e nel mondo occidentale, dall’antichità al primo evo moderno. I contributi proposti selezionano, evidentemente, solo alcuni tra gli aspetti che possono caratterizzare una ricerca su temi complessi, con l’intenzione esplicita di non arrestarsi alla discussione delle relazioni intercorrenti tra religione e pratiche terapeutiche teurgiche o sacre, ma di estendersi fino ad affrontare l’analisi di tutta una serie di nessi che connettono la dimensione del mito e del rito alla cura e al tentativo di guarigione. Nonostante le limitazioni ‘forzatÈ imposte al lavoro da intenzioni di studio ampie ed articolate (limitazioni peraltro riconosciute dai curatori nella prefazione), il testo si presenta come un’indagine esaustiva e ad ampio raggio, che riesce a ricomprendere, ad armonizzare e a collegare aspetti tipici della cultura ebraica, del mondo mesopotamico, delle pratiche di guarigione egizie e del primo mondo cristiano; interessante e ‘warburghiano’ è l’utilizzo di fonti eterogenee, che vanno dai contributi dell’epigrafia, ai materiali archeologici, iconografici, sino alle leggende ed alle vite di santi cristiani orientali ed occidentali che ripropongono e rielaborano l’esperienza antica delle sanationes attraverso interventi miracolosi o, semplicemente, sogni terapeutici. 307 Recensioni Altrettanto interessante è lo sforzo di non leggere le pratiche rituali come semplici gesti isolati, ma di riconnetterle, secondo le indicazioni più volte citate di Vivian Nutton, alla ricostruzione dei contesti, del tessuto sociale in cui esse vengono, consapevolmente o inconsapevolmente, strutturate, al vissuto psicologico della malattia, inquadrato spesso – in modo innovativo – nella prospettiva e nella visuale del paziente, che offre spunti nuovi rispetto a quanto la storiografia, soprattutto antichistica, ha prodotto – per evidente maggiore facilità di reperimento e consultazione delle fonti – esaminando in passato le figure dei guaritori più che quelle degli ammalati. Questo sforzo consente di confermare e sottolineare, attraverso i vari contributi, ciò che era già noto, per esempio, per quanto riguarda la sfera delle guarigione templare in Grecia, dopo l’affermazione della medicina ippocratica e fino alla sua ridefinizione con Galeno in epoca imperiale; che, cioè, i sacerdoti di Asclepio ‘apprendono la medicina razionalÈ nel corso del tempo (Edelstein) ed inglobano nelle cerimonie sacre della guarigione all’interno del tempio tutta una serie di elementi terapeutici che si ritrovano nelle prescrizioni farmacologiche dei testi ippocratici; che questo percorso non è unidirezionale, perché allo stesso modo la medicina razionale da un lato accoglie ed include nella sua farmacopea esperienze che vengono dalla guarigione empirica (per esempio, i saperi tipicamente femminili) e dalla sfera della guarigione rituale (si pensi, tra l’altro, alle modalità di accertamento della gravidanza ed al loro accertato legame con le tradizioni divinatorie egiziane), dall’altro fa propria e trasmette in ‘lunga durata’ la gestualità e l’ambientazione ‘teatralÈ del sacro. Secondo una precisa strategia – che peraltro l’antropologia medica descrive anche nel contemporaneo sotto il nome di ‘startegia dello sciamano’ – la medicina razionale riconosce come maggiormente efficaci strategie di guarigione che prevedano lo sforzo e la partecipazione del paziente. Sono, dunque, più efficaci le terapie sgradevoli o con farmaci di difficile reperibilità ed alto costo; i far308 Essay Reviews maci migliori vengono da terre lontane; più lontano è il luogo in cui la guarigione viene promessa e più difficile è il suo accesso - come accade per le partorienti greche, per le quali Artemide è più attiva a Brauron che in qualsiasi altro tempio sul territorio- maggiori sono le possibilità di uscire guariti e soddisfatti; più solenne è l’officina del medico e più consono il suo abito ed il suo atteggiamento, maggiori le possibilità di riuscire nella cura….. è difficile non proiettare questi suggerimenti antichi in contesti di riflessione come quelli indotti dalla lettura del Cervello del paziente di Fabrizio Benedetti, in cui la ricerca neurofisiologica dimostra oggi come i gesti, le posture, le parole e gli atteggiamenti dei curanti siano in grado da soli di attivare aree corticali e sistemi sensoriali e di generare una risposta positiva, un vero e proprio placebo con effetti attivi e positivi sulla salute del paziente, al pari delle strategie terapeutiche vere e proprie. Il testo di Fernando Salomon, che chiude questo libro, è interamenete dedicato proprio a questi aspetti del comportamento ritualizzato del medico nel Medioevo e all’illustrazione di come essi, lungi dal derivare da una casuale ‘offerta di empatia’, siano invece da considerare il frutto di un training specifico, che dimostra una consapevolezza interna della medicina dell’alta efficacia di gesti che i pazienti si attendono come ‘parte integrante’ della cura. Altri contributi sottolineano aspetti e strumenti ‘marginali’ ma estremamente interessanti dei processi di guarigione, come l’uso di anelli e pietre incise, cui si attribuisce valore di farmaci (al punto che in alcuni casi essi risultano scalfiti da un uso che pare indicare la direzione del consumo delle parti polverizzate del simbolo come veri e propri farmaci), o come il culto delle statue di eroi o di atleti cui si attribuiscono, principalmente in Asia Minore, esplici poteri taumaturgici; anche se, nel caso specifico, il tentativo di connettere l’idea che la statua possa essere efficace come strumento terapeutico al suo utilizzo in fase di remissione di febbri malariche terzane e quartane (allo stesso modo in cui il culto dei re taumaturghi serve a curare la scrofo309 Recensioni la) sembra un riduzionismo inutile e anche piuttosto dimentico della complessità di approccio alla dimensione mitica della guarigione. Segnaliamo anche lo studio dotto e ‘trasversale’ di Vivian Nutton, incentrato sulle vicende di una vita di Ippocrate in un testo del XIV secolo e su una traduzione della prefazione del testo di Asaph in cui si stabilisce una genealogia ‘nobile’ che connette direttamente la tradizione ebraica agli antecedenti greci; nonché una serie di lavori sulle modalità in cui il sogno, inteso come strumento terapeutico all’interno dei templi di Asclepio (il dio fa da sfondo silenzioso in molti dei contributi presentati, anche quando essi non fanno riferimento immediato alle pratiche di guarigione legate al suo culto in Grecia prima e a Roma poi), si rimodella nel percorso cronologico che connette l’antichità classica al mondo bizantino e all’occidente cristiano. I pazienti non sono più soli; spesso si muovono assieme ad altri ammalati, in paesaggi dell’anima che si modellano sulle nuove esperienze di una medicina che cambia e si adatta ai contesti sociali e culturali; spesso sono curati ‘a domicilio’, mentre dormono tranquilli nei loro letti; il dio o i santi suggeriscono terapie rinnovate, che risentono dei cambiamenti concettuali in corso nella pratica medica; Cosma e Damiano, immagine raddoppiata del dio greco guaritore, collezionano vittorie ben testimoniate nel Cosmedion di Costantinopoli, come accadeva molti secoli prima nelle liste conservate dai sacerdoti sul territorio greco e delle provincie orientali ed occidentali. Anche le streghe hanno un posto centrale nei riti connessi alla salute ed alla malattia, alla metà del XVI secolo, nel testo di Bartholomeus Carrichter presentato dallo studio di C. Rider; induttrici di malattia attraverso rituali ‘inaccettabili’, debbono essere affrontate con analoghi rituali che portino via il male per liberare i pazienti dalla malattia, dall’impotenza, dalla sterilità. Il concetto ontologico di malattia è ancora ben vivo in primo evo moderno, alla corte dell’imperatore Massimiliano II…. Valentina Gazzaniga 310 Essay Reviews Betta E., L’altra genesi. Storia della fecondazione artificiale. Roma, Carocci, pp. 267. Poche storie, come quella che riguarda la fecondazione artificiale, riescono a intercettare la poliedrica qualità dei cambiamenti antropologici e delle sfide culturali e psicologiche determinate dall’impatto delle tecnologie e scienze mediche su una delle dimensioni della vita umana più intime e, allo stesso tempo, socialmente più sentite e più facilmente oggetto di giudizi di valore. Il libro di Betta racconta in modo documentato e con le ‘giustÈ scansioni l’evoluzione di una tecnica che si sviluppò negli ultimi decenni del Settecento, da un lato con gli studi dell’abate Lazzaro Spallanzani negli anni Settanta dell’Ottocento, che miravano a stabilire le basi fisiologiche della riproduzione, e dall’altro con la narrazione della nascita ottenuta, forse alcuni anno dopo, dal noto chirurgo inglese John Hunter iniettando lo sperma del marito nell’apparato genitale della moglie. Nel 1803 un medico francese, Michel-Augustin Thouret, dà alle stampe un testo in cui racconto in dettaglio come nel 1780 fosse riuscito a far nascere un bambino in perfetta salute sempre facendo iniettare il seme con una siringa dal marito. Partendo da queste vicende, che diventeranno l’entroterra storico delle successive esperienze, il libro mette a fuoco nitidamente le discussioni e le decisioni che la prospettiva progressivamente in miglioramento e in espansione sul piano delle possibilità di intervento della tecnologia hanno provocato nell’ambito comunità medica, rispetto alla relazione tra medico e paziente, per quanto riguarda l’atteggiamento della religione e l’evoluzione dei diritto di famiglia.Nel ricostruire le origini delle pratiche di fecondazione assistita, Betta si concentra soprattutto sulla Francia, dove sull’onda dei timori neomalthusiani per il declino demografico, la nuova modalità di supplire a ridotto tasso di fertilità suscitava interesse in un mondo medico in cui, benché ancora con scarsa uniformità e senza casistiche attendibili, si precisavano indicazioni e pro311 Recensioni tocolli clinici. Nel contempo, l’immaginario letterario iniziava a ricamare scenari al tempo apparentemente fantastici, ma di lì a un secolo in via di attuazione da parte di operatori in carne e ossa. Di fecondazione artificiale si interessò in Italia anche Paolo Mantegazza, che immaginò l’avvento della crioconservazione e discusse l’uso di seme di donatore, suscitando naturalmente sia l’interesse della comunità internazionale per le sue esperienza, sia la censura religiosa su questa come su altre sue posizioni divulgate al largo pubblico. Mentre i fisiologi scoprivano le basi cellulari e in seguito anche quelle endocrinologiche dei processi riproduttivi, nella stagione del positivismo tardo ottocentesco si coniugavano, nella definizione delle funzioni che poteva svolgere questa tecnica, sia un processo di medicalizzazione del rapporto sessuale, reso possibile in primo luogo dalla scomponibilità e sostituibilità e manipolabilità di alcuni procedimenti e costituenti del processo fecondativo, sia l’idea diffusa che la civilizzazione causava fenomeni degenerativi sul piano della qualità biologica della specie, a cui si sarebbe potuto far fronte con l’innovazione scientifica e tecnologica. Ma, mentre la comunità medica sperimentava e talvolta creava l’occasione per clamorosi abusi, insuccessi e scandali, ovvero cominciava a confrontarsi con il controllo dell’efficienza e con le prime controversie legali, la religione cattolica giungeva, di fronte a insistenti interpellanze per una presa di posizione ufficiale, non senza una interna e contrastata discussione a denunciare come illecita la fecondazione artificiale. In buona sostanza, nel corso della seconda metà dell’Ottocento, la fecondazione assistita si è affacciata come opzione nell’ambito della clinica ginecologica, ma le procedure necessarie per realizzarla (masturbazione per la raccolta del seme e intervento di una terza persona estranea alla coppia), nonché gli scenari possibili, a cominciare dall’uso di gameti da donatori estranei alla coppia, sono state ritenute inconciliabili (turpi, immorali e lesive della legge divina) da parte della chiesa cattolica con i dogmi che identificano proprio nelle modalità 312 Essay Reviews naturali di compiersi, il valore sacrale dell’atto riproduttivo. E questo pur di fronte agli argomenti di alcuni teologi che lo scopo per cui la tecnica veniva usata, ovvero consentire la legittima aspettativa di genitorialità, avrebbe dovuto essere giudicata in modo moralmente favorevole. Betta ricostruisce nei dettagli il dibattito e mostra come, per l’ennesima volta, ma non sarà l’ultima, le gerarchie teologiche, di fronte a diversi documenti, tra cui quello redatto dal gesuita Domeni Palmieri nel 1897, che metteva a confronto gli aspetti che rendevano sia incompatibile e sia compatibile la tecnologia con la morale riproduttiva, optava per il non licet. Una posizione, che sarà ribadita nel secolo successivo, anche con il sostegno attivo dello scienziato di riferimento per le materia biologiche, cioè Padre Agostino Gemelli, di fronte a nuove interpellanze e pressioni della società civile e rispetto a tutte le novità che si apriranno grazie agli avanzamenti della ricerca. Anche in occasione della discussione e approvazione della legge 40 sulla fecondazione assistita del 2004, così come durante la campagna referendaria per modificarla nel 2005, la posizione della chiesa fu di contrarietà alla legge, che decise di difendere quale “male minore”. Anche di fronte alla sentenza della Corte di Strasburgo che nel 2012 ha stabilito che la legge 40 viola la Convenzione europea sui diritti umani. Il libro di Betta mette opportunamente in luce che la possibilità stessa per la fecondazione assistita di diventare una pratica di interesse clinico, da offrire quindi con delle chances interessanti alle coppie, ha tratto impulso dalla ricerca veterinaria. Sulla scia delle innovazioni tecniche e dei risultati ottenuti dal russo Ivanow in ambito veterinario, riprese anche in Italia, in un contesto dove non esistevano regole chiare che tutelassero i paziente contro sperimentazioni selvagge, le innovazioni e risultati realizzati sugli animali venivano provati sulle donne senza troppi scrupoli bioetici. La relazione tra l’interesse per l’uso della fecondazione artificiale nell’ambito del miglioramento zootecnico e l’uso della procedura manipolativa in ambito umano trovava peraltro 313 Recensioni un naturale collegamento nella diffusione delle idee eugeniche. L’eugenica, non andrebbe mai dimenticato, non era una novità sul piano dalla concezione politica della società, nel senso che da sempre alcune istanze politico-culturali nelle società umane si fanno carico del problema di come evitare che le scelte riproduttive avvengano sulla base di impulsi irrazionali. Con gli avanzamenti scientifici e tecnologici, quindi sulla base di idee via via empiricamente provate su come si trasmettono i tratti ereditari, le élites politiche, economiche e culturali cercavano di condizionare, anche con leggi eugeniche, le scelte riproduttive per fare in modo che coloro che possedevano tratti ritenuti migliori facessero più figli, o che chi invece appariva difettoso o socialmente meno valido non si riproducesse. Betta ricorda come alcune riviste di riferimento per il mondo medico enfatizzassero la portata eugenica della nuova tecnologia, ma allo stesso tempo una parte del mondo medico faceva anche qualche calcolo statisto e metteva in discussione l’ottimismo generalizzato, nonché quindi la correttezza deontologica di sottoporre le donne ad atti medici invasivi. In quel contesto, anche per prevenire denunce e quindi processi ai medici, si cominciò a istruire procedure per il consenso informato.Un ulteriore aspetto importante che viene preso in esame nel libro di Betta è come il diritto ha gestito l’uso di tecniche, che sfidavano le basi tradizionali della disciplina legale dei rapporti familiari. Betta esamina i tempi e i modi attraverso cui nei paesi europei e negli Stati Uniti è stata superata la difficoltà di ripensare da parte dei giudici in modo così discriminatorio la fattispecie della denuncia di adulterio da parte del coniuge maschio nel caso del ricorso alla fecondazione artificiale con seme eterologo. È interessante osservare che si sono dovuti attendere gli anni Sessanta e Settanta, cioè una sorta di transizione generazionale per registrare un superamento della percezione, nel diritto occidentale, della fecondazione eterologa quale equivalente dell’adulterio. L’ultimo capitolo del libro si concentra sulla storia della fecondazione artificiale in Italia. Una vi314 Essay Reviews cenda peraltro ancora aperta. Betta si dilunga in particolare sulla vicenda del medico bolognese Daniele Petrucci, il quale sosteneva nel 1961 di avere fecondato in vitro embrioni umani, sopravvissuti per 29 giorni. Nel 1964 Petrucci dichiarava di aver fatto nascere 28 persone con la sua tecnica di fecondazione artificiale, ma la storia rimane a livello di resoconti orali e le uniche cose documentabili sono il clamore mediatico e la condanna della chiesa cattolica. Il processo e gli sviluppi politici che hanno portato l’Italia a dotarsi in ritardo di una legge che la comunità medica internazionale ha giudicato non fondata sulle metodologie di buona pratica clinica e che, in seguito, è anche risultata in contrasto con i diritti costituzionali, per cui è ormai stata svuotata di validità per quanto riguarda il divieto di diagnosi preimpianto e crioconservazione degli embrioni, viene ricostruito abbastanza dettagliatamente nel libro. Anche se mancano i passaggi che videro arrivare e circolare in Italia le tecnologie della fecondazione artificiale dopo la nascita in Gran Bretagna, nel 1978, della prima bambina concepita in provetta. Betta è uno storico contemporaneo, e quindi lascia abbastanza in ombra passaggi scientifici importanti, o discussioni accese e politicamente influenti che hanno avuto luogo soprattutto negli anni Settanta, nell’ambito della comunità scientifica sulle ricadute sociali della fecondazione artificiale. In modo particolare, il cortocircuito che si produsse tra gli esperimenti di John Gurdon sulla clonazione e le ricerca volte a realizzare la fecondazione in vitro. Nell’insieme però il libro fa comprendere che i problemi e le sfide tecnologiche, nonché le controversie culturali che sollevano gli avanzamenti nella manipolazione dei meccanismi e processi della vita, evolvono. E trovano risposte in parte rigide e in parte flessibili, che si devono confrontare con aspettative di cui troppo facilmente, e al prezzo di errori e danni, si tende a ignorare le costanti della psicologia umana che, prevalentemente su basi emotive, guidano le scelte e i giudizi. Un confronto più diretto con queste costanti, che le ricerche antropologiche evoluzionistiche e le neuro315 Recensioni scienze sociali stanno mettendo a fuoco, arricchirà forse l’approccio storico di nuovi strumenti di lettura di fenomeni sociali che a volte sembrano contraddittori, mentre sono sempre troppo umani. Gilberto Corbellini CLARK C. Z., CLARK, O., The Remarkables. Endocrine Abnormalities in Art. University of California Medical Humanities Consortium, 2011 (series: Perspectives in medical Humanities) In many ways, this is a remarkable book. While placing itself in a rather overexplored field – the relationship between art and medicine and science, or, artistic and figurative representations of illnesses and maladies – it manages to keep abreast from the most obvious pitfalls of the genre. In fact, while avoiding some of the jargon and many of the niceties of art and cultural historians’ disciplinary discussions, it provides a very useful confrontation between medical history, in its ‘internalist’ sense, and accurate analysis of paintings (‘art’ is here used to mean mainly painting, while sculptures are not taken into account). These are taken mainly from the early modern period, from the Renaissance onwards, with some exceptions for ancient and contemporary art. In the author’s words, the bridge between medicine and art is to be found in a common fascination with, and interest into, “the structure and functions of the human body, [that] led to recognition of physical abnormalities in human anatomy and physiology, among them those related to endocrine glands” (p. 3). This was to be expected in the Renaissance and beyond, when anatomy was among the first preoccupations of medicine, and when science was developing along a strictly observational stance. The authors base their account on a progressively ‘scientific’ view of the phisiology and pathology of the human body on the celebrated book by Katherine Park and Lorraine Daston, 316 Essay Reviews Wonders and the order of Nature (2001). They also seemingly endorse a refreshing, if at times naif, belief in the sheer power of representation – that is, they seem to imply that every representation is to be taken at face value. It may well be that in some of their examples, e.g. the innumerable swelling female necks and throats of the late Renaissance and Mannerism, this is not exactly the case, and that they can not be taken directly as goiters (despite the reference to goiter epidemiology in the artists’ areas of activity). However, the authors are too well aware of the social and symbolic implications of iconographic elements to push this game too far. They are thus promptly referring this element to a whole range of social and cultural factors – fertility beliefs, the connection between lost virginity and the swelling of the thyroid gland, etc. Clark and Clark also take into account artists’ fascination with ‘the other’ – the deviant or the irregular, not to say the monstrous, and for its realistic or grotesque representation. Normality and its shifts are a recurrent topic in the book. Here again, more than quoting again the rich and ever growing bibliography on teratology, they proceed to examine the way scientific discoveries on aetiology and treatment of endocrine disorders where developed, mainly by surgeons. The discussion of portaits and depictions of sufferers form the goiter, mentioned above, is substantiated by a very useful digression on how these were treated, in a chronology spanning from the Renaissance to the 19th century, from Ambroise Paré to John Hunter to Theodor Kocher. Equally valuable is the history of treatment (surgical and not) for thyroid glands (pp. 65-71). Undeterred by the risk of anachronism, these chapters on medical progress are a very interesting match for the observation of the paintings. The book also examines dwarfs, with many references to Véronique Dasen’s seminal work, arriving as far as Pablo Picasso and Toulouse-Lautrec. While dwarfs have been many times examined, giants are a less well-known topic. Giants are present in almost all ancient narratives and mythologies, including the Bible, and as such they have been 317 Recensioni subject to ‘a broad spectrum of positive and negative associations’ (p. 129). Primitive giants have been associated with bestiality and ferocity, but in the course of time thay have been ‘tamed’, culturally speaking, and have become heroic (as in the case of Prometheus, in fact a Titan) and even serviceable and gentle, as in the case of st. Christophorus. The concluding chapter, on sex disorders and their representation, addresses a somewhat difficult subject, both because it displays little iconography, and because it questions disorders whose diagnosis and treatment are evry far (in time) from representations. In fact, Ribera’s bearded woman, ancient hermaphrodites, despite the advances and changes in Renaissance and especially early modern medicine, share the destiny of having been ‘wonders’ more than scientific phenomena. The book closes on a much needed ethical discussion, on the necessity for art (and medicine!) to deal respectfully and tactfully with human beings whose perceived ‘anormality’ is often but a matter of disease (p. 175). The book has magnificent illustrations and may be recommended to the art historian and the physician alike, but can also prove useful for classroom use with medical students following a history of medicine course. Maria Conforti 318 MEDICINA NEI SECOLI ARTE E SCIENZA, 25/1 (2013) 319-324 Journal of History of Medicine Libri ricevuti/Received Books a cura di Valentina Generoso MONTINARI M. R., Clonazione e cellule staminali. Ricerca ed etica. Lecce, Edizioni Grifo, 2012. Clonazione e cellule staminali sono due grandi temi di dibattito sollevati oggi dalla scienza, soprattutto perché se ne prevede, o se ne teme, come imminente l’applicazione all’uomo. Non c’è dubbio che la medicina e la società si trovino di fronte ad una svolta importante che richiede decisioni gravi per le loro implicazioni; decisioni che non dovrebbero essere viziate da conoscenze carenti o errate. Questo libro, ampiamente aggiornato ai più recenti progressi compiuti dalla ricerca biotecnologica in questo campo, si colloca nella prospettiva più adatta a fornire un contributo personale concreto dell’Autrice sui dibattiti in corso e rappresenta uno strumento pratico e completo per studenti universitari e ricercatori. Sono trattati sia gli aspetti etico-scientifici che i risvolti applicativi delle cellule staminali e della clonazione. Ripercorrere la storia di queste tecniche aiuterà a mettere ordine nelle nostre idee e a capire se i rischi che corriamo oggi siano realmente diversi e più preoccupanti di quelli che abbiamo corso in passato. ZURLINI F., Il Collegio Medico di Fermo. Formazione scientifica e cultura professionale nella Marca fermana in Età moderna (secoli XVII – XVIII). Fermo, Andrea Livi Editore, 2012. Il volume è il risultato della collaborazione dell’Autrice e dello Studio firmano per la storia dell’arte medica e della scienza con l’Ordine dei Medici, Chirurghi e d Odontoiatri della Provincia di Fermo, per riscoprire e valorizzare la secolare e prestigiosa tradizioKey words: Phantasma - Dream - Oniric image - Greece 319 Libri ricevuti ne storico-medica di questo territorio. L’intervallo cronologico preso in esame – i secoli XVII-XVIII – risponde ad una scelta scientifica ben precisa: è questo il periodo che gli storici definiscono “Età dei Collegi” e che vede sorgere nella penisola italiana ben quattordici collegi, in cui possiamo annoverare anche quello fermano, contestualizzabile entro il territorio dello Stato Ecclesiastico. Il Collegio Medico Fermano, quindi, si inserisce in un processo di professionalizzazione che coinvolge in quel momento gli Stati dell’intera penisola e di molte regioni europee. La ricerca è stata condotta in gran parte su materiale archivistico e manoscritto inedito, conservato presso archivi e biblioteche fermane e della capitale romana ed ha consentito di ricostruire la storia del Collegio Medico, la sua struttura e l’operato, i soggetti che ne furono protagonisti. Sono state inserite schede di approfondimento ed il testo è corredato da un ricco apparato iconografico con la riproduzione di alcuni documenti rinvenuti nella ricerca. CENTRO STUDI PROSPERO ALPINI, Alpiniana. Studi e testi. Marostica, Edizioni Antilia sas, 2011. In questo volume sono raccolti dieci studi dedicati alla figura e all’opera del famoso medico e botanico Prospero Alpini. Alcuni sono lavori comparsi in precedenza, in qualche caso riveduti e aggiornati, ma che è sembrato opportuno ripubblicare per renderli facilmente disponibili a chi vorrà riprendere e approfondire lo studio (“I manoscritti di Prospero Alpini”, di Giuseppe Ongaro; “Contributo all’iconografia di Prospero Alpini”, di Giuseppe Ongaro e Antonio Gamba; “Prospero Alpini e l’introduzione di piante esotiche nell’Orto botanico di Padova: Rheum Rhaponticum e Oenothera biennis”, di Elsa M. Cappelletti; “Semina Horti Medici (1614), manoscritto ineditodi Prospero Alpini e primo catalogo dei semi dell’Orto botanico di 320 Received Books Padova”, di Elsa M. Cappelletti e Giuseppe Ongaro; “Mélancolie et méthodisme: traduction originale et commenatire d’un texte de Prosper Alpin (1553-1616), di Caroline Petit). Gli altri cinque contributi invece sono completamente inediti e sono la dimostrazione pratica di quanto ancora ci sia da lavorare nell’approfondimento dell’opera alpiniana (“Della inedita traduzione di Prospero Alpini del De animalibus di Averroè: note introduttive e trascrizione del testo”, di Giulio F. Pappagallo; “La balneoterapia nel De medicina Aegyptiorum di Prospero Alpini”, di Maurizio Rippa Bonati; “Sulla fortuna settecentesca di Prospero Alpini. Robert James e la traduzione inglese del De praesagienda vita et morte aegrotantium (1746)”, di Massimo Rinaldi; “Ottaviano Rovereti e prospero Alpini” e “I rapporti tra Gaspard Bauhin e prospero Alpini (con quattordici lettere di Prospero Alpini a Gaspard Bauhin)”, di Giuseppe Ongaro. SALERNO A. et. al. (a cura di), INGRASSIA G.F., Informatione del Pestifero et contagioso morbo. Palermo, per conto dell’Accademia delle Scienza Mediche, Edizioni Plumelia, 2012. Gianfilippo Ingrassia, medico e anatomista di epoca rinascimentale, grande conoscitore dell’anatomia, è considerato il fondatore della Medina Legale e della Teratologia. Nominato nel 1575 da Filippo II, Protomedico generale di Sicilia, riuscì con grande competenza e valore umano, mentre infieriva la peste su Palermo, ad arginare l’avanzata del morbo, intuendo il preminente ruolo del contagio e innovando, così i criteri epidemiologici. Il grande successo dell’intervento sanitario dell’Ingrassia si consolida nella prevenzione (“barreggiamento”), vale a dire in tutte quelle misure atte a ridurre il contagio, in quelle insindacabili decisioni d’intervenire su quanti non eseguivano le direttive del protomedicato dov’era considerata 321 Libri ricevuti anche, in maniera brutale ma necessaria, l’applicazione della “forca”. Ma si assistette altresì alla profonda disponibilità dell’Ingrassia a rivolgere attenzioni e amorevolezza verso quel volgo disperato e piagato, consegnando, senza cedimenti sulle regole, tanta umana comprensione. Così l’appellativo di “don Filippello” traduce il senso di rispetto che il medico seppe conquistarsi dalla popolazione afflitta dal morbo. Quest’opera riconsegnata alla lettura è rivolta alla classe medica (ma non soltanto), per sollecitare, fin quanto possibile, nonostante un linguaggio difficoltoso, la conoscenza di quel tempo, di quell’uomo, di quello scienziato il cui operato si produsse nella coscienza terapeutica, scientifica e politica degli anni successivi. SALERNO A. e MALTA R. (a cura di), Corso di formazione in Medicina, individuo, società. Accademia delle Scienze Mediche dell’Università degli Studi di Palermo, 2011. Questa presentazione riassume obiettivi e contenuti del Corso di formazione, rende noti docenti e corsisti e illustra le ragioni della proposta formativa, tramite l’intervento e il contributo diretto dei docenti nei loro rispettivi campi di interesse. RIGO G.S., Non recare ingiustizia e danno. Una discussione sulla storia degli uomini obbedienti alle leggi del castigo. Villasanta (MB), Casa Editrice Limina Mentis, 2012. Questo saggio si richiama nel titolo al Giuramento di Ippocrate (“mi asterrò dal recar danno e offesa”) che, ancora oggi, sancisce in un rituale saldo nella tradizione l’ingresso dei laureati in medicina e chirurgia nella vita professionale. Nonostante la chiarezza delle affermazioni ed il valore dei principi trasmessi con il Giuramento, 322 Received Books da alcuni anni si è avvertita l’esigenza di insegnare la bioetica in una prospettiva di educazione alla professione medica. L’attualità presenta molteplici occasioni per affrontare l’argomento da diversi punti di vista, ma qui interessa la descrizione di situazioni passate, laddove gli attori e gli interessi sul campo erano assai meno numerosi e confusi ed emerge quindi con sufficiente nitore anche il ruolo del medico. In particolare, si porta alla luce un argomento che sembra scomodo alla medicina di oggi. La storia, anche quella molto lontana da noi, appare ricca di fatti e di documenti sul tema e si presta bene ad essere interrogata sul ruolo del medico e del chirurgo sulla scena della tortura. non sono soltanto le questioni morali del presente a lasciare ampi margini alla discussione pubblica ed alla riflessione individuale. FAPPANNI S. et. al. (a cura di), Adolfo Ferrata (1880 – 1946), un grande maestro della Medicina. Modica, Cannizzaro Arti Grafiche, 2012. L’Amministrazione Comunale di Monte Isola ha dato alle stampe questo volume in memoria del prof. Dott. Adolfo Ferrata, in occasione dell’intitolazione di una piazza e di una lapide celebrativa, in località Porto di Siviano, all’illustre patologo ed ematologo che trascorse significativi periodi della sua vita nel territorio montisolano, dov’è tumulato. Oltre a essere stato un celebre medico, capace di formulare teorie scientifiche estremamente rilevanti, di pubblicare studi di alto profilo e interesse, tanto da conseguire importanti consensi a livello internazionale, il prof. Ferrata era una persona dotata di grande umanità. Lo dimostra l’affetto dei suoi tanti allievi che all’ateneo pavese, dove ha insegnato per parecchi anni, lo consideravano un vero e proprio “Maestro”, nel senso più alto e nobile del termine. Da non dimenticare sono anche i gesti di grande altruismo 323 Libri ricevuti e generosità che egli ha posto in essere, anche verso i Montisolani, senza mai dimenticare le persone meno abbienti. Il libro si propone di ripercorrere, seppure in maniera sinottica, la vita del prof. Adolfo Ferrata e di illustrarne, attraverso autorevoli contributi, l’importante attività scientifica. SANTAMARIA HERNANDEZ-CUENCA M. T. (a cura di), Textos médicos grecolatinos antiguos y medievales: Estudios sobre composiciòn y fuentes. Servicio de Publicaciones de la Universidad de Castilla-La Mancha. Il presente volume comprende dieci studi su testi medici dell’Antichità e del Medioevo scritti in greco o in latino. È stata rivolta particolare attenzione ai procedimenti e alle tecniche di composizione di questi testi (compilazione, traduzione, uso linguistico, lessico tecnico, genere letterario) e alle fonti utilizzate, entrambi aspetti fondamentali che devono essere presi in considerazione quando si intraprendono la ricostruzione, lo studio e l’edizione dei suddetti testi. Questa prospettiva è stata applicata agli scritti antichi e medievali dedicati alla conoscenza e alla pratica della Medicina, a traduzioni di opere mediche dal greco al latino, così come a scritti relativi alla ginecologia, alla medicina magica e alla preparazione di medicine con sostanze provenienti da animali. In relazione a questo, nell’insieme degli studi è stata rivolta attenzione anche all’edizione e alla modifica dei testi, da cui si ricavano informazioni sulla trasmissione dei manoscritti, sulla dottrina esposta in essi e sulla loro conservazione. 324 MEDICINA NEI SECOLI ARTE E SCIENZA, 25/1 (2013) 325-334 Journal of History of Medicine Notiziario/News 9 April - 9 June 2013 - Modern Records Centre, University of Warwick, Irradiating the Sun-Starved: Light Therapies in Britain, c.1900-1940 Curated by: Dr Tania Woloshyn http://www2.warwick.ac.uk/fac/arts/history/chm/outreach/soakinguptherays/ As part of the Wellcome Trust-funded project, ‘Soaking Up the Rays: The Reception of Light Therapeutics in Britain, c.1899-1938’, this exhibition features important light therapy textbooks, advertisements, user manuals, popular articles, ultraviolet (UV) and infrared lamps, and UV-protective goggles. These images, objects and texts were vital to disseminating and defining natural and artificial light therapy. Heliotherapy (natural sun therapy) and phototherapy (artificial light therapy) developed as progressive therapies during the late nineteenth and early twentieth centuries for the treatment of a variety of conditions, especially types of tuberculosis (of the lungs, skin, glands, bones and joints, etc.). Sunlight, whether natural or artificially-produced, could be used locally, that is directly onto wounds or lesions, or generally as a ‘bath’ for the whole body, and was understood to possess bactericidal and analgesic properties. As such light became a powerful, natural regenerative agent in the treatment of acute and chronic diseases. The exhibition concentrates on the early development of heliotherapy and phototherapy in Britain, highlighting their use in hospitals, sanatoria, and within the home with a fascinating range of material dating to c.1900-1940. This Exhibition runs in conjunction with the Wellcome Trust-funded invitee interdisciplinary workshop, ‘Light Technologies: the Materialisation of Light Therapeutics, c.1890 to the Present’, at the Modern Records Centre on Wednesday 10 April 2013. 10/04/2013 - 9.30am to 5.00pm - Seminar Room, Modern Re325 Notiziario cords Centre, Warwick, Light Technologies: the Materialisation of Light Therapeutics, c.1890 to the Present Convened by Dr Tania Woloshyn http://www2.warwick.ac.uk/fac/arts/history/chm/outreach/ soakinguptherays/ This interdisciplinary workshop brings together scholars in the histories of medicine and visual culture with specialisms in light therapeutics, radiation and radiology, photography, and medical technologies. Drawn by a shared interest in perceptions - both historic and contemporary - of light as curative and transformative, speakers and delegates will meet for a focused session exploring the historic development of heliotherapy (sun therapy), phototherapy (artificial light therapy), and radiotherapy (X-ray therapy). Particular emphasis will be placed on the visual and material cultures that defined and disseminated understandings of these therapies, especially images produced through photography (itself a light technology), as well as the diverse range of lamps, textbooks, pamphlets and advertisements that packaged light as a valuable commodity, for the individual and the nation. Speakers Include: Roberta Bivins (Warwick), Simon Carter (Open University), Anne Jamieson (Leeds), Melissa Miles (Monash), James Stark (Leeds), Sophia Zweifel (Independent scholar). 18/04/2012 - 20/04/2012 - University of Warwick (UK), Scientiae 2013: Disciplines of Knowing in the Early Modern World http://www2.warwick.ac.uk/fac/arts/history/chm/events/conferences_workshops/ The second annual Scientiae conference took place on the 18-20th ofApril 2013 at Warwick University in the UK, building on the success of the first Scientiae conference in April 2012 (hosted at Simon Fraser University, Vancouver) which brought together over 100 scholars from across the globe to explore the interdisciplinary nature of early modern knowledge. 326 News The premise of this conference has been that the Scientific Revolution can be considered an interdisciplinary process involving Biblical exegesis, art theory, and literary humanism, as well as natural philosophy, alchemy, occult practices, and trade knowledge. 26/04/2013 – 27/04/ 2013 - Brussels, University of Birmingham’s Brussels Office and the Free University of Brussels (VUB), Food and Hospitals: an historical perspective. Sponsored by the Society For Social History of Medicine Food and drink were crucial to hospital and asylum expenditure from medieval to modern times, not unusually comprising one half of medical institutions’ annual budgets. Drink and diet naturally varied with country, region and locality. The organizers of this conference are interested in exploring broad geographical perspectives and associated fads, prejudices and phobias. The acquisition, preparation and use of foodstuffs were also managed by diverse groups, sometimes lay or clerical, as well as medical, including doctors, nurses and dieticians. Dietary needs and preferences of patients also varied with age, gender, race and religion, while meals were often augmented or restricted in line with diagnosis and discipline. Views concerning the role of food and drink in recovery also shifted significantly, both in earlier centuries, and more recently with the rise of the nutritional sciences. While contemporary grumblings about hospital food have become the quintessential hospital complaint, it is undeniable that a clean, warm bed, rest and the provision of food and drink, rather than medicines and therapies have always greatly increased hospital patients’ chances of recovery. Indeed diet has from the time of Galen been a central part of medical therapy. However, even if central to the day-to-day routine of hospitals, workhouses and asylums, food and drink continue to be overlooked in historical accounts of hospitalisation. This conference aims to foreground the role of food and drink in health care institutions in the past. 327 Notiziario 29/05/2013 – 1/06/2013 – House of Science and Letters (Kirkkokatu 6) and Helsinki University Museum (in the picture, Snellmaninkatu 3), Helsinki, the Finnish Medico-Historical Society presents the XXIV Nordic Medical History Congress Timetable 29/05/2013 - The Meeting for Medical History Museum, Helsinki University Museum, Auditorium. Theme of the meeting: Cooperation 12.00-12.20 Words of welcome by Director Sten Björkman, Helsinki University Museum 12.20-13.00 Keynote speaker: Associate Professor Kerstin Hulter Åsberg, Uppsala University: How can medical history museums benefit from each other? 13.00-13.15 Curator Henna Sinisalo, Helsinki University Museum: Cooperation between the Finnish medical history museums 13.15-14.45 Discussion 14.45-15.30 Coffee break 15.30-16.30 Project planner Susanna Hakkarainen, Helsinki University Museum: A walking tour of some (previously) medical buildings in the City Center Campus. 29/05/2013 9.00–15.00 - Workshop, House of Science and Letters, Room 505. Theme of the workshop: Reburial or curation: human remains and ethics Modern scientific methods provide new information on human remains recovered in archaeological excavations. The workshop focuses on three topics: 1) What are the possibilities and challenges that the new methods bring to the study of curated skeletal collections and newly found human remains. 2) The novel ethical issues arising for curation and reburial. 3) Ethical guidelines of human remains from archaeological excavations have not been given in Finland. The workshop will discuss the need of such guidelines in relation to national legislation and international human rights conventions. 328 News 30/05/2013 9.00–9.15 Opening of the congress 9.15-10.00 Helsinki University Museum, Keynote lecture, “Protection of privacy in research on archival documents and museum collections” (Director General, Docent Jussi Nuorteva, National Archives of Finland)10.15-11.00 Helsinki University Museum, Keynote lecture, “Palaeopathology and medical history: is there divergence or convergence in the use of different sources of data in understanding the health of our ancestors?” (Professor Charlotte Roberts, University of Durham, UK) 11.00-12.30 Lunch 12.30-14.15 2–6 parallel sessions, House of Science and Letters 14.15-14.45 Coffee break 14.45-16.30 2–6 parallel sessions, House of Science and Letters 16.45-17.45 Meeting of Nordisk Medicinhistorisk Förening, for members of the Nordic Medical History societies, House of Science and Letters 16.30-19.00 Possibility to visit the exhibition on the history of medicine in the Helsinki University Museum 31/05/2013 9.15-10.00 Helsinki University Museum Keynote lecture, ‘A most raging pestilential fever’: cattle plague through the centuries (Dr Louise Hill Curth, Reader in Medical History, University of Winchester, UK) 10.15-11.00 Helsinki University Museum, Keynote lecture, Global child health and the issue of anthropometry 1950s – 2006.(Professor Astri Andresen, University of Bergen, Norway) 11.00-12.30 Lunch 12.30-14.15 2–6 parallel sessions, House of Science and Letters 14.15-14.45 Coffee break 14.45-16.30 2–6 parallel sessions, House of Science and Letters 16.45–17.00 Closing Ceremony of the congress, House of Science and Letters 329 Notiziario 19.00-22.00 Congress banquet, New Clinic (http://www.suomenlhs.fi/banquet.html) 18/06/2013 – 22/06/2013 – University of Sydney, Sydney, Australia, The International Society for the History of the Neurosciences (ISHN) 18th Annual Meeting ISHN was founded in Montreal on May 14, 1995. Its mission is to improve communication between individuals and groups interested in the history of neuroscience, promote research in the history of neuroscience and promote education in and stimulate interest for the history of neuroscience. The full programme outline of this year’s meeting will include 3 days of general history of neurology and related fields. As the meeting will be held at the University of Sydney, many activities are planned around the campus, including museum visits, a display of rare medical books, as well as walks around historical precincts. An excursion to the old Quarantine Station on Sydney Harbour is planned for Thursday 21st June 2013 where presentations will focus on the history of infectious diseases of the nervous system. A celebration of Australasian neuroscience is planned for one of the days; this being the 50—year anniversary of the awarding of the Noble Prize to Sir John Eccles for his work on neurotransmission. 26/06/2013 – 27/06/2013 - St Anne’s College, Oxford, Historical perspectives on work and occupational therapy - Theory and empowerment-coercion and punishment This conference aims to provide a platform for exchange to scholars who are working on varied aspects of labour and occupation in relation to the history of health and medicine broadly conceived. The idea is to encourage critical engagement with the various medical, social and political factors implicated in how work and occupational therapy deve330 News loped within specific national and clinical contexts and at different periods. Comparative approaches and contributions focusing on transnational exchanges are particularly welcome, as are those concerned with pre-modern and non-European developments. Rigorously contextualised case studies of specific institutions and approaches are also sought. Address for inquiries: Ms Emma Hallet [email protected] or Professor Waltraud Ernst [email protected] Conference website: http://www.history.brookes.ac.uk/conferences/2013/therapy-empowerment/ 22/07/2013 – 28/07/2013 – Manchester, 24th International Congress of History of Science, Technology and Medicine The International Congress is the largest event in the field, and takes place every four years. Recent meetings have been held in Mexico City (2001), Beijing (2005) and Budapest (2009). In 2013, the Congress will take place in Manchester, the chief city of Northwest England, and the original “shock city” of the Industrial Revolution. Congress facilities will be provided by The University of Manchester, with tours and displays on local scientific, technological and medical heritage co-ordinated by members of the University’s Centre for the History of Science, Technology and Medicine. 24/07/2013 – 26/07/2013 – University of Münster, Germany, Crimes of Passion: Representing Sexual Pathology in the Early 20th Century The discourse on sexual pathology claimed a central position in modern European culture almost as quickly as it began to establish itself as a scientific discipline. The bonds between science and culture seem all the more visible when it comes to the science of sexual deviance, as many sexual scientists were quick to point out in their works. Without empirical or statistical material at hand, the scientists turned to 331 Notiziario other sources of knowledge in order to legitimize and systematize sexual pathology. Their earliest case studies came from literature. Indeed, certain authors found themselves under examination, as sexual themes in their books were treated as evidence of pathological fantasies. These literary perversions became the basis for sexual pathologists’ scientific interpretations and psychological analyses. As part of the formation and development of the discipline, the connection between sex and crime also played a central role in the scandals, injustices, and power struggles associated with sexual pathology in the early 20th century. The popular reception of works by Richard Krafft-Ebing, Magnus Hirschfeld, or Erich Wulffen, in addition to their contested scientific reception, attest to a wide interest in social deviation with sexual deviants being just one particularly scandalous branch of alterity. Indeed, deviation is the Other to that which is socially accepted, legitimate, and institutionalized. Social deviance by definition breaks course from what is construed as “normal.” The deviant breaks with the social order and, depending on the particular historical and political configuration, might be dealt with as a criminal. The debate surrounding Paragraph 175 of the German penal code that made sexual relations between people of the same sex illegal highlights the virulent history of how sexual deviance and crime were yoked together. Paragraph 175— enacted in the 19th century, but which was not completely repealed until 1994—brought certain sexual relations with their own specific social and cultural sanctions into the juridical realm of penal codes and state regulation. A significant part of this new institutionalization of sexual deviance (both academically and in terms of the law) involved thematizing gender roles, especially questions of “the female.” The pathologization of femininity was famously and scandalously presented by Otto Weininger in his Geschlecht und Charakter, a work that marks another controversial episode in the history of sexual pathology and modernism. The conference Crimes of Passion focuses on the triad of sexuality, criminology and literature during the early decades of the 20th century. 332 News 4/09/2013 – 5/09/2013 - Bern, Switzerland, Medical expertise in the 20th and 21st century Annual conference of the Swiss Society for the History of Medicine and Sciences. Currently we experience a crisis of expertise. It is true, experts are called for in all areas of life and on all levels of knowledge, their judgements and advice fill our talk shows, newspapers and bookshelves. But they do not provide the clarity, unambiguity and safety we long for. The statements of the acknowledged or self-proclaimed experts are to contradictory, our own standards of expertise to blurred, our desire for a democratization of expertise to strong. Does this diagnosis hold true for medicine, too? And if so, how did this happen? Some attention has been paid to the “birth” of the medical expert in the 18th century, the establishment of his professional status in the 19th century as well as to the sociology and epistemology of today’s medical expertise, but the change of the medical expert system in the 20th century has rarely been addressed. The conference is linked to the Workshop for young scholars “Expertise in Medicine and Natural Sciences” (see www.sggmn.ch/forum-e.html). Keynote speakers: Thomas Broman, Wisconsin Organization: Hubert Steinke, Institute for the History of Medicine, University of Bern Conference languages are English, German, and French. 4/09/2013 – 7/09/2013 – Lisbon, Portugal, EAHMH (European Association for the History of Medicine and Health) Biennial conference on Risk and Disaster in Medicine and Health, co-organised by the Universities of Evora and the Faculty of Medicine Risks and disasters have always been central issues in health and medicine. They illuminate the interfaces between science, medicine, 333 Notiziario environment, economy, society, culture and politics. Responses to preventive measures have often reflected tensions between the perceived wider social and economic benefits of interventions and the short-term costs imposed on individuals, specific social groups or society at large. One issue raised by such tensions has been whether individual freedom is deemed less important than the health of the community. Threats of epidemics have provoked local, national and international agencies to adopt drastic measures, consciously balancing the risk of disease against the economic risks posed by the disruption of trade or the implementation of expensive sanitary or environmental-protection measures whose cost effectiveness was difficult to foresee. The strategies developed to cope with risk and disaster form the core of public health and medical philosophy, ranging from quarantines and vaccinations to screening programs and high-tech medical monitoring. Yet there are distinct national and chronological differences in definitions, perceptions and representation of risks and dangers. They also vary according to the decision makers and broader publics: governments, medical professionals and other agencies, and different social classes, ethnic and gender groups. The debate will focus on all aspects of risk and disaster in the history of health and medicine, including its changing definition and the movement towards its quantification, covering epidemics, infectious and chronic disease, injuries and mental health, national and chronological differences and shifts in the definitions, perceptions and representation of risks and dangers, considered globally and according to race and ethnicity, gender, class, and professional status. The articulation between personal risk, diagnosis and prognosis throughout history and health risks affecting communities of all sizes is a key issue. The Lisbon Conference will have special sessions on the ‘History of Medicine on Display’, covering museology and the history of medicine and health as well as other practices of displaying the history of medicine to the public. For more information go to http://www.eahmh.net/ 334 MEDICINA nei SECOLI Arte e Scienza CEDOLA DI ABBONAMENTO NOME COGNOME INDIRIZZO LUOGO E DATA DI NASCITA TEL. _______________ FAX Desidero sottoscrivere un abbonamento alla Rivista Medicina nei Secoli - Arte e scienza per l’anno: 2013/2014 Desidero ricevere la fattura intestata a: C.F. / P.I. Desidero ricevere i seguenti arretrati della Rivista Medicina nei Secoli - Arte e scienza Fascicolo n. Anno *PAGAMENTO TRAMITE BONIFICO BANCARIO: UNICREDIT IBAN IT39G0200805227000401386548 CIN G ABI 02008 CAB 05227 C/C 000401386548 BIC/SWIFT UNCRITM1153 Cod. Ente Banca 8031 Cd. Dipendenza 30660 Descr. Banca: agenzia di RM UNIVER.LA SAPIENZA CODICE ENTE ISTAT PER SIOPE: 715784002861 NELLA CAUSALE DEL VERSAMENTO indicare titolarità abbonamento Abbonamenti Annuali: ISTITUZIONALI Italia Euro 67,14 Estero Euro 77,47 INDIVIDUALI / LIBRERIE Italia Euro 51,65 Estero Euro 61,97 costo del singolo fascicoloEuro 20,66 Restituire il modulo compilato al seguente indirizzo: Stefania Lenci - Ufficio abbonamenti - Sezione di Storia della Medicina - Viale dell’Università 34/a 00185 Roma tel. - fax 06 4451721 / e-mail: [email protected] INFORMAZIONI PER GLI AUTORI MEDICINA nei SECOLI-Arte e Scienza/Journal of History of Medicine pubblica contributi di Storia della Medicina (per es. lo sviluppo del pensiero medico e delle relazioni tra i medici, la malattia ed i malati e le influenze da/ con le istituzioni sociali) e di scienze affini, come la bioetica e la filosofia della medicina, la paleografia, la paleopatologia, la medicina sociale, la storia della salute pubblica, la storia della farmacia, etc. Gli Editori si riservano i diritti di copyright. MANOSCRITTI Gli articoli devono essere inviati, in formato elettronico compatibile con Mac os 10, ai seguenti indirizzi email: [email protected] [email protected] Una copia cartaceea deve essere comunque inviata presso la sede del Comitato editoriale. Di norma le lingue accettate sono: Italiano, inglese, francese, spagnolo e tedesco. L’articolo deve contenere nell’ordine: 1. Titolo (in lettere maiuscole) 2. Nome e Cognome dell’ Autore/i 3. Istituzione di appartenenza 4. Breve riassunto, obbligatoriamente in Inglese, così composto: SUMMARY BREVE TITOLO IN INGLESE Testo (non più di 150 parole) 5. Running title (nella stessa lingua dell’articolo) 6. Key words (2-4 in inglese) 7. Testo (di norma non più lungo di 15 pagine, 2000 battute per pagina); il testo può essere diviso in paragrafi; le note debbono essere progressivamente indicate da numeri arabi; possono essere incluse nel testo solo citazioni abbreviate di edizioni critiche o di manoscritti (per es., Nat. Hom., Li. 6.64 per indicare il trattato ippocratico De natura hominis nell’edizione del Littre, voI. 6, pag. 64). Tavole e figure (anche diapositive) possono essere incluse, con didascalie su un foglio separato. Di norma, le fotografie vengono pubblicate in b/n. E’ cura degli Autori fornire le foto con i relativi diritti di pubblicazione. Gli Editori si riservano il diritto di apportare eventuali modifiche per omologare lo scritto al formato della Rivista. 8. Bibliografia e Note La Bibliografia e le Note debbono essere inserite alla fine dell’articolo. Una bibliografia generale può precedere le note, che debbono essere numerate con numeri arabi, seguendo l’ordine di citazione nel testo. Esempio: a) Riviste (abbreviate secondo le indicazioni dei periodici scientifici, come pubblicate in ciascun numero di gennaio dell’lndex Medicus) : ROSSI A., NERI O., Claude Bernard ed i nosologisti. Med. Secoli 1993; 5: 75-87. Per le citazioni successive, usare una versione abbreviata, indicando l’Autore/i e la prima nota di referenza. Esempio: ROSSI A., NERI O., nota 12, p. 18. b) Libri: ROSSI A., Storia della Medicina. Roma, Delfino. 1990, (eventualmente) pp. 12-25. c) Capitoli nei libri: NERI O., lppocrate. In: ROSSI A., Storia della Medicina. Roma, Delfino, 1990, pp. 12-25. I testi classici debbono essere citati in una edizione critica, dopo la bibliografia generale, prima delle note. Alla fine della Bibliografia e Note: Correspondence should be addressed to: seguito dal nome dell’ Autore e da un indirizzo privato o istituzionale. Esempio: Correspondence should be addressed to: Rossi A., Via Marini 13 -00100 Roma, I. REFEREES: Gli articoli verranno sottoposti a due Referees indipendenti per la revisione e l’accettazione. Le loro opinioni anonime verranno comunicate all’Autore con la decisione del Comitato Editoriale (accettato, non accettato, accettato con modifiche). BOZZE: A richiesta le bozze vengono inviate all’Autore per la correzione. Se esse non verranno rispedite entro dieci giorni dal ricevimento, le correzioni verranno effettuate dal Comitato Editoriale. ESTRATTI: Gli estratti vengono inviati agli Autori in formato pdf. RECENSIONI. Libri da recensire possono essere inviati al Comitato Editoriale. SEDE COMITATO EDITORIALE. Medicina nei Secoli Arte e Scienza - Dipartimento di Medicina Molecolare, Storia della Medicina, Viale dell’Università 34/a, 00185 Roma, I, telefono (06) 4451721, fax (06) 4451721 e-mail [email protected] Informations for Authors MEDICINA nei SECOLI-Arte e Scienza/Journal of History of Medicine publishes research papers, commentaries and book reviews in history of medicine and allied sciences (bioethics, philosophy of medicine, paleography, paleopathology, social medicine, public health history, history of pharmacy, etc.). Manuscripts are submitted with the understanding that upon publication copyright will be transferred to the Journal. SUBMISSION Contributions must be submitted in electronic form (compatible with Mac OS X) to the following email addresses: [email protected] [email protected] The journal publishes papers in Italian, English, French, Spanish and German. Submission in English is strongly encouraged. The submitted article must contain in the following order: 1. TITLE (capital) 2. Author/s (Name Surname). 3. Institutional affiliation 4. Brief Summary (not to exceed 150 words) and a short title in English, in this order: SUMMARY SHORT TITLE. Text. 5. Running title (in the same language of the paper) 6. Key words (2-4 in English) 7. Text (normally not exceeding 20 pages, 2,000 characters for page). The text may be divided in sub-headings. Notes must be included at the end of the text and be numbered by progressive Arabic numbers. References must be given in the endnotes. In the text, only shorter references to critical editions or to manuscript may be included (i.e., Nat. Hom., Li. 6.64 as a reference to the Hippocratic treatise De natura hominis, edited by Littré, vol. 6, p.64). Tables and images may be included, with text and legends on a separate page. Images are usually published in b/w. Copyright and/or publishing permission for the images must be provided by the Author(s). The Editorial Office have the right to modify the text according to the Journal’s style. 8. Bibliography and Notes Bibliography and notes must be included at the end of the text. A general bibliography may precede the notes. Notes must be numbered by Arabic numbers, following the order in the text. Examples: a) Journal article: ROSSI A., NERI O., Claude Bernard ed i nosologisti. Med. Secoli 1993; 5: 75-87. Journal titles may be abbreviated according to the World list of scientific periodicals as published in each January issue of Index Medicus. For subsequent quotations, please use a shorter form, including Authors and the first citing note. Example: ROSSI A., NERI O., nota 12, p. 18. b) Books: ROSSI A., History of medicine. Roma, Delfino, 1990, (when needed) pp. 12-25. c) Chapters in Books NERI G., Hippocrates. In: ROSSI A., History of medicine. Roma, Delfino, 1990, pp. 12-25. d) Classical works should be quoted in a critical edition, after the general bibliography and before the notes and references. At the end of the References and Notes, a corresponding address must be provided with the following text: “Correspondence should be addressed to: Author’s Name, private or institutional address, email address.” PEER REVIEW: Articles submitted for publication will be sent (omitting the Author(s) names) to two independent and anonymous referees. The Editorial Board will forward the referees’ opinion (accepted, not accepted, accepted with revisions) to the Author(s). PROOF READING: Upon request, proofs will be sent to the corresponding author. If not returned within ten days from receiving, correction will be made by the Editorial Board. REPRINTS: Reprints will be sent to the Author(s) in PDF format. BOOK REVIEWS. Books for review may be sent to the Editorial Office. EDITORIAL OFFICE. Medicina nei Secoli Arte e Scienza - Dipartimento di Medicina Molecolare, Storia della Medicina, Viale dell’Università 34/a, 00185 Roma, I, Tel/fax: +39064451721 e-mail [email protected] SPELLING, DATES, NUMBERS, ETC Spelling Use UK English spellings – colour, flavour, defence, recognise, etc. Use -ise not -ize; ie. analyse. Set your spellchecker to UK English to help with this – Tools > Language > UK English. Use capitals for First World War, Second World War. Use per cent in text, % with digits (see numbers below). Dates 15 May 1840; May 1840; 1840–1903; 1843/4 (use for a term or period overlapping the years). Do not abbreviate months. mid-1940s; late 1960s, mid-sixth century; mid-sixth-century Bible; mid-century; AD; BC; May 1940; inter-war. Times: 7.30 or 8.00; 22.00. Sixth century, sixth-century Bible; late sixth-century Bible. Numbers One to a hundred in words, 101 onwards in figures, except for round numbers, e.g. a thousand, a million, etc. There are exceptions to this, namely statistics – such as when the text is making a series of comparisons (e.g. ‘the numbers were 42, 58 and 64 respectively’) , ages (‘80-year-old’, but not ‘aged eighty’), and decimal places (8.25). Use hyphens – forty-four, sixty-five, eighty-nine. For statistics, use figures when an abbreviated quantity is used: 5cl, 98mg, 45mph, etc. If the statistic is a one-off (or at the beginning of a sentence), then use written number and the do not abbreviate quantity. Example: ‘Five centilitres of alcohol would be enough to make the man drunk.’ Use as few figures as possible: 1252–4, 113–24, 24–5, 20–1, 500–1, 1850–1903 (but do not interrupt 11–19 as eleven to nineteen are whole words). Always write the number out in full at the start of the sentence. Hyphens and dashes Use where grammatically appropriate. Examples: ‘30-year-old man’ but do not use hyphens for ‘male, 30 years old’, ‘good-looking’ but not in ‘good looks’, etc. Use to breaking up vowels in compound words, e.g. anti-alcoholism; micro-organism; coordination. See also Dates above. For a parenthesis, use two en-dashes to separate the clause – like this – rather than a normal hyphen. Use closed up en-dash between words of equal weight, e.g. doctor–patient relationship, and in dates e.g. 1721–35. • n o v i t à e d i t o r i a l i • • n o v i t à e d i t o r i a l i Volume unico + CD-Rom G. Bianchi, P. Marchi, E. Pepe D’Amato Famiglie di piante vascolari italiane 1-140 ISBN 978-88-95814-36-0 2012, prima edizione, italiano, f.to 29,7 × 21, pp. 369 Materia: Botanica. Prezzo: € 80,00 Volume unico del progetto didattico in 4 volumi avviato dal Museo Erbario della Sapienza Università di Roma. Nell’opera completa sono delineate sistematicamente le famiglie (1-140) di piante vascolari esistenti in Italia riportate nella “Flora d’Italia” (Pignatti 1982) che comprendono la maggior parte dei Generi (89%) e delle Specie (94%) descritti per il Paese. Il libro è corredato da splendide foto cromaticamente fedeli ai modelli naturali. Allegati. CD-Rom di contenuti complementari al testo: – una Guida alle chiavi analitiche completa alle Famiglie della flora d’Italia; – il Glossario ipertestuale; – le visualizzazioni in PowerPoint di alcuni dei termini più frequentemente utilizzati nelle didascalie. I volumi di Sapienza Università Editrice sono acquistabili: – in tutte le librerie italiane (distributore PDE SpA); – online sul sito: www.editricesapienza.it con lo sconto del 15% e nessun costo di spedizione (per Italia e UE). www.editricesapienza.it Visita il nostro sito web per consultare il catalogo completo • • n o v i t à e d i t o r i a l i • • n o v i t à e d i t o r i a l i • Carla Serarcangeli (a c. di) Maria G. Parisella, Francesco Scopinaro (a c. di) Il Policlinico Umberto I Un secolo di storia Medicina Nucleare in Oncologia ISBN 978-88-87242-86-7 2006, prima edizione, italiano, f.to 17 × 24, pp. 474 Materia: Storia della medicina. Prezzo: € 40,00 ISBN 978-88-95814-10-0 2008, prima edizione, italiano, f.to 16 × 23, pp. 224 Collana Manuali, n. 3. Materia: Medicina nucleare Prezzo: € 25,00 Ernesto Capanna Valentina Gazzaniga (a c. di) Il tempo e la Verità Una breve storia della biologia A un piede fu ferito Medicina e chirurgia risorgimentale ISBN 978-88-95814-06-3 2008, seconda edizione, italiano, f.to 16 × 23, pp. 336 Collana Manuali, n. 1. Materia: Biologia Prezzo: € 15,00 (coedizione con CLUEB) ISBN CLUEB 978-88-491-3571-8 ISBN SUE 978-88-95814-56-8 2011, prima edizione, italiano, f.to 12 × 17, pp. 256 Materia: Storia della medicina. Prezzo: € 16,00 I volumi di Sapienza Università Editrice sono acquistabili: – in tutte le librerie italiane (distributore PDE SpA); – online sul sito: www.editricesapienza.it con lo sconto del 15% e nessun costo di spedizione (per Italia e UE). Visita il nostro sito web per consultare il catalogo completo • n o v i t à e d i t o r i a l i • • n o v i t à e d i t o r i a l i • Alessandro De Cesare Margherita Bonamico Il collo Anatomia chirurgica e Tecniche operatorie Ricette senza glutine Pane, pasta, pizza e torte salate ISBN 978-88-95814-73-5 2012, prima edizione, italiano, f.to 20 × 28, pp. 96 Materia: Chirurgia. Prezzo: € 28,00 ISBN 978-88-95814-88-9 2012, prima edizione, italiano, f.to 15 × 21, pp. 95 Argomento: Medicina. Materia: Ricettario Prezzo: € 15,00 Nadia Peragine Silvia Castorina Caratterizzazione di funzioni cellulari nelle leucemie Aspetti della comunicazione medica ISBN 978-88-95814-80-3 2012, prima edizione, italiano, f.to 16 × 23, pp. 266 Collana Studi e Ricerche, n. 4. Materia: Biologia Prezzo: € 22,00 ISBN 978-88-95814-81-0 2013, prima edizione, italiano, inglese f.to 21 × 29,7, pp. 241 Materia: Dizionario medico. Prezzo: € 18,00 www.editricesapienza.it Finito di stampare nel mese di luglio 2013 Centro Stampa Università Università degli Studi di Roma La Sapienza Piazzale Aldo Moro 5 – 00185 Roma www.editricesapienza.it Prodotto realizzato impiegando carta con marchio europeo di qualità ecologica e certificata FSC Mixed Sources Coc