Rwanda: dalle origini agli effetti di un genocidio

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Rwanda: dalle origini agli effetti di un genocidio
SAPIENZA
UNIVERSITÁ DI ROMA
FACOLTA’ DI SCIENZE POLITICHE, SOCIOLOGIA,
COMUNICAZIONE
Corso di Laurea in
Scienze Politiche e Relazioni Internazionali
Tesi di Laurea Magistrale in Demografia
Rwanda:
dalle origini agli effetti di un Genocidio
Relatore
Prof.ssa Pia Angerame
Correlatore
Prof.ssa Maria Ruini
Candidato
Renato Cecchetti
matr. 747241
Anno Accademico 2010 – 2011
RENATO CECCHETTI
Rwanda:
dalle origini agli effetti di un Genocidio
A. A. 2010/2011
2
Al milione di banyarwanda
protagonisti
loro malgrado
di questa terribile storia
3
“L'Africa è un continente troppo grande per poterlo descrivere. E' un
oceano, un pianeta a sé stante, un cosmo vario e ricchissimo. E' solo
per semplificare e per pura comodità che lo chiamiamo Africa. A parte
la sua denominazione geografica, in realtà l'Africa non esiste”.
Ryszard Kapuściński, Ebano
“Siate sempre capaci di sentire
nel più profondo di voi stessi ogni ingiustizia
commessa contro chiunque in qualsiasi parte del mondo:
è la qualità più bella di un rivoluzionario”.
Ernesto Che Guevara
“Ci hanno chiamati per definizione
un avanzo dell' umanità,
E cosa ancora peggiore…
ci hanno lasciati soli in balìa del vento”.
Paola Turci, Rwanda
4
INDICE
Prefazione…………………………………………………………………...p. 10
Introduzione…………………………………………………………p. 14
PARTE UNO
1. IL PAESE DALLE MILLE COLLINE
1.1 La regione dei Grandi Laghi…………………………..p. 24
1.2 Rwanda, territorio e popolazione……………………...p. 30
2. DALLA CASTA ALL’ETNIA
2.1Etnia: tra finzione e realtà……………………………...p. 42
2.2 Hutu, Tutsi e Twa……………………………………..p. 49
2.3 Il peso del colonialismo……………………………….p. 58
3. IL RWANDA E LA SUA STORIA
3.1 Epoca precoloniale…………………………………….p. 63
3.2 Primo confronto con i bianchi, i tedeschi…….……….p. 67
3.3 L’impronta indelebile belga…………………………...p. 72
3.4 Il capovolgimento del potere……………………...…..p. 80
3.5 La prima Repubblica rwandese……………………….p. 86
3.6 Habyarimana, l’Invincibile……………………………p. 90
3.7 Gli anni ’90 tra il FPR e l’ONU……………………….p. 92
5
4. UN ACCORDO DI VETRO E UNA MISSIONE FANTASMA
4.1 L’illusione di Arusha……………………………….....p. 99
4.2 L’arrivo dei caschi blu……………………………….p. 102
PARTE DUE
5. CENTO GIORNI DI SANGUE
5.1 Un attentato a un popolo intero……………………...p. 111
5.2 Cronache dell’orrore…………………………………p. 113
5.3 La vittoria del FPR…………………………………...p. 125
6. UN GENOCIDIO TRA LE RIGHE
6.1 Definizioni e tecnicismi……………………………...p. 127
6.2 Pianificazione di un dramma………………………...p. 129
6.3 L’immobilismo internazionale……………………….p. 132
7. IL RUOLO DEI MEDIA
7.1 Il periodico Kangura ………………………………...p. 135
7.2 Quella radio infernale………………………………..p. 138
7.3 La stampa internazionale…………………………….p. 144
6
PARTE TRE
8. LE RESPONSABILITA’ FUORI E DENTRO LE COLLINE
8.1 La conta dei morti……………………………………p. 149
8.2 Il nuovo corso rwandese……………………………..p. 152
8.3 Tra giustizia e riconciliazione. ………………………p. 160
8.4 Il fallimento delle Nazioni Unite…………………….p. 163
8.5 Un Occidente distratto……………………………….p. 165
8.6 Il ruolo della Chiesa………………………………….p. 168
9 COSA RESTA OLTRE I CADAVERI
9.1 Le scuse dei Grandi………………………………….p. 172
9.2 Chi dimentica è complice……………………………p. 174
10 VOCI DAL SILENZIO………………………………………...p. 178
Indice dei grafici e delle tabelle
o Grafico n. 1 - La regione dei Grandi Laghi: territorio……………………..p. 25
o Grafico n. 2 - La regione dei Grandi Laghi: popolazione………………….p. 26
o Tabella n. 1 - Flussi di rifugiati nei Grandi Laghi (1959-99)……………..p. 29
o Grafico n. 3 - La regione dei Grandi Laghi: densità abitativa…………....p. 32
o Grafico n. 4 - Rwanda: popolazione per fasce di età…………………….....p. 33
o Grafico n. 5 - Rwanda: variazione ISU……………………………………….p. 34
o Grafico n. 6 - Rwanda: scomposizione ISU………………………………….p. 35
o Grafico n. 7 - Rwanda: tassi di mortalità (0-5 anni)………………………..p. 36
o Grafico n. 8 - Rwanda: composizione del PIL……………………………….p. 37
o Grafico n. 9 - Rwanda: distribuzione della forza lavoro…………………..p. 39
o Grafico n. 10 - Rwanda: religioni praticate………………………………….p. 40
7
o Grafico n. 11 - Rwanda: “gruppi etnici”…………………………………….p. 50
o Grafico n. 12 - Kigali: evoluzione prezzi dei prodotti alimentari…………p. 93
o Tabella n. 2 – Risultati elezioni presidenziali (25/08/2003)……………..p. 153
o Grafico n. 13 - Rwanda: distribuzione del potere………………………….p. 159
Indice delle Carte e delle Fotografie
o Carta n. 1 - Africa……………………………………………………………….p. 24
o Carta n. 2 - Rwanda……………………………………………………………..p. 31
o Fotografia n. 1 – Il mito hamitico.…………………………………………….p. 52
o Fotografia n. 2 - Documento etnico…………………………………………...p. 61
o Carta n. 3 - Spartizione dell’Africa (1914)…………………………………..p. 70
o Carta n. 4 - Spartizione dell’Africa (1939)…………………………………..p. 73
o Fotografia n. 3 - Genocidio 1…………………………………………………p. 116
o Fotografia n. 4 - Le milizie…………………………………………………....p. 117
o Fotografia n. 5 - Genocidio 2…………………………………………………p. 120
o Fotografia n. 6 - Pescatori di corpi………………………………………….p. 121
o Fotografia n. 7 - Vignetta 1…………………………………………………...p. 137
o Fotografia n. 8 – Vignetta 2…………………………………………………..p. 138
o Fotografia n. 9 – Teschi……………………………………………………….p. 149
o Fotografia n. 10 – Esodo……………………………………………………...p. 151
o Carta n. 5 - Carta geopolitica Congo (RD)…………………………………p. 157
o Fotografia n. 11 - Nazioni Unite……………………………………………..p. 164
o Fotografai n. 12 - Le scuse……………………………………………………p. 173
o Fotografia n. 13 - Il ricordo…………………………………………………..p. 176
8
Appendici
 Hutu Power: i Dieci Comandamenti Hutu………………….…p. 192
 Accordo di Pace di Arusha………………………………………p. 195
 Dichiarazione Universale dei Diritti Umani…………………..p. 203
 Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del delitto di
Genocidio………………………………………………………..…p. 214
Glossario……………………………………………………………p. 221
Ringraziamenti……………………………………………………………p. 226
Bibliografia……..………………………………………………..…p. 228
Filmografia…………………………………………………………p. 231
Sitografia…………………………………………………………...p. 232
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Prefazione
“La leggenda vuole che, in tempi passati, Gihanga sia sceso dal
cielo nel cuore del Rwanda e abbia avuto tre figli: Gahutu, Gatutsi e
Gatwa. Gahutu amava la terra e i suoi frutti, Gatutsi l’allevamento e
Gatwa passava le sue giornate a lavorare l’argilla. I tre fratelli si
amavano. Gahutu dava da mangiare cereali ai suoi, Gatutsi offriva il latte
delle sue greggi e Gatwa trasportava il cibo dall’uno all’altro, nei suoi
piatti e nelle sue brocche. A quei tempi i fratelli Hutu, Tutsi e Twa erano
ancora dei fratelli… […] …“ishuli” è una delle parole che la
colonizzazione tedesca ci ha lasciato, ma ha la sua importanza, vuol dire
scuola. Quanto ai belgi, essi ci hanno insegnato ad odiare gli uni con gli
altri, appoggiati in questo dalle chiese. ‘I Tutsi sono la razza dominante’,
dicevano i colonizzatori. ‘Gli Hutu, che rappresentano il 90% della
popolazione, sono dei contadini Bantu dallo spirito pesante e passivo, che
non hanno nessun interesse nell’avvenire’.
Ehi, io sono Tutsi. E’ forse per questo che oggi devo pagare la
colpa dei miei antenati, che è quella di aver dominato il paese per quattro
secoli. E’ una specie di Rivoluzione Francese, che si è verificata da noi
nel 1959: una classe sociale contro l’altra. Ma la si è camuffata in
lacerazione inter-etnica. La lacerazione ruandese di oggi non è interetnica, è intra-etnica. Sono dei fratelli che si uccidono tra loro…
Se lo sapesse Gihanga…” 1.
Se ho scelto queste parole per cominciare questo resoconto sul
Rwanda è perché in poche righe la scrittrice, nonché testimone diretta
dell’orrore ruandese, Yolande Mukagasana espone diversi temi che, allo
1
Yolande Mukagasana, La morte non mi ha voluta, ed. La Meridiana, Molfetta, 1999.
10
stato dei fatti, sono stati fin troppo sottovalutati, spesso proprio per una
scelta ponderata.
Quanto a me, nel ‘94 avevo solamente dieci anni e la mia tenera
età non mi permetteva di comprendere quello a cui la mente umana e le
braccia di un uomo potevano arrivare. I miei vaghi ricordi di quell’anno
riguardano la nazionale italiana e la cavalcata degli azzurri fino al
secondo posto mondiale. Mentre Roby Baggio entusiasmava le platee a
stelle e strisce, dall’altra parte del mondo intere generazioni venivano
maciullate a colpi di machete.
Il mio interesse per questa storia nasce, per caso, in un piovoso
pomeriggio da occupare in qualche modo, dalla necessità di ammazzare
il tempo. Alcune opzioni da scegliere, tra le quali un film dal titolo
inedito e distaccato: Hotel Rwanda2. Questa pellicola mi ha acceso la
passione e la recondita vergogna per questa vicenda ignobile. Col
passare del tempo si è consolidata in me la triste consapevolezza che il
Rwanda è lontano ma neanche troppo se tralasciamo le mappe
geografiche. Ciò di cui parleremo in queste pagine deve toccare le corde
nascoste nei meandri della nostra anima. Ricordare le estreme violenze e
la crudele pianificazione dei massacri rwandesi deve servire da monito,
per evitare che nel futuro ricorrano ancora vicende come questa. Negli
anni la mia curiosità di fatti, ma soprattutto di verità, mi ha portato ad
interessarmi sempre con maggior maturità del Rwanda e della sua storia.
A distanza di tempo da quel piovoso pomeriggio d’autunno, ho
colto questa occasione per ribadire, ancora più forte, la mia amarezza e
la mia solidarietà per la terra rossa del Rwanda, per il suo popolo e,
2
Questo film è frutto di una collaborazione mista fra Canada, Gran Bretagna, Italia e Sudafrica.
Diretto nel 2004 dal regista Terry George, narra la storia vera di Paul Rusesabagina, hutu, direttore di
un hotel a Kigali, che salvò dalla furia degli assassini oltre 1200 persone, senza distinzioni tra Hutu e
Tutsi.
11
soprattutto, per tutti quei corpi martoriati rimasti a terra nell’inferno del
‘94.
L’errore più grande che si rischia di commettere parlando
distrattamente del Rwanda e dei suoi sanguinosi avvenimenti potrebbe
essere quello di considerare questo paese e le violenze che l’hanno
contraddistinto come esplosioni di uno scontro etnico ancestrale fra due
popoli che si odiavano e che si sono ammazzati a vicenda per un
indefinito ideale razziale.
Questa sbadata analisi porterebbe ad “africanizzare” tale conflitto
e a catalogarlo come un episodio tipico del continente nero e dei
primitivi popoli che lo abitano. Spetta alle coscienze dei lettori e al loro
spirito critico giungere alle origini e alle cause di questi scontri non
dimenticando che la parola genocidio non è monopolio dell’Africa e che,
al contrario, ha visto la luce grazie alla mano europea che ha sterminato
milioni di persone a causa di fantomatici ideali supremi di razza,
religione ed identità.
La distanza, nel tempo e nello spazio, non può ostacolare il
ricordo.
Chi dimentica è complice.
Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
12
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un si o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per la via,
coricandovi, alzandovi.
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi. 3.
3
Estratto da “Se questo è un uomo” di Primo Levi. “Se questo è un uomo” è un romanzo
autobiografico di Primo Levi scritto tra il dicembre 1945 e il gennaio 1947. Rappresenta la
coinvolgente ma riflettuta testimonianza di quanto fu vissuto in prima persona dall'autore nel campo
di concentramento di Auschwitz. Levi ebbe infatti la fortuna di sopravvivere alla deportazione nel
campo di Monowitz - lager satellite del complesso di Auschwitz e sede dell'impianto Buna-Werke
proprietà della I.G. Farben. Il testo venne scritto non per vendetta, ma come testimonianza di un
avvenimento storico e tragico. Lo stesso Levi diceva testualmente che il libro era nato fin dai giorni
di lager per il bisogno irrinunciabile di raccontare agli altri, di fare gli altri partecipi
(www.wikipedia.org).
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INTRODUZIONE
“All’inizio del 1994 in Rwanda vivevano circa 7 milioni di
persone. New York nel 2001 contava circa 16 milioni di abitanti. L’11
settembre del 2001 l’attentato al World Trade Center ha causato la morte
di 2893 persone. Dal 6 aprile al 19 luglio del 1994 è come se in Rwanda
le Twin Towers fossero state abbattute tre volte al giorno. Tre volte al
giorno, entrambe le torri distrutte, per 104 giorni di fila” 4.
Seppur cinico, questo paragone aiuta a comprendere la reale
portata dell’eccidio rwandese. Inoltre, mette in evidenza quanto questi
eventi siano stati ignorati, volutamente o meno, dalle grandi potenze
mondiali, dalle fantomatiche Organizzazioni Internazionali e dalla più
quotata stampa occidentale.
Il seguente elaborato, tramite documenti e riflessioni, confida di
smuovere le responsabilità del singolo essere umano: per quanto lontano
un evento si verifichi, per quanto lontane siano le persone coinvolte, per
quanto le nostre vite scorrano in maniera del tutto indipendente da fatti
tragici raccontati freddamente da giornali e televisione, ogni essere
umano dovrebbe sentirsi direttamente coinvolto da sciagure simili a
quella che racconteremo nel seguente percorso. Con tale indagine
cercheremo di sviscerare le vicissitudini di questo piccolo paese nel
cuore dell’Africa per non fermarci alle apparenze. Analizzare con senso
critico la storia sanguinosa del Rwanda può aiutarci a ri-conoscere gli
4
Daniele Scaglione, Istruzioni per un genocidio. Rwanda: cronache di un massacro evitabile, Ega
Editore, Torino 2003, p. 230.
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errori compiuti in passato e a farne tesoro così da evitare, nel futuro, il
ripercuotersi di situazioni simili.
L’obiettivo di questo lavoro è raccontare il genocidio rwandese.
Per far ciò, non sarà sufficiente la cronaca dei cento giorni di sangue che,
dall’aprile al luglio del 1994, lasciarono sulle strade rosse del Rwanda un
milione di silenziosi cadaveri.
Innanzitutto sarà importante localizzare il Rwanda, un piccolo
lembo di terra, nel centro del vasto continente africano, nella regione dei
Grandi Laghi. Analizzeremo demograficamente la vita economica della
popolazione, la lingua locale e le divisioni socio-economiche dell’unico
popolo rwandese, i Banyarwanda. Risaliremo agli originari rapporti che
legavano i due gruppi principali di questo popolo: i Tutsi e gli Hutu. Una
delle priorità di questo lavoro sarà quella di rimodellare il termine
“etnia” per riferirsi agli Hutu e ai Tutsi, comprendendo che la divisione
intercorrente fra i due era5 prettamente di carattere economico. Quello
che, fino alla fine dell’Ottocento, era un sistema puramente “castale” è
divenuto col passare degli anni e, soprattutto, con il decisivo intervento
dei colonizzatori europei un’ermetica classificazione etnica. Non verrà
tralasciata la minuscola porzione di popolazione rappresentata dai Twa, i
pigmei rwandesi. Sarà determinante cogliere l’involuzione dei rapporti
fra i diversi strati sociali: partendo da quella che era una convivenza
quasi totalmente armoniosa e arrivando all’orrore del genocidio, dove le
5
Secondo Catherine Coquery-Vidrovitch “del gruppo etnico, per quanto fosse stato creato e
alimentato dai colonizzatori, si appropriarono successivamente come espressione della resistenza alla
colonizzazione, i gruppi sociali che esistevano da prima della conquista europea e che furono costretti
a riconoscersi e a decidere la propria linea d’azione entro la struttura fornita dallo Stato territoriale”
(in “L’Africa in guerra” di Alberto Sciortino). Approfondiremo il concetto di etnia, con le tutte le
ripercussioni che comporta, nel secondo capitolo. Cercheremo di mettere in evidenza l’artificiosa
nascita, e la conseguente direzione presa da tale parola ma soprattutto la precisa volontà dei
colonizzatori, con tale termine, di catalogare i vari popoli africani, puramente per ragioni strategiche
estranee ai popoli autoctoni.
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medesime persone che per anni avevano condiviso la stessa tavola, lo
stesso mercato, lo stesso campo di manioca o la stessa scuola, si sono
trasformati in nemici mortali: in vittime e assassini.
Dovremo quindi costruire un tracciato storico-sociale del Rwanda,
partiremo dall’epoca precoloniale quando nel paese vigeva già un
complesso sistema di regole e tradizioni, retto da un re di origine divina,
il Mwami. Tratteremo, naturalmente, della dominazione europea sul
paese africano: prima i tedeschi, quasi disinteressati nel loro dominio,
che hanno lasciato poche tracce del loro passaggio; poi, quella ben più
significativa dei belgi, capaci di rivoluzionare più volte le carte in tavola
e con esse le gerarchie al potere. Con l’indipendenza, ottenuta in maniera
violenta, saranno sottolineati i rapporti che il neonato Stato ha
intrattenuto con le grandi democrazie occidentali. Nel trentennio che va
dall’indipendenza agli anni ’90 prenderemo in esame la prima e la
seconda Repubblica rwandese con le varie aperture, più o meno
democratiche, i primi contrasti e le prime invasioni del FPR6.
Dedicheremo spazio a quello che può essere considerato come
l’ultimo tentativo di evitare la cruenta crisi dell’aprile del ’94 ovvero gli
Accordi di Arusha, dove si è cercato un compromesso fra il governo in
carica e il Fronte Patriottico, ma senza successo. Con Arusha entrano in
gioco, almeno formalmente anche le Nazioni Unite. Una prima missione
per la salvaguardia degli accordi operante sia in Rwanda che in Uganda,
una seconda, poi, per il controllo del territorio rwandese e, quando
oramai i crudeli giochi erano fatti, un ultimo ritardatario intervento.
6
Il Fronte Patriottico Rwandese era la formazione politico-militare nata in Uganda con lo scopo di
ribaltare il governo autoritario di Kigali. Si componeva di esuli Tutsi rwandesi , di Hutu moderati ma
anche di semplici mercenari.
16
I massacri del ‘94 si sono consumati in circa cento giorni fra
l’aprile (attentato al Presidente Habyarimana) e il luglio (entrata trionfale
del FPR a Kigali). Tra questi due estremi, circa un milione di persone
sono state sterminate. Parleremo delle modalità, delle motivazioni e della
spirale irrazionale, ma studiata a tavolino, delle violenze. Da una parte i
mandanti sulle loro autorevoli poltrone (influenti intellettuali, professori
ecc.), dall’altra i carnefici: le milizie 7, la guardia presidenziale, l’esercito
regolare ma soprattutto: le persone normali. Persone che non hanno
esitato a scannare il vicino di casa perché, semplicemente, appartenente
al gruppo rivale.
Una parte fondamentale nei massacri l’hanno avuta i media
rwandesi. Ecco perché approfondiremo il peso che hanno avuto giornali
e radio locali nella testa e nei machete delle persone. Lo scopo principale
di tali mezzi informativi è stato quello di diramare le liste delle persone
da eliminare, rendendo noti nomi e indirizzi, incitando all’odio razziale e
alla soluzione definitiva. Oltre a questi, esamineremo qual è stato il
comportamento dei grandi media internazionali durante il genocidio.
Partendo da quella che è la prassi abituale della grande stampa a riguardo
dell’Africa, proveremo a capire come ad esempio le superficiali e
striminzite righe degli eminenti quotidiani francesi abbiano influenzato
l’opinione pubblica locale dell’Africa francofona e non 8.
7
Fra tutte, la più importante, l’Interahamwe (“coloro che lavorano insieme”) ha svolto un ruolo
preminente nei massacri. Insieme ad essa, altre numerose milizie giovanili sono sorte prima e durante
il genocidio: gli Amasasu (“proiettili”), gli Impuzamugambi (“coloro che hanno un unico obiettivo”),
gli Abakombozi (“i liberatori”), gli Incuba (“tuono”). Naturalmente ogni milizia è sorta in un ambito
più o meno ufficioso e ognuna di esse era legata in qualche modo a un partito o a una coalizione.
8
Secondo Fonju Ndemesah Fausta che, in “La radio e il machete”, ha analizzato il ruolo dei media
interni e internazionali durante il genocidio, i mezzi di comunicazione di massa occidentali
dimostrarono la propria ignoranza sulla situazione in due maniere: prima di tutto, nel modo ossessivo
di ricorrere al tribalismo nella stragrande maggioranza dei reportage; poi, nella maniera con la quale
alcuni giornali fungevano da ripetitori di quello che dicevano le parti belligeranti e le ong, senza
verificarne la fonte.
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Cercheremo, per quanto ci è possibile, di far luce sulle
responsabilità. Indagheremo, attraverso documenti e testimonianze, sui
colpevoli dell’eccidio del ’94. Per quanto attiene all’aspetto giuridico,
dopo il Genocidio la Comunità Internazionale ha istituito il Tribunale di
Arusha, una Corte ad hoc, per giudicare i responsabili rwandesi. Oltre a
questa Corte internazionale, dentro il Rwanda sono stati riabilitati i
Gacaca, antichi tribunali popolari che prevedono processi alla luce del
sole, dove i colpevoli confessano i propri crimini davanti a parenti e
conoscenti delle vittime. Sarà osservata la situazione rwandese postgenocidio e la sua evoluzione che ha avuto delle ripercussioni nell’intera
regione. Non verranno tralasciati i diritti umani e la controversa
situazione politica del paese con a capo l’indiscussa figura di Paul
Kagame. Per ciò che concerne le responsabilità fuori da Kigali,
esprimeremo il forte disappunto per la gestione della situazione
rwandese da parte delle Nazioni Unite. Metteremo in evidenza
l’incapacità di riconoscere la gravità dei fatti, il mancato intervento
militare e la mancata presa di coscienza che non è arrivata neanche dopo
il genocidio.
Fra gli attori internazionali un posto privilegiato l’ha occupato la
Francia. Il governo Mitterand, più dei precedenti, ha stretto con Kigali
un patto col diavolo che l’ha portato più volte a nascondere il genocidio
dei Tutsi (camuffandolo con un’immotivata e violenta invasione,
dall’Uganda, del FPR), a non parlare mai di genocidio ma, piuttosto, di
una guerra civile interna di esclusiva giurisdizione domestica dello stato
africano e, come se non bastasse, ad intervenire militarmente: ogni qual
volta il governo autoritario di Kigali ha alzato la cornetta, l’esercito
transalpino si è paracadutato fra le mille colline. Un’altra istituzione che
18
merita il nostro approfondimento è la Chiesa, in particolare quella
cattolica. Il Rwanda, con la mole dei sui abitanti, risulta essere uno dei
paesi più cristianizzati del continente. E’ quindi facile dedurre il forte
peso avuto da alti prelati e vertici della Chiesa sugli abitanti. Raramente
sono arrivate da parte loro parole di condanna nei confronti dei
genocidiari e molti funzionari religiosi hanno avuto, nel corso dei
massacri, un ruolo attivo nell’incitamento e nella proliferazione dell’odio
contro i Tutsi. Dalle numerose fonti analizzate nella creazione di questo
elaborato si può dedurre l’impatto delle istituzioni religiose sugli
incredibili eventi rwandesi. Spesso proprio le chiese, che in passato
venivano considerata zone sicure anche in caso di scontri e violenze, si
sono trasformate in trappole mortali per centinaia di Tutsi alla disperata
ricerca di un luogo sacro e inviolabile:
“nella chiesa di Nyamata che al più potrebbe contenere tremila
persone, si accumulano 35.000 cadaveri” 9.
Riserveremo dello spazio al genocidio. Si intende ricercare, in
questa sede, l’origine e il significato di questa parola. Inoltre, cosa forse
più pregnante alla nostra analisi, si tenterà di aggiornare questo concetto
alla realtà attuale ricercando, tra le varie definizioni, degli elementi
caratterizzanti. Dopo aver accennato alla Convenzione contro il
genocidio (naturalmente non è nostro interesse addentrarci in modo
9
Daniele Scaglione, Istruzioni per un genocidio. Rwanda: cronache di un massacro evitabile, EGA
Editore, Torino 2003, pag. 129. A proposito di questo tragico avvenimento riportiamo la seguente
orribile testimonianza: “la gente da ogni dove si ammassò nella chiesa e chiuse la porta di ferro con un
lucchetto per proteggersi dalle scorribande degli assassini. Membri degli Interahamwe, la milizia hutu
e le Forze del Governo Rwandese dalle aree circostanti decisero di abbattere la porta e di irrompere
nella chiesa coi propri fucili, granate e machete. Massacrarono tutte le persone che erano all’interno
della chiesa e anche le persone nell’area circostante” (www.benerwanda.org).
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spropositato in cavilli giuridici e giudiziari del diritto internazionale),
proveremo a comprendere il colpevole ritardo del mondo provocato
dalle indecisioni dei vari rappresentanti delle grandi potenze occidentali:
ad ogni loro tentennamento è corrisposto un cadavere, un incendio, una
mutilazione. Mentre le riunioni e i vertici si impantanavano sulla
definizione tecnica degli avvenimenti rwandesi, le mille colline si sono
colorate di sangue. Analizzeremo come è nata e come si è sviluppata nel
tempo l’idea brutale dello sterminio dei Tutsi. Partendo dalla
riorganizzazione dell’esercito e dalla deriva autoritaria della sfera
politica per arrivare alla caccia pianificata attraverso discorsi filosofici,
feroci slogan radiofonici e un efficace sistema amministrativo
verticistico. Sottolineeremo che non solo i Tutsi sono caduti durante i
massacri ma anche molti Hutu moderati: chiunque abbia tentato di
opporsi ai piani selettivi di pulizia etnica, chiunque abbia provato a
concedere viveri o riparo agli Inyenzi 10 è diventato, automaticamente, un
oppositore del regime e, per questo, è stato incluso nelle liste degli
obiettivi da eliminare.
Per concludere si proverà a ragionare sul post-genocidio. In
particolare in Rwanda, dove vittima e carnefice sono spesso vicini di
casa e dove la parola perdono ha assunto, per forza di cose, una
connotazione molto particolare. Oltre al Rwanda, il genocidio è stato
assimilato dalle grandi potenze mondiali. Molti dei grandi leader hanno
ammesso le proprie responsabilità a distanza di anni, altri sono ancora in
tempo per farlo. Molti si sono scusati col Rwanda, hanno visitato il
paese, hanno portato fiori , soldi e belle parole.
10
In lingua Kinyarwanda significa scarafaggi, termine col quale venivano indicati in maniera
dispregiativa i rifugiati Tutsi che, proprio come gli scarafaggi, si muovevano di notte. Tale
denigratorio termine è stato affibbiato ai Tutsi che sono scappati dal paese dopo la Rivoluzione
Sociale Hutu del 1959.
20
Ai cadaveri, però, non viene facile ringraziare.
Il viaggio che intraprenderemo assieme in questa pagine ha un
unico obiettivo: la memoria. Quella di un popolo martoriato. Ma anche
quella di chi non era e, probabilmente, non sarà mai, neanche di
passaggio, in quella parte dimenticata di mondo. E’ nostro compito
tenere alta la guardia, per fare in modo che mai più nel futuro della
nostra storia accadano ancora tragedie come questa. Questo nostro salto
nell’orrore, di cui solo l’essere umano è capace di macchiarsi, ha la
speranza o, quantomeno, l’illusione di far ricordare una tragedia che è
stata dimenticata troppo in fretta dalla parte di mondo che l’ha
conosciuta. L’altra parte, che sentirà parlare per la prima volta di
Rwanda, di roteanti machete e di file interminabili di cadaveri, dovrà
avere intanto la forza ma soprattutto la voglia di indignarsi.
Per terminare in modo dignitoso il nostro percorso si è pensato di
dare spazio alle voci dei protagonisti. Infatti per quanto ci si possa
sforzare di ricercare fonti autorevoli e di incrociare dati sui massacri,
solo la testimonianza diretta di chi ha visto, di chi ha subito ma anche di
chi si è macchiato di terribili delitti, solo queste parole possono
trasmettere il peso dell’orrore.
E’ per questa ragione che il lavoro si concluderà col nostro
silenzio e con le testimonianza di chi ha vissuto in prima persona il
bagno di sangue e vive, oggi, per raccontare.
“Anche se passa le sue giornate altrove, Imana ritorna ogni notte
in Rwanda” 11
11
Antico proverbio rwandese che risalirebbe all’epoca precoloniale quando né missionari, né
colonizzatori europei avevano ancora messo piede in Rwanda. Imana (Dio per i rwandesi) era la
divinità che viveva in un mondo superiore, il cielo, al quale i rwandesi associavano la divinazione. Il
21
Il proverbio rimarca, ancora una volta, la grande religiosità del
popolo rwandese. Evidenzia il forte legame tra le persone e la
spiritualità. Detto questo, va anche ricordato che per i 100 giorni di
sangue del 1994 le disperate speranze di migliaia di persone, alla ricerca
dell’aiuto divino, sono andate deluse. Sembra come se in quei tragici
giorni, Dio si fosse preso una lunga vacanza e il diavolo, tra pozze di
sangue e ossa spaccate. avesse banchettato al suo posto…
nome Imana inglobava in sé le nozioni di fortuna, provvidenza e potenza benefica (“Hutu-Tutsi. Alle
radici del genocidio rwandese” di Michela Fusaschi).
22
PARTE UNO
Prima del Genocidio
23
CAPITOLO I
IL PAESE DALLE MILLE COLLINE
La Regione dei Grandi Laghi
Il Rwanda (appena 26.000 kmq), insieme al suo gemello Burundi
(circa 21.000 kmq), può essere definito un nano tra i giganti: così piccolo
da trovare sulle mappe, si colloca nella parte centro orientale dell’Africa:
Africa
12
12
La carta geografica è stata reperita su www.batsweb.org.
24
Situato nella regione dei Grandi Laghi, il Rwanda, è circondato
dalla Repubblica Democratica del Congo (oltre 2.300.000 kmq), dalla
Tanzania (circa 1.000.000 kmq), dall’Uganda (240.000 kmq) e dal
Kenya (oltre 580.000 kmq). A testimoniare la grande differenza di mole
che contraddistingue il Rwanda e il Burundi, rispetto ai paesi circostanti,
il seguente grafico:
La regione dei Grandi Laghi: territorio
2.500.000
2.000.000
1.500.000
territorio
1.000.000
500.000
0
Kenya
Tanzania
Rwanda
Uganda
Congo RD
Burundi
13
La regione dei Grandi Laghi comprende appunto Rwanda,
Burundi, Tanzania, Uganda, Congo (DR) e, marginalmente, Kenya. La
regione prende il nome dai grandi specchi d’acqua che la
contraddistinguono: il lago Tanganica, il lago Vittoria, il lago Alberto, il
13
Tale grafico è stato elaborato prendendo spunto da dati reperiti su “Calendario Atlante De
Agostini”, 2010.
25
lago Eduardo, il lago Kivu e il lago Malawi. I laghi Vittoria, Alberto e
Eduardo alimentano le acque del Nilo bianco mentre le acque dei laghi
Tanganica e Kivu si riversano nel fiume Congo.
Questa regione costituisce una delle aree più densamente popolate
del mondo, con una popolazione stimata oltre i 150 milioni di persone:
oltre 30 milioni in Kenya; circa 9 milioni in Burundi; circa 36 milioni in
Tanzania; oltre i 10 milioni in Rwanda; quasi 29 milioni in Uganda e
circa 55 milioni nel Congo (RD). A schematizzare al meglio tale
sequenza di dati, il seguente grafico:
La regione dei Grandi Laghi: popolazione
60.000.000
50.000.000
40.000.000
30.000.000
popolazione
20.000.000
10.000.000
0
Kenya
Tanzania
Rwanda
Uganda
Congo RD
Burundi
14
14
Il grafico è stato elaborato grazie ai dati offerti da www.wikipedia.org.
26
Un’antica attività vulcanica, ora estinta, ha reso queste terre molto
fertili, e quindi adatte alla coltivazione e alla pastorizia. In più la sua
altitudine porta ad un clima abbastanza temperato, a dispetto della sua
latitudine equatoriale. Questo ha fatto sì che la zona rimanesse fuori
dalla miseria, permettendo la diffusione dell’uso del bestiame di bovini e
caprini. Gli europei sono stati storicamente interessati a questa regione,
in quanto per lungo tempo hanno cercato di raggiungere la sorgente del
fiume Nilo. I primi missionari che raggiunsero la regione ebbero,
tuttavia, scarso successo nel convertire le popolazioni locali. Essi, però,
aprirono la strada alla colonizzazione. Sebbene vista come una regione
dal grande potenziale economico, negli anni recenti è stata scenario di
guerre civili e immense violenze, che hanno fatto cadere la zona, con le
sostanziali eccezioni di Kenya e Tanzania, in una grande povertà 15.
Naturalmente più che gli aspetti formali e numerici della regione,
ci interessa la dinamicità e le connotazioni geopolitiche di questa zona.
Non essendo questa la sede per approfondire, quanto meriterebbe, la
questione, ci limiteremo a dire che i Grandi Laghi africani sono stati
spesso teatri di atrocità che hanno causato milioni di morti e di profughi.
I conflitti si sono intensificati soprattutto con l’incorrere degli anni ’90 in
coincidenza di due grandi eventi della storia mondiale: il crollo del muro
di Berlino e quello dell’URSS. Verrebbe da chiedersi perché tale zona,
così come l’Africa intera, sia tormentata da continue guerre che
sembrano destinate a perdurare. Le conseguenze di tali conflitti sono
evidenti: la fame, lo sfruttamento dei bambini, gli stupri di massa, il
saccheggio delle materie prime, le violenze. Ciò che invece si nasconde
ad un’occhiata superficiale, sono le cause. Dietro ai noti “conflitti etnici”
15
Queste informazioni preliminari di carattere generale sono state reperite su www.wikipedia.it.
27
si celano interessi politici ed economici di attori locali e internazionali.
In questo quadro, l’appartenenza a un popolo, le differenze linguistiche,
culturali e religiose diventano dei mezzi per mobilitare i propri
sostenitori e far acquisire legittimità alle più inaudite atrocità commesse
contro individui inermi.
Non ci risulta agevole isolare le vicende dei singoli stati che
costituiscono la regione, senza aver prima appreso una visione integrata
dello scenario regionale costituito da importanti legami etnici, dinamiche
demografiche, attività economiche e leadership politiche. Secondo
Giovanni Carbone la regione si caratterizza per tre imprescindibili
prerogative: l’assenza di corrispondenza tra la mappa politica e quella
etnica (ad esempio tra i quindici e i venti milioni di hutu e tutsi vivono
sparsi in cinque paesi diversi: Rwanda, Burundi, Uganda del sud,
Tanzania occidentale e Congo orientale); il secondo aspetto che
caratterizza la regione, come già accennato, è una densità di popolazione
molto elevata tanto da rappresentare un’anomalia rispetto al continente.
La terza caratteristica riguarda i grandi flussi di profughi che, dopo aver
valicato i confini statali, si sono trasformati in potenti vettori di contagio
attraverso l’intera regione, portando con essi violenze e risentimenti 16.
Come esempio dei continui flussi migratori che si sono incrociati nella
regione, ci si è avvalsi della tabella che compare nella pagina successiva.
Essa mostra i flussi di profughi hutu e tutsi in fuga dai propri paesi a
causa delle perpetrate violenze “etniche” (1959 – 1999):
16
Giovanni Carbone, Africa. Gli stati, la politica, i conflitti, il Mulino, Bologna 2005, p. 148.
28
Flussi di rifugiati nei Grandi Laghi (1959-99)
17
La causa principale delle guerre che continuano ad insanguinare la
regione dei Grandi Laghi è, dunque, la brama di potere e di denaro delle
17
ibidem
29
grandi potenze internazionali, per mezzo e/o in contrapposizione, di
dispotici leader africani.
Rwanda, territorio e popolazione
“Per seguire il corso del Rukarara, largo più di quattro metri e
profondo fino alle caviglie, attraversammo valli meravigliose. Valloni
erbosi ricoperti di verbaschi alti quanto un uomo coperti di migliaia di
api, erano attraversati da ruscelli dall’acqua cristallina costeggiati da
densi cespugli e da fragili mimose. Ai lati si scorgevano le colline
dolcemente inclinate, sulle cime una foresta oscura ne copriva in parte i
versanti […]. Piccoli ruscelli giungevano alla valle principale
attraversando numerosi dirupi […]. La sera queste spettacolari valli
acquistavano un fascino tutto speciale” 18.
Il Rwanda, come detto in precedenza, è molto più piccolo rispetto
agli Stati che lo circondano. Il minuscolo stato africano, poco più grande
del Piemonte, supera leggermente i 26.000 kmq. Le città principali sono:
Cyangugu, Butare, Kibungo, Byumba, Ruhengeri, Gisenyi, Kibuye e
Gitarama. La capitale del Rwanda, situata al centro del paese, è Kigali.
La carta, nella pagina seguente, mostra il piccolo paese circondato
da Burundi, Tanzania, Uganda e Repubblica Democratica del Congo:
18
Queste sono le parole di Richard Kandt, medico militare tedesco, uno fra i primi europei a mettere
piede in Rwanda (“Hutu-Tutsi. Alle radici del genocidio rwandese” di Michela Fusaschi).
30
Rwanda
19
Nonostante le ridotte dimensioni territoriali, il paese si
contraddistingue per l’elevata densità della propria popolazione: 401
ab./kmq. Grazie a questi dati, rappresenta lo stato più popoloso della
regione (Kenya, 53,4; Congo RD, 24; Tanzania, 20; Burundi, 206,1 e
Uganda, 105) e dell’intero continente africano.
Tutto ciò è lampante osservando il grafico che compare nella
pagina successiva:
19
La carta del Rwanda è presa da www.rwanda.embassyhomepage.com.
31
La regione dei Grandi Laghi: densità abitativa
450
400
350
300
250
abitanti per km2
200
150
100
50
0
Burundi
Congo
RD
Uganda
Rwanda Tanzania
Kenya
20
Il Rwanda è incastonato nel cuore dell’Africa, qualche kilometro a sud
dell’equatore. Spesso sulle carte geografiche, viste le ridotte dimensioni,
non compare neanche per intero il suo nome ma si viene indirizzati alla
consultazione delle relative legende sottostanti.
Per quanto riguarda la popolazione (stimata intorno ai dieci
milioni) possiamo elencare alcuni dati significativi. La crescita annua è
intorno al 2,1%, il tasso di fecondità è del 5,4% e quello di natalità è
intorno al 40%. Purtroppo un altro tasso, quello di mortalità, è dell’11%.
L’alto tasso di mortalità e le esigue speranze di vita alla nascita (M 48 e
F 50) comportano un’età media molto giovane come chiarisce il grafico
nella pagina successiva:
20
Il grafico è frutto di una propria elaborazione con l’utilizzo di dati raccolti su www.cia.org.
32
Rwanda: popolazione per fasce di età
60,00%
50,00%
40,00%
0-14 anni
30,00%
15-64 anni
65 anni e più
20,00%
10,00%
0,00%
21
Il Rwanda, con un coefficiente di 0,385, si situa al 152º posto nel
ranking dell’Indice di Sviluppo Umano mondiale 22. Per quanto riguarda
tale Indice riportiamo di seguito due grafici. Il primo confronta il trend
dell’ISU del Rwanda con la media mondiale e con quella dell’Africa Sub
Sahariana nel periodo che va dal 1980 ad oggi. Dal grafico si evince una
crescita dell’ISU rwandese che, dal 2000 al 2010, ha raggiunto la media
dell’Africa Sub Sahariana:
Rwanda: variazione ISU
21
Il grafico è stato elaborato utilizzando i dati offerti da www.cia.org. In Rwanda la popolazione
composta da persone nella fascia di età compresa tra gli 0 e i 14 anni rappresenta il 42,7 % della
popolazione (2.309.323 di sesso maschile e 2.277.269 di sesso femminile). La fascia di età compresa
fra i 15 e i 64 anni è quella più popolosa arrivando al 54,8 % della popolazione (distribuiti fra
2.932.686 uomini e 2.961.300 donne). La terza fascia di età, analizzata nel grafico, è numericamente
minima: gli individui aventi 65 anni o più rappresentano il 2,5 % della popolazione (106.740 uomini e
158.993 donne).
22
Secondo i dati relativi all’anno 2010 riportati su www.hdr.undp.org. L’ISU è un indicatore che
misura la qualità della vita in un paese. I tre fattori di cui tiene conto sono: la speranza di vita alla
nascita, il tasso di alfabetizzazione e il PIL procapite.
33
23
Nella pagina seguente riportiamo il secondo grafico riguardante l’ISU
del Rwanda. Tale grafico rappresenta i tre fattori, con i relativi valori,
che compongono l’Indice di Sviluppo Umano del paese:
Rwanda: scomposizione ISU
23
Il grafico è preso da www.hdr.undp.org. I tre percorsi rappresentati nel grafico sono così distribuiti:
media mondiale 1980 (0,455), 1990 (0,526), 2000 (0,570), 2005 (0,598), 2006 (0,604), 2007 (0,611),
2008 (0,615), 2009 (0,619), 2010 (0,624); media Africa Sub Sahariana 1980 (0,293), 1990 (0,354),
2000 (0,315), 2005 (0,366), 2006 (0,344), 2007 (0,355), 2008 (0,373), 2009 (0,379), 2010 (0,389);
media Rwanda 1980 (0,249), 1990 (0,215), 2000 (0,277), 2005 (0,344), 2006 (0,344), 2007 (0,355),
2008 (0,373), 2009 (0,379), 2010 (0,385).
34
24
Per affrontare solo uno dei molti problemi sanitari del paese, ci
limiteremo a dire che una persona su dieci è sieropositiva. Prima del
1994, nelle sole aree rurali, i sieropositivi rappresentavano l’1,3% della
popolazione mentre dopo il terribile genocidio e i perpetrati stupri di
massa, hanno raggiunto il 10,8% 25.
Il grafico, nella pagina successiva, illustra una delle tante piaghe
che affligge il paese, il tasso di mortalità infantile (bambini 0-5 anni):
Rwanda: tassi di mortalità (0-5 anni)
24
Anche questo grafico proviene da www.hdr.undp.org. Il grafico scompone il coefficiente ISU del
Rwanda (0,385) in salute (0,439), istruzione (0,379) e reddito (0,306).
25
I dati, in particolare, quelli sanitari provengono dal sito internet www.actionaid.it.
35
26
Il paese confina a nord con l’Uganda, a est con la Tanzania, a sud con il
Burundi e a ovest con la Repubblica Democratica del Congo. Il territorio
occupa un altopiano digradante verso il lago Vittoria, la principale catena
montuosa è quella dei monti Virunga che fa da spartiacque fra il Nilo e il
Congo. A est si elevano imponenti formazioni vulcaniche. Il fiume più
importante è il Kagera. Le attività agricole occupano la maggioranza
della popolazione attiva. Le colture commerciali (caffè, tè) hanno scarsa
diffusione mentre quelle di sussistenza (soprattutto cereali) non sono
sufficienti a coprire il fabbisogno alimentare. L’industria è debolissima e
comprende piccoli stabilimenti di trasformazione dei prodotti agricoli,
cementifici e manifatture di tabacco. Le risorse minerarie (metano nel
lago Kivu, oro, cassiterite, wolframite) sono poco sfruttate a causa della
mancanza di investimenti e di infrastrutture adeguate (meno del 10%
26
Il grafico è stato riportato su “Ruanda. Diritti Umani” di Christiaan De Beule e Martine Syoen
36
delle strade è asfaltata e non esiste una rete ferroviaria). Il paese esporta
caffè, tungsteno, tè, pelli e cuoio 27.
Come mostra il grafico che segue, l’industria è poco sviluppata mentre la
gran parte del Prodotto Interno Lordo (in totale 11,84 milioni di dollari)
è costituito dalle attività agricole e dai Servizi:
Rwanda: composizione del PIL
42%
44%
Agricoltura
Industria
Servizi
14%
28
La popolazione rwandese, prima dei tragici eventi del ’94, contava
7.952.000 abitanti. Di questi solamente 500.000 insediati nelle città e in
piccoli agglomerati semi – urbani (gli insediamenti “urbani” sono
costituiti da villaggi di capanne, diffusi soprattutto nelle regioni più
elevate dell’altopiano). L’unico centro che ha la struttura di una vera e
propria città è Kigali. Dunque la stragrande maggioranza delle persone
27
Calendario Atlante De Agostini 2010, Istituto Geografico De Agostini, Novara 2007.
Il grafico è stato elaborato grazie ai dati forniti da www.cia.org. Il Prodotto Interno del Lordo è così
composto: il settore dell’agricoltura costituisce il 42,1% ; l’industria il 14,3% e il settore dei servizi il
43,6%.
28
37
viveva sulle colline, in abitazioni impiantate tra i 900 e i 2800 metri di
altitudine. La collina è il centro della vita rwandese, oggi come nel ’94 29.
Le vette rwandesi ospitano alcuni tra gli ultimi esemplari di gorilla di
montagna (soprattutto nella regione occidentale) 30 che in passato
costituivano una delle attrattive turistiche principali del paese e che,
invece, oggi a causa della guerra stanno scomparendo. Sul territorio è
facilmente visibile l’azione dell’uomo: i bananeti circondano le unità
abitative; il frazionamento dei campi coltivati a sorgo e mais, o
altrimenti a legumi e tuberi; mentre sono state introdotte con la
colonizzazione le coltivazioni di caffè e tè. Questi prodotti, insieme
all’allevamento e alla vendita occasionale di bovini e capre,
costituiscono le principali risorse dell’economia domestica 31.
Nonostante, come si è osservato in un grafico precedente, anche i
servizi concorrano a rappresentare buona parte del PIL, la quasi totalità
della popolazione rwandese è impegnata in attività agricole come
testimonia il grafico nella pagina successiva:
29
Un fenomeno recente iniziato nel 2000 è il ripopolamento forzato delle città. Tale fenomeno vede
molti Hutu tornati nel paese dopo l’esodo del ’94 essere costretti a rinunciare a quelle che erano le
proprie terre per cercare impieghi precari e degradanti nelle città. “Il conflitto per la terra”, dovuto alla
perdita e alla ri-appropriazione dei campi, ha contraddistinto, e continua a contraddistinguere, la
quotidianità del Rwanda.
30
Questi sono chiamati “silver back” a causa della loro particolare schiena argentata.
31
Michela Fusaschi, Hutu-Tutsi. Alle radici del genocidio rwandese, Bollati Boringhieri, Torino 2000,
p. 17.
38
Rwanda: distribuzione della forza lavoro
10%
Agricoltura
Industria e Servizi
90%
32
In Rwanda sono praticate differenti religioni: quella cristiana è la
prevalente (cattolici 49,5%; protestanti 27,2%; avventisti 12,2%), oltre
ad essa ci sono anche altre minoranze come animisti/credenze
tradizionali 4,2%, musulmani 1,8% e altri 5,1%.
Ad espletare in maniera chiara la questione, il grafico presente
nella pagina successiva:
32
Il grafico è frutto di una propria elaborazione su dati offerti da www.cia.org. Il settore
dell’agricoltura occupa il 90% della popolazione mentre solamente il 10% della popolazione è
impegnata tra Industria e Servizi (4.446.000 persone impegnate nella forza lavoro).
39
Rwanda: religioni praticate
50,00%
45,00%
40,00%
35,00%
cattolici
30,00%
protestanti
avventisti
25,00%
20,00%
15,00%
credenze tradizionali
musulmani
altro
10,00%
5,00%
0,00%
33
Nel paese ci sono tre lingue ufficiali: il kinyarwanda (la lingua dei
rwandesi), il francese e l’inglese (dove il francese deriva da anni di
colonizzazione belga mentre l’inserimento dell’inglese dipende dalla
conclusione degli eventi del ’94 e dal “nuovo corso” intrapreso dal
governo Kagame). Oltre alle lingue ufficiali, come lingua franca degli
scambi commerciali, si parla anche la lingua dei Grandi Laghi, lo
swahili. La popolazione può essere divisa così: Hutu 85%, Tutsi 14%,
Twa 1%. Piuttosto che il termine etnie 34, si useranno per questi gruppi
33
Il grafico è stato elaborato grazie ai dati forniti da “Calendario Atlante De Agostini” 2010. La
religione cattolica è professata dalla maggioranza della popolazione (49,5%). I Protestanti
rappresentano il 27,2%, gli Avventisti il 12,2%, i Musulmani l,8%, le credenze locali il 4,2%. Altre
minori religioni vengono professate dal 5,1% della popolazione.
34
Un gruppo etnico o etnia è una popolazione di esseri umani i cui membri si identificano in un
comune ramo genealogico o in una stirpe e differenziandosi dagli altri come un gruppo distinto. Gli
individui hanno spesso in comune cultura, lingua, religione o anche caratteristiche fisiche dovute
all’adattamento al territorio in cui il gruppo vive (www.wikipedia.org). Questa è solo una delle
40
socio – economici la parola fazioni o caste. Infatti, al contrario di altre
popolazioni degli altri stati africani che sono pluritribali (il Congo è
abitato da trecento tribù, la Nigeria da duecentocinquanta ecc.), in
Rwanda vive una sola comunità: il popolo dei banyarwanda,
tradizionalmente diviso in tre caste: la casta dei Tutsi (possidenti di
mandrie di bestiame), la casta degli Hutu (agricoltori) e la casta dei Twa
(braccianti e servitori) 35. Questo antico sistema castale (al quale non si sa
dare ancora un’origine certa) presentava inizialmente una grande
mobilità e permeabilità fra le classi. Vedremo con maggiore chiarezza,
nel prossimo capitolo, le ragioni che rendono improprio l’utilizzo della
parola etnia per identificare, confrontare e separare i tre gruppi.
definizioni del concetto etnico, forse la più “statica”. In seguito esamineremo più dettagliatamente tale
concetto e vedremo quali diverse interpretazioni è possibile dare ad esso.
35
Ryszard Kapuściński, Ebano, ed. Feltrinelli, Milano 2000, p. 144.
41
CAPITOLO II
DALLA CASTA ALL’ETNIA
Etnia: tra finzione e realtà
Per cominciare la nostra analisi sarà necessario, per prima cosa,
tentare di sviluppare il concetto di “etnia”, circoscrivendo i limiti della
sua definizione. Terremo in considerazione una prerogativa dell’etnia
ovvero la labilità dei suoi confini interpretativi. Ecco perché esistono
diverse enunciazioni di tale termine associate ai fattori più vari (come la
lingua, la religione professata, i tratti somatici, l’origine comune, gli
antenati o addirittura alcuni interessi specifici quali materie prime o armi
ecc.). Sono in atto varie discussioni fra gli studiosi che tentano di
legittimare tale concetto e fra coloro che, al contrario, sarebbero
favorevoli alla cancellazione del termine e alla sua sostituzione con la
parola “popolo”. Sarà nostra priorità smentire i diversi luoghi comuni
che vedono i conflitti africani, così come quello fra Hutu e Tutsi, come
scontri etnici ovvero come eventi fisiologici fra arretrati popoli africani,
che si ammazzano per ignoranza con armi rudimentali e per un odio
antico risalente all’origine dei tempi.
Potremmo iniziare dando una prima definizione: come già detto
nelle note precedenti, un gruppo etnico o etnia può definirsi, secondo il
senso comune, una popolazione di esseri umani i cui membri si
identificano in un comune ramo genealogico o in una stirpe e si
differenziano dagli altri come un gruppo distinto. Gli individui hanno
spesso in comune cultura, lingua, religione o anche caratteristiche fisiche
42
dovute all’adattamento al territorio in cui il gruppo vive 36. Come già
detto tale definizione appare troppo statica ed ancorata ad archetipi e
congetture del passato. Inoltre non sembra chiaro il confine tra razza,
etnia e popolo. Se per etnia intendessimo, un raggruppamento umano che
si identifica (rispetto ai membri e rispetto a coloro che non appartengono
ad esso) sulla base di caratteristiche geografiche, linguistiche e culturali,
tale definizione sarebbe valida per qualsiasi gruppo umano, stabilito su
qualsiasi territorio, in qualunque epoca lo si osservi.
Il termine ha origine con la nascita stessa dell’antropologia ma è
durante il periodo coloniale (in particolare in Africa, verso la fine
dell’Ottocento 37) che assume una valenza di primo piano e un uso
abbastanza improprio nel linguaggio comune. Inizialmente ci si riferiva a
tratti specifici identificati con caratteristiche somatiche e culturali.
Spesso, però, affioravano pregiudizi sui diversi usi e costumi dei
differenti popoli. Bisogna tener presente che spesso le identità, a torto
ritenute etniche, sono state create di sana pianta dai colonizzatori
europei, ciò significa che molte di tali identità non esistevano prima
dello scramble for Africa 38 ma sono state costruite a tavolino. Le prove
sono numerose e, grazie ad Alberto Sciortino, possiamo accennare a
qualche esempio: non esistevano Bamileke prima che arrivassero i
tedeschi in Camerun; il concetto di zulu come gruppo etnico non emerse
solamente che dal 1870; in Kenya l’idea che i Kikuyu e i Masai fossero
36
Questa definizione, seppur elementare, contiene diversi fattori degni di nota ed è, comunque, quella
più riconosciuta dalla popolazione civile. Proprio per questo deriva dal sito internet www.wikipedia.it,
l’enciclopedia libera on line.
37
Anche se già dalla metà dell’Ottocento esploratori e missionari europei iniziarono le prime
spedizioni nel continente africano, la data ufficiale, che segna il prepotente e inesorabile ingresso in
Africa delle grandi potenze straniere, è il biennio 1884-1885: la Conferenza di Berlino. In Germania i
colonizzatori si spartirono, a colpi di squadra e righello, un intero continente.
38
Si può tradurre letteralmente con “lo sgomitare per l’Africa” e indica il proliferare delle
rivendicazioni europee sui territori africani tra la fine dell’Ottocento e la Prima Guerra Mondiale.
43
nemici giurati fu inventata dall’amministrazione coloniale a proprio
beneficio 39 ecc. Secondo Samir Amin, accreditato economista egiziano, i
sistemi coloniali hanno avuto un peso determinante nella creazione
dell’etnicità per ragioni strategiche quali il controllo su vaste aree
territoriali e la necessità di intermediari locali 40.
La critica all’utilizzo del termine “etnia”, dovuta alla vaga e
distorta corrispondenza alla realtà (significato politico, risvolti emotivi,
riferimento territoriale), giunge perfino alla negazione stessa del termine.
Se infatti dessimo per buona la definizione precedentemente citata,
“etnia” sarebbe solamente un doppione di “popolo” o, al massimo,
“classe sociale”. A sottolineare questa tesi è l’etimologia del termine che
deriva dal greco (éthnos) e che significa appunto popolo. Data per
acquisita l’uguaglianza dei termini (popolo ed etnia), dovremmo
chiederci perché una guerra può essere motivata dallo scontro tra due
diverse etnie e non, al contrario, tra due diversi popoli? Questo è il caso
che ci interessa: sostenere che lo scontro Hutu-Tutsi è di natura etnica
serve a chiudere il discorso e ad evitare un’analisi profonda e critica
degli eventi. Bisogna, però, evidenziare l’evoluzione dell’elemento
etnico agli occhi africani.
Seppur, per la gran parte, imposta dalla mano del colonizzatore,
nel tempo l’etnia ha contribuito alle auto – rappresentazioni di gruppi
dando vita a scontri e rivendicazioni. Quindi, anche se di natura
artificiosa, l’identità etnica è stata in seguito adottata dai gruppi sociali
esistenti prima e dopo la colonizzazione. In seguito si è verificata
l’etnicizzazione dei conflitti: la rivendicazione etnica è stata sfruttata
39
Alberto Sciortino, L’Africa in guerra. I conflitti africani e la globalizzazione, Baldini Castoldi Dalai
editore, Milano 2008, p. 98.
40
ibidem
44
ripetutamente per giustificare tanto un uso clientelare del potere, quanto
forme violente di una sua rimessa in discussione, ancora come base per
determinare le modalità del suo esercizio e quelle di accesso alle risorse
dei soggetti in conflitto 41. L’identificazione in tribù ed etnie si è
facilmente profusa nelle lotte politiche contemporanee, dove tradizioni
ed identità di gruppo sono state manipolate da chi aveva il potere, da chi
lo subiva e da chi era in attesa di conquistarlo.
“L’identità etnica e l’etnicità sono definizioni del sé e/o dell’altro
collettivi, che hanno quasi sempre le proprie radici in rapporti di forza tra
gruppi coagulati attorno a interessi specifici” 42.
Questa approfondita introduzione ci consente di comprendere
molte dinamiche inerenti ai contrasti e ai rapporti che intercorrono fra i
diversi popoli africani. L’analisi fin qui condotta ci permette di definire
l’etnia come un concetto rivoluzionario per l’Africa introdotto (nella
gran parte dei casi 43) dalle strategie del colonizzatore che, nella sua
opera di “catalogazione”, si è avvalso di archeologi e antropologi. Dove
non esistevano comunità, sono state inventate; dove erano presenti più di
una, sono state inglobate; quando un unico popolo viveva su una regione,
questo è stato distribuito in territori differenti (secondo Carlo Carbone
due sono i problemi principali che riguardano la relazione politica-etnie:
la coesistenza di popoli diversi all’interno di una stessa compagine
statale e la separazione di popoli che si richiamano alla stessa matrice
41
ibidem
Le parole sono di Ugo Fabietti, docente di materie etno-antropologiche presso l’Università di
Milano Bicocca, riportate in “L’Africa in guerra” di Alberto Sciortino.
43
A volte esistevano già comunità differenti presenti su un territorio. Ciò che è cambiato con
l’imposizione coattiva dell’etnia è stata la “rigidità”. Le appartenenze presenti nell’Africa
precoloniale, infatti, erano molteplici e mutevoli. Esistevano situazioni in cui agli individui, grazie a
matrimoni o al possesso di determinati beni, era concesso cambiare appartenenza.
42
45
etnica ma sono stati frantumati dalle vicende della storia 44). Nonostante,
la nascita artificiosa, il richiamo all’identità etnica è penetrato nelle
dinamiche politiche interne degli stati. Un ruolo di primo piano è stato
svolto, e permane tuttora come residuo del colonialismo, da dispotici
leader locali e da grandi attori internazionali.
Per concludere possiamo affermare che l’identità etnica non è il
fine ultimo della guerra e non può, in nessun caso, motivare lo scoppio
delle ostilità. E’ più opportuno considerare l’etnicità il mezzo grazie al
quale si smuovono consensi, si giustificano carenze statali, si aizzano
persone ad odiare, fino alla morte, altri esseri umani etichettati come
rivali. In un suo intervento Anna Maria Gentili, docente di Storia
dell’Africa presso l’Università di Bologna, con riguardo all’artificiosità
delle identificazioni interne al popolo banyarwanda ha sostenuto che:
“ […] la politique de races che era la politica amministrativa
applicata prima dai tedeschi e poi dai belgi e fondata sull’individuazione
di una razza superiore (i tutsi) che gestiva il potere tradizionale […]
Questa differenziazione razziale ed etnica diventò patrimonio culturale
delle élites colte (tutsi – ndr) che poi vennero scalzate dal potere con gli
eventi dell’indipendenza. E successivamente la gestione monolitica del
potere da parte del partito di maggioranza (hutu) venne sempre
interpretata in termini di confronto etnico. […] il discorso del conflitto
etnico, della differenziazione etnica irrimediabile, è un discorso dell’élite,
della cultura, è un discorso del politico, ma non è, se non in parte e nei
momenti di conflitto più duro, un discorso generalizzato presso le
popolazioni. […] Tutsi e Hutu vivono negli stessi villaggi, spesso nello
stesso modo, non esistono fra di loro sostanziali differenze di status e di
44
Carlo Carbone, Burundi Congo Rwanda. Storia contemporanea di nazioni etnie e stati, Gangemi
editore, Roma 2000, p. 25.
46
ricchezza, né linguistiche, né culturali, spesso neanche di aspetto come si
pensa. Solo nel momento del conflitto violento avviene lo schieramento
da una parte e dall’altra, ma il conflitto ha sempre radici politiche ed è
45
scatenato da élites, spesso militari” .
Ancora secondo Carbone due sono gli schemi principali che
riassumono le contrapposizioni etniche in Africa:
1) gruppi etnici di quasi uguale consistenza numerica, dove una volta
arrivato al potere il gruppo etnico X, se non ampiamente maggioritario,
tenderà a negare consistenza storica all’etnia o alle etnie avversarie o
addirittura al concetto stesso di etnia, considerata pura e semplice
invenzione coloniale. Potrà così accusare di regionalismo o di tribalismo
gli oppositori – ancorché maggioranza – che invece all’etnia faranno
immancabilmente appello per riorganizzare il contrattacco politico. Il
loro gruppo ribadirà con forza la propria qualità di etnia o di popolo, a
seconda che la tribuna sia, rispettivamente, locale o internazionale. Sotto
la bandiera dell’etnia chiamerà di conseguenza a raccolta. Resta salva,
naturalmente, la libertà di virare di 180º ove i suoi leaders riescano a
riacciuffare il potere, nel qual caso saranno ora loro a condannare chi
mai facesse ricorso al richiamo etnico;
2) gruppi etnici di diseguale consistenza numerica, dove il gruppo
maggioritario Y – sia esso all’opposizione o al potere – non rinuncerà
alla identificazione etnica mentre quello minoritario tenterà in ogni modo
di negarle valore storico o almeno di respingerla come manifestazione di
immaturità politica 46.
45
Rodolfo Casadei – Angelo Ferrari, Rwanda Burundi. Una tragedia infinita Perché?, Editrice
Missionaria Italiana, Bologna 1994, pp. 10-11.
46
Carlo Carbone, Burundi Congo Rwanda. Storia contemporanea di nazioni etnie e stati, Gangemi
editore, Roma 2000.
47
Carbone analizza nel suo libro con criticità il concetto etnico e in
una delle pagine conclusive del suo libro, a proposito della situazione
rwandese, scrive che nonostante ci siano state delle schermaglie fra le
due comunità nell’epoca precoloniale e nonostante il peso avuto dal
colonialismo,
“fino a quando non è emerso un problema relativo all’esigenza di
vincere la battaglia per il controllo di risorse carenti, ed è fenomeno
dell’ultimo quarantennio, la conflittualità era ampiamente controllata,
piuttosto che promossa, dalla coesistenza interetnica” 47.
Dunque all’origine dei vari conflitti, e quindi anche dello scontro
fra Hutu e Tutsi, c’è sempre una marginalizzazione economica o politica
di uno o più gruppi. Questa marginalizzazione si tramuta concretamente
in diniego del diritto di voto, divieto di organizzazione partitica,
eliminazione della partecipazione politica, impossibilità di esercitare il
diritto di accesso alla terra. Proprio la terra viene indicata da vari autori
come la causa scatenante il conflitto fra Hutu e Tutsi. Secondo
Kapuściński spesso in Africa si arriva al conflitto tra chi alleva bestiame
e chi coltiva la terra. Di solito però, vista la vastità del continente,
succede che uno dei contendenti può spostarsi su territori liberi
eliminando il focolaio della discordia. In Rwanda, vista la montuosità del
territorio e l’incredibile densità della popolazione, questo non è
possibile: non esiste spazio per cedere il campo 48.
47
48
ibidem
Ryszard Kapuściński, Ebano, ed. Feltrinelli, Milano 2000, p. 146.
48
“Se in epoca coloniale etnia o tribù significavano solo
appartenenza a una comunità o gruppo, le stesse parole oggi hanno
assunto un forte connotato di divisione e di esclusione. L’appartenenza
etnica presa da sola non ucciderebbe nessuno, ma è il suo uso tribale che
porta a quelle guerre e a quei conflitti (aperti o nascosti) che vediamo
fiorire ogni giorno in molti angoli della terra” 49.
Non si fa la guerra per l’etnia, ma è per mezzo di essa che si
istigano i contendenti a scannarsi a vicenda.
Hutu, Tutsi e Twa
In Rwanda viveva, e vive tuttora, un solo popolo: i banyarwanda.
Questo popolo si divide in tre classi sociali: Hutu, Tutsi e Twa. Gli Hutu,
famosi alle cronache come i contadini bantu, sono la classe dominante
(85%); poi ci sono i Tutsi, “l’altissimo” popolo hamitico (14%) e, in
minima parte, i Twa, i pigmei della regione dei Grandi Laghi (1%).
A rappresentare tale divisione del “popolo rwandese” il grafico
che segue nella pagina successiva:
49
Fonju Ndemesah Fausta, La radio e il machete, Il ruolo dei media nel genocidio in Rwanda ed.
Infinito, Roma 2009, p.21.
49
Rwanda: “ gruppi etnici”
90%
80%
HUTU
70%
TUTSI
60%
TWA
50%
40%
TWA
30%
TUTSI
20%
10%
HUTU
0%
50
Secondo un antico mito51 gli abitanti originari del Rwanda
sarebbero i Twa, un gruppo di pigmei che viveva prevalentemente grazie
alla caccia. In seguito, portando il ferro e l’agricoltura, sarebbero giunti
gli Hutu. Infine, tra il XIII e il XIV secolo, in Rwanda sarebbero arrivati
dal nord i Tutsi, un popolo di pastori – guerrieri dediti al nomadismo. Il
mito hamitico, introdotto in Africa dalla “scienza” razziale europea otto
– novecentesca, ipotizzava che le popolazioni tutsi dei Grandi Laghi
avessero una presunta (mai provata scientificamente) origine etiopica e
che fossero arrivati nella regione come conquistatori riuscendo, grazie
alla superiorità economica e militare, ad asservire gli agricoltori hutu. Il
mito hamitico consisteva nella nozione secondo la quale ogni traccia di
50
Il grafico è stato elaborato per mezzo dei dati rinvenuti su “Calendario Atlante De Agostini” 2010.
Secondo miti hamitici l’origine dei Tutsi sarebbe da ricercare nel Corno d’Africa, forse in Etiopia.
Gli Hutu sarebbero, invece, un popolo Bantu e quindi originari della regione dei Grandi Laghi. Tali
miti sono stati introdotti in Rwanda da colonizzatori e missionari con lo scopo di “regalare” ai Tutsi,
per quanto possibile, un’origine meno africana e più vicina, anche geograficamente, all’uomo bianco.
51
50
civilizzazione sul continente aveva come portatori gli hamiti 52, o
stranieri provenienti da una regione dell’Africa di antica civilizzazione 53.
Non sappiamo quanto questo mito corrisponda alla storia reale di
migrazioni continentali o se, al contrario, sia solo frutto di capricci
europei che, semplicemente, ai tozzi Hutu (come detto, la gran parte
della popolazione) preferivano “i Vatussi” 54.
Nella pagina successiva proponiamo un disegno che raffigura i tre
gruppi rwandesi secondo le differenze introdotte dal mito hamitico di
origine biblica55 (rivisto e re-interpretato dai colonizzatori):
Il mito hamitico
52
Gli Hamiti (o Camiti) sono l’insieme di popolazioni che popolarono l’Africa e di cui fanno parte i
Berberi, gli Etiopi, gli Egizi e i Cananei. L’origine del nome è biblico in quanto le genti che
popolarono l’Africa (appunto i Camiti) furono i discendenti di Cam che era il secondogenito di Noè. Il
nome di Cam deriva dall’egiziano Khem (“terra nera”), con cui gli egiziani indicavano il loro paese,
reso fertile dal limo scuro delle inondazioni del Nilo, in contrapposizione alle “terre rosse” dei deserti
circostanti.
53
Fonju Ndemesah Fausta, La radio e il machete. Il ruolo dei media nel genocidio rwandese, ed.
Infinito, Roma 2009, p.30.
54
Si diffonderà così il mito popolare della superiorità degli altissimi negri, mito che dalla metà
dell’Ottocento sopravvivrà fino agli anni ’60 del novecento arrivando musicalmente anche in Italia
con il celeberrimo brano scritto da Carlo Rossi e Edoardo Vianello, portato al successo dai Flippers
nel 1963, l’anno nel quale gli slanciati Tutsi della canzone (wa-tutsi, dove il wa indica il plurale
secondo la grammatica swahili), subiscono un nuovo progrom in Rwanda e lasciano in massa il paese.
La canzone, spiritosa e orecchiabile, diviene uno dei motivi simbolo degli anni Sessanta. Il testo è un
documento prezioso del radicamento nella cultura popolare italiana del mito camita, ovvero
dell’esistenza nel cuore dell’Africa selvaggia (il continente nero) di una popolazione superiore di
altissimi negri. “Noi siamo quelli che all'equatore vediamo per primi la luce del sole, noi siamo i
Watussi… Quello più basso è alto sei metri. Qui ci scambiamo l'amore profondo dandoci i baci più
alti del mondo” (www.progettorwanda.it ).
55
Per la prima volta il nome di Ham compare nella Genesi. Noè ha tre figli: Sem, Japhet e Cham. Noè
fu un agricoltore e in quanto tale fu il primo a piantare una vigna. Un giorno (dopo essersi ubriacato)
Noè si addormentò nudo nella sua tenda. Cham lo vide dormire nudo e corse a dirlo ai fratelli. Allora
Sem e Japhet si precipitarono a coprire il padre con un mantello. Quando Noè non fu più ubriaco,
venne a sapere quello che gli aveva fatto il figlio più giovane (Cham) e maledì il suo figlio (Canaan,
ultimo dei quattro figli di Cham, fu condannato ad essere schiavo di Sem e di Japhet). Tale mito, che
inizialmente condannava gli africani perché discendenti di Cham, subì una rivisitazione grazie alla
spedizione egiziana di Napoleone Bonaparte e nel periodo illuminista. Gli egizi (e, di conseguenza,
anche gli abissini, i copti e i Tutsi) si mostrarono, ai suoi occhi, di pelle giallastra e più simili agli
europei che agli africani. Da quel momento in poi i camiti (o hamiti) furono considerati più vicini
all’uomo bianco e superiori al resto dei “negri” africani in “Hutu-Tutsi. Alle radici del genocidio
rwandese” di Michela Fusaschi.
51
56
Non è verificabile scientificamente questa origine nord africana
dei Tutsi, ciò che è certo è l’estraneità di tale mito rispetto al Rwanda.
E’, infatti, più verosimile che sia Hutu che Tutsi derivino da diverse
ondate migratorie ma pur sempre di popoli bantu. Partendo da questo
presupposto, possiamo affermare che in Rwanda vivono solamente i
Banyarwanda. Seppur la gran parte della popolazione viene classificata
come Hutu e la minoranza come Tutsi, i rwandesi abitano da tempo
immemorabile lo stesso territorio (e quindi non hanno differenti
caratteristiche geografiche), parlano la stessa lingua (il kinyarwanda) e
praticano la stessa religione cristiana, né si registrano tra l’una e l’altra
“etnia” differenze di usi, pratiche e costumi in nessun aspetto rilevante
della vita quotidiana57. Pur trattandosi di un unico popolo, esso è diviso
in tre classi sociali o caste (un sistema analogo a quello indiano, dal
quale si differenzia per la permeabilità dei vari strati). Le caste sono
quella dei Tutsi (possidenti di mandrie di bestiame, 14%), quella degli
Hutu (agricoltori, 85%) e quella dei Twa (braccianti e servitori, 1%).
56
Il ritratto rappresenta a pennello il mito hamitico e la visione occidentale degli abitanti del Rwanda
(www.trumanwebdesign.com).
57
Alberto Sciortino, L’Africa in guerra. I conflitti africani e la globalizzazione, ed. Baldini Castoldi
Dalai, Milano 2008, p. 108.
52
Giunti a questo punto, la nostra ricerca necessita di un
approfondimento sul concetto di “classe”. Tale concetto, insieme alle
ripercussioni sociali che ne derivano, rimane estraneo a gran parte
dell’Africa restando un’esclusiva politica e sociale europea. A questo
proposito il Rwanda, con le sue divisioni socio – economiche fra Hutu e
Tutsi, rappresenta un’eccezione soprattutto nel periodo precoloniale:
“la parte di popolazione che va sotto questo nome (i Tutsi) ha
ridotto nel corso dei secoli gli agricoltori hutu a uno stato di completa
subordinazione, tanto che, soprattutto per quanto riguarda il Rwanda, si
può parlare di “antagonismo di classe”, un concetto del tutto estraneo alla
realtà politico – economica africana tradizionale, dove il concetto di
classe formulato dagli economisti politici occidentali (Smith, Ricardo,
Marx ecc.) non trova riscontro. Nell’Africa precoloniale i contadini sono
proprietari dei loro mezzi di produzione ed esercitano un diritto di
possesso sulla terra basato su idee tradizionali (il rapporto con gli
antenati, l’appartenenza a una certa discendenza, i diritti del sangue,
ecc.), non sono sfruttati o espulsi dalle terre da un latifondista (come in
America Latina) o da un feudatario (come accadde in Europa a partire dal
Medioevo fino ai tempi recenti). A rappresentare l’eccezione sono
appunto le monarchie rwandese e burundese (soprattutto la prima),
58
l’impero etiopico e il sultanato di Sokoto nella Nigeria settentrionale” .
Al gradino più basso della scala sociale rwandese ci sono i Twa.
Essi sono i pigmei dei Grandi Laghi: una minoranza di circa 90.000
individui distribuiti negli stati della regione. I Twa si caratterizzano per
la relazione simbiotica con l’ambiente della foresta, e per le
caratteristiche fisiche, tra cui la più evidente, accanto ai tratti marcati del
58
Rodolfo Casadei – Angelo Ferrari, Rwanda Burundi. Una tragedia infinita PERCHE’?, Editrice
Missionaria Italiana, Bologna 1994, p.84.
53
viso, è la piccola taglia che, tra l’altro è all’origine della denominazione
Pigmei (di derivazione greca “nani”) 59. Essi vivono in situazioni di
estrema povertà e marginalizzazione sociopolitica, per colpa di
preconcetti razziali (si ritiene si nutrano come gli animali, abbiano
un’irrefrenabile sessualità, e siano privi di intelletto) e della distruzione
dei loro tradizionali ambienti forestali. Vengono rappresentati come
prossimi al mondo animale e sono considerati, ed essi stessi si
definiscono, gli autentici abitanti delle foreste della zona. Si sono visti
assoggettati alla colonizzazione: prima degli agricoltori, poi degli
allevatori e, infine, degli europei.
Questi diversi “sistemi coloniali” hanno modificato in maniera
irreversibile la foresta trasformando il loro habitat naturale in pascoli,
terre coltivabili, colture intensive ecc. Nonostante la grande mobilità fra
le classi di Hutu e Tutsi, prima del genocidio, la barriera che delineava la
classe dei Twa rimase sempre molto rigida. I suoi membri svolgevano
lavori servili e, data la marginalità rispetto al potere centrale, erano
discriminati apertamente 60. Per quanto riguarda Hutu e Tutsi non
possiamo trovare delle differenze somatiche o culturali tra di essi (se non
quelle imposte da antropologi e studiosi europei), entrambi costituiscono
un unico popolo che ha in comune la lingua con i Twa ma che, con essi,
ha mantenuto sempre le distanze:
59
Michela Fusaschi, Hutu – Tutsi. Alle radici del genocidio rwandese, Bollati Boringhieri, Torino
2000, p.26.
60
Fonju Ndemesah Fausta, La radio e il machete. Il ruolo dei media nel genocidio rwandese, ed.
Infinito, Roma 2009, p.29.
54
“i Batutsi e i Bahutu solamente si considerano come
Banyarwanda. Facilmente dicono con disprezzo - un Mutwa non è un
munyarwanda, è un Mutwa - ” 61.
L’incontro tra queste popolazioni (che non possiamo collocare
con esattezza nel tempo) relega al gradino più basso i Twa. I Tutsi,
essendo “allevatori” 62, hanno maggiori possibilità di arricchimento
costituendo pian piano un’élite che si tramuterà presto in una vera e
propria classe regale. Gli Hutu formano la grande massa di contadini. Le
dinamiche e i rapporti economici che intercorrono fra le due classi
costituiscono un vero e proprio sistema di vassallaggio.
“Fra tutsi e hutu esistevano rapporti di sudditanza: il tutsi era il
feudatario, l’hutu il vassallo. Gli hutu, clienti dei tutsi, vivevano
coltivando la terra. Parte del raccolto lo consegnavano al loro signore in
cambio della protezione di una vacca concessa in usufrutto (i tutsi
detenevano il monopolio delle vacche: gli hutu potevano solo prenderle
in affitto)” 63.
Possiamo affermare, con relativa certezza, che nel Rwanda
precoloniale la differenza tra Hutu e Tutsi afferiva solamente al ruolo
economico svolto all’interno della società. Erano due comunità
all’interno dello stesso popolo che occupavano una differente posizione
nella scala gerarchica sociale. Ciò che rendeva i Tutsi superiori non
erano caratteristiche fisiche o intellettuali ma la proprietà dell’unica
61
Michela Fusaschi, Hutu – Tutsi. Alle radici del genocidio rwandese, Bollati Boringhieri, Torino
2000, p.59.
62
Più che allevatori, i Tutsi erano i proprietari delle mandrie. Sono la classe dominante ovvero
l’aristocrazia (“Ebano” di Ryszard Kapuscinski).
63
Ryszard Kapuściński, Ebano, ed. Feltrinelli, Milano 2000, p.146.
55
ricchezza rwandese: le mandrie di bestiame. Dobbiamo evidenziare che
la divisione fra le classi non era affatto rigida ma era possibile passare da
una classe all’altra grazie ai matrimoni “misti” (che anche se non
proibiti, non erano molto frequenti) e al possedimento dei capi di
bestiame 64. In base a questi due fattori si determinava un continuo
mescolamento fra le classi, rendendo vane le illusioni di riscontrare
caratteristiche genetiche differenti.
Un ulteriore esempio, a testimoniare la mobilità sociale, a questo
riguardo, era uno strumento proprio del sistema feudale rwandese,
l’ubuhake65, una sorta di contratto di servitù pastorale dove il padrone
cedeva l’uso del bestiame al cliente. Tale strumento, come gran parte
della realtà precoloniale del Rwanda, verrà modificato dai colonizzatori,
“soltanto durante il periodo coloniale che l’ubuhake assumerà una
forma generalizzata e controllata attraverso la quale si istituzionalizzerà
una relazione di sfruttamento di lavoro tra gli allevatori, proprietari di un
capitale bovino, e gli agricoltori a loro volta rappresentati attraverso la
generalizzazione del modello dell’opposizione Hutu/Tutsi” 66.
Questa era la situazione dei banyarwanda rwandesi prima
dell’arrivo dei bianchi. In epoca precoloniale non c’era un conflitto
64
Il numero esatto di vacche possedute faceva da confine fra le classi. Chi possedeva meno di dieci
vacche era un Hutu, chi ne possedeva di più era un Tutsi. In questo senso una volta dotato di bestiame
il lignaggio Hutu diventava icyhuture, dehutuizzato, vale a dire tutsificato. Al contrario un Tutsi molto
povero che perdeva il suo bestiame ed era costretto a lavorare la terra diveniva un umwore (“caduto”),
cioè si hutuizzava (“Hutu-Tutsi. Alle radici del genocidio rwandese” di Michela Fusaschi).
65
Molteplici erano i risultati benefici di tale strumento: promozione della coesione sociale,
rafforzamento di una forma centralizzata di governo, sfruttamento e contestuale protezione dello strato
socialmente più debole.
66
Michela Fusaschi, Hutu – Tutsi. Alle radici del genocidio rwandese, Bollati Boringhieri, Torino
2000, p. 93.
56
“etnico” ma uno, più latente, di tipo sociale fra diverse caste 67.
Solamente l’impatto del colonizzatore trasformerà le mobili caste
rwandesi in un sistema di rigida contrapposizione etnica che sfocerà nel
genocidio del 1994. Di questi e di altri cinici disegni sono ignare le
masse di contadini hutu che impugneranno le armi e che, per primi,
crederanno di far parte di una carneficina tribale, nella quale “popoli”
avversi si scannano per la sopravvivenza. La verità è che il conflitto
“etnico” sviluppatosi in Rwanda ha origini e conseguenze politiche. A
muovere i fili delle numerose braccia armate di machete saranno
intellettuali ed élite che sotto l’ombrello etnico nasconderanno interessi
economici e brame di potere:
“di questi cinici disegni sono certamente ignari i giovani e i
contadini hutu del Rwanda e del Burundi che in queste settimane hanno
impugnato i machete, animati da una furia bestiale, e ancor più le loro
vittime tutsi. Molti di loro credono, come i giornalisti occidentali che li
osservano, di essere gli attori di una guerra tribale basata sull’odio etnico
allo stato puro. Ma molti di più mirano soprattutto ad accaparrarsi la terra
dei vicini (i contadini) o ad acquistare una considerazione sociale che
l’organizzazione tradizionale della comunità non riconosce loro (i
giovani). […] l’etnicità diventa una questione politica e viene invocata
come tale quando si tratta di spartire cariche e posti di lavoro
nell’amministrazione pubblica, terre, crediti, borse di studio, poltrone
ministeriali, ecc. E’ in quel momento che gli individui, piccoli e grandi,
“scoprono” la loro appartenenza etnica. E se non ci arrivano da soli, c’è
chi li “aiuta” ad arrivarci” 68.
67
Il pomo della discordia era la terra. All’aumentare dei capi di bestiame, i Tutsi necessitavano di
nuovi campi per il pascolo. Viste le ridotte dimensioni dello stato rwandese, i Tutsi confiscavano la
terra ai contadini Hutu (già stretti a causa del loro elevato numero nei pochi campi disponibili).
68
Rodolfo Casadei – Angelo Ferrari, Rwanda Burundi. Una tragedia infinita Perché?, Editrice
Missionaria Italiana, Bologna 1994, pp. 13-14.
57
Il peso del colonialismo
Il ruolo del colonizzatore nella creazione delle diverse identità
etniche rwandesi è stato determinante. Tali classi, prima dell’arrivo del
muzungu 69 in Africa, erano delle divisioni sociali basate su un differente
rango economico e produttivo. L’opera del colonizzatore si è concentrata
sulla ricerca e la catalogazione. Sono state create differenze genetiche
dove non esistevano: sono state immesse nell’opinione pubblica
rwandese falsi miti (uno su tutti “il mito hamitico” relativo alla supposta
provenienza nordafricana dei Tutsi) riguardanti le origini (come la
cronologia delle migrazioni dei Tutsi, degli Hutu) e le caratteristiche
fisiche di Hutu e Tutsi (tozzi e dai tratti negroidi gli uni, slanciati e snelli
gli altri). La distinzione sociale caratterizzata da mobilità e permeabilità
delle classi ha assunto un connotato prettamente etnico, fino a
giustificare le violenze “fratricide” dell’intera regione. Tale evoluzione è
dovuta a due fattori: la strumentalizzazione delle differenze sociali ad
opera del potere coloniale, che le descriveva con elementi derivanti dalla
propria cultura e generava quindi le identità etniche; e successivamente,
con l’utilizzo di tali identità per scopi di lotta politica nella fase della
decolonizzazione e in quella post-indipendenza70.
Sia i tedeschi che i belgi hanno avuto un forte peso sulla rigida
catalogazione delle razze rwandesi. Il mito hamitico, introdotto da
missionari e colonizzatori, affermava che i Tutsi non fossero un popolo
bantu. La loro origine sarebbe da ricercare in Asia Minore, dalla quale,
passando per l’Egitto, sarebbero poi giunti in Rwanda. Essendo estranei
69
E’ con questa parola che, in lingua swahili, viene identificato l’uomo bianco. E’ interessante sapere
che questa parola ha una doppia valenza: da una parte “uomo bianco”, dall’altra “padrone”.
70
Alberto Sciortino, L’Africa in guerra. I conflitti africani e la globalizzazione, ed. Baldini Castoldi
Dalai, Milano 2008, p.113.
58
a questa regione, i Tutsi conserverebbero caratteristiche proprie: il collo
allungato, i polsi e le caviglie sottili, l’alta statura, il naso aquilino ecc.
Dal 1870 in poi si diffuse fra gli studiosi l’idea di una “razza hamitica”
dove vennero raggruppati i Berberi, gli Egiziani, gli Abissini, alcuni
gruppi dell’Africa centrale, fra cui i Tutsi-Hima. Nelle monografie
dell’epoca coloniale la “razza hamitica” era quella dei pastori – guerrieri
Tutsi che era considerata superiore alla “razza nera” degli agricoltori
Hutu, per questo la pratica agricola diventò la caratteristica del gruppo
considerato inferiore (cosicché l’agricoltura divenne l’attività principale
dei neri) 71. Gli storici concordano nel ritenere che sia i tedeschi che i
belgi approfondirono e utilizzarono a proprio vantaggio le divisioni
sociali tra i due gruppi, affidando al ceto superiore tutsi, minoritario, il
ruolo di rappresentante della popolazione in seno all’amministrazione
coloniale, eliminando gli hutu dalla struttura politica e sviluppando il
mito del tutsi civilizzato di origine semitica – nilotica, in opposizione
all’hutu negroide selvaggio, incapace di apprendere 72.
La priorità dei tedeschi, e poi in seguito dei belgi, è stata quella di
trovare un affidabile intermediario ma per farlo è stato necessario
cristallizzare le divisioni e renderle immutabili. Per far ciò
“al loro arrivo i colonizzatori, tedeschi prima e belgi dopo, si sono
trovati nella necessità di identificare un gruppo autoctono che fungesse
da intermediario fra l'amministrazione coloniale e la popolazione africana
nelle attività di amministrazione e governo. Osservando superficialmente
le società precoloniali, agli europei è sembrato che i tutsi fossero una
71
Michela Fusaschi, Hutu – Tutsi. Alle radici del genocidio rwandese, Bollati Boringhieri, Torino
2000, p.56.
72
Alberto Sciortino, L’Africa in guerra. I conflitti africani e la globalizzazione, ed. Baldini Castoldi
Dalai, Milano 2008, p.114.
59
"razza" superiore agli hutu sia per caratteristiche fisiche che per livello
economico-sociale, e li hanno ritenuti gli interlocutori ideali a cui
affidare i compiti amministrativi della colonia. I tutsi vengono così
istruiti nelle missioni cattoliche, dove imparano la lingua del potere
coloniale; diventano i supervisori delle coltivazioni; controllano il
reclutamento della manodopera; sono gli esattori delle tasse e i maggiori
coltivatori di caffè” 73.
Dai numerosi documenti analizzati risulta un fatto storico che
esperti e scienziati europei vennero spediti nel paese dalle mille colline
per fare l’inventario. Armati di strumenti di precisione, misurarono la
forma dei nasi, lo spessore dei crani, il peso e l’altezza degli individui e
al termine della loro indagine, giunsero a una decisione radicale:
dichiararono la superiorità dei Tutsi rispetto agli Hutu, legittimando così,
geneticamente, il loro esercizio del potere.
“[…] non sono negri benché siano neri corvino. Sono un popolo
hamitico o nilotico. Sono pastori nomadi e allevatori che provengono dal
nord, dall’Etiopia […] sono orgogliosi, sofisticati e non particolarmente
energici. […] L’altezza è il simbolo dell’esclusione razziale e del sangue
puro” 74.
Stabilita la supremazia dei Tutsi, i colonizzatori procedettero alla
graduale discriminazione ed esclusione sociale degli Hutu, ovvero della
quasi totalità della popolazione rwandese. Il colpo finale al sistema
73
Tali informazioni sono state reperite all’indirizzo internet www.sconfine.org. Questo è il sito di
un’associazione che promuove progetti di sviluppo responsabile in Rwanda.
74
Queste sono le parole con cui, nel 1954, lo scrittore americano John Gunther descrive i Tutsi al
termine di un suo viaggio in Rwanda in “Hutu-Tutsi. Alle radici del genocidio rwandese” di Michela
Fusaschi.
60
sociale del paese venne assestato nel 1932 dai belgi: in quell’anno i
colonizzatori introdussero il riferimento etnico sulle carte di identità.
Da questo momento in poi la separazione sarà evidente e
facilmente riscontrabile: Hutu, Tutsi e Twa verranno separati da falsi
fondamenti razziali e il passaggio da una classe sociale all’altra non sarà
più possibile.
Documento etnico
75
Possiamo asserire, quindi, che non esistevano differenze culturali
né tantomeno attinenti al patrimonio genetico fra le diverse comunità.
L’antropologia dell’uomo bianco ha creato le diverse identità razziali e
la loro contrapposizione etnica. In seguito, il potere coloniale ha fornito
all’aristocrazia Tutsi il monopolio delle poche risorse del territorio e la
leadership del paese. Il catastrofico apice della gestione coloniale del
Rwanda è stato raggiunto con l’emissione della carta d’identità etnica.
Tale data ha segnato il punto di non ritorno: l’etnia non solo è stata
75
La fotografia del documento etnico è stata reperita su www.benerwanda.org.
61
creata ma, in seguito, è stata persino ufficializzata, appiccicando alle
persone un marchio indelebile.
L’approfondita
analisi
ci
ha
permesso
di
comprendere
l’evoluzione della classificazione interna al popolo dei banyarwanda
svelando la trasformazione delle classi sociali in contrapposti
schieramenti etnici. Le relazioni fra le classi, che si basavano su
strumenti tradizionali e su consuetudini comunitarie, sono state interrotte
dal marchio imposto dai colonizzatori belgi. Tale marchio diverrà un
vero e proprio incubo per i Tutsi al varco dei numerosi posti di blocco
che imperverseranno per le strade rwandesi nei giorni di sangue del ’94.
62
CAPITOLO III
STORIA DEL RWANDA
Epoca precoloniale
Come già detto nelle pagine precedenti, il paese dalle mille colline
si caratterizza per l’elevata montuosità del suo territorio. Tali montagne
hanno permesso al Rwanda, soprattutto, nell’epoca precoloniale, di
preservare il proprio popolo e le proprie tradizioni. Secondo Kapuściński
il regno rwandese era, appunto, uno stato chiuso che non manteneva
contatti con nessuno. I banyarwanda non organizzavano spedizioni di
conquista né lasciavano entrare stranieri nel loro territorio. Inoltre il
paese distava più di centocinquanta chilometri dalla costa, ma soprattutto
non presentava particolari attrattive, in quanto privo di materie prime
preziose76. Le sue caratteristiche orografiche unite alla temibile
organizzazione militare dei regni Tutsi aveva tenuto alla larga sia gli
schiavisti occidentali che quelli arabo – swahili che razziavano invece
facilmente negli altopiani circostanti 77.
La situazione sociopolitica del paese nell’epoca precoloniale era
ben articolata e si presentò agli occhi sorpresi degli europei come
un’eccezione nel panorama africano. Esisteva, infatti, in Rwanda un
sistema gerarchico parastatale che vedeva al vertice un monarca: il
Mwami 78. Come sostiene Fusaschi, quando i primi europei giunsero in
Ryszard Kapuściński, Ebano, ed. Feltrinelli, Milano 2000, p. 145.
Carlo Carbone, Burundi Congo Rwanda. Storia contemporanea di nazioni etnie e stati, Gangemi
editore, Roma 2000, p. 29.
78
Il Mwami, al vertice della scala gerarchica, era il capo supremo dell’amministrazione civile del
Rwanda. Veniva riconosciuto dalla tradizione come l’incarnazione della divinità. Il suo potere si
fondava sulla sua origine soprannaturale.
76
77
63
questa regione alla fine del XIX secolo, si trovarono di fronte a una
struttura di potere fortemente gerarchizzata e centralizzata. Al vertice si
trovava il Mwami, che era il capo assoluto di tutto il regno; il potere
regale si esercitava attraverso le grandi famiglie Tutsi che erano legate al
Mwami da un rapporto di “vassallaggio” basato sulla distribuzione delle
terre79. Sembra che il potere regale venisse giustificato e trovasse la
propria legittimazione giuridica nell’ubwiiru, nell’ubucurabwenge e
nell’ibisigo, ovvero il codice, le genealogie e i poemi dinastici 80. Attorno
al monarca esisteva una nutrita schiera di aristocratici e nobili che
costituivano la casta dominante dei Tutsi. La loro massima e
praticamente unica ricchezza era il bestiame: le vacche zebu, varietà
dalle lunghe e bellissime corna lunate 81. Il governo veniva esercitato
attraverso un’amministrazione stabile, un’organizzazione militare e un
contratto pastorale che riguardava il bestiame, l’ubuhake.
Al vertice del sistema politico c’era il Mwami, riconosciuto dalla
tradizione come l’incarnazione della divinità. A proposito del sistema
piramidale rwandese, è interessante l’analisi di Fusaschi che ci offre un
esame approfondito delle tradizioni e dei costumi del Rwanda nell’epoca
precoloniale. Pur se esso non partecipava mai alle attività degli altri
uomini, il Mwami ne era il proprietario. Era depositario di una potenza
soprannaturale che condizionava l’intera prosperità del paese (il re si
79
Michela Fusaschi, Hutu – Tutsi. Alle radici del genocidio rwandese, Bollati Boringhieri, Torino
2000, p. 30.
80
L’Ubwiiru era il codice orale della regalità ed era conosciuto solamente dai consiglieri del re.
L’Ubucurabwenge rappresentava le genealogie dinastiche che venivano trasmesse oralmente. Il testo
veniva recitato in modo uniforme, attraverso una serie di strofe, da specialisti. Ogni strofa era dedicata
ad un re, iniziando da quello più recente per risalire fino alle origini. Gli ibisigo erano i poemi
dinastici e la loro trasmissione era segreta. La loro funzione era esaltare il re defunto ma anche quello
vigente nel momento della composizione (“Hutu-Tutsi. Alle radici del genocidio rwandese” di
Michela Fusaschi).
81
Secondo Kapuściński le vacche erano sacre e per questo non venivano mai uccise. I tutsi si
nutrivano del loro latte e del loro sangue. Di tutto questo si occupavano gli uomini, mentre alle donne
era proibito avvicinarsi (“Ebano”di Ryszard Kapuściński).
64
identificava con l’intero Rwanda). Proprio per questo, ai primi segni di
cedimento fisico il sovrano veniva ucciso dai suoi personali sacerdoti, gli
abiiru 82 (ucciderlo quando era ancora sano, poteva evitare che la sua
decadenza fisica comportasse la conseguente rovina dell’intero regno).
Gli Abiiru, costituiti in un collegio, assicuravano la trasmissione delle
funzioni reali (tale collegio poteva essere composto sia da hutu che da
tutsi). Alla morte del Mwami cominciava un periodo di disordine che
terminava con l’ascesa del nuovo sovrano. Tale periodo era considerato
di lutto nazionale perché veniva a mancare, sia nelle donne che nella
terra, la fertilità.
Grazie alla profonda analisi sviluppata da Michela Fusaschi, ci
risulta più agevole addentrarci nell’organizzazione dell’amministrazione
territoriale rwandese. Il paese era diviso in distretti amministrativi,
ibikingi
ovvero
tanto
concessione di
pascolo quanto distretti
amministrativi; la provincia (l’insieme di più distretti) dipendeva da un
grande capo il quale, nelle zone di frontiera minacciate dalle invasioni
straniere, era un capo d’armata 83. Quest’ultimo veniva nominato
direttamente dal Mwami e svolgeva l’azione di governo e la funzione di
comandante dell’intera armata. Ogni distretto era governato da due capi,
nominati esclusivamente dal Mwami, il prefetto del suolo e il prefetto
dei pascoli. Queste autorità potevano essere indifferentemente Tutsi o
Hutu 84. Sappiamo a questo punto che quando i primi esploratori europei
giunsero in Rwanda si trovarono davanti agli occhi una sorprendente
realtà: il popolo dei banyarwanda si mostrò organizzato e capace di darsi
82
Gli abiiru (“guardiani della tradizione dinastica”) erano i ritualisti. Si occupavano di accompagnare
il re durante la reggenza; di ucciderlo prima del disfacimento fisico; di concordare col re, il suo
successore; di annunciare il nuovo Mwami (“Hutu-Tutsi. Alle radici del genocidio rwandese” di
Michela Fusaschi).
83
ibidem
84
ibidem
65
delle regole civili. Dai vari testi analizzati sembra che i colonizzatori
dovettero giustificare tali capacità dei rwandesi con la rivisitazione del
mito camitico perché, al contrario degli stereotipi e dei luoghi comuni
riguardanti i selvaggi indigeni, nel paese dalle mille colline gli europei
incontrarono un complesso sistema socio – politico che li costrinse:
“a una vera e propria revisione della ‘giustificazione’ biblica della
condanna e della sottomissione degli africani e alla creazione di un mito
camitico di foggia rinnovata (non più tutti i negri, i discendenti di Cam,
sono condannati, ma solo una parte di loro, per quanto la parte maggiore,
del suo ultimogenito, Canaan). Così i Tutsi (come gli Etiopi) furono
ascritti alla minoranza dei primi; tutti gli altri, i ‘veri negri’, alla
maggioranza dei secondi” 85.
Questa è la situazione che si presentò ai bianchi che misero piede
nel piccolo paese africano. Il regno rwandese era ben articolato nelle sue
gerarchie e, seppur con delle diverse caste sociali, permetteva il
passaggio attraverso le classi e la possibilità per lo strato intermedio (gli
hutu) di ricoprire cariche importanti. Dunque durante l’epoca
precoloniale non c’erano divisioni etniche ma solo socio – economiche
che consentivano agli individui di passare da una classe all’altra
indistintamente. E’ fondamentale avere in mente questo primo tassello:
prima dei bianchi, in Rwanda viveva un solo popolo, con la propria
lingua, le proprie credenze religiose e le proprie tradizioni. Tra le classi
permanevano continui scambi dovuti all’accumularsi di ricchezza (o al
contrario, alla caduta in povertà) e ai matrimoni misti, grazie ai quali si
determinava un ricorrente métissage tra i due gruppi, mescolando le
85
Carlo Carbone, Burundi Congo Rwanda. Storia contemporanea di nazioni etnie e stati, Gangemi
editore, Roma 2000, p.33.
66
classi e rendendo vana la distinzione tra Hutu e Tutsi. Naturalmente gli
europei, sia in Rwanda che nell’intero continente, si presero la briga di
“civilizzare” (a proprio piacimento) i selvaggi popoli africani,
attenendosi al white man’s burden 86. Secondo la retorica civilizzatrice e
le ideologie razziste proprie degli europei, spettava ai bianchi farsi carico
di elevare le comunità primitive africane per avvicinarle, quanto più
possibile, al modello europeo dell’epoca moderna. Come ha sostenuto
Samuel P. Huntington:
“L’Occidente conquistò il mondo non grazie alla forza delle
proprie idee, dei propri valori o della propria religione, ma in virtù della
superiore capacità di scatenare violenza organizzata” 87.
Primo confronto con i bianchi, i tedeschi
Per comprendere la relazione che si instaurò tra i colonialisti e il
popolo banyarwanda e per analizzare quali conseguenze comportarono le
direttive
coloniali
sulle
antiche
tradizioni
rwandesi, dobbiamo
doverosamente risalire all’inizio della corsa colonialista e, quindi, alla
Conferenza di Berlino. Per la verità anche prima della Conferenza
c’erano stati i primi contatti con il continente africano. I primi esploratori
(alcuni per conto delle grandi potenze europee) e, con loro, i primi
86
“Il fardello dell’uomo bianco” era anche il titolo di una poesia di Rudyard Kipling (1899). Che si
riferiva soprattutto alle guerre di conquista intraprese dagli Stati Uniti nei confronti delle Filippine e di
altre ex-colonie spagnole. In seguito la poesia divenne il manifesto del colonialismo e
dell’imperialismo. Nelle concezioni espansionistiche occidentali, il fardello dell’uomo bianco, sul
finire dell’Ottocento, corrispondeva al dovere di civilizzare tutti i paesi estranei alla zona europea
(www.wikipedia.org) .
87
Nel suo celebre libro “Lo scontro delle civiltà” Huntington sottolinea la prorompente superiorità
militare europea rispetto agli altri popoli affrontati e, di conseguenza, soggiogati.
67
missionari erano riusciti a giungere isolatamente in Africa 88. A Berlino
venne sancita “la pacifica conquista dei vasti territori africani” ovvero
venne deciso di adottare un approccio pacifico e diplomatico fra le
potenze europee per evitare scontri tra fratelli bianchi (evitando il ricorso
alle armi). Lo scramble for Africa fino
“alla spartizione dell’intera regione sub sahariana nell’ultimo
quarto del XIX secolo fu il risultato dell’intensa competizione tra i
nazionalismi del vecchio continente, sostenuti da motivazioni di prestigio
e dalla prospettiva di controllare traffici commerciali, risorse umane e
ricchezze naturali” 89.
La Conferenza di Berlino del 1884-1885 (chiamata anche
Conferenza sul Congo), voluta dal cancelliere tedesco Bismarck,
scongiurò eventuali guerre tra le potenze europee per l’accaparramento
dei territori africani (le preoccupazioni dei colonizzatori furono di evitare
il costo di eventuali conflitti con altri potenziali concorrenti europei e di
minimizzare le spese finanziarie per le strutture amministrative dei
nascenti stati coloniali). I più importanti risultati conseguiti dai
rappresentanti durante la conferenza furono:
• la spartizione del Congo, che venne suddiviso tra Congo francese
e Congo belga lungo il fiume Congo;
88
I Padri Bianchi di mons. Jean-Joseph Hirth, responsabile del vicariato apostolico di Nyanza Sud,
riuscirono a insediarsi dopo alcuni tentativi falliti. Nel 1898 fondarono la missione di Muyaga nel
Burundi orientale e l’anno seguente quella di Mugera. […] Nel giro di cinque anni sorsero altre
quattro stazioni (“Rwanda Burundi. Una tragedia infinita, perché?” di Rodolfo Casadei e Angelo
Ferrari). Il compito dei missionari era quello di individuare una località salubre e densamente
popolata. In tale zona sarebbe stata insediata, in seguito, la residenza abituale della missione.
89
Giovanni Carbone, L’Africa. Gli stati, la politica, i conflitti, Il Mulino, Bologna 2005, p.23.
68
• la libera navigabilità dei principali fiumi, essenziali vie
commerciali, tra cui il fiume Congo ed il fiume Niger, in favore
del libero scambio;
• una risoluzione contro la schiavitù, che divenne illegale, ma restò
ampiamente applicata in tutta l'Africa;
• il principio di effettività che sancì il possesso del territorio solo
previa ratifica, secondo la regola per cui chi arrivava prima poteva
vantarne i diritti (tale principio non ha fatto altro che accelerare
“la corsa” per l’Africa) 90.
Ciò che successe, in pratica, a Berlino si può riassumere con le
parole che Lord Salisbury, Primo ministro britannico, espresse a un
vertice anglo – francese del 1890 sulle questioni coloniali:
“Ci siamo dedicati a disegnare linee sulle carte geografiche dove
nessun uomo bianco ha mai messo piede; ci siamo scambiati montagne,
fiumi e laghi, con il solo piccolo inconveniente che non abbiamo mai
saputo con esattezza dove si trovassero queste montagne, questi fiumi e
questi laghi” 91.
I rappresentanti delle maggiori potenze europee, seguendo
meridiani e paralleli e senza pre-avviso, si spartirono così il continente
africano. Ne derivarono, in questo modo, sorprendenti confini geometrici
che però non corrisposero necessariamente alle condizioni storiche,
sociali e politiche di questa parte di mondo. La seguente carta mostra la
spartizione dei territori africani nel periodo 1885-1914:
90
91
Le seguenti informazioni sono state reperite su enciclopedia libera, www.wikipedia.org.
Giovanni Carbone, L’Africa. Gli stati, la politica, i conflitti, Il Mulino, Bologna 2005, p.28.
69
Spartizione dell’Africa (1914)
92
Il Rwanda, con la firma del trattato germano britannico (1890),
rientrò nella sfera d’influenza tedesca in Africa Orientale 93. Alla
Germania sarebbe spettata la zona che si estendeva dalla costa
dell’Africa Orientale fino ai Grandi Laghi africani (un’area che
corrisponde agli stati attuali di Burundi, Rwanda e Tanzania, ad
esclusione di Zanzibar). I colonizzatori tedeschi presero “ufficialmente”
92
La Carta geografica è presa da www.wikipedia.org.
Tale colonia fu fondata nel 1885 e nel 1890, con il trattato in questione, ne vennero definiti i
confini. Costituiva la più vasta colonia dell’Impero coloniale tedesco (994.996 km2) e cessò di esistere
durante la Prima Guerra Mondiale, quando venne occupata dalle forze britanniche (ibidem).
93
70
contatto con il Rwanda, grazie al conte Adolf von Goetzen 94, solamente
nel 1894 stringendo rapporti con il Mwami Kigeri IV Rwabugiri 95 e, alla
sua morte, con il sovrano che gli successe, Musinga.
L’obiettivo principale della colonizzazione tedesca era l’apertura
della zona rwandese al traffico commerciale (nel 1914 il Parlamento
tedesco votò l’allocazione di cinquanta milioni di marchi al fine di
costruire una rete ferroviaria che coprisse una distanza di circa
cinquecento chilometri 96). I tedeschi applicarono in Rwanda un sistema
di amministrazione indiretta 97 lasciando liberi i rwandesi di organizzare
e mantenere le proprie “istituzioni” politico – territoriali (dal canto loro i
tedeschi introdussero il lavoro forzato per difendere militarmente le
posizioni transfrontaliere e, grazie alla manodopera indigena, costruirono
le prime strade finalizzate al commercio 98). Venne creato in Rwanda una
sorta di protettorato che mantenne la monarchia del Mwami e che vide la
scelta dei Tutsi come interlocutori privilegiati dei bianchi: seppur
minoritari, questi, vennero integrati nell’amministrazione coloniale 99.
Gradualmente il divario fra i Tutsi e le altre classi si accentuò e prese un
orientamento non solo sociale ma prettamente etnico (il peso della
94
Fu un esploratore tedesco (Scharfeneck 1866 – Berlino 1910) che nel periodo 1893 – 1894
attraversò l’Africa centrale da est a ovest, dalla Tanzania fino al fiume Congo. Fu il primo europeo a
visitare il lago Kivu (www.sapere.it).
95
Von Goetzen, ricevuto dal Mwami in persona, lo descrisse così: “i lineamenti di Rwabugiri erano di
un’estrema bellezza. Una corona di foglie verdi gli cingeva la fronte […] L’apparizione di questo
potente sovrano aveva destato in noi grande ammirazione” in “Hutu-Tutsi. Alle radici del genocidio
rwandese” di Michela Fusaschi.
96
ibidem
97
Per quanto riguarda le metodologie intraprese dai colonizzatori, possiamo citare le due strategie di
governo prevalenti: quella britannica del governo indiretto (indirect rule), e quella francese imperniata
sulla dottrina dell’assimilazione (assimilation) attraverso un’amministrazione centralizzata.
98
Michela Fusaschi, Hutu – Tutsi. Alle radici del genocidio rwandese, Bollati Boringhieri, Torino
2000, p.106.
99
Ai tedeschi sembrò naturale assecondare quella che era la situazione preesistente, ovvero dove la
classe dei Tutsi occupava già un gradino privilegiato rispetto agli Hutu. Pian piano però essi
cominciarono ad inculcare nel popolo rwandese “artificiose” tesi scientifiche atte a giustificare la
supremazia dei Tutsi.
71
gestione coloniale germanica, ma soprattutto belga, in questa
recrudescenza etnica dovette essere assimilato).
“I sistemi amministrativi del colonialismo europeo contribuirono
quindi a selezionare, cristallizzare e rafforzare le appartenenze di tipo
etnico, dando vita a un processo di accentuata “etnicizzazione” delle
società africane […] Con l’indipendenza e il passaggio dei poteri alle
classi politiche africane, la dura competizione per il controllo degli
apparati statali non avrebbe fatto altro che accrescere la politicizzazione
della diversità etnica” 100.
Il contesto rwandese assistette, al contrario, all’emergere dal nulla
di categorie identitarie. I tedeschi posero la prima pietra della
costruzione etnica e, con il loro arrivo, cominciò latente il risentimento
della maggioranza Hutu nei confronti dei propri fratelli Tutsi.
L’impronta indelebile belga
Nell’ambito della Prima Guerra Mondiale, il Rwanda è passato
sotto il controllo belga. I negativi risultati bellici incassati dalla
Germania portarono non solo perdite umane ma anche territoriali. A
Versailles (1919)101 vennero stabilite le sanzioni contro la Germania, e
tra queste, la perdita delle colonie. Il territorio rwandese venne
100
Giovanni Carbone, L’Africa. Gli stati, la politica, i conflitti, Il Mulino, Bologna 2005, p.37.
Il Trattato di Versailles fu firmato il 28 giugno 1919 a conclusione del conflitto mondiale. I risultati
ottenuti furono: la nascita della Società delle Nazioni; la perdita delle colonie e di territorio da parte
della Germania (Alsazia - Lorena, lo Schleswig, parte della Posnania, della Prussia Occidentale e della
Slesia, la città di Danzica); l’abolizione della coscrizione per la Germania e l’obbligo per i tedeschi di
pagare delle riparazioni stabilite da un’apposita commissione (www.wikipedia.org).
101
72
assegnato, tramite la Società delle Nazioni 102 al Belgio. La carta che
segue illustra la spartizione dei territori africani nel periodo compreso fra
le due guerre mondiali (1918-1939):
Spartizione dell’Africa (1939)
103
Gli Alleati si spartirono le colonie tedesche in base al “mandato”
della Società delle Nazioni. Le potenze emergenti occuparono le ex
colonie degli Stati sconfitti durante la Grande Guerra in nome della
SDN. Le ex colonie (non solo quelle tedesche ma anche quelle
dell’Impero Ottomano, prevalentemente nel Medio Oriente) vennero
102
La Società delle Nazioni (Lega delle Nazioni) è stata la prima organizzazione intergovernativa con
lo scopo di prevenire e arbitrare i conflitti fra le nazioni prima che si giungesse alla guerra. Anch’essa
fondata a Versailles, restò attiva formalmente fino all’aprile del 1946 quando, con il fallimento della
Seconda Guerra Mondiale, venne estinta (ibidem).
103
La Carta geografica è presa da www.wikipedia.org.
73
distribuite in base a mandati di tipo “A” – “B” – “C” 104, e al Belgio
toccarono il Rwanda e il Burundi (sotto forma di mandato di tipo “B” e
con il nome di Rwanda – Urundi).
“La nuova potenza estera presente nel Paese prosegue
inizialmente secondo il modello ereditato dalla precedente, un
meccanismo a catena: i bianchi dominano i Tutsi, che a loro volta
dominano gli Hutu” 105.
I belgi, con l’attiva collaborazione delle missioni cattoliche106,
determinarono radicali cambiamenti in tutto il paese:
• desacralizzazione
e
marginalizzazione
dell’istituto
della
regalità tradizionale. La figura mitica del Mwami e la sua
autorità vennero rivoluzionate. Nel 1917 venne imposta al sovrano
l’interdizione rispetto al suo diritto di vita o di morte sulle persone
104
L’Art. 22 dello statuto della Lega delle Nazioni stabiliva le modalità previste dai differenti
mandati. I mandati di tipo “A” erano costituiti dalle ex colonie dell’Impero Ottomano che si riteneva
avessero "raggiunto uno stadio di sviluppo in cui la loro esistenza come Nazioni indipendenti poteva
essere riconosciuta anche se provvisoriamente soggetta all'assistenza amministrativa di una Potenza
Mandataria fino a quando non fossero stati in grado di governarsi da soli". Esempi di tali ex colonie
erano: Iraq, Palestina (Gran Bretagna) e Siria (Francia). I mandati di tipo “B” erano formati da
precedenti territori tedeschi in zone dove si riteneva necessitassero di un maggiore controllo e dove
"...la Potenza mandataria deve essere responsabile dell'amministrazione del territorio, a condizione
che garantisca la libertà di coscienza e di religione”. Esempi di ex colonie erano: Rwanda – Urundi
(Belgio) , Tanganica (Gran Bretagna) più Camerun e Togo (entrambe ex colonie tedesche) furono
divisi a metà tra Francia e Gran Bretagna. I mandati di tipo “C” (precedenti possedimenti tedeschi
Africa sud – Occidentale e Sud Pacifico) furono considerati da amministrare "secondo le leggi della
Potenza mandataria come parte integrante del suo territorio". Esempi di tali mandati erano: la Nuova
Guinea Tedesca (Australia), Nauru (Regno Unito, Nuova Zelanda, Australia), Samoa Tedesche
(“Samoa Occidentali” alla Nuova Zelanda), Mandato del Pacifico meridionale (Giappone) e Africa
sud – Occidentale (Sud Africa) (www.wikipedia.org).
105
Beatrice Piazzi, Rwanda 1994, per non dimenticare, Corso di laurea in Scienze Pedagogiche e
dell’Educazione, Università degli Studi di Genova, 2008, p.22.
106
“Diversamente da quanto si era verificato sotto l’amministrazione tedesca, le missioni cattoliche
trovarono nella nuova amministrazione un referente ideale. I belgi, infatti, si facevano interpreti di
un’idea di civilizzazione fortemente influenzata dal cattolicesimo […] Gli interventi
dell’amministrazione, fra il 1917 e il 1931, condussero progressivamente alla ‘desacralizzazione’ della
regalità attraverso la distruzione delle sue basi simboliche” (“Hutu-Tutsi. Alle radici del genocidio
Rwandese” di Michela Fusaschi).
74
del regno 107. Sempre nel 1917 il Mwami fu costretto a decretare la
libertà di religione in tutte le zone del paese 108, vietando di fatto le
pratiche rituali perché considerate retaggio di una mentalità
primitiva. Nel 1922 vennero previsti: l’intervento diretto dei
funzionari belgi nelle azioni giudiziarie e “l’accordo preliminare
vincolante” da parte belga, alla nomina del Mwami dei capi
indigeni 109.
• introduzione di un’educazione finalizzata all’indottrinamento.
Il proposito belga consisteva nel creare una futura classe
amministrativa indigena di supporto ai funzionari belgi, ai quali
sarebbero stati trasferiti gradualmente alcuni poteri legati al
controllo del territorio. Tale politica si tradusse, in realtà, nella
valorizzazione di un gruppo a scapito della massa contadina 110. Un
ruolo di primo piano fu intrapreso dalle missioni cattoliche che
legittimarono la supremazia Tutsi. Inoltre la conversione al
cattolicesimo costituiva l’unica via per giungere alla carica di capo
o, comunque, per esibire uno status sociale elevato (si era alla
ricerca di una nuova forma di legittimità religiosa). I missionari
riaffermarono i presupposti culturali propri della visione etnico –
razziale imposta dagli amministratori coloniali.
107
Tradizionalmente il mwami aveva il potere di decidere chi mettere a morte per il semplice fatto che
egli era il proprietario degli uomini che abitavano il Rwanda (ibidem).
108
Tale imposizione “spogliava” la regalità del suo carattere sacro facendo perdere al mwami le
prerogative soprannaturali di cui era tradizionalmente dotato (ibidem).
109
ibidem
110
Naturalmente è chiaro che il gruppo prescelto dai belgi fu quello dei Tutsi a discapito dei numerosi
Hutu. All’interno dei Tutsi però le preferenze coloniali si indirizzarono verso i Banyanduga (originari
della zona centrale del paese), non tenendo in conto le esigenze dei Bakiga (i rwandesi del nord). I
Banyanduga divennero così gli interlocutori privilegiati del potere coloniale. Questo processo trovava
la sua giustificazione nell’adesione a una visione razzista della società rwandese di Hamiti contro
Bantu (ibidem).
75
• completa riorganizzazione territoriale, nonché amministrativa
del Rwanda. Il paese venne diviso inizialmente in tre settori e, a
partire dal 1921, in quattro territori: Rubengera, Ruhengeri,
Nyanza e Kigali. In tali capoluoghi venivano inviati in qualità di
responsabili amministrativi alcuni militari che cominciarono a
sottrarre il potere ai capi indigeni tradizionali 111. I belgi
smantellarono le gerarchie tradizionali suddividendo le unità
amministrative tra “capi” e “sottocapi”, e distrussero il vecchio
dominio dei capi – villaggio sui quali si basava il potere
tradizionale
delle
dinastie
regnanti 112.
L’istituzione
del
raggruppamento geografico in chefferies e sotto – chefferies fu
l’occasione per eliminare gli ultimi dirigenti hutu ancora in carica
in quell’epoca113.
• proibizione di pratiche e consuetudini tradizionali. Le antiche
pratiche, come visto in precedenza, erano considerate proprie di
mentalità primitive e, per questo, “da modernizzare”. Ad esempio
l’ubuhake venne snaturato. Secondo Fusaschi, quello che nel
periodo precoloniale si configurava come un rapporto di
reciprocità e scambio fra due famiglie o lignaggi, sotto
l’amministrazione belga assunse la forma di un contratto che si
stipulava esclusivamente tra due individui (fra Tutsi ricchi e Hutu
poveri), diventando quindi uno strumento di sfruttamento a tutti
111
ibidem
Fonju Ndemesah Fausta, La radio e il machete, Il ruolo dei media nel genocidio in Rwanda,ed.
Infinito, Roma 2009, pp. 30-31.
113
Infatti, fino a quel momento, i capi del suolo erano hutu. Inoltre nella riorganizzazione
amministrativa, non venne preso in considerazione il fattore “geografico”. Anche nelle zone
periferiche, vennero inviati i capi scelti fra i notabili tutsi Banyanduga (educati nelle scuole belghe),
escludendo totalmente gli hutu (“Hutu-Tutsi. Alle radici del genocidio rwandese” di Michela
Fusaschi).
112
76
gli effetti 114. Un altro importante strumento che venne snaturato fu
il tamburo dinastico Karinga. Ancora secondo Fusaschi nell’intera
regione dei Grandi Laghi, attraverso i tamburi, le società
tradizionali realizzavano una dimensione di unità e di coesione
assicurando continuità e persistenza alle istituzioni fondamentali,
in particolare alla regalità 115. Con la trasformazione impressa dai
belgi, Karinga divenne esclusivamente il simbolo del potere del
Mwami tutsi sulla sottomessa massa contadina rappresentata dagli
Hutu 116.
• etnicizzazione delle classi sociali. Il passo cruciale e definitivo
consistette nel censimento effettuato dai colonizzatori negli anni
’30. In quell’occasione fra i dati di riconoscimento di un individuo
comparve per la prima volta la menzione dell’identità etnica che
veniva così fissata, indelebilmente, sui documenti e nei cervelli
degli individui.
Il criterio dell’appartenenza all’uno o all’altro gruppo venne
individuato nel numero dei capi di bestiame posseduto: con dieci vacche
o più si era Tutsi, con meno Hutu117. Nel suo libro Alberto Sciortino
ritiene che
“furono l’amministrazione tedesca e poi quella belga ad
approfondire e utilizzare a proprio vantaggio le divisioni sociali tra i due
gruppi, affidando al ceto superiore tutsi, minoritario, il ruolo di
114
Michela Fusaschi, Hutu – Tutsi. Alle radici del genocidio rwandese, Bollati Boringhieri, Torino
2000, p.112.
115
ibidem
116
Karinga, nel Rwanda precoloniale, non solo rinnovava la regalità del Mwami ma assicurava la
prosperità e l’unità dell’intero paese (Hutu e Tutsi indistintamente). I belgi prima lo snaturarono, poi
lo misero al bando (ibidem).
117
ibidem
77
rappresentante della popolazione in seno all’amministrazione coloniale,
eliminando gli hutu dalla struttura politica e sviluppando il mito del tutsi
civilizzato di origine semitica – nilotica, in opposizione all’hutu negroide
selvaggio, incapace di apprendere” 118.
L’impatto belga sulle sorti future del paese dalle mille colline fu
decisivo. Le divisioni fra Hutu e Tutsi furono cristallizzate. Gli Hutu
vennero esclusi da tutte le cariche della società civile e politica. Fra gli
stessi Tutsi cominciò a serpeggiare un sentimento di superbia inculcato
dalle politiche razziali belghe. Il risentimento degli hutu crescerà giorno
dopo giorno nei confronti degli ormai ex fratelli tutsi. Agli occhi degli
Hutu, i Tutsi erano corresponsabili di tutti i torti e di tutte le angherie
subite (dall’imposizione del lavoro forzato a tutte le espropriazioni
imposte). Se da una parte i Tutsi si convinsero della loro “superiorità
genetica”, gli Hutu cominciarono a vederli come “i camiti” ovvero come
gli invasori venuti dall’Etiopia a soggiogare gli originari e legittimi
abitanti della terra rwandese: gli stessi Hutu.
Con la Seconda Guerra Mondiale 119 e con la dissoluzione della
Società delle Nazioni, il Belgio ricevette dalle neonate e innovative
Nazioni Unite120 un nuovo mandato (nel 1945) per la tutela del Rwanda
118
Alberto Sciortino, L’Africa in guerra. I conflitti africani e la globalizzazione, ed. Baldini Castoldi
Dalai, Milano 2008, p.114.
119
A proposito della relazione tra il secondo conflitto mondiale e i rapporti Europa – Africa, ci è
sembrato molto attinente un passo tratto da “La decolonizzazione” (Raymond F. Betts) nel quale
l’autore, con riferimento alla guerra, scrive: “essa rese altresì evidente la nuova epoca globale. Né
l’Europa, né i suoi imperi coloniali, tutti ‘d’oltremare’ svolgevano più un ruolo di importanza
primaria. A metà del XX secolo […] la diplomazia delle cannoniere, antica tattica coloniale, sembrava
quasi bizzarra al cospetto della bomba atomica […] L’ormai superata visione eurocentrica era al
meglio considerata un semplice indizio di sfrontatezza, possibile solo in un’epoca in cui le tecnologie
erano semplici e il numero delle ‘grandi potenze’, tutte tradizionalmente definite come europee, più
elevato. L’effetto immediato della Seconda guerra mondiale fu il decollo dell’epoca dell’aviazione e
l’ascesa dell’Unione Sovietica e degli Stati Uniti ad un ruolo dominante nella politica mondiale”.
120
L’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), nata con la carta di San Francisco del 26 giugno
1945, è la più importante ed estesa organizzazione intergovernativa, sono suoi membri 192 Stati del
mondo. Le Nazioni Unite hanno come fine il conseguimento della cooperazione internazionale in
78
– Urundi. Formalmente, gli obiettivi dell’amministrazione fiduciaria
furono
“il consolidamento della pace, la promozione del progresso degli
abitanti e il loro graduale avviamento all’autonomia o all’indipendenza;
l’incoraggiamento
del
rispetto
dei
diritti
fondamentali
e
dell’interdipendenza dei popoli del mondo; la parità di trattamento in
materia sociale, economica e commerciale” 121.
In realtà, però, il tentativo belga di “ammorbidire” la situazione
rwandese non ebbe gli esiti sperati. Si tentò di democratizzare le
istituzioni grazie a dei consigli elettivi, creati ad hoc, per assistere le
autorità ai diversi livelli amministrativi. Nel 1956, in applicazione di vari
decreti, fu organizzata per la prima volta una consultazione popolare che
interessava l’intera popolazione maschile. Secondo Fusaschi, le elezioni
ebbero ripercussioni importanti sulla società: da una parte si innescò un
inarrestabile movimento di emancipazione hutu; dall’altra gli stessi Tutsi
lessero nella consultazione la messa in discussione, da parte
dell’amministrazione, di una dominazione che pensavano ormai
incontestata e incontestabile122. Le parole che seguono, di Carlo
Carbone, schematizzano il rapporto causa – effetto che lega, seppur in
maniera indiretta, i belgi al genocidio del ’94:
materia di sviluppo economico, progresso socioculturale, diritti umani e sicurezza internazionale.
Relativamente alla sicurezza internazionale in particolare hanno come fine il mantenimento della pace
mondiale attraverso efficaci misure di prevenzione e repressione delle minacce e violazioni ad essa
rivolte. La sede centrale delle Nazioni Unite si trova a New York (USA). L’attuale Segretario
Generale delle Nazioni Unite è il sudcoreano Ban Ki-Moon (www.wikipedia.org).
121
Sergio Marchisio, L’ONU. Il diritto delle Nazioni Unite, ed. Il Mulino, Bologna 2000, p.338.
122
Michela Fusaschi, Hutu – Tutsi. Alle radici del genocidio rwandese, Bollati Boringhieri, Torino
2000, p.128.
79
“[…] il fatto che al potere in quel momento al vertice del sistema
politico fossero i tutsi, rende questi ultimi, del tutto casualmente e senza
colpo ferire, beneficiari di una rendita di posizione garantita – anzi
rafforzata, poi. Per ben sessant’anni – dall’apparato coloniale
amministrativo/missionario. L’interscambio non avverrà più fra hutu e
tutsi ma fra tutsi ed europei. In altri termini, se l’indirect rule appare
meno invasivo, alla lunga si rivelerà addirittura più rovinoso del
soffocante sistema ‘assimilazionistico’ alla francese. […] usciti dal
sistema di indirect rule – nel quale qualcuno aveva addirittura intravisto
il viatico (o almeno il germe) della democrazia moderna – essi si
ritrovano invece in una realtà che non ha più nessun legame con il
passato precoloniale anzi, in buona misura, con esso confligge. […] Nel
caso del Burundi e del Rwanda, la distorsione operata dal colonialismo a
beneficio dei tutsi e in danno degli hutu costituirà l’una delle due
condizioni (l’altra essendo il vulcanico processo di sovrappopolamento)
sufficienti a scatenare il risentimento, il conflitto e il genocidio” 123.
Hutu e Tutsi erano diventati ormai nemici. E l’odio reciproco
contraddistingueva tale rapporto: gli uni ce l’avevano a morte con gli
altri per averli esclusi dalla società, gli altri erano, oramai, gelosi delle
posizioni conquistate e pronti a difenderle con la forza. Il popolo in
fermento era, dunque, spaccato al suo interno.
L’identità etnica divenne insormontabile motivo di scontro.
Il capovolgimento del potere
Intorno alla fine degli anni ’50 l’Africa intera era in grande
fermento. Uno spirito di cambiamento ed emancipazione pervadeva le
123
Carlo Carbone, Burundi Congo Rwanda. Storia contemporanea di nazioni etnie e stati, Gangemi
editore, Roma 2000, p.34.
80
menti e i cuori africani. In questo periodo sorgevano le prime
cooperative sociali 124, i primi (seppur minimi) movimenti sindacali e i
primi embrionali partiti politici. Tali partiti premevano sui paesi
colonizzatori per ottenere una maggiore autonomia, spesso esercitando
una pressione sui governi coloniali al fine di un’indipendenza politica e
culturale. Il Rwanda non fece eccezione: negli anni ’50, nel paese dalle
mille colline, era nato il Mouvement Social Muhutu che lottava per
l’affermazione degli Hutu. Tale partito rivendicava il riconoscimento dei
diritti per gli Hutu, protestava contro la discriminazione e accusava i
Tutsi dei mali del paese. Gli obiettivi dei leader hutu erano
l’affermazione e la divulgazione dei propri bisogni. Tra la stampa
cattolica sorgeva il periodico Kinyamateka, grazie al quale l’élite hutu
mirava alla sensibilizzazione del problema sociale in cui versava la
massa contadina. I belgi, di fronte a questi cambiamenti, furono colti di
sorpresa: da una parte i Tutsi pronti a camminare da soli e volenterosi di
staccarsi dal potere straniero (a quanto pare sembra che le élite tutsi
cominciarono ad avvicinarsi al socialismo sovietico); in mezzo le
Nazioni Unite che chiedevano ai governi coloniali misure democratiche
e liberali; dall’altra parte il risentimento degli Hutu che cominciava a
predisporsi attraverso la voce e la penna di dirigenti e intellettuali.
Il processo di decolonizzazione in Rwanda si caratterizzò per i
mutamenti nelle guide – lines intraprese sia dal Belgio che dalla Chiesa.
Pian piano, in Rwanda, a seguito delle direttive ONU, nel popolo si
124
Le cooperative in Rwanda rappresentavano l’unica possibilità della contro – élite hutu di
contrastare la leadership tutsi in campo economico. La più importante fu TRAFIPRO (Travail,
Fidélité, Progrès) che venne costituita nel 1956 grazie alla concessione di un terreno da parte della
Chiesa. Si trattava di un mulino per la lavorazione del sorgo e di un piccolo magazzino per la vendita
di sale, sapone, fagioli, zucchero e caffè. (“Hutu-Tutsi. Alle radici del genocidio rwandese” di
Michela Fusaschi).
81
prospettò lo scenario delle elezioni a suffragio universale 125. Di fronte a
tale eventualità, i futuri elettori si spaccarono: da una parte i Tutsi fedeli
alla corte raccolti attorno al mwami; dall’altra la contro – élite hutu e
alcuni evolués tutsi uniti nell’obiettivo del superamento del vecchio
sistema 126. Emersero catechisti e intellettuali hutu appoggiati da un new
deal dei missionari cattolici e da una nuova politica belga, timorosa della
possibile alleanza fra l’aristocrazia tutsi e il Mouvement National
Congolais di Patrice Lumumba, i cui toni anticolonialisti erano
considerati
radicali 127.
L’inversione
della
politica
belga
portò
all’assegnazione di alcuni posti di responsabilità agli Hutu permettendo
ad alcuni di loro di ricevere un’adeguata istruzione. Seppur minime,
queste aperture cominciarono a spaventare l’élite dominante Tutsi per
l’eventuale perdita dei privilegi acquisiti. Se i Tutsi volevano
impadronirsi del potere per scongiurare l’instaurazione di un nuovo
governo eletto, gli Hutu speravano di ottenere il controllo del paese
prima della partenza dei belgi 128.
Il Rwanda si divise in due schieramenti contrapposti e radicali: da
una parte blocco hutu, missionari e amministrazione belga; dall’altra il
Mwami e i Tutsi. Secondo le più differenti analisi storiche e politiche, il
clamoroso voltafaccia belga potrebbe essere stato motivato da una serie
di fattori: la vaga ricerca di una maggiore stabilità politica; il vento di
cambiamento prodotto dallo spirito della decolonizzazione; la pressione
125
Nelle buone intenzioni dei tecnocrati europei, le libere elezioni avrebbero garantito uno
“spontaneo” riassestamento della situazione in Rwanda. Le elezioni avrebbero dovuto riequilibrare la
distribuzione del potere fra le due caste. Allo stesso modo, il mwami Rudahigwa temeva che le
elezioni avrebbero comportato la perdita di tutti i suoi privilegi (ibidem).
126
Michela Fusaschi, Hutu – Tutsi. Alle radici del genocidio rwandese, Bollati Boringhieri, Torino
2000, p.131.
127
Fonju Ndemesah Fausta, La radio e il machete, Il ruolo dei media nel genocidio in Rwanda,ed.
Infinito, Roma 2009, p.33.
128
ibidem
82
delle Nazioni Unite in merito all’amministrazione del paese; il
perseguimento dei propri interessi in terra africana; le incondizionate
pretese indipendentistiche dei Tutsi; i presunti legami fra le élite del
mwami e il blocco sovietico. La realtà, però, è ben diversa. A monte c’è
stata una totale impreparazione belga: che al comando del nascente
regime autoctono fossero stati i Tutsi o gli Hutu, i belgi non erano ancora
preparati a lasciare il paese ma soprattutto neanche i rwandesi, al
contrario di ciò di cui si riempivano la bocca, erano ancora pronti a
camminare con le proprie gambe.
“Il capovolgimento della storica alleanza con i tutsi segnerà
l’avvio di un periodo in cui le scelte politiche delle due etnie principali,
nel tentativo ora di abbattere ora di difendere privilegi e rendite di
posizione andranno rapidamente radicalizzandosi. Nella misura in cui gli
hutu tenteranno di risolvere il confronto con la forza della loro
strabocchevole maggioranza e i tutsi, ove sia loro possibile, con l’uso
delle armi, i due paesi (Rwanda e Burundi) saranno trascinati in una
spirale di azioni e reazioni violente. A porvi freno gli strumenti della
politica non solo si riveleranno impotenti ma vi daranno anzi uno
specifico contributo” 129.
Il 27 marzo del 1957 Grégoire Kayibanda 130 e altri otto attivisti
hutu firmarono a Kabgayi la Note sur l’aspect social du problèm racial
indigèna au Rwanda (il “Manifesto Bahutu”). Il Manifesto fu scritto
seguendo i modelli delle passate rivoluzioni della storia mondiale e si
strutturò in sedici punti. I più importanti passi raccolti nel documento
129
Carlo Carbone, Burundi Congo Rwanda. Storia contemporanea di nazioni etnie e stati, Gangemi
editore, Roma 2000, p.38.
130
Kayibanda era il direttore di Kinyamateka (“il gazzettiere”), periodico vicino alla Chiesa che
progressivamente focalizzò l’attenzione sulle problematiche sociali e politiche della popolazione hutu.
83
erano: il dovere di emancipare la maggioranza oppressa dal dominio
feudale dei signori; il mantenimento e il consolidamento delle divisioni
risultanti dal mito hamitico 131; l’accusa incondizionata contro i Tutsi,
capro espiatorio di tutti i mali del paese 132. Riportiamo di seguito un
significativo passo tratto dal documento:
“Il problema è principalmente quello del monopolio della politica
di una razza, i mututsi. Nelle presenti circostanze, questo monopolio
politico si è rivelato un monopolio sociale ed economico. […]
Considerando la selezione de facto nelle scuole, il monopolio sociale e
politico si rivela un monopolio culturale che condanna i poveri bahutu a
essere per sempre lavoratori subalterni, anche dopo l’indipendenza che
avranno concorso a raggiungere senza nemmeno comprendere cosa li
aspetta. Allo scopo di controllare questo monopolio razziale noi ci
opponiamo fermamente, almeno per ora, all’abolizione delle etichette
‘Mututsi’, ‘Muhutu’ e ‘Mutwa’ dalle carte d’identità. La loro
soppressione rischia di impedire alle leggi statistiche di stabilire la realtà
dei fatti” 133.
Mentre il paese si preparava alle, ormai prossime, elezioni
democratiche si scatenò la Rivoluzione Sociale Hutu. Gli intellettuali
hutu dopo aver rivendicato diritti grazie a giornali e documenti vari,
passarono all’azione. Grazie all’imprevedibile appoggio belga vennero
smontate le strutture di potere ormai monopolizzate dai Tutsi. Durante la
131
L’elemento di grande rilevanza che trasformò il Manifesto in una minaccia reale per la classe al
potere fu l’impiego del termine ‘razza’ per definire rispettivamente gli Hutu, i Tutsi e i Twa. Questo
riferimento testimoniava chiaramente l’adozione di un concetto di matrice europea (“Hutu-Tutsi. Alle
radici del genocidio rwandese” di Michela Fusaschi).
132
Venivano denunciati, nel documento, tutti i privilegi di cui godeva l’aristocrazia Tutsi e, allo stesso
tempo, si incitava l’amministrazione coloniale a concertare il proprio intervento con quello degli
intellettuali hutu al fine di emancipare la grande massa contadina.
133
Fonju Ndemesah Fausta, La radio e il machete, Il ruolo dei media nel genocidio in Rwanda,ed.
Infinito, Roma 2009, pp. 33-34.
84
Rivoluzione Sociale, la massa dei contadini hutu venne aizzata contro i
Tutsi e si riscontrarono le prime uccisioni. Fu proprio del 1959 il primo
grande esodo di profughi tutsi che terrorizzati lasciarono le proprie case
per cercare rifugio nei paesi confinanti (soprattutto verso l’Uganda) 134.
In particolare nei territori del nord del paese si verificarono i primi
scontri armati fra bande hutu e tutsi. Vennero uccisi o cacciati numerosi
capi e sottocapi tutsi, i quali tentarono, senza successo, di reagire. Per
fermare i violenti disordini scoppiati nelle zone periferiche del paese
intervenne anche l’esercito belga che si schierò apertamente dalla parte
degli Hutu.
“Nel 1959, la storia subisce un'accelerazione: le Nazioni Unite
hanno assunto il mandato di tutela assegnato a suo tempo al Belgio dalla
Società delle Nazioni. All'ONU i ruandesi presentano il conto della
colonizzazione
rimproverando
la
mancata
modernizzazione
dell'economia, l'egemonia assoluta della Chiesa e l'assenza di scuole
laiche. I paesi del blocco comunista incoraggiano lo stesso Mwami a
sbarazzarsi al più presto della tutela belga. Nella più grande discrezione
re Mutara prevede un viaggio negli Stati Uniti per perorare davanti alle
Nazioni Unite la causa d'indipendenza del suo Paese […] Con il sostegno
tutsi, sale al trono Kigeri V, il cui mandato è chiaro: cacciare i belgi dal
Paese […] In risposta ai partiti hutu, nel settembre del 1959 i Tutsi
formano l'UNAR (Unione Nazionale Ruandese). […] Presto le autorità
belghe procedono attivamente in tutto il Ruanda per rimpiazzare capi e
vicecapi tutsi, nella prospettiva delle successive elezioni” 135.
134
Si presume che le uccisioni perpetrate dagli Hutu abbiano causato la fuga di circa 300.000 tutsi, dei
quali 200.000 hanno trovato riparo in Burundi, 78.000 in Uganda, 36.000 in Tanzania e 22.000 nelle
regioni orientali della Repubblica Democratica del Congo. Abbiamo sottolineato la concentrazione di
profughi rwandesi in Uganda perché è proprio da lì che nascerà la risposta politico – militare contro
gli estremisti hutu.
135
Beatrice Piazzi, Rwanda 1994: per non dimenticare, Corso di laurea in Scienze pedagogiche e
dell’Educazione, Università degli Studi di Genova, 2008.
85
La prima Repubblica rwandese
Nel clima descritto finora, che vide, tra l’altro, la misteriosa morte
del Mwami Mutara Rudahigwa 136 e la sua conseguente sostituzione con
il giovane Kigeri V Ndahindurwa, si giunse alle elezioni. Il vergine
panorama politico rwandese si componeva di: dalla parte tutsi UNAR e
RADER; dalla parte hutu PARMEHUTU e APROSOMA.
o UNAR (Union Nationale Rwandaise) tale partito nasceva dalle
ceneri dell’Association des Eleveurs du Ruanda – Urundi. Era il
partito più vicino alla sfera regale ma la sua debolezza derivava
dall’incapacità di distinguere il momento politico – sociale del
paese. Nel suo manifesto non si riconosceva l’esistenza delle
differenze di classe e di etnia fra Hutu e Tutsi;
o RADER (Rassemblement Démocratique Rwandais) raggruppante
gli Hutu meno radicali e un ristretto gruppo di Tutsi “moderati”,
disposti entrambi a lasciare all’Amministrazione il ruolo di
garante ed arbitro della situazione;
o PARMEHUTU (Parti du Mouvement et de l’Emancipation Hutu)
era il nome nuovo del Mouvement Social Muhutu. In questa
136
Sulla morte del Mwami aleggia un velo di mistero. Alcuni parlano di un’emorragia cerebrale, altri
sostengono l’ipotesi di un complotto ordito dai belgi e dai missionari. Un’altra ipotesi suggestiva parla
di un suicidio rituale da parte del sovrano. Beatrice Piazzi, nella sua tesi di laurea, sostiene che il re si
stesse preparando per un viaggio negli Stati Uniti, col quale avrebbe perorato la causa dei Tutsi
davanti le Nazioni Unite. “Ma prima di partire è necessario effettuare alcune vaccinazioni: il re si reca
presso il suo medico, un belga, ma è il sostituto a somministrargli i vaccini ai quali aggiunge una
misteriosa iniezione di penicillina. Il re muore dopo pochi minuti. Incidente, sosterrà l'autorità belga,
che rifiuterà però che venga effettuata l'autopsia. Con il sostegno tutsi, sale al trono Kigeri V, il cui
mandato è chiaro: cacciare i belgi dal Paese. L'amministrazione belga da parte sua non ha dubbi: parla
subito di un colpo di stato fomentato dai radicali Tutsi, e sosterrà più che mai le rivendicazioni hutu”
(ibidem).
86
evoluzione
si
era
rafforzato
il
richiamo
all’esclusività
dell’appartenenza etnica;
o APROSOMA (Association pour la Promotion Sociale de la masse)
il quale avrebbe voluto tenere sotto controllo l’intera massa
contadina. Fra i suoi rivali c’erano i movimenti tutsi, ma non
intercorsero rapporti amichevoli neanche con il Parmehutu.
Da questo quadro la spuntò nettamente Gregoire Kayibanda col
suo partito (prima nelle elezioni comunali poi in quelle politiche).
Elemento decisivo, poi, sia per i risultati politici immediati che come
esempio di efficacia per l’azione di difesa etnica, fu la creazione,
all’indomani delle elezioni comunali, della Garde Nationale (a carattere
integralmente hutu) che fu il primo corpo armato ad essere centrato
etnicamente137. Il Parmehutu ebbe la meglio grazie al suo radicale
richiamo all’etnicità:
“Il Parmehutu vinse facilmente le elezioni nel 1960 e nel 1961. In
quest’ultimo anno circa l’80% votò per la fine della monarchia e nel
gennaio del 1961 venne proclamata la Repubblica” 138.
Si può affermare con nitidezza che la Rivoluzione Sociale, che
condizionò violentemente l’esito elettorale, terminò il 28 gennaio 1961,
per mezzo di un referendum che proclamava la Repubblica di stampo
hutu (il PARMEHUTU ottenne il 77% dei voti, la Repubblica l’80%). Il
primo luglio del 1962 Gregoire Kayibanda venne nominato primo
137
Carlo Carbone, Burundi Congo Rwanda. Storia contemporanea di nazioni etnie e stati, Gangemi
editore, Roma 2000, p.60.
138
Fonju Ndemesah Fausta, La radio e il machete, Il ruolo dei media nel genocidio in Rwanda,ed.
Infinito, Roma 2009, p.34.
87
Presidente del Rwanda indipendente e nello stesso anno anche il
“gemello” Burundi raggiunse l’indipendenza 139.
La prima Repubblica rwandese si contraddistinse per alcune
peculiarità. Intanto i funzionari e i militari belgi, per la prima volta dopo
quarant’anni tornarono a casa (a restare fra le mille colline furono,
invece, le gerarchie cattoliche). La principale preoccupazione del nuovo
regime razzista fu quella di ampliare il proprio consenso fomentando i
timori e l’odio verso il nemico Tutsi, capro espiatorio per mascherare le
inefficienze e la corruzione del governo. Forte dell’appoggio cristiano
(difensore di ideali liberali e democratici), Gregoire Kayibanda non
nascondeva le sue idee e non perdeva occasione per condividerle con i
suoi sostenitori hutu:
“Le comunità Hutu e Tutsi sono due nazioni in un singolo Stato.
Due nazioni tra le quali non intercorrono buoni rapporti e non c’è
simpatia, che sono ignoranti delle altrui abitudini, pensieri e sensazioni
come se fossero abitanti di differenti zone o pianeti” 140.
La situazione rwandese si capovolse del tutto: le identificazioni
“Hutu”, “Tutsi” e “Twa” restarono ma la differenza sostanziale è che, da
un giorno all’altro, i Tutsi, in quanto tali, non goderono più di benefici e
privilegi, ma vennero discriminati in base alla propria appartenenza
minoritaria
(sia
nell’istruzione
che
nel
lavoro).
All’indomani
dell’indipendenza il nuovo governo introdusse la “quota etnica” nelle
139
In Burundi, dove fu instaurata la monarchia costituzionale, il potere venne inizialmente condiviso
tra i due gruppi (Hutu e Tutsi), ma questo non risparmiò al paese un periodo di violenze, culminate nel
colpo di Stato realizzato nel 1966 da un esercito che era stato formato in epoca coloniale come entità
mono – etnica Tutsi (“L’Africa in guerra” di Alberto Sciortino).
140
Cfr Beatrice Piazzi, Rwanda 1994: per non dimenticare, Corso di laurea in Scienze pedagogiche e
dell’Educazione, Università degli Studi di Genova, 2008, p. 27.
88
scuole e negli uffici amministrativi 141. All’indipendenza seguì, fin
dall’inizio, una fase di instabilità, contraddistinta da scontri, violenze e
dalla fuga di intere famiglie che cercarono rifugio nei paesi vicini come
l’Uganda, il Burundi e il Congo, soprattutto nel Kivu 142. Le parole di
Claudine Vidal illustrano chiaramente la situazione del paese:
“si era trasformato in un’isola […]. I suoi abitanti, confinati,
subivano impotenti il deperimento del paese. E c’è di più, ogni sorta di
censura era stata introdotta: quella che esercitava un cattolicesimo
trionfante, quella imposta da un potere che, per timore di un risveglio
popolare di tendenza comunista, diventava poliziesco e che per paura
della loro impronta tutsi aveva interdetto le cerimonie tradizionali […]
alle privazioni subite […] si sommava una totale paralisi del pensiero” 143
Oltre allo scontro tra Hutu e Tutsi (determinato dalle invettive
politiche ma intensificato dal tentativo dei profughi tutsi del ’59 di
tornare nelle proprie case) che sfociò in migliaia di assassinii e di
incarcerazioni arbitrarie nei confronti di studenti, impiegati e profughi, si
creò una lacerazione anche fra gli stessi Hutu: si generò una spaccatura
tra i leader del Parmehutu e i clan hutu del nord. Questa divisione mise a
repentaglio il concetto di “solidarietà hutu” che si era cementato grazie al
comune odio nei confronti degli inyenzi. Il governo rwandese, un po’ per
sviare l’attenzione e un po’ per catalizzare il consenso, decise di
imbavagliare i pochi mezzi informativi e, nel 1966, di imporre il partito
141
Secondo tale quota, visto che in Rwanda la percentuale dei Tutsi sul totale della popolazione
ammontava al 9%, potevano accedere alle scuole e agli uffici soltanto il 9% di Tutsi (“Hutu-Tutsi. Alle
radici del genocidio rwandese” di Michela Fusaschi).
142
Fonju Ndemesah Fausta, La radio e il machete, Il ruolo dei media nel genocidio in Rwanda,ed.
Infinito, Roma 2009, p.35.
143
Cfr Michela Fusaschi, Hutu – Tutsi. Alle radici del genocidio rwandese, Bollati Boringhieri,
Torino 2000, p.144.
89
unico. La situazione restò immutata sino al 1973 quando eventi
improvvisi rovesciarono le carte in tavola.
Habyarimana, l’Invincibile
Il 5 luglio del 1973, a seguito di un colpo di stato privo di grandi
spargimenti di sangue, salì al potere il capo supremo dell’esercito, l’Hutu
estremista nonché maggiore generale, comandante in capo della Guardia
Nazionale, Juvenal Habyarimana 144. Quest’ultimo godeva del decisivo
sostegno militare dell’esercito ma anche della Chiesa. Inoltre
Habyarimana si fece portatore degli interessi della massa contadina del
nord (la sua stessa regione di origine), dalla quale deriverà il suo gruppo
di sostenitori più numeroso e più ostinato ovvero i Bakiga, gli Hutu del
nord. A proposito di tale regionalismo intrinseco al paese, sono utili, ai
fini dell’apprendimento, le parole di Dominique Franche:
“fu diretto dal 1973 al 1994 dai Bakiga, che apertamente si
appoggiavano sulle regioni del Nord contro quelle del Sud – mentre negli
ultimi anni della sua presidenza, il predecessore di Habyarimana si
appoggiava sul Sud contro il Nord – i quali [Bakiga] incitavano allo
sterminio di tutti i Tutsi, ma anche dei numerosi Hutu reputati loro
complici in quanto oppositori del regime” 145.
Dal colpo di stato fino alla sua misteriosa morte, un tassello
decisivo nella politica del Presidente fu rappresentato dal clan Akazu
144
Juvénal Habyarimana (8 marzo 1937 – 6 aprile 1994), che definiva se stesso Ikinani:
“l’invincibile”, fu il Presidente del Rwanda dal 1973 al 1994.
145
Cfr Michela Fusaschi, Hutu – Tutsi. Alle radici del genocidio rwandese, Bollati Boringhieri,
Torino 2000, p.146.
90
(“piccola casa”): la stretta cerchia familiare composta dalla moglie di
Habyarimana e dai suoi parenti. Dopo aver estromesso Kayibanda e i
suoi consiglieri (dopo dodici anni di presidenza)146, Habyarimana
dichiarò di voler portare nel paese “pace, unità e sviluppo”. Queste
parole
diventarono
l’efficace
slogan
del
MRND
(Movement
Révolutionnaire National pour le Development), il partito unico a cui,
per legge, ogni cittadino rwandese era obbligato ad iscriversi. Le due
priorità del nuovo Presidente furono allentare le tensioni Hutu – Tutsi ed
instaurare un clima di buon vicinato con l’instabile Burundi 147.
Habyarimana conseguì alcuni risultati: un’apparente riduzione delle
violenze; un notevole aumento del prodotto interno pro capite; una
diminuzione del tasso di mortalità e un aumento del numero dei ragazzi
che andavano a scuola. Grazie a una Costituzione che prevedeva il
candidato unico, nel 1983 e nel 1988, Habyarimana si sottopose ad
elezioni popolari. Nonostante la parvenza di legalità in Rwanda il regime
praticava forme di repressione (che limitavano i posti disponibili per i
Tutsi nel mondo del lavoro e dell’istruzione) giustificate dalla necessità
di equilibrare “la composizione etnica del paese”. I dissidenti venivano
arrestati, torturati, uccisi, fatti sparire148.
Habyarimana riuscì a stringere importanti relazioni nello scenario
mondiale grazie alla sua abilità diplomatica e alla sua simpatia,
avvicinando il Rwanda alla Germania, al Canada, al Giappone e allo
Stato del Vaticano. Il legame più solido era quello che legava il governo
di Kigali con quello di Parigi. Tale legame risalente al precedente
146
Kayibanda morì in carcere nel 1976. Si crede sia stato lasciato morire di fame. Sembra che non sia
stato giustiziato dal nuovo regime per il timore di rompere il patto di fedeltà col vecchio capo.
147
In Burundi, nell’aprile del 1972, a seguito di un tentativo di colpo di stato contro l’élite tutsi, si
generò, per ritorsione, l’uccisione di circa 200.000 Hutu.
148
Diversi rapporti di Amnesty International degli anni ’80 e ’90 denunciano la scomparsa e l’arresto
arbitrario di centinaia di persone non gradite al regime.
91
governo rwandese si rafforzò grazie alla nuova personale amicizia fra
Habyarimana e Mitterand 149. Nel 1975 venne siglato un accordo di
cooperazione militare tra i due stati grazie al quale i soldati rwandesi
ricevettero addestramento e assistenza tecnica dalla Francia. Sfruttando
la benevola ma distorta immagine internazionale150, il governo di Kigali
ottenne importanti aiuti allo sviluppo (fino a rappresentare il 22% del
PIL). Mentre dentro il Rwanda la persecuzione contro i Tutsi era sempre
più mirata nei confronti di giornalisti e attivisti politici, fuori dalle mille
colline la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale
gareggiavano per supportare il progresso del paese. Questi organismi
mettevano in primo piano l’aspetto economico tralasciando i diritti
umani. E’ in questa maniera che il regime razzista e corrotto di
Habyarimana acquisì legittimità internazionale.
Gli anni ’90 tra il FPR e l’ONU
Successivamente, però, arrivò la crisi economica. Le cause vanno
ricercate nelle politiche governative che, negli anni, avevano privilegiato
la produzione agricola frenando l’urbanizzazione e la crescita
dell’industria. Così, quando nel 1989 il prezzo internazionale del caffè
venne dimezzato, gli introiti del Rwanda si ridussero di cinque volte. A
peggiorare la situazione fu una forte siccità che aggravò la carestia
(come se non bastasse all’aumento della popolazione corrispose una
149
François Maurice Adrien Marie Mitterand (Jarnac, 26 ottobre 1916 – Parigi, 8 gennaio 1996) è
stato un politico francese. E’ stato eletto Presidente della Repubblica francese dal 10 maggio 1981 al
17 maggio 1988 e poi, essendo stato rieletto per un secondo mandato, fino al 17 maggio 1995
(www.wikipedia.org).
150
Secondo Colette Braeckman numerose sono le attività, lecite e non, che hanno caratterizzato il
ventennio al potere di Habyarimana. Solo per fare qualche esempio: il commercio dell’oro
proveniente dallo Zaire; il traffico illecito dei gorilla di montagna; il commercio di droga (“Ruanda.
Storia di un genocidio” di Colette Braeckman”).
92
diminuzione dei terreni coltivabili e una forte inflazione dei prodotti
agricoli). Il grafico seguente testimonia l’aumento dei prezzi dei prodotti
alimentari nella circoscrizione di Kigali (1984-2003):
Kigali: evoluzione prezzi dei prodotti alimentari
151
La scelta di concentrarsi sul settore rurale, insieme all’esplosione
demografica, condusse all’occupazione dell’intero suolo coltivabile e
all’inevitabile saturazione. Tale insopportabile situazione portò alcuni
contadini a cercare terre fertili, ma soprattutto libere, oltre i confini
nazionali (ciò avvenne già prima del genocidio del ’94). Per quanto
riguarda il piano promosso dal governo nazionale per arginare il
fenomeno della sovrappopolazione è illuminante l’analisi condotta da
Colette Braeckman, la quale sostiene che tale problema divenne
151
Riportato su “Ruanda. Diritti Umani” di Christiaan De Beule e Martine Syoen.
93
solamente un diversivo per trasferire soldi statali nelle tasche di qualche
dirigente vicino al clan presidenziale. L’Onapo (l’Ufficio Nazionale
della Pianificazione Familiare), nonostante i tentativi di sensibilizzazione
sulla contraccezione, non conseguì risultati positivi a causa di: l’elevato
numero di ambulatori di osservanza religiosa (l’80% in Rwanda); le
parole del Pontefice che nelle sue visite condannava “i metodi
artificiali”; il divieto di parlare di iniezioni e preservativi imposto alle
infermiere (abbiamo già fatto riferimento in precedenza all’elevato
numero di cristiani presenti in Rwanda) 152. Sempre la Braeckman parla
del flagello dell’AIDS enunciando alcuni dati del 1990: fra le prostitute
il tasso di sieropositività superava l’80%; la popolazione attiva era
formata per il 30% di sieropositivi; e a Kigali il 50% delle donne che si
presentavano ai consultori prenatali erano sieropositive 153.
Il paese tra il 1985 e il 1990 diventò uno dei paesi con il più basso
indice di sviluppo umano al mondo. Con la povertà crebbero anche le
diseguaglianze. Durante la crisi le agenzie di aiuto allo sviluppo
riempirono le casse del paese ma questi fondi scivolarono nelle tasche
delle ricche élite vicine al Presidente154. L’altro fattore che contribuì
all’instabilità generale fu la grande massa di profughi che tentava di
rientrare in Rwanda.
Non tutti i profughi, però, erano rimasti a guardare. Nel 1987 era
nato il FPR (Fronte Patriottico Rwandese) sotto la Presidenza di Alexis
Kanyarengwe. Il Fronte Patriottico era composto da rifugiati tutsi che
avevano lasciato il Rwanda (a causa delle persecuzioni intraprese dal
152
Cfr “Ruanda. Storia di un genocidio” di Colette Braeckman.
ibidem
154
Con questa recessione economica, Habyarimana invece di trovare una soluzione al problema della
terra, della fame e dei disordini sociali, si circondò di amici e parenti, aumentando anche la
discriminazione verso i Tutsi. Verso la metà degli anni ’80 la città natale di Gisenyi, forniva circa la
metà dei funzionari di governo (“La radio e il machete” di Fonju Ndemesah Fausta).
153
94
regime tra il 1959 e il 1966), da dissidenti hutu che lottavano contro la
dittatura di Habyarimana e da semplici mercenari. Il capo militare del
FPR era Fred “Freddie” Rwigyema. Questa organizzazione politico –
militare si prefiggeva dei punti essenziali: la richiesta di democrazia,
l’opposizione alle classificazioni identitarie, l’abolizione delle carte
d’identità. Carbone descrive il Fronte Patriottico come un movimento di
guerriglia atipico:
“Il Fronte rappresentava un’anomalia tra i movimenti di guerriglia
[…] creato in un paese straniero (l’Uganda) aveva inizialmente fatto
proselitismo tra le forze armate di una potenza estera, la gran parte dei
suoi combattenti non aveva mai messo piede nella terra per la quale
avrebbe fatto la guerra (il Rwanda), e non riuscì mai a ottenere alcun
sostegno dalle masse della popolazione nel cui nome stava lottando” 155.
I guerriglieri del Fronte Patriottico ottenevano armi ed equipaggiamento
dai paesi dell’ex Patto di Varsavia. La loro arma più diffusa era il
kalashnikov di fabbricazione rumena mentre le tute mimetiche
provenivano dall’ex esercito della Germania Orientale 156.
Mentre Habyarimana mostrava agli occhi distratti del mondo
un’apertura democratica di facciata ovvero il multipartitismo, il FPR
attaccò il Rwanda. L’attacco del FPR arrivò nel momento in cui si
stavano negoziando gli accordi fra l’Uganda e il Rwanda sul diritto dei
rifugiati di rivendicare la propria cittadinanza rwandese. Mentre erano in
corso i negoziati, il 1 ottobre 1990 circa 100.000 guerriglieri,
prevalentemente Tutsi, attaccarono il Rwanda oltrepassando il confine
155
Giovanni Carbone, L’Africa. Gli stati, la politica, i conflitti, Il Mulino, Bologna 2005, p.149.
Le informazioni riguardanti i materiali bellici provengono da ”Istruzioni per un genocidio” di
Daniele Scaglione.
156
95
ugandese157. L’esercito rwandese riuscì a fermare l’avanzata con il
decisivo intervento di belgi, zairesi e grazie ad una preziosa telefonata di
Habyarimana a Mitterand. In particolare l’operazione francese158
determinò l’esito finale. Habyarimana si proclamò vincitore mentre il
FPR, agli occhi francesi e a quelli della Comunità Internazionale, risultò
un “illegittimo” esercito che, partendo da una zona anglofona, aveva
aggredito la sfera della Francofonia 159. Grazie al sostegno garantito da
Mitterand, l’immagine internazionale del Rwanda riscosse maggior
prestigio. Per il Fronte la sconfitta incassata determinava cambiamenti
nella leadership e nelle modalità operative: (dopo la morte di Rwigyema
durante l’invasione) al comando salì Paul Kagame 160; con lui la strategia
della guerra – lampo venne sostituita da tecniche di guerriglia.
157
Fonju Ndemesah Fausta, La radio e il machete, Il ruolo dei media nel genocidio in Rwanda,ed.
Infinito, Roma 2009, p. 40.
158
L’operazione “Noirôt” si compone di 4 compagnie di 680 soldati, esperti consiglieri militari,
mortai da 60, 81 e 120 mm, artiglieria leggera da 105 mm (“Istruzioni per un genocidio” di Daniele
Scaglione).
159
In questa nota approfondiamo quello che Kapuściński ha chiamato “il Complesso di Fascioda”. Nel
suo libro, descrive la “Francophonie” come lo spazio globale linguistico - culturale comprendente tutti
i popoli di cultura e lingua francese. Questo forte senso di appartenenza porta la Francia a considerare
un qualsiasi attacco contro un paese francofono, equivalente ad un attacco diretto nei confronti della
Francia stessa. “Il complesso di Fascioda” risale al finire dell’Ottocento: nella spartizione
dell’Africa, sia la Francia che la Gran Bretagna volevano che i propri possedimenti fossero disposti in
linea retta. Londra voleva una linea da nord a sud, dal Cairo a Cape Town, e Parigi da ovest a est, cioè
da Dakar a Gibuti. Ebbene, come fa notare lo stesso autore, le due rette perpendicolari si incrociano
nel Sudan meridionale, nel paesino di pescatori, posto sulle rive del Nilo: Fascioda. A quel tempo si
pensava che chi avesse posseduto Fascioda, avrebbe avuto più probabilità di realizzare l’ideale
espansionista di un colonialismo lungo una linea continua. Tra Francia e Gran Bretagna cominciò,
allora una corsa militare: per primi arrivarono i francesi (16/07/1898) che piantarono la propria
bandiera; circa due mesi più tardi giunsero anche gli inglesi che, non curandosi del precedente arrivo
dei rivali, piantarono a loro volta la bandiera inglese. Inizialmente nessuno era disposto a cedere e si
temette lo scoppio di una vera e propria guerra (una prima guerra mondiale anticipata di qualche
anno), ma in seguito i francesi si ritirarono, lasciando campo libero agli inglesi. Kapuściński sostiene
che, ancora negli anni ’90, quella di Fascioda resta una ferita aperta e dolorosa. Secondo l’autore,
anche nell’episodio in esame (invasione del Fronte Patriottico), i francesi interpretarono tale atto come
un’invasione degli anglophones in violazione delle frontiere della Francophonie (“Ebano” di Ryszard
Kapuściński).
160
Paul Kagame (Gitarama, 23 ottobre 1957) è un Tutsi scappato a soli tre anni con la famiglia dal
Rwanda. Kagame, dopo l’addestramento negli Stati Uniti, ha guidato i servizi segreti militari del
Presidente ugandese Museveni.
96
“A seguito di quella telefonata i francesi intervennero […] Così,
nel tempo […] poterono avvenire due fatti decisivi. Il primo fu un
massiccio piano di riarmo e di addestramento dell’esercito ruandese e di
distribuzione alla popolazione hutu di armi […] Il secondo fatto fu […]
di fronte all’avanzata del Fpr, a un certo punto Habyarimana mise da
parte l’estremismo e – contro il parere di settori del suo governo e del
potere hutu – scelse la via della trattativa, sottoscrivendo nel 1993 con il
Fpr gli accordi di Arusha” 161.
Nei primi anni ’90, sospinto dalle pressioni internazionali,
Habyarimana nominò una Commissione Nazionale per l’elaborazione di
una nuova carta costituzionale “democratica”. Fonju Ndemesah Fausta
descrive le aperture come un’opportunità per gli estremisti di trovare
spazio sui neonati media:
“Questo periodo vide l’introduzione della libertà di stampa e la
creazione di riviste e quotidiani, critici nei confronti della politica del
governo e dei problemi sociali del Rwanda in generale. Purtroppo questo
stesso periodo registrò anche la nascita di radio come Rtlm e di giornali
come Kangura, che sarebbero diventati tra le armi più potenti in mano ai
genocidiari”
162
.
Se da una parte le aperture permisero il proliferare di nuovi partiti
sulla scena elettorale rwandese, dall’altra le caratterizzazioni di questi
partiti si caratterizzano sempre di più per i tratti estremisti. La stessa
161
Alberto Sciortino, L’Africa in guerra. I conflitti africani e la globalizzazione, ed. Baldini Castoldi
Dalai, Milano 2008, p. 119.
162
Fonju Ndemesah Fausta, La radio e il machete, Il ruolo dei media nel genocidio in Rwanda,ed.
Infinito, Roma 2009, p.41.
97
situazione si ritrovò sul piano dei media163. In particolare sul quotidiano
Kangura (“Risvegliatelo” in riferimento al “popolo hutu”) apparsero, il
10 dicembre 1990, “I Dieci Comandamenti Hutu”, dichiarazione con la
quale si faceva appello alla coscienza Bahutu. Si ripropose in maniera
energica la classificazione: gli Hutu divennero l’unico “legittimo”
popolo rwandese (da salvaguardare anche con la violenza) e i Tutsi gli
“estranei” che potevano mettere a repentaglio l’identità Hutu e che, per
tale ragione, dovevano essere combattuti. Lo schema etnico fu, non solo
dettato, ma soprattutto rivendicato dagli Hutu 164.
In un clima infuocato ci si avvicinava alle elezioni: il potere e il
seguito riscossi da partiti e media razzisti non faceva che montare; il
Fronte Patriottico, al di là del confine, minacciava nuove invasioni; gli
estremisti hutu esigevano spazio decisionale; l’Occidente, da parte sua,
sottoponeva al Presidente incessanti richieste democratiche. Ecco allora
che Habyarimana decise di scendere a patti con i nemici del FPR. Si
cominciarono ad organizzare bozze e documenti. I grandi attori
internazionali credevano che questo poteva riconsegnare al paese
stabilità. Ciò che appare oggi, col senno di poi, è che solamente,
all’apparenza, l’Accordo poteva sembrare una soluzione realizzabile.
All’interno, sia Hutu che Tutsi, riponevano l’unico barlume di speranza
nelle Nazioni Unite, a cui sarebbe spettato il compito di vegliare le
operazioni elettorali e logistiche. Fu così che le truppe francesi, ancora di
stanza in Rwanda, si avvicendarono con i caschi blu che nel dicembre
del ’93 approdarono fra le mille colline.
163
Per quanto riguarda “i media del genocidio” dedicheremo un intero capitolo al ruolo svolto da
giornali e mezzi radiofonici prima e durante i massacri del ’94.
164
Si è scelto di riportare in Appendice l’intero documento, in lingua italiana, contenente il testo dei
“Dieci Comandamenti Hutu”.
98
CAPITOLO IV
UN ACCORDO DI VETRO E
UNA MISSIONE FANTASMA
L’illusione di Arusha
La situazione in Rwanda era incandescente: nonostante la diffusa
violazione dei diritti umani (non solo dei Tutsi ma anche di molti Hutu
non allineati alle direttive del regime), l’Occidente continuava a fornire
ad Habyarimana aiuti di ogni genere, soprattutto in campo militare.
Daniele Scaglione riporta nel suo libro dati importanti: le spese destinate
alle forze armate passarono dall’1,6% al 7% del PIL; l’esercito nazionale
passò da 6.000 a 35.000 effettivi; il Rwanda diventò il terzo paese
importatore di armi dell’intero continente africano; nei mercati, con soli
tre dollari, ci si poteva procurare una granata; armi da fuoco leggere si
potevano ottenere gratuitamente aderendo a uno dei numerosi “gruppi di
autodifesa” comparsi nel paese; le armi arrivavano dalla Francia e, sotto
la garanzia di questa, da Egitto, Sudafrica, Israele e Zaire 165. Le spese,
però, cominciarono a salire troppo e così ci si orientò verso armi più
economiche: tra il gennaio 1993 e il marzo 1994 il Rwanda acquistò 581
tonnellate di machete dalla Cina. Uno dei maggiori acquirenti fu Félicien
Kabuga. Un uomo d’affari e amico del Presidente, che ottenne sette
licenze per un valore di 25.000 dollari. L’unica fabbrica locale, la
165
Tali informazioni provengono da “Istruzioni per un genocidio” di Daniele Scaglione. Zaire era il
nome dell’attuale Repubblica Democratica del Congo. La modifica della denominazione (in vigore dal
27 ottobre 1971 al 17 maggio 1997) fu imposta da Mobutu Sese Seko, Presidente e dittatore
congolese, con lo scopo di africanizzare l’enorme stato africano e staccarlo, anche formalmente, dal
passato coloniale belga.
99
Rwandex Chillington, negli ultimi mesi del 1993 aveva venduto 16.000
machete a due dipendenti: Eugene Mbarushimana, segretario generale
degli Interahamwe e genero di Habyarimana, e François Brasa, vicino
alla CDR (Coalizione per la Difesa della Repubblica) 166. Un rwandese su
tre fu munito di un’arma bianca. Colette Braeckman illustra la funesta
situazione rwandese alla vigilia degli Accordi di pace:
“Fine 1993, la macchina per uccidere è pronta, in ognuno dei
centoquarantasei comuni del Ruanda, da 200 a 300 uomini in armi sono
pronti ad entrare in azione, all’incirca uno ogni dieci famiglie. Essi
conoscono il compito che li aspetta: devono eliminare ‘il nemico
interno’. Le liste sono compilate. Ora, su queste colline sovrappopolate,
ognuno si conosce: i moderati, i sospetti, i tutsi sono stati identificati da
molto tempo. A Kigali i piani sono stati preparati ancora più
accuratamente: all’inizio del 1994, come si è detto, dipendenti municipali
hanno fatto una verifica casa per casa. Su alcune di esse, hanno posto un
segno rosso, su altre un segno verde. ‘E’ per il censimento’, hanno
assicurato agli abitanti stupiti. In aprile le squadre di assassini sapranno
esattamente davanti a quali case si dovranno fermare” 167.
Da parte sua Habyarimana non era più in grado di giostrare a suo
piacimento gli eventi. L’Invincibile, sul punto ormai di sgretolarsi, era
accerchiato: da una parte le insistenti pressioni dell’ONU e dell’OUA168
per il rispetto dei diritti umani, civili e politici; dall’altra il Fronte
166
Queste informazioni sono tratte dall’articolo Ruanda 1994: il genocidio e l’informazione dei
quotidiani italiani di Chiara Ceresa e Matteo Dominioni, comparso all’indirizzo internet
www.intermarx.com
167
Colette Braeckman, Ruanda. Storia di un genocidio, Strategia della Lumaca, Roma 1995, p.108.
168
L’OUA era il nome dell’Organizzazione dell’Unità Africana, un’organizzazione internazionale che
accomunava le nazioni africane, fondata il 25 maggio 1963. Oggi è stata sostituita dall’UA (Unione
Africana) che comprende la quasi totalità degli stati africani e ha sede ad Addis Abeba
(www.wikipedia.org).
100
Patriottico, che non perdeva occasione per far sentire, a colpi di mortaio,
il fiato sul collo del Presidente. Inoltre, ad accrescere la tensione c’erano
i componenti del clan Akazu. Tale clan era composto dalla moglie del
Presidente, Agathe Kanziga e da una lunga fila di suoi parenti, che
Habyarimana distribuì alle più prestigiose cariche statali. Ancora la
Braeckman ci offre un quadro nitido delle dinamiche clientelari
dell’Hutu Power:
“Il clan del Presidente, che in realtà, è quello della famiglia di sua
moglie, è chiamato Akazu (“la Piccola Capanna”), si trasforma ben
presto in una vera e propria mafia […] Vi ritroviamo Agathe Kanziga,
moglie del Presidente che prende spesso la parola durante le riunioni di
famiglia e impone soluzioni radicali: torturare e uccidere. Jean-Pierre
Habyarimana, il primogenito, è preceduto sulla lista dal colonnello Elie
Sagatwa, segretario privato del Presidente, e soprattutto da Protais
Zigiranyirazo, fratello di Agathe, prefetto di Ruhengeri […] Un altro
cognato del Presidente è tristemente famoso: Séraphin Rwabukumba, che
dirige la Centrale, una società di importazione di derrate alimentari […]
Michel Bagaragaza, che dirige l’ufficio del tè […] Quanto al capitano
Pascal Simbikangwa, costretto su una sedia a rotelle, il suo solo nome fa
tremare: è anche lui un fratello di Agathe, occupa un ufficio della
presidenza e dirige il temibile servizio di informazioni. Verso la fine
degli anni ottanta, questo piccolo mondo si trova dinanzi ad un
interessante dilemma: le risorse del paese si assottigliano, il FMI vuole
avviare la sua politica di aggiustamento strutturale, mentre le esigenze
del clan aumentano: non bisogna forse retribuire tutte le reti
intermediarie della gerarchia dl potere? E’ dunque necessario trovare
nuove fonti di guadagno nei traffici illeciti” 169.
169
Colette Braeckman, Ruanda. Storia di un genocidio, Ed. Strategia della Lumaca, Roma 1995, pp.
73-74.
101
Sia il clan Akazu che l’élite presidenziale si caratterizzavano per la
ricchezza e per la corruzione. Fra gli svariati traffici illeciti a cui erano
dediti entrambi, assumevano maggior rilievo: la coltivazione e il traffico
di droga; il mercato dei gorilla di montagna 170 e, soprattutto, il traffico di
armi. Tra i numerosi parenti di Agathe Kanziga, un ruolo preponderante
nella pianificazione dei massacri spettò a Theoneste Bagosora, cugino
della moglie del Presidente, che diventò direttore del gabinetto della
Difesa. Bagosora costruì la complessa rete organizzativa nella quale
rientrarono i “gruppi di autodifesa” ovvero gli squadroni della morte
(Interahamwe, Impuzamugambi, Amasasu ecc.) che si sono propagati nel
1994 sull’intero territorio rwandese. Mentre gli Interahamwe erano sotto
la guida dei capi politici dell’MRND, gli Impuzamugambi, di numero e
organizzazione inferiore, prendevano ordini dalla CDR (formazione
simile all’MRND ma con istanze più radicali nella campagna razzista
contro i Tutsi).
L’arrivo dei caschi blu
Le Nazioni Unite, l’Organizzazione per l’Unità Africana e alcuni
governi internazionali volevano portare le parti in conflitto (il governo di
Habyarimana e il Fronte Patriottico) intorno a un tavolo di trattative. La
sede scelta fu Arusha, in Tanzania. Dopo numerose riunioni, bozze e
trattative, gli accordi furono siglati ufficialmente il 4 agosto 1993 e
170
Molto nota alle cronache storiche (ma anche cinematografiche) la vicenda della zoologa
statunitense Dian Fossey che ha lottato per difendere gli ultimi esemplari di questi animali, con i quali
viveva ai piedi della catena dei monti Virunga. Dopo aver scoperto i loschi traffici, la specialista
americana ha cercato di di rendere pubblica la vicenda e di opporsi al Presidente e ai turisti. Pagherà
tutti i sui sforzi a caro prezzo: verrà assassinata in circostanze misteriose. L’inchiesta sulla sua morte
si concluderà con un nulla di fatto (www.wikipedia.org).
102
interessarono numerosi argomenti: il concetto di stato di diritto, le
modalità di rimpatrio dei rifugiati, l’unificazione dei due eserciti
contrapposti. Ancora Daniele Scaglione illustra in maniera chiara i
termini degli accordi: la gran parte dei poteri di Habyarimana veniva
trasferita al TBBG (“Governo di transizione di larga base”) il quale
includeva rappresentanti del Fronte Patriottico e dei cinque nuovi partiti
sorti nella scena politica; dei ventuno seggi del nuovo governo, cinque
venivano affidati al partito di maggioranza nazionale, l’MRND; cinque
al FPR; quattro al principale partito di opposizione, l’MDR (Movimento
Democratico Repubblicano). Inoltre veniva istituito un Parlamento
provvisorio, la TNA (Transitional National Assembly). Sia il Governo
che il Parlamento si sarebbero dovuti insediare non oltre trentasette
giorni dopo la firma degli accordi e il periodo transitorio non avrebbe
dovuto superare i ventidue mesi. In seguito sarebbero state indette nuove
elezioni democratiche. Il nuovo esercito rwandese sarebbe stato
composto al 60% da forze ex governative e al 40% da ex appartenenti al
Fronte Patriottico. Il nuovo Primo Ministro designato sarebbe stato
Dismas Nsengiyaremye (leader del principale partito di opposizione)
che, però, il 17 luglio presentò le proprie dimissioni e fu sostituito da
Agathe Uwilingiyimana, che era stata nominata Ministro dell’Istruzione
(appartenente al MDR). Habyarimana, “l’Invincibile”, sembrava essersi
rassegnato alla nuova ripartizione del potere che prevedeva per lui la
carica di Presidente, svuotata dei suoi poteri e privilegi. Il Protocollo fu
firmato il 4 ottobre 1993 (Juvenal Habyarimana per il governo rwandese;
Alexis Kanyarengwe per il FPR) 171. I firmatari chiesero formalmente alle
171
Questa descrizione accurata dei termini degli Accordi di Arusha proviene da “Istruzioni per un
genocidio” di Daniele Scaglione.
103
Nazioni Unite una forza multinazionale di pace per supportare la
transizione verso un regime democratico.
La conciliazione, però, non era ricercata all’unanimità: gli
estremisti hutu continuavano a trasmettere nelle folle di contadini
messaggi di odio, mettendo in guardia i contadini da un possibile ritorno
dei Tutsi che avrebbe comportato: riappropriazione di terre, mandrie, e
case. I più scatenati nell’incitamento erano i membri dell’Akazu e gli
appartenenti al movimento inneggiante all’Hutu Power. Grazie alle
aperture “democratiche” riguardanti stampa, panorama partitico e mezzi
di informazione, gli estremisti ne avevano approfittato per fondare veri e
propri “strumenti di morte”. Nei primi anni ’90 sorgevano giornali e
radio dedite, prima e durante il genocidio, alla propaganda razzista.
Esempi clamorosi al riguardo furono il periodico Kangura e la stazione
radiofonica RTLM 172. La radio delle Mille Colline, che si presentava
come un network autonomo, in realtà si dimostrò uno strumento nelle
mani del Potere Hutu per intensifica la rabbia della popolazione. Lo
stesso Habyarimana finì nelle mire della propaganda: il clan Akazu era
sempre più insofferente nei confronti delle posizioni del Presidente
ritenute troppo democratiche.
In mezzo all’apparente calma rwandese, nell’aprile del 1993, i
primi caschi blu misero piede in Rwanda per analizzare la situazione alla
luce del “cessate il fuoco” siglato in precedenza. A maggio, sotto gli
auspici del Segretario generale delle Nazioni Unite (Boutros Ghali),
nasceva
l’UNOMUR
(United
Nations
Observer
Mission
in
Uganda/Rwanda). La missione era composta di ottanta militari e venti
osservatori. Gli obiettivi prioritari della missione erano: supportare le
172
Al ruolo e al peso dei media rwandesi rispetto al genocidio verrà dedicato un intero capitolo nelle
pagine successive.
104
parti in causa verso la pacificazione e controllare che il governo
ugandese non sostenesse militarmente il Fronte Patriottico. In seguito
alla richiesta esplicita delle parti rwandesi, fu creata, con la risoluzione
872 del Consiglio di Sicurezza, l’UNAMIR (United Nations Assistance
Mission for Rwanda) che prese vita formalmente il 5 ottobre 1993.
L’UNAMIR, nei piani di Boutros Ghali, si sarebbe dovuta
articolare in quattro fasi: 1) messa in sicurezza di Kigali e insediamento
dei rappresentanti del governo di transizione (tre mesi); 2) completa
smilitarizzazione della capitale (tre mesi); 3) smilitarizzazione dell’intero
territorio rwandese (nove mesi); 4) organizzazione in sicurezza delle
elezioni multipartitiche del 1995 (fino alla conclusione delle elezioni). A
tale riguardo sono importanti ai fini della comprensione le parole di un
parà belga:
“siamo solo agenti di polizia senza nessun potere. Il mandato che
ci è stato affidato dalla risoluzione 872 delle Nazioni Unite ci costringe a
sottometterci all’autorità ruandese. Siamo solo peace keeping forces
incaricate di mantenere la pace, non abbiamo il potere di imporla. E a
ragione: si presume che la pace sia stata conclusa tra i ruandesi stessi, il
distaccamento delle Nazioni Unite si trova là solo per sovrintendere
all’applicazione degli accordi” 173.
Le richieste iniziali provenienti dal Rwanda corrispondevano a
4.000 uomini; i collaboratori di Kofi Annan (Sottosegretario generale
delle Nazioni Unite) ipotizzavano l’invio di almeno 5.000 militari;
l’ambasciatore statunitense presso le Nazioni Unite assicurava non più di
500 uomini, alla fine il Consiglio di Sicurezza stabilì che l’UNAMIR
173
Tale testimonianza è riportata su “Ruanda. Storia di un Genocidio” di Colette Braeckman.
105
avrebbe impegnato complessivamente 2.548 soldati che, in conformità al
piano elaborato, sarebbero stati schierati progressivamente. Alla fine del
dicembre del 1993 a Kigali c’erano 1.300 caschi blu, 400 dei quali di
nazionalità belga. Il rappresentante speciale del Segretario generale per il
Rwanda era Jacques Roger Booh Booh, interfaccia politico tra le forze
sul campo e l’ufficio delle operazioni di peacekeeping a New York.
Booh Booh sosteneva che solo un buon rapporto con Habyarimana
poteva favorire il rispetto degli accordi.
Quando il Consiglio di Sicurezza prese in esame la missione in
Rwanda, nel mondo c’erano già 70.000 caschi blu impegnati in
diciassette operazioni di peacekeeping. La missione simbolo era stata
lanciata in Somalia nel 1992 per fermare le violenze perpetrate dalla
lunga dittatura di Siad Barre, e, in seguito, allo scontro sanguinario fra i
signori della guerra 174. La missione UNOSOM (nota anche con il nome
“Restore Hope”) avrebbe incassato una dura battuta d’arresto qualche
giorno dopo la presentazione dell’UNAMIR: durante uno scontro circa
500 somali vennero uccisi, due elicotteri americani vennero abbattuti, un
pilota fu rapito, diciotto soldati statunitensi persero la vita e settantatre
furono feriti 175. Questa tragedia, ampiamente descritta dalla stampa e dai
network americani, convinse Bill Clinton 176 a ridurre considerevolmente
il sostegno americano a questa iniziativa (c’erano in Somalia 28.000
soldati americani). Tale vicenda influenzò pesantemente la condotta
174
Daniele Scaglione propone questo tipo di lettura nel suo libro-inchiesta, offrendo un panorama
decisionale e politico delle Nazioni Unite (“Istruzioni per un genocidio” di Daniele Scaglione).
175
Nel 2002 R. Scott ha diretto una pellicola sul tragico accaduto: “Black Hack Down”.
176
Bill Clinton fu il neo eletto Presidente, salì in carica nel gennaio del 1993.
106
dell’ONU e, in particolare, degli Stati Uniti nei confronti della
“questione rwandese”177.
Il 21 ottobre 1993 a due passi dal Rwanda, in Burundi, il
Presidente Melchior Ndadaye, un hutu moderato, venne ammazzato dai
militari Tutsi. Ndadaye era il simbolo della possibile convivenza fra
Hutu e Tutsi ma dopo la sua morte furono uccise tra le 30.000 e le
50.000 persone e centinaia di migliaia furono i profughi. Le Nazioni
Unite non intervennero né con le armi né con gli aiuti umanitari. Dopo
settimane di morte in Burundi tornò uno spontaneo, seppur fragile,
equilibrio. Tale equilibrio consentì di ripristinare un governo civile con a
capo un altro Hutu moderato, Cyprien Ntaryamira. Naturalmente il
tragico fatto burundese non passò inosservato fra le mille colline: gli
estremisti rimarcarono l’inaffidabilità dei Tutsi e il disimpegno delle
Nazioni Unite.
Gli estremisti del clan Akazu e dell’Hutu Power erano sempre più
decisi a far saltare l’accordo. Il non intervento internazionale in Burundi
convinse i leader hutu che le Nazioni Unite non si sarebbero interessate
ad eventuali violazioni dei diritti umani in Rwanda. Inoltre la vicenda
somala rese chiara l’idea che colpire i caschi blu aiuterebbe a smantellare
l’intera UNAMIR. E’ così che cominciarono a circolare le liste
contenenti nomi e indirizzi dei nemici del regime e, nelle radio, discorsi
inneggianti la superiorità hutu. Grazie alla radio anche i caschi blu (in
particolare quelli belgi) venivano accusati di essere complici e alleati dei
Tutsi. Il Belgio era, infatti, uno dei pochi paesi, sulla scena
internazionale, contrario ad indebolire l’UNAMIR. I leader dell’Hutu
177
Nonostante l’ottimismo iniziale (visto che, apparentemente, la pace era stata conclusa dai ruandesi
stessi), dopo il tragico epilogo somalo, pochi paesi restarono disponibili a mandare i propri
contingenti in Rwanda.
107
Power diffondevano nelle masse contadine il timore che l’intervento
delle Nazioni Unite (per mezzo dei caschi blu) avrebbe avuto come
inevitabile conseguenza la salita al potere degli invasori del Fronte
Patriottico Rwandese.
Nei primi giorni di aprile del 1994 il Rwanda e, in particolare,
secondo la descrizione di Daniele Scaglione, Kigali era una polveriera
pronta ad esplodere: le strade non erano più sicure; veniva imposto dalla
Guardia Presidenziale il coprifuoco; negli angoli principali delle città
comparivano le prime barricate. Habyarimana, che aveva disatteso la
data del 28 marzo, precedente prevista per l’instaurazione del governo di
transizione, era ormai alle strette: l’Occidente (compresi gli amici
francesi) era stufo dei continui ritardi nella democratizzazione del paese;
gli estremisti del clan Akazu non volevano sentir parlare di
compromessi; il FPR non tollerava più le promesse mancate di
Habyarimana e i loschi legami tra il Presidente e il suo entourage con le
milizie (queste, non menzionate negli Accordi di Arusha, si erano rese
responsabili di numerosi atti di violenza contro i Tutsi) 178. Il vaso
traboccò sull’inclusione della CDR, partito manifestamente razzista, nel
nuovo governo di transizione. Habyarimana riteneva che l’inclusione del
partito fosse l’unico modo per frenarlo; il Fronte Patriottico e altri partiti
moderati si mostravano totalmente contrari. Mentre la CDR si sforzava
di apparire velatamente democratica, RTLM continuava a riempie le
colline di messaggi vaghi quanto terrorizzanti, ripetendo che “qualcosa
di molto importante stava per accadere”.
Dall’analisi svolta finora è emerso un quadro terrorizzante del
paese che doveva, però, ancora mostrare il suo lato peggiore. La sera del
178
Le informazioni sono tratte da “Istruzioni per un genocidio” di Daniele Scaglione.
108
6 aprile Habyarimana “l’Invincibile” era di ritorno dalla Tanzania dove a
Der-es-Salaam aveva partecipato a un importante incontro politico.
L’aereo presidenziale, decollato in violazione delle norme sicurezza,
sorvolò nuovamente i cieli rwandesi ma non ritrovò più la pista di
atterraggio. Il Falcon Mystère 50 fu abbattuto, a colpi di mortaio, nei
pressi dell’aeroporto della capitale.
Neanche il tempo di comprendere ciò che era accaduto che fra le
mille colline rwandesi si scatenò l’inferno.
109
PARTE DUE
Durante il Genocidio
110
CAPITOLO V
CENTO GIORNI DI SANGUE
Un attentato a un popolo intero
Il Presidente Habyarimana
aveva partecipato a un importante
incontro all’hotel Kilimanjaro di Der-es-Salaam. Presenti alla riunione
erano il Presidente tanzaniano Ali Hassan Mwinyi, il Presidente
dell’Uganda Yoweri Museveni, il Presidente del Burundi Cyprien
Ntaryamira, il vicepresidente del Kenya George Saitoti e il Segretario
generale dell’OUA Salim Ahmed Salim. Oggetto del dibattito, che
inizialmente avrebbe dovuto concentrarsi sul Burundi 179, fu il
comportamento di Habyarimana e i rischi che correva persistendo nelle
sue ambigue posizioni. L’Invincibile comprese che, nel caso in cui in
Rwanda fosse riesplosa la guerra civile, il suo governo sarebbe rimasto
isolato, finanziariamente e militarmente, dal resto della comunità
internazionale. Al termine della riunione, nella quale il Presidente
rwandese aveva deciso di accettare il governo che gli proponeva il Primo
ministro
Twagiramungu,
Habyarimana
decise
di
ripartire
immediatamente, concedendo un passaggio al Presidente burundese
Ntaryamira.
L’aereo presidenziale venne abbattuto sui cieli di Kigali intorno
alle 20.30 del 6 aprile. Contro l’aereo vennero sparati due missili che
furono visti provenire dalla collina di Masaka. Ancora oggi l’identità
179
Colette Braeckman, nel suo libro, specifica che seppur formalmente il vertice avrebbe dovuto
interessarsi dello stato burundese, in sostanza si parlò esclusivamente del Rwanda. Habyarimana,
accettando il governo transitorio, aveva anche escluso dalla coalizione la CDR.
111
degli attentatori e la regia politica restano un mistero. Le ipotesi, a
proposito dei mandanti e degli esecutori, sono le più svariate: le più
accreditate conducono alle frange estremiste del partito presidenziale, le
quali non accettarono la ratifica dell’accordo che concedeva al Fronte
Patriottico un ruolo di spessore all’interno della società rwandese; altre
tesi sostengono che proprio il Fronte Patriottico abbia ordito l’attentato
perché timoroso che un eventuale accordo pacifico avrebbe potuto
marginalizzare il proprio ruolo decisionale; un’altra supposizione, sorta a
molta distanza dai fatti del ’94, punta il dito contro la signora
Habyarimana, che il giorno incriminato, contrariamente alle proprie
abitudini non accompagnò il marito nel suo viaggio, forse perché era a
conoscenza del pericolo o forse perché lei stessa aveva partecipato alla
tessitura delle trame 180.
L’esercito rwandese, trovata l’arma che aveva sparato i missili, ne
rese noti modello e dati identificativi. Stando al numero di serie sembrò
trattarsi di un ordigno recuperato dai francesi durante la guerra del
Golfo. Il governo francese smentì tale ipotesi con sdegno insinuando
invece che il lanciamissili fosse stato fornito dagli Stati Uniti (tramite
l’Uganda) al Fronte Patriottico 181.
“Che la ‘scatola’ sia stata nera o arancione, che si trovava a bordo
o meno, che ad aver abbattuto l’aereo siano stati i francesi, belgi o
mercenari sud africani, che abbiano agito per motivi personali o siano
180
Queste e altre ipotesi sono raccolte in un articolo sulla vicenda rwandese che compare all’indirizzo
internet www.parlandosparlando.com. Tale sito, pur non essendo specializzato né in storia né in
geopolitica, ha dimostrato un apprezzabile interesse per il Rwanda e la sua storia.
181
L’ex ministro della cooperazione francese Bernard Debré ha sostenuto che i missili americani
fossero stati acquistati dall’Uganda, e che questa, a sua volta, li avrebbe rivenduti ai guerriglieri del
FPR (“Istruzioni per un genocidio” di Daniele Scaglione).
112
stati mandati dal proprio governo, tutto ciò scompare davanti ad un dato
essenziale: il massacro che seguì” 182.
Cronache dell’orrore
Una delle prime voci che cominciò a circolare fu che i responsabili
dell’attentato fossero stati i belgi dell’UNAMIR. Mentre, con le liste
nominative in mano, le milizie si dirigevano verso le case di intellettuali
e dirigenti dell’opposizione, e mentre venivano innalzate nelle strade i
primi sbarramenti, le diplomazie belghe si ritrovarono a doversi
scagionare da questo crimine misterioso 183.
“Fratelli e sorelle hutu è arrivato finalmente il momento di
estirpare le erbacce: tagliate gli alberi alti!” 184.
Se non è possibile scovare i colpevoli della morte di Habyarimana,
è facile identificare chi sfruttò a proprio vantaggio l’attentato per portare
a compimento il piano sanguinario. Le frange più estremiste, in
particolare il clan Akazu e i sostenitori dell’Hutu Power, supportate dalle
frequenze di RTLM, indicarono i ribelli Tutsi come colpevoli
dell’uccisione del Presidente e invitarono la popolazione a mettersi al
182
Colette Braeckman, Ruanda. Storia di un genocidio, Strategia della Lumaca, Roma 1995, p.134.
Nel suo libro, Colette Braeckman, descrive accuratamente l’evolversi degli attimi che seguono
all’attentato. Una voce misteriosa, proveniente dall’ambasciata francese, assegna la responsabilità ai
belgi. La voce corre veloce e tramite le frequenze di RTLM si intensifica e raggiunge la massa dei
contadini. Sia la provenienza geografica (una zona sotto controllo dell’UNAMIR) che la difficoltà
“tecnica” dell’operazione “militare” (l’esercito rwandese non sembra disporre di capacità tecniche e
strategiche per colpire l’aereo presidenziale. L’esercito nazionale non dispone di missili dotati di un
sistema di avvistamento a raggi infrarossi. Inoltre l’aereo su cui viaggiava Habyarimana disponeva di
un sistema radar in grado di schivare il primo lancio, ecco perché è stato necessario un secondo lancio
che ha colpito in pieno l’aereo nell’intervallo di tempo in cui il dispositivo ancora non si rimetteva in
funzione), sembrano escludere, apparentemente, responsabilità dei soldati rwandesi (“Ruanda. Storia
di un genocidio” di Colette Braeckman).
184
Sulle frequenze radiofoniche di RTLM il tetro messaggio dello speaker Kantano Habimana dà il
via alla mattanza (“Hotel Rwanda” di Terry George).
183
113
lavoro per eliminare definitivamente la minaccia Tutsi. Nel mirino delle
milizie e della Guardia Presidenziale finirono i Tutsi e i belgi, accusati di
aver armato e addestrato il commando resosi responsabile dell’attentato
al Presidente. Appena mezz’ora dopo l’attentato, l’aeroporto di Kigali fu
blindato e l’accesso fu vietato. L’esercito nazionale giunto sul luogo dal
quale erano partiti i missili, procedette allo sterminio di tutti gli abitanti
dei villaggi circostanti.
Circa un’ora dopo l’attentato, la guardia presidenziale raggiunse la
casa del Primo Ministro Agathe Uwilingiyimana. I leader del partito di
Habyarimana e le loro famiglie vennero fatte evacuare da Kigali. Il
generale Dallaire, capo della missione UNAMIR in Rwanda, dichiarò
l’allarme rosso ed ordinò il prelevamento del Primo Ministro per
scortarla presso la direzione generale di Radio Rwanda, dove Agathe
avrebbe potuto parlare alla Nazione. Questo non le fu permesso: quando
i caschi blu raggiunsero l’abitazione, la Guardia Presidenziale l’aveva
già circondata. Nonostante il tentativo dei caschi blu, gli assalitori
ebbero la meglio: Agathe Uwilingiyimana venne uccisa con un colpo di
pistola in volto, il suo cadavere venne rinvenuto accanto a quello di suo
marito 185. Gli stessi caschi blu vennero fatti prigionieri e, in seguito,
uccisi nei campi di addestramento della Guardia Presidenziale. I decision
– makers belgi, condizionati dall’indignazione dell’opinione pubblica
locale, compresero che i propri soldati si trovavano in uno stato di
abbandono in mezzo al caos rwandese. Il Belgio, uno dei pochi paesi che
aveva creduto nella missione delle Nazioni Unite, a causa della barbara
uccisione dei propri soldati cominciò a pensare al ritiro.
185
La straziante sequenza è stata accuratamente descritta su “Istruzioni per un genocidio” di Daniele
Scaglione.
114
“E’ all’indomani dell’assassinio di dieci parà che la ritirata del Belgio
comincia dal Ruanda, portando la Minuar a fare altrettanto. Ritiro
militare, politico, psicologico anche. L’opinione belga non comprende
che questo piccolo paese considerato amico, tanto aiutato per trent’anni
(il Belgio era il primo finanziatore), sia stato improvvisamente
attraversato da una simile rabbia. Agli sbarramenti, i miliziani cercano i
tutsi e i belgi, la Radio delle Mille Colline scandisce: ‘a ognuno il suo
belga’…” 186.
Dal punto di vista politico il Rwanda si strutturò in funzione anti –
Tutsi, Bagosora riorganizzò un nuovo governo: vennero nominati circa
venti nuovi ministri, la maggior parte dei quali provenienti dall’MRND,
alla carica di Primo Ministro venne nominato l’ex banchiere Jean
Kambanda. La suddivisione dei ministri venne stabilita da Bagosora
sulla base di criteri di natura regionalistica: ai membri originari del nord
(“Bakiga”) vennero attribuiti gli affari inerenti alla guerra, ai membri del
centro
(“Banyanduga”),
quelli
riguardanti
questioni
politiche.
Contemporaneamente allo strutturarsi del genocidio (non solo militare
ma anche politico e informativo) Paul Kagame ruppe il cessate il fuoco,
riaprendo la guerra civile. Subito dopo l’uccisione di Habyarimana le
nuove autorità rwandesi si preoccuparono di eliminare tutti i personaggi
politici di spicco (sia Tutsi che Hutu moderati) in grado di mettere in
discussione
i
piani
degli
estremisti:
l’obiettivo
prioritario
fu
l’eliminazione di chiunque avesse potuto, legittimamente, rivendicare la
guida democratica del paese. Oltre alla signora Agathe, vennero uccisi
due candidati alla presidenza dell’assemblea di transizione, ipotetici
successori di Habyarimana; poi fu la volta del Presidente della Corte
186
Colette Braeckman, Ruanda. Storia di un genocidio, ed. Strategia della Lumaca, Roma, 1995,
p.139.
115
Suprema, Joseph Kavaruganda, e di Faustin Rucogoza, ministro
dell’Informazione 187.
Risulta necessario aprire un quadro più approfondito sulle milizie.
Esse erano nate come “gruppi di autodifesa” volontari con l’obiettivo di
respingere un’eventuale nuova invasione del Fronte Patriottico. Questi
gruppi recitavano con disciplina il solito orrendo copione: seguendo le
direttive della radio e gli indirizzi impressi sulle liste, gli squadroni della
morte buttavano giù le porte con le granate; scaricavano poi raffiche
mitra e, per finire, terminavano il lavoro trucidando i feriti a colpi di
machete.
Genocidio 1
188
187
Secondo Colette Braeckman, oltre ai personaggi politici, sono caduti nelle mire degli assassini
anche i portavoce delle associazioni dei diritti dell’uomo che col passare degli anni avevano
denunciato massacri, abusi e discriminazioni ad opera del regime (ibidem).
188
La foto proviene dal sito internet www.lindamelvern.com con tale dicitura: fotografie prese dal
Maggiore Stevn Stec (Unamir), Gikondo Parish, Kigali, aprile 1994.
116
“Ogni gruppo di miliziani ha il proprio settore. Occhiali Ray Ban sul
naso, fumano e puzzano di birra. Impossibile sfuggire alla loro vigilanza:
perquisiscono le macchine che lasciano la città, chiedono i documenti.
[…] La menzione ‘tutsi’ sui documenti è la stella gialla. […] Agitano in
aria tutto quello che hanno potuto trovare, seghe, martelli, machete,
terribili bastoni, gli unfunis, la cui estremità è fatta di lunghi chiodi.
Alcuni bambini agitano kalashnikov ricavati nel legno” 189.
È in una maniera atroce che, per primi, vengono massacrati
personaggi politici, uomini d’affari, esponenti dell’alta società che hanno
legami con l’estero.
Le milizie
190
“L’arma prevalentemente utilizzata era quella del machete alla
quale un ruandese è abituato sin dall’infanzia: è sempre lo stesso gesto,
semplicemente per usi diversi. A Gatare, durante il mio soggiorno
189
Colette Braeckman, Ruanda. Storia di un genocidio, ed. Strategia della Lumaca, Roma 1995,
p.151.
190
La foto ritrae un gruppo di colorati quanto terrificanti miliziani armati di machete, asce, bastoni
chiodati (www.benerwanda.org).
117
ruandese, ho visto più d’un bambino con il machete in mano. A Gatare
ho spaccato la legna con quel machete” 191.
Il Fronte Patriottico, dopo aver rotto il cessate il fuoco, ingaggiò
estenuanti battaglie contro l’esercito regolare. La maggior parte degli
scontri si concentrò nella frontiera settentrionale del paese dove i ribelli,
provenienti dall’Uganda, spingevano per arrivare a Kigali. Dopo le
uccisioni organizzate dall’Hutu Power, Paul Kagame cercò inutilmente
l’appoggio dei caschi blu. Il generale Dallaire, da parte sua, gli negò tale
appoggio a causa delle ferree regole d’ingaggio a cui dovevano attenersi
i soldati sotto il suo comando. Infatti i militari delle Nazioni Unite erano
solamente una forza di interposizione e non potevano partecipare
attivamente agli scontri. Dallaire si impegnò in una diversa battaglia,
quella contro i suoi superiori chiedendo ad essi il rafforzamento della
missione, la modifica delle regole d’ingaggio, il potere di perquisire i
depositi clandestini di armi, la possibilità di smantellare le barriere
stradali ecc.
Nonostante la situazione del paese sembrava ormai irrecuperabile,
l’unica preoccupazione della Comunità Internazionale fu quella di tirar
fuori dal Rwanda i propri cittadini. A Kigali arrivarono le missioni
“Amaryllis” e “Silver Back”192: più di mille soldati francesi, belgi e, in
seguito, italiani. Nonostante la speranza suscitata nei poveri rwandesi, i
militari avevano ordini ben precisi: “mettere in salvo gli occidentali,
191
Le parole sono di un giovane volontario italiano, Emanuele Penco, dopo un viaggio in Rwanda. La
sua ricerca compare sul sito internet www.komerarwanda.org.
192
L’operazione (dal nome dei gorilla di montagna) nasce dal desiderio franco – belga di espatriare i
propri rappresentanti intrappolati in Rwanda. Dal 10 al 15 aprile, belgi, francesi e italiani, riescono a
raggruppare circa duemila compatrioti dispersi nel paese. “I convogli attraversano campagne in
delirio, dove contadini armati di pali dalle lunghe picche – i cosiddetti unfuni – percorrono le strade
alla ricerca del nemico. I corpi riempiono fossi, e ogni cento metri i miliziani drogati hanno alzato
sbarramenti” (“Ruanda. Storia di un genocidio” di Colette Braeckman).
118
nessun rwandese doveva essere evacuato” 193. Un’altra incredibile
stranezza fu che alle missioni di evacuazione fu concesso di ricorrere
all’utilizzo della forza, cosa che mai era stata permessa all’UNAMIR.
Oltre alla missione comune, la Francia mandò in Rwanda un contingente
di 190 militari che, con il beneplacito delle autorità rwandesi, atterrò
all’aeroporto di Kigali. In seguito altri 400 soldati francesi giunsero nel
paese per evacuare il personale dell’ambasciata e le persone ospitate
all’interno. Anche l’Italia con il nuovo Presidente del Consiglio, Silvio
Berlusconi, partecipò alla missione Silver Back tramite l’operazione
“Ippocampo” 194.
Mentre la maggior parte dei soldati era impegnata ad
accompagnare i civili francesi, italiani, belgi, gli omicidi mirati
lasciarono il passo allo sterminio incondizionato. La radio esortava i
miliziani e le FAR alla caccia senza sosta ai nemici; in pochi giorni circa
20.000 rwandesi vennero ammazzati e lasciati per strada mentre l’unica
preoccupazione dei bianchi fu quella di racimolare le proprie cose e
darsela a gambe levate. Dopo l’evacuazione dei funzionari delle
ambasciate e dei cittadini stranieri, restarono a Kigali, oltre agli
sfortunati rwandesi, solamente i caschi blu e ventisei delegati della
Croce Rossa Internazionale.
193
Tale situazione è raffigurata magistralmente in “Hotel Rwanda”, di Terry George, nel quale la
scena più struggente immortala la freddezza dei soldati francesi che, durante le operazioni di
evacuazione, rispediscono al mittente i poveri e terrorizzati ospiti di un orfanotrofio rwandese. Il film
narra la storia vera di Paul Rusesabagina, direttore dell’Hotel des Mille Collines di Kigali. Paul, di
etnia hutu, salverà nel “suo” albergo la vita ad oltre 1.200 persone. Durante il genocidio, l’Hotel
costituirà rifugio per migliaia di persone indistintamente di etnia Hutu e Tutsi. Nello scorso ottobre
2010, il governo del Rwanda ha emesso un “discutibile” mandato di arresto internazionale per Paul
Rusesabagina, ora in esilio negli Stati Uniti, accusato di collaborare con gruppi terroristici per
rovesciare le istituzioni repubblicane e per destabilizzare il Rwanda (www.benerwanda.org).
194
Il 10 aprile 1994 atterra a Kigali un contingente formato da 112 uomini della Folgore, 65 uomini
del Comando subacquei incursori Teseo Tesei della Marina e 3 velivoli da trasporto della 46ª Brigata
aerea. I militari procedono alla raccolta, identificazione ed evacuazione degli italiani residenti in
Rwanda. Le operazioni si concludono dopo una settimana con il rientro della missione (“Istruzioni per
un genocidio” di Daniele Scaglione).
119
Genocidio 2
195
Le proporzioni e le modalità delle uccisioni furono strazianti:
intere famiglie trucidate; un numero incalcolabile stupri; orribili corpi
mutilati gettati ai lati delle strade; poveri contadini costretti a uccidere i
propri figli o le proprie mogli; misere spoglie di villaggi saccheggiati e
incendiati; donne schiavizzate e abusate per settimane intere; intere
colonie di bambini gettate nel fiume Kagera 196, svariate forme di tortura
eseguite in pubblico per moltiplicare il terrore e la degradazione.
195
La foto, come la precedente, proviene dal sito internet www.lindamelvern.com con tale dicitura:
fotografie prese dal Maggiore Stevn Stec (Unamir), Gikondo Parish, Kigali, aprile 1994.
196
Il Kagera è il veicolo ideale per disperdere le prove del genocidio. Molti contadini analfabeti,
trasformati in carnefici dalla propaganda estremista, credono che il fiume arrivi in Etiopia, da dove
secondo il mito hamitico provengono i Tutsi. Quando, in realtà, i cadaveri raggiungono il lago Vittoria
(in Uganda) i pescatori ugandesi escono a ripescarli con le barche per offrirgli una sepoltura dignitosa.
I cadaveri di circa 40.000 rwandesi, trasportati dal fiume, sono finiti sulle spiagge della sponda
ugandese del Lago Vittoria, tanto da spingere l’Uganda a dichiarare tre distretti che si affacciano sul
grande lago, zona disastrata. Un comunicato emesso dal Presidente Yoweri Museveni afferma che da
10 a 40 mila corpi sono finiti nel lago trasportati per oltre 100 chilometri dal fiume Kagera. Donne,
uomini e bambini presentano mutilazioni compiute con machete. Alcuni hanno le mani legate dietro la
schiena, altri mostrano segni di colpi d’arma da fuoco, altri ancora sono stati decapitati (cfr “Rwanda
Burundi. Una tragedia infinita, PERCHE’?” di Rodolfo Casadei e Angelo Ferrari).
120
“Inciampo nei resti di un bambino, anch’egli decapitato. A
sinistra. C’è una grande stanza piena di cadaveri. I muri sono schizzati di
sangue che essendo trascorse settimane, è ormai di colore rugginoso. Non
so che altro dire dei cadaveri, ciò che ho visto va oltre la mia capacità di
espressione” 197.
Pescatori di corpi
198
Mentre i Tutsi abbandonavano terrorizzati le proprie case nella
disperata ricerca di un rifugio sulle colline e nelle foreste, RTLM
continuava la propria opera di divulgazione e demonizzazione: l’élite
dell’Hutu Power ordinò un mutamento di strategia, in quanto la caccia
porta a porta risultava troppo dispendiosa si decise di ottimizzare i posti
di blocco. Le innumerevoli barriere che transennavano le strade
rwandesi, come già accennato, erano animate da variopinti gruppi di
197
Questa è la drammatica testimonianza di Fergal Keane, reporter della troupe televisiva inviata a
Kigali dalla BBC in “Istruzioni per un genocidio” di Daniele Scaglione.
198
La fotografia è presa da www.globalvoices.org. Questa terribile immagine ritrae pescatori ugandesi
sulle sponde del lago Vittoria che recuperano corpi che hanno percorso centinaia di miglia lungo il
fiume provenienti dal Rwanda.
121
miliziani 199. Essi trascorrevano gran parte delle giornate ai posti di
blocco, armati di radiolina e machete, tra marijuana, birra di banano e
corpi decapitati. La procedura standard prevedeva che ai posti di blocco
venissero esibiti i documenti, la scritta “Tutsi” sulla carta d’identità
equivaleva alla condanna a morte. Le barriere spuntarono in tutte le zone
principali del paese, spesso gli stessi cadaveri ammassati raggiunsero un
numero tanto elevato da formare loro stessi nuove barriere. Spesso
l’orrore diventava paradossale: capitava che i macellai fossero talmente
sfiancati dal lavoro o troppo ubriachi da non riuscire a finire tutti i Tutsi
catturati. Tale paradosso diventava agghiacciante quando ai poveri
malcapitati venivano amputati gli arti inferiori per scongiurarne la fuga e
per permettere agli assassini di tornare a casa e posticipare la missione al
giorno seguente.
Il cruento aprile rwandese non sembrò disturbare il sonno al resto
del mondo. Da una parte la stampa internazionale non concesse il giusto
risalto al sangue del Rwanda; dall’altra le Nazioni Unite, il 21 aprile
1994, presero la decisione più vergognosa della loro storia: l’UNAMIR
venne ridotta a un contingente di 270 soldati che, come se non bastasse,
avevano l’ordine di non sparare. I disgraziati caschi blu sono stati
definiti da Fonju Ndemesah Fausta cani da guardia sdentati, senza la
forza ma soprattutto il permesso di intervenire200. Solamente grazie allo
sforzo profuso dal generale Dallaire 456 militari decisero di disobbedire
agli ordini e di restare in Rwanda il linea con la propria coscienza, per
199
Ogni gruppo ha i propri colori e i propri segni distintivi riportati su magliette, fazzoletti e cappelli.
Il blu e il giallo sono i colori degli Interahamwe; il nero, il giallo e il rosso sono quelli degli
Impuzamugambi. La gran parte dei miliziani porta addosso le piante caratteristiche delle proprie
regioni di origine: tè da Gisovu; caffè da Mubuga; banane da Cyangugu.
200
Oltre alle già citate pellicole “Hotel Rwanda” e “Accadde in aprile”, esiste un’altra pellicola sui
fatti rwandesi del ’94: “Shooting dogs” dove il titolo descrive gli impotenti caschi blu che, con il
divieto di usare le armi per fermare i massacri, si limitavano a sparare ai cani che, durante il
genocidio, si nutrivano degli innumerevoli cadaveri rimasti a terra.
122
cercare di limitare i danni. Nonostante gli onorevoli propositi, è chiaro
che 456 soldati male equipaggiati e con disposizioni ferree a cui attenersi
non poterono ricomporre l’intero paese.
Le autorità rwandesi, dal canto loro, adottarono “la Pacificazione”:
questa nuova strategia era finalizzata alla messa a punto di strategie
accurate di morte da realizzare al riparo da occhi indiscreti. L’obiettivo
era quello di nascondere alla distratta Comunità Internazionale il
genocidio mettendo in risalto l’attacco del Fronte Patriottico,
camuffando omicidi e violenze pianificate in una spontanea guerra
civile. Verso la fine di aprile e per l’intero mese di maggio l’esercito
regolare fu impegnato nel tentativo di frenare l’inesorabile avanzata del
FPR. Per ovviare a questo disagio logistico, le autorità procedettero a un
intensivo reclutamento di nuovi miliziani pescati tra le fasce più povere
e meno istruite del paese.
Nel mese di maggio i leader dell’Hutu Power tentarono di offrire
alla Comunità Internazionale un’immagine manipolata dei terribili
avvenimenti. Diverse delegazioni rwandesi vennero mandate in lugubri
tournèe in giro per il mondo per inventare una versione ufficiale. I loro
discorsi si focalizzarono su tre punti: 1) le violenze erano conseguenti
alla guerra civile scatenata dal Fronte Patriottico; 2) le cifre sui morti
fornite dalla Croce Rossa e da altre organizzazioni erano palesemente
esagerate201; 3) si trattava di uno scontro interetnico nel quale Hutu e
Tutsi si ammazzavano in egual misura.
In Rwanda, nonostante ciò che si voleva far credere al resto del
mondo, non esistevano più posti al sicuro. I miliziani, oramai,
201
Verso la fine di aprile i dati forniti dalla Croce Rossa parlano di 100.000 morti. Tale cifra,
nonostante sia inferiore alla realtà, viene seccamente smentita dal governo ad interim, secondo il quale
non ci sarebbero stati più di 10.000 morti (“Istruzioni per un genocidio” di Daniele Scaglione).
123
attaccavano gli ospedali e le chiese. Proprio le chiese, che in passato
avevano rappresentato dei luoghi neutrali al riparo dalle violenze,
diventarono delle vere e proprie trappole: i borgomastri, supportati dalle
frequenze di RTLM, esortavano la popolazione a ripararsi nelle Chiese.
Gli sventurati che si fidavano di queste rassicuranti parole trovavano la
morte nelle case di Dio. Anche l’ospedale della Croce Rossa
Internazionale, situato al centro di Kigali sotto il controllo delle FAR, i
fu scenario di attacchi sanguinari da parte dei miliziani. Mentre la
Comunità Internazionale era incartata sui dettagli tecnici, in Rwanda si
passò alla soluzione finale: le autorità comprendendo l’imminenza
dell’accusa per genocidio, decisero di sterminare l’intera popolazione
Tutsi per non lasciare testimoni. Se da una parte i rwandesi cadevano
ordinatamente uno dopo l’altro, dall’altra, finalmente il Consiglio di
Sicurezza, con la risoluzione 918, approvò l’intervento di una nuova
missione: UNAMIR II.
“In realtà, i rinforzi della Minuar II sono arrivati quando la guerra
era terminata, mentre il genocidio era cominciato, e quando lo sforzo
avrebbe dovuto stabilire altre priorità: inviare osservatori dei diritti
dell’uomo in grado di dissuadere da eventuali vendette e di rassicurare le
popolazioni, e soprattutto aiutare il paese a formare, rapidamente,
tribunali in grado di giudicare equamente i criminali per prevenire atti di
vendetta individuali” 202.
Dalle analisi svolte si perviene a una conclusione paradossale:
questa missione, approvata in data 17 maggio, fra le discussioni, la
202
Colette Braeckman, Ruanda. Storia di un genocidio, ed. Strategia della lumaca, Roma, 1995,
p.146.
124
reticenza dei governanti nazionali, la ricerca dei fondi, i dietrofront e i
formulari da compilare, arrivò in Rwanda solamente ai primi di agosto.
La vittoria del FPR
Il mese di giugno si caratterizzò per l’avanzata decisiva del Fronte
Patriottico: sia da nord (dall’Uganda) che dai piccoli avamposti nel
centro di Kigali che, durante gli accordi del ’93, erano stati concessi agli
Inkotanyi 203. I soldati del FPR, maggiormente organizzati e con un
addestramento superiore, riuscirono ad avere la meglio sulla Guardia
Presidenziale e sulle sgangherate bande di miliziani. E’ noto che
centinaia di miliziani, terrorizzati dall’arrivo imminente dei guerriglieri
tutsi, hanno cercato di confondersi con le migliaia di profughi in fuga dal
Rwanda. Vennero allestiti ai confini esteriori del Rwanda diversi campi
nel tentativo disperato di accogliere la più grande massa di profughi della
storia: nella fuga non c’era distinzione etnica, i Tutsi scappavano, oramai
da tre mesi, per sottrarsi al genocidio; gli Hutu (e tra loro numerose
persone che si sono macchiate di crimini orrendi) lasciavano le proprie
terre perché temevano le ritorsioni dei ribelli tutsi ormai prossimi alla
conquista di Kigali 204.
Il 15 giugno il governo francese presentò un proprio piano di
azione che la settimana seguente fu approvato dal Consiglio di Sicurezza
(forse per superare la fase di stallo in cui navigava la missione UNAMIR
203
Era il nome dato dal FPR ai propri combattenti. Inkotanyi (“i rudi combattenti”). Tale appellativo
era, in epoca monarchica, il nome di uno dei battaglioni reali.
204
Tra l’aprile e l’agosto del 1994 il Fronte Patriottico Rwandese avrebbe ammazzato tra i 25.000 e i
45.000 civili e più di 5.000 esecuzioni sarebbero state compiute dopo il termine della guerra.
125
II). L’Opération Turquoise 205 dovette conformarsi a tre inflessibili
regole: doveva essere condotta in modo imparziale e neutrale, non
poteva interporsi fra le parti e non sarebbe dovuta durare oltre sessanta
giorni. La missione francese venne osteggiata sia dai caschi blu in
Rwanda, sia da Kagame (che aveva sempre criticato i legami tra il
governo francese e gli estremisti hutu) che da qualche paese europeo206.
Nonostante tali circostanze, l’arrivo dei francesi a Kigali fu accolto con
soddisfazione dai rappresentanti dell’Hutu Power. La stessa stazione
radiofonica di RTLM annunciò che gli amici francesi erano accorsi in
aiuto degli Hutu. Ma stavolta, al contrario del 1990, l’esito non fu quello
sperato: da una parte i militari e i miliziani erano allo stremo delle forze;
dall’altra i francesi non si preoccuparono di fronteggiare “direttamente”
il Fronte Patriottico.
All’alba
del
quattro
luglio
gli
ultimi
soldati
regolari
abbandonarono Kigali e, dopo tre mesi di violenza, proiettili e sangue,
nella capitale rwandese tornò la calma. Il 18 luglio 1994 Paul Kagame,
dopo aver conquistato la capitale, dichiarò la fine della guerra. Insieme
ad essa terminava anche il genocidio più cruento che l’intero continente
africano abbia mai conosciuto.
205
In Rwanda arrivano 2.500 militari, 300 dei quali provenienti da truppe speciali, 100 veicoli
corazzati, una batteria di mortai pesanti, 8 elicotteri super Puma, 4 bombardieri Jaguar, 4 aeroplani
Mirage per attacchi al suolo e 4 jet Mirage da ricognizione (“Istruzioni per un genocidio” di Daniele
Scaglione).
206
La stampa belga insinua che le truppe francesi siano intervenute nella foresta di Nyungwe, nel
sudovest del paese, per far scomparire le tracce di alcune attività illecite: lo sfruttamento da parte del
figlio del Presidente della Repubblica francese, Jean – Christophe Mitterand, di vasti campi di
cannabis appartenenti all’ex Presidente Juvenal Habyarimana (ibidem).
126
CAPITOLO VI
UN GENOCIDIO TRA LE RIGHE
Definizioni e tecnicismi
Il termine “genocidio” nacque nel 1944, ad opera del giurista
polacco Raphael Lemkin 207, per stigmatizzare la politica razziale del
nazismo. Il giurista combinò la radice greca ghenos (razza, tribù) con la
radice latina cide (cadere, uccidere) Stando alla definizione originaria di
Lemkin, per genocidio si intendeva:
“la distruzione di una nazione o di un gruppo etnico (che) intende
designare un piano coordinato di differenti azioni miranti a distruggere i
fondamenti essenziali della vita dei gruppi nazionali, per annientare
questi gruppi stessi. Obiettivi di un piano siffatto sarebbero la
disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali, della cultura, della
lingua, dei sentimenti nazionali, della religione e della vita economica dei
gruppi nazionali , e la distruzione della sicurezza personale, della libertà,
della salute, della dignità e persino delle vite degli individui che
appartengono a tali gruppi. Il genocidio è diretto contro il gruppo
nazionale in quanto entità, e le azioni che esso provoca sono condotte da
individui, non a causa delle loro qualità individuali, ma in quanto membri
del gruppo nazionale” 208.
207
In realtà il termine fu coniato da Lemkin, docente dell’Università di Yale, a seguito del massacro
degli armeni, perpetrato dall’Impero Ottomano fra il 1915 e il 1916. Nonostante le intenzioni
originarie, solo dopo il 1945 il termine è entrato nel linguaggio comune e ha cominciato a
rappresentare un crimine specifico, che verrà recepito nel diritto internazionale e in quello interno di
molti paesi.
208
Cfr “Rwanda: psicologia di un genocidio” un documento liberamente utilizzabile e scaricabile da
internet.
127
In seguito, il termine, è stata rielaborato, nel linguaggio
internazionale, attraverso una definizione ufficiale approvata dalle
Nazioni Unite e dalla Convenzione per la Prevenzione e la Repressione
del delitto di Genocidio (approvata il 9 dicembre del 1948 ed entrata in
vigore il 12 giugno del 1951)209, la quale può essere considerata il più
importante strumento giuridico a disposizione per contrastare tale
terribile crimine. Secondo questa formulazione per “genocidio” si
intende “una serie di atti (che inizia con l’omicidio dei membri di un
gruppo) commessi con l’intenzione di distruggere, interamente o in
parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale, religioso in quanto tale”.
Nonostante esista un’interpretazione originaria dovuta a Lemkin, e
nonostante le definizioni assegnate tramite la Convenzione del 1948,
l’esperienza ha dimostrato che possono coesistere differenti e, a volte,
contrapposte interpretazioni.
Detto ciò possiamo estrapolare dalle varie definizioni, dovute a
tecnici e giuristi, alcuni elementi comuni. Le ricerche condotte ci offrono
alcune caratteristiche peculiari come la programmazione e la
premeditazione dell’azione che differenziano un atto spontaneo e privo
di “un’organizzazione a tavolino” da una fattispecie di genocidio. Un
altro elemento essenziale è l’intenzionalità ovvero la traduzione in
pratica delle minacce e delle dichiarazioni genocidiarie. Inoltre un ruolo
preminente (ma non per forza esclusivo) spetta spesso ad un apparato
statale o parastatale che gode, solitamente, di un monopolio militare ed
ideologico. Con riferimento alle potenziali vittime del crimine di
genocidio, possiamo asserire che non esistono gruppi destinatari di una
speciale protezione infatti ogni “minoranza” religiosa, etnica, politica,
209
In Appendice l’intero documento con i suoi 19 articoli.
128
ecc. deve godere della protezione dello Stato nazionale perché tutti
coloro che sono vincolati allo Stato stesso, hanno il diritto (a cui
dovrebbe corrispondere l’obbligo da parte degli stati firmatari della
Convenzione) di essere protetti: tale tutela sarebbe da intendersi estesa a
chiunque possa essere minacciato di segregazione, di esclusione, di
prigionia, di espulsione o di genocidio.
Pianificazione di un dramma
Il genocidio rwandese è stato il frutto di una maniacale
organizzazione statale e amministrativa. Ogni pedina è stata posizionata
al proprio posto e ha eseguito in maniera scrupolosa i compiti e le
disposizioni assegnategli. Il governo ad interim, costituito da Bagosora e
presieduto da Jean Kambanda, ha sviluppato con il passare dei giorni una
gerarchia verticistica centralizzata. I prefetti, ricevuti gli ordini dal
centro, li hanno trasmessi ai sottoposti e hanno controllato l’andamento
della situazione. In particolare, però, sono stati i borgomastri a mobilitare
la popolazione e a mettersi alla testa delle bande armate esercitando
notevole autorità sui poteri periferici come i consiglieri comunali e i
comitati di sicurezza. A livello più basso, i borgomastri, si sono
assicurati del funzionamento dei check point, si sono messi alla testa
delle milizie nei rastrellamenti e negli incendi delle case, ordinando
l’eliminazione degli oppositori e dei Tutsi, minacciando i dissidenti per
obbligarli alla partecipazione ai massacri.
“Io prego con insistenza tutte le personalità importanti e tutti i
funzionari del MRND di collaborare. […] Anche l’uomo d’affari deve
129
mettere mano alla cassa e portarci denaro perché possiamo andare a
tagliare la testa a quei porci. […] I nostri capi cellula devono mettersi al
lavoro, anche se non sono più pagati. Ogni elemento estraneo alla cellula
deve essere schedato. Se è un complice degli Inyenzis egli deve essere
giustiziato senza processo…purtroppo, nel 1959, non ero che un
bambino, quando li abbiamo lasciati andare sani e salvi. […] Sappiate
che colui al quale non avete ancora tagliato la testa, ve la taglierà lui.
Questi porci devono sparire tutti insieme. Dobbiamo metterci al lavoro
tutt’insieme” 210.
Nonostante qualche eccezione211, i borgomastri, i segretari
comunali e i quadri amministrativi hanno svolto con diligenza il proprio
compito: stilando le liste, guidando le squadre di assassini, mettendo a
loro disposizione arnesi, veicoli, benzina 212. Per comprendere meglio
l’efficiente macchina genocidiaria messa in piedi dai vertici rwandesi,
riportiamo l’attenta analisi di Daniele Scaglione:
“Il genocidio è l’attuazione del piano di autodifesa di Bagosora.
Quella che doveva essere l’azione collettiva di tutto il paese contro il
nemico invasore, vale a dire il FPR, si trasforma nel sistematico
sterminio della popolazione Tutsi. La complessa organizzazione
del
Rwanda a livello politico, militare, sociale e amministrativo si avvia in
modo perfetto, riuscendo a fondere aspetti burocratici e criteri di
efficienza. La catena di comando è molto articolata ma non è rigidamente
210
Léon Mugesera (vice presidente del MRND), durante un meeting del partito tenuto a Kabaya. In
“Ruanda. Storia di un genocidio” di Colette Braeckman.
211
Ad esempio nella prefettura di Butare si inceppa il meccanismo quando Jean-Baptiste
Habyalimana, il prefetto, rifiuta le riunioni con i responsabili sul territorio. La regione diventa, così,
rifugio per migliaia di Tutsi. Fino alla destituzione e alla messa a morte del prefetto stesso, e alla
conseguente uccisione di 43.000 Tutsi in pochi giorni. Anche a Kibungo il prefetto, disapprovando i
massacri, tenta di impedire ai miliziani di entrare in città. Verrà destituito e, in seguito, ucciso.
212
Colette Braeckman, nel suo libro, stima che i responsabili, nei vari livelli dello Stato e
dell’Amministrazione, impegnati a inquadrare e a dare manforte agli assassini, erano almeno 32.000
(“Ruanda. Storia di un genocidio” di Colette Braeckman).
130
costituita e consente di dare grande riconoscimento al merito. […] A dare
legittimazione al genocidio sono i leader politici. Jean Kambanda, il
Primo Ministro del governo ad interim, inizia ben presto una tournée che
lo porta nelle prefetture di Gitarama, Gisennyi, Cyangugu e Kibuyte a
incitare ai massacri. Kambanda richiama pubblicamente i cittadini al loro
dovere di scovare e combattere i nemici. […] I politici locali seguono
l’esempio dell’esecutivo e si prodigano nell’incitare la popolazione nella
caccia agli scarafaggi. […] Se il colonnello Bagosora e i politici sono la
mente del genocidio, i militari, in particolar modo la guardia
presidenziale, ne costituiscono il sistema nervoso. E’ l’esercito a
compiere le prime uccisioni, a comandare le milizie, a distribuire le armi,
a incoraggiare o minacciare coloro che esitano a uccidere, a correre in
aiuto di chi non riesce ad aver ragione dei Tutsi. I muscoli al loro servizio
sono i miliziani, i cosiddetti “gruppi di autodifesa”, sicuramente i
protagonisti più entusiasti del genocidio. […] All’inizio di aprile si
contano 2.000 miliziani in Kigali e pochi altri nel resto del paese. Alla
fine del mese 20.000 o 30.000” 213.
Dai documenti fin qui riportati e dalle apocalittiche cifre delle
uccisioni il genocidio appare palese: strutturazione del sistema;
pianificazione delle strategie; divulgazione degli obiettivi; stermini su
grande scala. Eppure la Comunità Internazionale non ebbe la nostra
stessa interpretazione. Qui di seguito un’ulteriore testimonianza che non
fa altro che avvalorare le nostre convinzioni:
“Tutto attesta un genocidio programmato: il carattere sistematico
dei massacri; l’appartenenza degli assassini a gruppi ben precisi (guardia
presidenziale, milizia del Mrnd e del Cdr); la natura delle vittime
identificate sulle liste pubblicate dalle autorità basandosi sulla nascita (i
213
Daniele Scaglione, Istruzioni per un genocidio. Rwanda: cronache di un massacro evitabile, EGA
Editore, Torino 2003, pp. 121-122.
131
tutsi), oppure sulle idee (gli hutu oppositori del regime) oppure
semplicemente sostenitori della società civile che non erano visti
positivamente dai sostenitori del totalitarismo etnico; la chiusura delle
frontiere e la presenza dei blocchi costruiti per impedire di fuggire; la
complicità di molte autorità locali (prefetti, bourgmestres, deputati del
vecchio partito unico, maestri, gendarmi…) che hanno aiutato le milizie a
cercare e sterminare migliaia di innocenti visti come ‘complici dei
nemici’” 214.
Quando il genocidio fu riconosciuto, fu troppo tardi. Nulla fu fatto
per porre termine ai massacri. La nostra analisi ci impone una domanda:
perché la gravità dei sanguinosi avvenimenti del ‘94 non fu compresa nei
tempi e nei modi (pre)stabiliti 215?
L’immobilismo internazionale
Oggi è un dato di fatto: il Rwanda fu abbandonato dal resto del
mondo. Nel corso di questo elaborato abbiamo descritto, a volte fin
troppo crudelmente, l’orrore che visse un intero popolo percosso dal
machete. Possiamo affermare, col senno di poi, che non fu fatto
abbastanza per aiutare donne e uomini in preda ai genocidiari. Dalla
ricerca compiuta, si evincono delle possibili questioni di rilievo che
hanno influito in maniera decisiva sul concatenarsi degli eventi. Intanto,
come già detto, la crisi somala ebbe ripercussioni importanti sulla
politica degli Stati Uniti e delle altre grandi potenze mondiali. Oltre alla
214
Jean Pierre Chrétien in “La radio e il machete” di Fonju Ndemesah Fausta.
La Convenzione contro il genocidio del 1948 stabilisce, infatti, le fattispecie e prevede le modalità
di intervento degli stati firmatari di concerto con le Nazioni Unite.
215
132
politica, anche gran parte dell’opinione pubblica mondiale fu colpita
dagli eventi nel Corno d’Africa tanto da condannare una nuova missione
africana. Proprio in questo contesto si inserisce il tentennamento dei
decision makers sulla pronuncia del fatidico termine “genocidio”, come
dimostra la seguente testimonianza:
“L’uso del termine genocidio ha un significato legale molto
preciso […] ci sono altri fattori da tenere in considerazione che
contribuiscono ad arricchire il significato del termine genocidio […]
prima di poter iniziare ad usare questo termine dobbiamo impegnarci a
conoscere tutto ciò che è possibile in merito ai fatti che riguardano quella
situazione […] si tratta di una questione particolarmente complicata da
affrontare e sicuramente noi stiamo cercando in questo momento di
analizzare la situazione con estrema cautela. Ma in questo momento io
non sono in grado di procedere a tale analisi utilizzando tutti i criteri di
valutazione necessari” 216.
La parola “genocidio” è stata evitata non solo per una questione
formale ma soprattutto per una dinamica sostanziale legata all’art. 8 della
“Convenzione per la Prevenzione e la Repressione contro il delitto di
Genocidio”, il quale dispone che:
“Ogni Parte contraente può invitare gli organi competenti delle
Nazioni Unite a prendere, ai sensi della Carta delle Nazioni Unite, ogni
misura che essi giudichino appropriata ai fini della prevenzione e della
216
Queste sono le parole con cui Christine Shelley, portavoce del Dipartimento di stato USA, risponde
teatralmente alla semplice domanda - in Rwanda c’è un genocidio - La conferenza stampa è del 28
aprile 1994 (in “Istruzioni per un genocidio” di Daniele Scaglione).
133
repressione degli atti di genocidio o di uno qualsiasi degli altri atti
elencati nell’articolo 3” 217.
Questo articolo, implicitamente, impegna non solo a condannare il
genocidio ma anche ad intervenire per fermare tale atto. I singoli governi
si sono mostrati reticenti a prendere una posizione chiara e forte contro i
responsabili delle violenze. Spesso è stato confuso il genocidio con una
guerra civile tra un governo legittimo e un gruppo organizzato di ribelli.
Questo disordine ha condannato alla morte numerosi civili rwandesi
sterminati in quanto appartenenti alla fazione tutsi e non in uno scontro a
fuoco fra eserciti. Questo pasticcio interpretativo viene immortalato in
una significativa scena del lungometraggio “Accadde in aprile” dove
durante una conferenza stampa presso il dipartimento di Stato americano
si assiste al seguente intervento:
“ […] chiedo scusa, le forze ribelli sono Tutu o Utsi?
E quale dei due sono i buoni?” 218.
Il comportamento delle grandi potenze mondiali trasformò, nella
primavera del ’94, la solenne Convenzione contro il genocidio in carta
straccia permettendo ai carnefici di continuare impunemente le loro
operazioni maniacali di pulizia.
217
Articolo 8 della “Convenzione per la Prevenzione e per la Repressione contro il delitto di
Genocidio” in Appendice.
218
La scena è tratta da “Accadde in aprile” di Raoul Peck. Narra delle vicende di due fratelli,
Augustine Muganza ufficiale dell'esercito ruandese e Honoré Butera speaker della RTLM che con la
sua attività fomenterà l'odio etnico nei confronti della minoranza Tutsi.
134
CAPITOLO VII
IL RUOLO DEI MEDIA
“Se nell’immaginario giornalistico, il mondo arabo
è il dominio dell’integralismo e l’India quello delle caste,
il continente africano è per eccellenza la terra degli antagonismi
etnici” 219.
Il periodico Kangura
Si può affermare, senza dubbio, che nel genocidio rwandese un
ruolo fondamentale è stato svolto dai media. Quando si parla di media
responsabili o corresponsabili dei massacri ci si rivolge non solo alla
stampa nazionale ma anche alle grandi testate occidentali. Tali testate,
grazie al loro forte spessore internazionale, sono state capaci di
distorcere la realtà. Non si può sostenere la loro cattiva o buona fede, ciò
di cui si deve prendere atto è che le tragiche notizie provenienti dalle
colline rwandesi, filtrate dai grandi media internazionali, hanno assunto
un significato diverso. E’ ovvio che le responsabilità dei media interni,
soprattutto di Radio Mille Colline (ma anche del giornale Kangura), sono
enormemente maggiori rispetto a quelle delle emittenti estere. A
dimostrazione di ciò, c’è il processo che in Rwanda, dopo il genocidio,
ha giudicato la stampa come genocidiaria. Tale processo è famoso come
il “media trial”, iniziato il 20 ottobre 2000 e conclusosi il 3 dicembre
219
La citazione, di J. L. Amselle ed E. M’Bokolo, è riportata in “La radio e il machete” di Fonju
Ndemesah Fausta.
135
2003, con una sentenza che ha riconosciuto il coinvolgimento diretto dei
media rwandesi nei massacri:
“Senza armi da fuoco, machete o altri oggetti, voi avete provocato
la morte di migliaia di civili innocenti” 220.
Come già accennato nel corso dell’analisi sviluppata nei
precedenti capitoli, un ruolo di primissimo piano nei giorni di sangue del
’94 è stato svolto da RTLM, ma va sottolineato anche il periodico
Kangura. Tale testata può essere considerata la capostipite dell’ideologia
dell’odio contro i Tutsi. Kangura nacque nel 1987 sotto l’egida di
Agathe Habyarimana, e venne gestito da Ferdinand Nahimana e Hassan
Ngeze221. Il giornale si schierò sin dalla nascita a fianco degli estremisti
hutu, fino all’eclatante pubblicazione (dicembre 1990) de “I Dieci
Comandamenti Hutu”, un vero e proprio manifesto razziale che
reclamava i diritti degli Hutu e indirizzava l’odio della maggioranza
contro i Tutsi. Negli anni ’90 il governo comprese l’utilità di servirsi di
un mezzo come Kangura per “amplificare” le direttive governative e
farle arrivare alla popolazione. Così gli amministratori locali, spinti dai
poteri centrali, cominciarono a distribuire gratuitamente le copie
invendute, e il giornale ne approfittò per inasprire la propria linea
razzista. Il giornale cominciò ad accompagnare le parole con delle
vignette che, non solo completavano gli articoli, ma venivano usate
220
Con queste parole, il giudice Navanathem Pilay ha introdotto la sentenza (“La radio e il Machete”
di Fonju Ndemesah Fausta).
221
Nahimana è un intellettuale e storico vicino al clan presidenziale. In seguito verrà condannato
all’ergastolo dai giudici del Tribunale di Arusha, in quanto responsabile di RTLM. Il 21 novembre
1986, Nahimana ha sostenuto all’Università di Paris-7 una tesi importante, “Rwanda, émergence d’un
état”. Il suo obiettivo è quello di minimizzare l’apporto tutsi e belga alla costruzione del Rwanda e di
idealizzare i signori hutu del Nord-Ovest, la regione di origine del Presidente Habyarimana (“Ruanda.
Storia di un genocidio” di Colette Braeckman). Stessa sorte penale tocca a Ngeze, condannato
all’ergastolo dal TPIR (“La radio e il machete” di Fonju Ndemesah Fausta).
136
come testi completi per comunicare, senza la presenza di uno scritto 222.
Dalle vignette il passo, breve ma inesorabile, condusse ai terrificanti
slogan radiofonici.
La vignetta che segue, in lingua kinyarwanda, mostra due donne
tutsi mentre amoreggiano con i soldati dell’UNAMIR. Tale vignetta da
una parte incolpa le donne tutsi di sfruttare il proprio fascino e la propria
astuzia per aiutare i ribelli del Fronte Patriottico; dall’altra ipotizza
legami tra i caschi blu e i Tutsi:
Vignetta 1
223
222
In un Rwanda dove il 66% della popolazione era analfabeta, si puntava su disegni efficaci,
divertenti ma soprattutto utili a diffondere discriminazione e odio fra la popolazione (“La radio e il
machete” di Fonju Ndemesah Fausta).
223
La vignetta proviene da “La Radio e il Machete” di Fonju Ndemesah Fausta. Da ricordare che, a
causa della propaganda, nei mesi di violenza del 1994 vennero uccisi dieci soldati belgi delle Nazioni
Unite.
137
Questa seconda vignetta, anch’essa in lingua locale, mostra la
collaborazione tra RTLM e Kangura. Nella raffigurazione i due
personaggi promettono di battersi per l’unità hutu grazie allo sforzo
maggioritario della popolazione:
Vignetta 2
224
Quella radio infernale
Naturalmente la propaganda dell’odio in Rwanda ha origini
lontane e basi ben consolidate come si è visto con Kangura (e con altri
quotidiani e periodici che si è scelto per questioni di spazi di tralasciare)
ma tocca il proprio apice con RTLM (Radio Televisione Libera Mille
Colline) che si dimostrò, nel corso del 1993, lo strumento ideale per
mobilitare le masse rwandesi in un turbine di rabbia e disperazione.
224
La vignetta è stata riportata da “La Radio e il Machete” di Fonju Ndemesah Fausta.
138
“Molti studi hanno mostrato il potere della radio: in un paese
come il Rwanda, ad esempio, dove non tutti possono avere l’elettricità in
casa, la radio sfrutta le sue capacità di funzionare solo con le pile; inoltre
la radio non è un mezzo impegnativo: a confronto della televisione o del
cinema, che necessitano di una certa concentrazione per seguire le
didascalie delle immagini, la radio può essere seguita anche facendo altre
cose. […] In Rwanda, paese largamente rurale, la radio poteva sfruttare
tutte le sue qualità di versatilità per raggiungere il cittadino che si trovava
in zone dove gli altri media non riuscivano ad arrivare, confermando la
teoria che indica l’emittente radiofonica come il mezzo più comodo e più
facile per raggiungere tutti. […] La radio era, e resta, il mezzo
d’informazione più usato, in grado di parlare all’anziano, al cieco,
all’analfabeta e a chi vive nelle zone più remote. Alla fine, nel pieno
genocidio, quando tutte le strade erano bloccate e solo pochi potevano
uscire, l’unico messaggio che tutti seguivano era quello, propagandistico,
diffuso da RTLM” 225.
I progetti inerenti alla radio risalgono all’estate del 1992 ma si
concretizzarono solamente l’8 aprile 1993 quando nacque ufficialmente
Radio Télévision Libres des Milles Collines S.A. Fin da subito la radio
ebbe connessioni sia con il potere economico che con quello politico. La
gran parte dei soci di Radio Mille Colline era molto nota in Rwanda per i
propositi estremisti; inoltre, la maggioranza di loro proveniva dalle zone
del nord, quelle vicine al clan Akazu. Colette Braeckman nel suo libro
fornisce un preciso quadro sui componenti della radio: il direttore era
Ferdinand Nahimana (veterano della radio nazionale e professore
universitario); tra i finanziatori c’erano Félicien Kabuga (ricco
commerciante vicino alla CDR), Séraphin Rwabukumba (arricchitosi
225
ibidem
139
con l’import-export); tra gli animatori comparivano Jean Bikindi
(professionista dell’intrattenimento popolare) e Georges Ruggiu (un
educatore di Liegi, di origine italiana) 226.
RTLM esplicitava i propri obiettivi tramite un pubblico statuto, ne
proponiamo solo alcuni esempi:

raccolta, trattamento e diffusione dell’informazione;

formazione,
educazione
e
informazione
della
popolazione tramite notiziari, pubblicità e dibattiti;

contributo
al
rafforzamento
della
democrazia
pluralista e delle istituzioni repubblicane all’interno del paese;

promozione d’informazione audiovisiva e industrie a
essa legate;

organizzazione di manifestazioni culturali 227.
Parallelamente allo statuto, RTLM perseguiva dei fini nascosti che
spesso contraddicevano gli obiettivi dichiarati. Grazie al pluralismo e a
un contesto apparentemente democratico, RTLM poteva permettersi di
criticare l’operato del clan Akazu e, in seguito, di diffondere i messaggi
di odio contro i Tutsi, incitando apertamente ai massacri.
Fonju Ndemesah Fausta nel suo libro propone un’accurata analisi
delle modalità e delle strategie impiegate da Radio Mille Colline per
rendere l’odio contagioso tra la popolazione:

uso
del
linguaggio
e
dei
simboli
religiosi,
conoscendo il contesto rwandese (a grande maggioranza cattolica)
gli speaker radiofonici caricavano i propri messaggi di simboli
cristiani, assicurando la popolazione che Dio avrebbe aiutato e
226
Colette Braeckman, Ruanda. Storia di un genocidio, ed. Strategia della Lumaca, Roma, 1995, pp.
110-111.
227
Queste informazioni provengono dal volume “La radio e il machete” di Fonju Ndemesah Fausta.
140
supportato i “veri rwandesi” sia nelle preghiere che, ancor di più,
nei massacri;

dividere la società, sposando l’ideologia dell’Hutu
Power, RTLM creava e rafforzava le divisioni etniche. Insistendo
sul fattore etnico, veniva irrobustita l’idea che la maggioranza
hutu non poteva cedere all’invasione degli scarafaggi tutsi;

demonizzare il nemico, gli animatori radiofonici
demonizzavano il nemico tutsi, così da giustificare ogni tipo di
ingiustizia. I temi più gettonati erano: la malvagità, l’astuzia, la
presunta ricchezza, il desiderio di restare al potere ecc.;

falsificare la storia, per dare rinnovata linfa alla
dicotomia Hutu-Tutsi, si esasperava il passato storico. La maggior
parte dei fatti storici venivano riletti in chiave etnica, venivano
denunciati complotti mai provati ecc.;

stranieri indesiderati, oltre ai Tutsi e ai complici
(“Ibyitso”, coloro che pur essendo Hutu, non condividevano le
violenze e i massacri), la propaganda estremista colpiva anche i
belgi e i caschi blu dell’ONU;

appelli allo sterminio, durante i massacri RTLM
partecipava attivamente alla mattanza in due modi, da un lato
fornendo sostegno morale ai combattenti, dall’altro dando un
supporto logistico, fornendo le liste delle persone da uccidere o il
nascondiglio dei fuggiaschi;

“accuse allo specchio”, gli avversari venivano
accusati dei massacri compiuti dai responsabili del genocidio o da
loro pianificati (i Tutsi diventavano i responsabili delle stragi; gli
Hutu divenivano le vittime costrette a reagire dagli eventi);
141

incoraggiamento
alla
devianza,
le
parole
provenienti dalla radio riuscivano a tramutare atti violenti e
intollerabili (saccheggi, estorsioni, massacri) in comportamenti
consuetudinari;

uso
delle
canzoni,
consapevoli
della
grande
importanza delle canzoni nella cultura africana, gli animatori
radiofonici le utilizzavano per caricare i giovani di odio e
rancore228.
Senza dubbio dopo l’inizio dei massacri, il 6 aprile 1994, la radio
non solo non perse occasione per incolpare i Tutsi del Fronte Patriottico
(con la complicità dei belgi dell’UNAMIR) dell’attentato al Presidente,
ma soprattutto accompagnò con i propri slogan e con le proprie
incitazioni ogni singola tappa del genocidio, ogni ebbro contadino hutu,
ogni sordo colpo di machete. La propaganda riuscì a cancellare e
rifondare l’ordine delle cose, ri-stabilendo il confine tra il bene e il male,
e tracciando tra di essi una netta linea invalicabile che costrinse persone
normali a schierarsi macchiandosi di sangue.
Ecco, a seguire, alcuni terrorizzanti esempi:
“Noi li combatteremo e li stermineremo, questa è più di una
certezza, ogni dubbio è impossibile…E se non fanno attenzione saranno
sterminati […] Ma c’è qualcuno che deve aver firmato un patto per far
sterminare gli Inkotanyi…farli sparire davvero…cancellarli dalla
memoria della gente…far sterminare i tutsi del mondo…farli sparire
davvero…” 229.
228
229
ibidem
RTLM, Kantano Habimana, 13 maggio 1994 (ibidem).
142
“Da giorni si dice che gli Interahamwe uccidono la gente. No, essi
non uccidono, piuttosto si battono. […] E’ così la guerra. Ci sono sempre
due parti, chi attacca e chi viene attaccato. Siamo stati attaccati e ci siamo
difesi. Gli Interahamwe sono parte di questa difesa. Non sono cattivi o
pazzi, sono persone che si sollevano come un solo uomo, sono giovani di
tutto il paese che difendono la Repubblica” 230.
“Per quelli che scappano senza ragione dalla città, che spaventano
la gente nei villaggi dicendo che stanno andando molto male, tutti quelli
che vedete con i piedi gonfi, è colpa loro. […] Grossomodo, per queste
persone che scappano, consiglierei a quelli che sono sulle barricate…ci
sono alcuni che scappano con tanti beni, approfittate di questi beni visto
che scappano sono delle ruote sgonfie, che non hanno utilità per la
nazione” 231.
Riportiamo qui di seguito un estratto di una canzone che Radio
Mille Colline era solita passare sulle proprie frequenze durante il
genocidio:
“Io odio gli hutu (bis) che non mettono in un angolo l’hutu che ha
sbagliato
Per correggerlo e fare perdurare l’unità, cari amici
Invece noi l’abbracciamo
Detesto gli hutu, detesto gli hutu che hanno rinnegato la loro
identità” 232.
“Oggi, domenica 19 giugno 1994, sono le 16.22 a Kigali,
230
RTLM, Kantano Habimana, 15 maggio 1994 (ibidem).
RTLM, Kantano Habimana, 28 maggio 1994 (ibidem).
232
Nanga Abahutu (Odio quegli hutu…) di Simon Bikindi. Su. La canzone esorta a detestare quegli
hutu che non condividono o partecipano all’ideologia del potere Hutu (ibidem).
231
143
nel bunker della RTLM.
Avviso a tutti gli ‘scarafaggi’ in ascolto.
Il Rwanda appartiene a coloro che lo difendono veramente.
E voi ‘scarafaggi’, voi non siete rwandesi.
Tutti, ora si sono sollevati per combattere questi ‘scarafaggi’.
I nostri militari, i giovani, i vecchi e perfino le donne.
Gli ‘scarafaggi’ non avranno scampo.
La nostra fortuna, è che i Tutsi non sono numerosi.
Avevamo stimato che fossero il 10% della popolazione,
ora sono solo l’8%. (PARLATO)
Rallegriamoci amici miei!
Gli scarafaggi sono stati sterminati.
Rallegriamoci amici miei!
Dio non è mai ingiusto. (CANTATO)
Se sterminiamo definitivamente gli ‘scarafaggi’,
nessuno al mondo ci verrà a giudicare”. (PARLATO) 233.
La stampa Internazionale
E’ evidente che il peso avuto dai media interni e da quelli
internazionali non può essere paragonato. Partendo da questa premessa,
il nostro senso critico ci impone delle profonde riflessioni sul ruolo
“deontologico” delle grandi testate mondiali e della stampa in generale.
Si può immaginare il seguito che giornali di fama internazionale possono
aver avuto, e hanno tuttora, in terre lontane e, in particolare, in Africa
dove la comunanza della lingua con quelli che furono i grandi imperi
233
“Rwanda – Radio Mille Colline: istigazioni al genocidio” su www.youtube.com. Il video riporta
l’audio originale in kinyarwanda con sottotitoli in lingua francese e italiana.
144
coloniali porta a considerazioni di grande rispetto e autorevolezza nei
confronti dell’Occidente e dei mezzi di comunicazione di cui dispone. Il
forte prestigio dei mezzi di comunicazione di massa ha permesso a questi
di influenzare non solo l’opinione pubblica ma anche l’informazione
stessa del resto del mondo.
L’imputazione più grave che può essere mossa nei confronti dei
grandi media internazionali è quella di aver confuso il genocidio
rwandese con una guerra civile: tale interpretazione ha comportato
un’indifferenza globale rispetto ai massacri, che a detta dei giornali
europei, erano avvenimenti “locali”, dove due etnie si contrapponevano e
si ammazzavano in egual misura. Tale legittimazione da una parte ha
permesso alle grandi democrazie occidentali di risparmiare uomini,
contanti e mezzi; dall’altra ha garantito ai singoli individui della parte
ricca del mondo di considerarsi in pace con la propria coscienza. Le
espressioni che risultarono più utilizzate nei servizi di tali media rispetto
al Rwanda furono: “guerre civili”; “guerre etniche”; “furia etnica”;
“guerre ancestrali”; “odio etnico”; “conflitto secolare”; “stragi
fratricide” 234. Questa lettura errata e superficiale degli avvenimenti
rwandesi e, più in generale, dell’Africa intera è dovuta a una serie di
luoghi comuni che caratterizzano l’enorme continente nero unicamente
per: malattie terribili; violenze etniche; sole cocente; animali feroci;
povertà e carestie. Lo stesso errore è stato commesso durante il
genocidio, ed è così che la “notiziabilità” dei fatti di sangue è stata
archiviata nel solito, polveroso ma ingombrante cassetto etnico.
Qui di seguito, a conclusione della nostra analisi sui media
dell’odio, riportiamo alcuni stralci di articoli della più quotata stampa
234
Fonju Ndemesah Fausta, La radio e il machete. Il ruolo dei media nel genocidio rwandese, ed.
Infinito, Roma 2009, p. 84.
145
internazionale, relativi al periodo in questione, che ci mostrano una linea
comune alla gran parte dei quotidiani 235:
“La battaglia fra hutu e tutsi non è semplicemente una rivalità
etnica. Gli allevatori di bestiame tutsi, spettacolarmente alti, erano
storicamente i leader dei due paesi (cioè Rwanda e Burundi). Sono una
razza di origine caucasica che arrivò nella regione quattro secoli fa,
probabilmente dall’Etiopia, per soggiogare i contadini hutu” 236.
“Gli italiani abbandonano Kigali sotto il fuoco dei ribelli Tutsi.
Ma sono ancora decine i bianchi che restano intrappolati nell’inferno
ruandese. Un inferno nel quale la vita ormai non ha più valore. Tutti
contro tutti in una feroce guerra senza quartiere” 237.
“Il Rwanda e il Burundi, marcati durante la storia post-coloniale
da massacri interetnici, rischiano di vivere una terribile tragedia. La
guerra civile che si vive in questi due Paesi potrebbe esplodere. La morte,
mercoledì 6 aprile a Kigali in un incidente aereo, del Presidente
Habyarimana e del suo omologo burundese Cyprien Ntaryamira…” 238
Questo capitolo, con i relativi documenti riportati, testimonia lo
stereotipo che ruota attorno al continente africano. Nonostante un luogo
comune non uccide né violenta, può concorrere, in maniera più o meno
cinica, al compimento del male.
235
Naturalmente ci sono state delle eccezioni sia in positivo che in negativo. In positivo vale la pena
sottolineare l’impegno della gran parte della stampa belga che ha mostrato un’approfondita
conoscenza del Rwanda e delle sue dinamiche interne; in negativo molti articoli apparsi su quotidiani
francesi che non riconoscevano il genocidio legittimando la versione degli estremisti.
236
Tratto da “Los Angeles Times” riportato su “La radio e il machete” di Fonju Ndemesah Fausta.
237
Le parole sono estrapolate da un articolo apparso su “Repubblica”, il 15 aprile 1994 (in “Istruzioni
per un genocidio” di Daniele Scaglione).
238
Tratto da “Le Monde” riportato su “La radio e il machete” di Fonju Ndemesah Fausta.
146
147
PARTE TRE
Dopo il genocidio
CAPITOLO VIII
LE RESPONSABILITA’
FUORI E DENTRO LE COLLINE
148
La conta dei morti
Teschi
239
Le cifre ufficiali diffuse dal governo rwandese parlano di un
milione di persone uccise in appena 100 giorni (10.000 morti al giorno,
400 ogni ora, 7 al minuto). Altre fonti parlano di 800.000 vittime 240. Tra
di loro circa il 20% è rappresentato da Hutu moderati. I sopravvissuti
Tutsi al genocidio sono stimati in 300.000. 400.000 sono i bambini
rimasti orfani, 85.000 dei quali sono divenuti capifamiglia. Le Nazioni
Unite stimano che le donne vittime di violenza sessuale siano circa
250.000, tra le sopravvissute il 70% ha contratto l’AIDS 241. A distanza di
239
La foto proviene da www.allvoices.com. E ogni commento ci appare superfluo.
Il numero delle vittime del genocidio, censito dal governo ruandese e diffuso nel dicembre 2001, è
1.074.017.
241
P. Landesman, Lo stupro come arma di guerra, articolo originale dal “New York Times” pubblicato
da “Internazionale”, n. 467 del 13 dicembre 2002, riportato in “Istruzioni per un genocidio” di
Daniele Scaglione.
240
149
tempo (fine 2001) il Programma congiunto delle Nazioni Unite su HivAids ha stimato che mezzo milione di ruandesi, compresi 65.000
bambini e ragazzi (da 14 anni in giù) fosse colpito da Hiv o Aids. Fra
29.000 e 44.000 adulti (in età fra 15 e 49 anni) e fra 10.000 e 15.000
bambini erano morti di malattie legate all’Aids nel corso dell’anno. Il
tasso di infezione fra le giovani donne era notevolmente più alto rispetto
a quello degli uomini (13,4% donne in età fra 15 e 24 anni e circa 6%
uomini nella stessa fascia di età). Il Programma stimava che, alla fine del
2001, la malattia avesse reso orfani circa 260.000 bambini e ragazzi
ruandesi 242.
Dall’aprile al luglio del 1994 il triste bilancio delle attività della
Croce Rossa sarà il seguente: 56 operatori ammazzati, 9.000 persone
curate a Kigali, circa 100.000 salvate nell’intero paese, 1.200 operazioni
chirurgiche, 25.000 tonnellate di cibo distribuite, numerose riparazioni di
stazioni idrauliche243.
Il genocidio e la guerra hanno prodotto il più grande esodo di profughi
della storia, rispetto al breve lasso di tempo nel quale si è verificato,
provocando la fuga di quasi 2.000.000 di rwandesi: 500.000 in Tanzania,
200.000 in Burundi, 1.200.000 in Zaire (con disastrose conseguenze
soprattutto nel Nord Kivu).
Le masse di rwandesi disperati hanno inondato la regione
circostante creando degli immensi campi profughi, dove l’enormità
242
IRIN (Ufficio per il coordinamento degli affari umanitari), RWANDA: Life expectancy reduced by
AIDS, 8 luglio 2002 riportato su “Ruanda. Diritti umani” di Christiaan Baule e Martine Syoen.
243
Philip Gourevitch, Desideriamo informarla che domani verremo uccisi con le nostre famiglie:
storie dal Rwanda, Einaudi, Torino 2000, p.175.
150
numerica e il propagarsi di malattie, dovute alla scarse condizioni
igienico – sanitarie, hanno portato a epidemie e a migliaia di decessi 244.
“Goma: una città del Kivu, una regione dell’est dello Zaire. Nel
’77 contava 67.000 abitanti, ieri 200.000, oggi…più di un milione” 245.
Esodo
246
A causa degli scontri e dei massacri l’80% del bestiame è andato
perduto. La gran parte delle fattorie e dei campi è stata abbandonata. I
sistemi educativi e sanitari sono stati devastati, la metà degli insegnanti è
244
In particolare le due città destinate ad accogliere i profughi furono Bukavu in Sud Kivu e Goma in
Nord Kivu. In quest’ultima un’epidemia di colera causò migliaia di morti.
245
Tratto dal “Diario di Padre Silvio Turazzi, missionario Saveriano, Goma, giugno-agosto 1994”
riportato in “Rwanda Burundi. Una tragedia infinita. PERCHE’?” di Rodolfo Casadei e Angelo
Ferrari.
246
La foto, che mostra il flusso infinito di gente, è stata reperita su www.peacereporter.net. Sul sito
dell’UNHCR sono state reperite numerose informazioni riguardanti i profughi interni e ed esterni
rispetto alle regioni del Kivu. La gran parte degli sfollati (1.800.000 persone) è stata ospitata dalle
famiglie locali (www.unhcr.it).
151
morta o scappata oltre confine e i 3/4 degli istituti scolastici sono stati
distrutti. 8 operatori sanitari su 10 sono stati uccisi. 150.000 abitazioni
sono state seriamente danneggiate. Le chiese sono state trasformate in
gigantesche tombe 247.
Il bilancio che abbiamo tratto dalle fonti analizzate è drammatico. Il
Rwanda si è ritrovato in una situazione sconvolgente. I nuovi uomini al
potere, per la gran parte ex combattenti del Fronte Patriottico, hanno
tentato di ricostruire materialmente e moralmente un paese dilaniato.
Paul Kagame ha preso in mano le redini di questo nuovo Rwanda e,
discutibilmente, ha intrapreso delle azioni che hanno condotto il paese in
nuove dinamiche politiche e militari che non si sono ancora concluse
nella tanto agognata riconciliazione.
Il nuovo corso rwandese
Al termine della guerra fu creato un governo di unità nazionale:
l’Hutu Faustin Twagiramungu assunse la guida del nuovo esecutivo; alla
carica di Presidente della Repubblica fu nominato Pasteur Bizimungu,
anch’egli Hutu, unitosi al Fronte Patriottico già nel 1990. Paul Kagame,
l’uomo forte della situazione, divenne vicepresidente e ministro della
Difesa. Il nuovo governo affermò di voler dar corso agli accordi di
Arusha: le elezioni, però, vennero posticipate prima al 1999 e, in seguito,
al 2003. In un clima di terrore dovuto all’inasprimento delle condizioni
di vita degli Hutu, Paul Kagame fu eletto Presidente della Repubblica e
sancì una nuova Costituzione che gli concesse enormi poteri. Secondo
De Beule e Syoen le elezioni, così come l’approvazione della
247
Daniele Scaglione, Istruzioni per un genocidio. Rwanda: cronache di un massacro evitabile, Ega
Editore, Torino 2003, p. 156.
152
Costituzione, si svolsero in un clima di terrore che ha impedito ogni tipo
di critica. Inoltre numerose testimonianze hanno parlato di brogli248.
Come illustra la seguente tabella, la vittoria di Kagame fu schiacciante:
Risultati elezioni presidenziali (25/08/2003)
249
La nuova Presidenza ha dato vita a un nuovo corso ma soprattutto ha
cambiato le sorti dell’intera regione: come ha sostenuto il professor
Gianfranco Lizza il conflitto rwandese si è esteso poi alla Repubblica
Democratica del Congo dove si combatterono, dopo la caduta di
Mobutu250 (1997), tre distinti conflitti: il primo opponeva il Presidente
248
Il volume “Ruanda. Diritti umani”, di Christiaan De Beule e Martine Syoen, ha riportato delle
testimonianza di presunti irregolarità: dalle imposizioni forzate al rilascio di falsi documenti rwandesi
per sfruttare il voto di cittadini congolesi.
249
La tabella è riportata su “Ruanda. Diritti umani” di Christiaan De Beule e Martine Syoen.
250
Il generale Mobutu restò alla guida del Congo per oltre trent’anni. Fu il massimo esempio di
accentramento del potere e di privatizzazione della ricchezza che portò l’intero ex Congo - belga in
ginocchio. Il Presidente accentrò nella sua persona le cariche di capo dello stato, capo del governo,
capo delle forze armate e capo dell’unico partito legale del paese, il Mouvement populaire de la
153
congolese Kabila251 ai ribelli congolesi; il secondo, nelle province
dell’Est, aveva una natura etnica ed era rivolto contro i Tutsi congolesi;
il terzo vedeva un “tutti contro tutti” (da una parte Burundi e Uganda;
dall’altra Zimbabwe, Angola, Ruanda e Namibia) per un intreccio di
interessi come diamanti, oro, acqua, coltan, petrolio 252.
Il regime di Kagame ha sempre giustificato l’invasione della
Repubblica Democratica del Congo con la caccia ai responsabili del
genocidio che sono fuggiti dal paese nel luglio del 1994. Naturalmente
fra gli innumerevoli rwandesi scappati dal paese si nascosero molti
personaggi noti per i crimini efferati compiuti in Rwanda. A nostro
avviso tre sono le potenziali motivazioni che hanno spinto l’esercito
rwandese ad invadere il Congo (RD):
• il primo fattore è di ordine demografico, infatti il Rwanda,
anche dopo il genocidio, ha mantenuto un’altissima percentuale di
natalità. Nonostante i flussi di profughi emersi dalle colline
rwandesi, la popolazione, nei mesi successivi, è cresciuta ancora.
Ciò sembra paradossale ma è dimostrabile: se è vero che molti
sono fuggiti dal Rwanda, molti altri sono rientrati. I vecchi
rifugiati che si erano allontanati a causa delle angherie commesse
dal regime hanno deciso di tornare. Inoltre molti di coloro che
avevano lasciato il paese per timori di ritorsioni da parte del nuovo
regime tutsi rientrarono. Ciò potrebbe suggerire che il Rwanda
Révolution. Mobutu cambiò il suo stesso nome (“Mobutu Sese Seko Nkuku Wa Za Banga”,
“l’onnipotente guerriero che, con la sua resistenza e l’inflessibile volontà di vincere, andrà di
conquista in conquista lasciandosi fuoco alle sue spalle”) e quello del paese che diventò Zaire. Negli
anni ’90 intrattenne rapporti con le milizie hutu rwandesi fornendo loro armi e basi.
251
L’invasione dello Zaire portò alla destituzione di Mobutu e alla Presidenza di Laurent-Désiré
Kabila. Kabila riportò la denominazione originale “Congo” e restò al potere sino al 2001, quando fu
assassinato. Gli successe suo figlio Joseph Kabila, tuttora al potere.
252
Gianfranco Lizza, Geopolitica. Itinerari del Potere, De Agostini Scuola Spa, Novara, 2008, p.142.
154
abbia invaso le regioni orientali del Congo (RD) per una conquista
di spazi vitali vista l’esigua superficie a disposizione dei circa
dieci milioni di rwandesi;
• il
secondo
fattore
è
di
ordine economico,
e attiene
principalmente alle abbondanti materie prime presenti nel Nord e
nel Sud Kivu come l’oro, i diamanti ecc. Il mantenimento di una
determinata situazione di confusione serviva a nascondere
un’economia sommersa che in tempo di pace sarebbe stata meno
facile da realizzare e, a causa della concorrenza, non avrebbe
generato gli stessi introiti. Fra le materie prime, una menzione
particolare merita il coltan (colombo-tantalite), un minerale
essenziale per l’aeronautica e l’informatica. L’80% della
produzione mondiale di tale minerale è offerto dalle regioni
dell’est del Congo. I vari gruppi di ribelli, armati dai paesi
limitrofi, che si affrontavano nella regione si auto finanziavano
grazie al saccheggio e all’esportazione illegale di queste risorse.
Ecco perché le regioni orientali congolesi facevano, e fanno gola
tuttora, al Rwanda, al suo esercito ma soprattutto alle bande
“irregolari”253;
• il terzo fattore è di ordine giuridico – morale, tale fattore
impegna due piani del ragionamento: su un piano c’è stata la
necessità, sbandierata dal governo Kagame, di processare i
responsabili del genocidio. Tali responsabili, fuggiti dal Rwanda,
venivano accusati da Kigali di non aver rinunciato alle armi e di
aver creato delle basi oltre il confine rwandese per ordire nuovi
253
Uno dei movimenti ribelli più attivi nella regione è stato quello del FDLR (Forze Democratiche per
la Liberazione del Rwanda) guidato da Laurent Nkunda. Per frenare tale movimento, costituito per la
maggioranza da Hutu rwandesi, le forze militari di Kagame insieme a quelle congolesi di Kabila
hanno organizzato un attacco congiunto.
155
attacchi. Sul piano morale c’è stata la giustificazione apportata da
Kigali, che ha sostenuto di aver oltrepassato la propria frontiera
per correre in aiuto dei Tutsi congolesi (i Banyamulenge, gli
abitanti del Kivu del Sud, originari del Burundi) vittime delle
violenze perpetrate dalle ricostituite milizie hutu. A nostro avviso
questa è la motivazione che regge meno sotto il profilo concreto e
che deve confrontarsi con i terribili dati dovuti ad anni di guerre
nella regione: oltre un milione di persone sfollate (50% nella parte
orientale della RDC); 2,5 milioni di morti a causa della guerra e
delle malattie ad essa collegate; distruzione del 40% delle
infrastrutture sanitarie nel Masisi (Nord Kivu); trasferimento
forzato negli ultimi cinque anni dell’80% delle famiglie rurali
delle due province del Kivu; reclutamento di oltre 10.000 bambini
soldato, oltre il 15% dei combattenti ha meno di 18 anni 254.
Nella pagina successiva una carta geografica della Repubblica
Democratica del Congo che mostra le numerose materie prime presenti
sul territorio congolese mettendo in evidenza le regioni orientali del
Congo (RD):
Carta geopolitica Congo (RD)
254
Rapporto Oxfam, “No end in sight. The human tragedy of conflict in the Democratic Republic of
Congo”, agosto 2010, riportato in “Ruanda. Diritti umani” di Christiaan De Beule e Martine Syoen.
156
255
Dopo aver analizzato la situazione lungo i confini rwandesi
bisogna approfondire la condizione interna del paese. Dopo i tragici
eventi del ’94 in Rwanda si è verificata una discriminazione al rovescio:
se dagli anni ’60 al ’94 i Tutsi hanno subito violenze e ingiustizie, nel
post – genocidio la situazione si è ribaltata. Ad oggi il conflitto è, per
fortuna, più latente e non sfocia in massacri su larga scala. Ciò, però, non
deve far abbassare la guardia. Il nuovo governo Kagame ha formalmente
abolito la carta d’identità etnica ma sostanzialmente permangono le
differenze tra Hutu e Tutsi: dopo il 1994 c’è stata un’emarginazione
politica ed economica degli Hutu. Sono numerosi i casi che potremmo
255
L’Articolo di Alfonso Desiderio (con carte di Laura Canali) compare su www.limesonline.com
(02/11/2008). “Di ora in ora si aggrava la crisi nella Repubblica Democratica del Congo. Nel Nord
Kivu, al confine con il Rwanda, gli sfollati sono ormai 1,6 milioni. L'ennesima tragedia nell'ex Zaire,
dove negli ultimi 15 anni si è combattuta la cosiddetta prima guerra mondiale africana. Tra guerre e
carestie sono stati oltre 5 milioni i morti”.
157
citare in questo elaborato per rafforzare tale argomento. Citiamo qui di
seguito alcuni esempi:
• reclutamento privilegiato per i Tutsi nel personale pubblico;
• difficoltà per gli Hutu nell’accesso all’istruzione e
nell’esercito;
• scarsa partecipazione hutu all’amministrazione del paese;
• sfruttamento non remunerato dei prigionieri hutu;
• espropriazione forzata della terra dei contadini hutu;
• condizioni di vita indescrivibili nelle carceri;
• scuole di indottrinamento ideologico256.
L’inchiesta di De Beule e Syoen ci consente di avere un quadro insolito e
abbastanza aggiornato dell’amministrazione politica del Rwanda. Per
quanto tale volume ci sia sembrato un po’ superficiale nell’esame del
genocidio, ci ha permesso di analizzare la figura di Kagame con il giusto
equilibrio critico. La tabella nella pagina successiva anch’essa
proveniente da tale volume, illustra la distribuzione impari di Hutu e
Tutsi ai diversi posti di lavoro disponibili:
Rwanda: distribuzione del potere
256
Gli esempi sono frutto di numerosi rapporti di Amnesty International riportati in “Ruanda. Diritti
umani” di Christiaan De Beule e Martine Syoen.
158
257
Per concludere questo paragrafo ci preme sottolineare che il FPR,
con a capo Paul Kagame, ha avuto il merito inestimabile di fermare i
massacri del ’94. Detto questo, la storia non può assolvere degli eroi che
rischino di tramutarsi in criminali. L’operato dell’esercito rwandese nelle
regioni orientali della RDC e le violazioni dei diritti umani perpetrate nei
confronti dei numerosi Hutu rientrati in Rwanda devono essere
condannate con fermezza anche se, a nostro avviso, tali crimini non
possono essere equiparati al milione di individui uccisi sistematicamente
nel ’94. A Kagame il merito di aver fermato le violenze con la violenza,
a suo discapito il fallito tentativo della convivenza pacifica fra le due
comunità rwandesi:
“Come abbiamo fatto per fermare il genocidio?
Non abbracciando i suoi autori, che dovevano essere fermati.
257
La tabella è stata riportata da “Ruanda. Diritti umani” di Christiaan De Beule e Martine Syoen.
159
Non sorridendo loro o chiedendo loro perdono. La gente li ha combattuti
seriamente, ha tirato su di loro sotto gli occhi di tutti e li ha sconfitti.
Nella guerra che noi abbiamo condotto per fermare il genocidio,
evidentemente sono morti molti di quelli che lo subivano, ma anche molti
di quelli che lo compivano, perché noi li abbiamo combattuti.
Non meritavano altro che la morte” 258.
L’uomo forte del Rwanda, Paul Kagame, continua a mantenere il
paese in un’apparente normalità che non dovrà riesplodere in uno
scontro aperto dovuto all’emarginazione del gruppo maggioritario.
Solamente un approccio costruttivo potrà permettere una pacifica
coesistenza e un ritorno alla quotidianità, per i quali saranno necessari
ancora tempo e parole.
Tra giustizia e riconciliazione
Dopo il genocidio sia le Nazioni Unite che il governo rwandese
hanno cercato di punire i responsabili del genocidio. L’8 novembre del
1994 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, con la Risoluzione
955, ha istituito un Tribunale internazionale per indagare sul genocidio,
sui crimini di guerra e contro l’umanità commessi in Rwanda e nelle
zone limitrofe. Il Tribunale Internazionale per il Rwanda aveva
competenza sul territorio rwandese e, per i cittadini rwandesi, per gli atti
commessi nel territorio degli Stati limitrofi, dal 1º gennaio al 31
dicembre 1994 259. Per la sede del TPIR (Tribunale Penale Internazionale
258
Discorso di Paul Kagame in data 7 maggio 2004 in occasione del Terzo Vertice nazionale su unità
e riconciliazione (ibidem).
259
Esistono delle versioni di alcuni autori che lamentano un mancato incarico del Tribunale per i
crimini commessi prima ma soprattutto dopo il genocidio. Tali tesi denunciano l’impunità dei crimini
commessi dal FPR in Rwanda e nelle regioni del Kivu.
160
per il Rwanda) è stata scelta di nuovo la ci città di Arusha. Le nuove
autorità rwandesi contestarono tali scelte riguardanti il tribunale ad hoc
fino ad arrivare ad esprimere il voto contrario all’istituzione di tale
tribunale:
“Benché il Ruanda desideri un Tribunale Internazionale per il
Ruanda e vi creda, benché il governo del Ruanda sia convinto che questo
tribunale possa essere costituito tenendo conto delle preoccupazioni del
popolo ruandese, senza nuocere assolutamente al suo carattere
internazionale e alla sua indipendenza, il mio governo ha deciso di votare
contro la risoluzione” 260.
Le motivazioni più importanti di tale contestazione furono: la
proibizione di poter comminare la pena di morte 261; la collocazione della
corte fuori dai confini rwandesi; la preminenza dell’autorità del tribunale
internazionale rispetto a quella delle corti rwandesi. Nonostante
numerose difficoltà il Tribunale ha raggiunto importanti risultati: il
Primo Ministro Jean Kambanda fu condannato all’ergastolo (primo caso
di condanna di un Capo di governo per il crimine di genocidio); così
come l’ex sindaco Jean-Paul Akayeshu (primo caso in cui un tribunale è
stato chiamato a interpretare la definizione di genocidio così come
definita nella Convenzione contro il genocidio del 1948); inoltre il, già
citato, “media trial” (il primo caso in cui il ruolo dei media è stato
esaminato nell’ambito della giustizia internazionale) 262. Altri risultati
260
Nazioni Unite, Consiglio di Sicurezza, 8 novembre 1994 su “Ruanda. Diritti Umani” di Christiaan
De Beule e Martine Syoen.
261
Tale contestazione resta valida fino al 2007 quando in Rwanda è stata abolita la pena di morte.
Prima di tale data poteva accadere che i mandanti imputati dal TPIR potessero essere condannati a
pene detentive, mentre gli esecutori (condannati da tribunali locali) rischiavano la pena di morte.
262
“Ruanda: il paese dalle mille colline e dai mille sorrisi” di Emanuele Penco su
www.komerarwanda.org.
161
furono: le condanne del ministro della Difesa Bizimana, del ministro
dell’Informazione Niyitegeka, del ministro dell’Industria Mugenzi, della
signora ministro per gli Affari sociali, la famiglia e la promozione delle
donne Nyiramasuhuko, del colonnello Bagosora e ancora di giornalisti,
imprenditori, religiosi ed esponenti del clan Akazu 263.
Per far fronte al sovraffollamento delle carceri e per giudicare i
responsabili dei massacri, in Rwanda, il 18 giugno 2002 sono state
ufficialmente re-introdotte le corti “gacaca” 264, davanti alle quali non
sono finiti i leader del genocidio ma piuttosto gli esecutori materiali. La
scelta dei gacaca è stata motivata dal governo rwandese da tre variabili:
la ricostruzione degli avvenimenti durante il genocidio; l’accelerazione
dei procedimenti legali attraverso queste corti; la riconciliazione e la
ricomposizione dell’unità del popolo 265. Il tribunale gacaca, essendo una
forma di giustizia tradizionale, ha rischiato di tramutarsi in un modo
sommario per sbarazzarsi dei tantissimi detenuti stipati nelle carceri
rwandesi. La corte, per questo criticabile, non prevedeva difensori per
l’imputato che raccontava pubblicamente la propria versione dei fatti266.
A nostro avviso le corti Gacaca avrebbero potuto contribuire a ricostruire
il veritiero svolgimento dei fatti, l’addossamento delle responsabilità ma
soprattutto a rielaborare il dramma per giungere alla tanto declamata
riconciliazione.
263
Al 30 novembre 2002 i dati ufficiali parlavano di 80 persone indiziate, 61 delle quali arrestate, 20
ancora in libertà ma sotto mandato di arresto (“Istruzioni per un genocidio” di Daniele Scaglione).
264
In Kinyarwanda significa “erba” e nella tradizione rwandese indica il luogo dove solitamente ci si
riunisce per risolvere i conflitti che affliggono la comunità.
265
“Ruanda: il paese dalle mille colline e dai mille sorrisi” di Emanuele Penco su
www.komerarwanda.org.
266
La pena adottata con maggior frequenza, anche per ovviare al sovraffollamento delle carceri
rwandesi, è stata la condanna ai lavori forzati. I condannati venivano utilizzati per la costruzione di
grandi opere pubbliche.
162
Il fallimento delle Nazioni Unite
La grande responsabilità delle Nazioni Unite è aver pianificato, in
ritardo, una missione di peacekeeping in un paese nel quale non c’era
nessuna pace da mantenere. L’errore del Consiglio di Sicurezza è stato
quello di non inserire la missione UNAMIR nel capitolo VII dello
Statuto dell’ONU ovvero non aver permesso ai caschi blu spediti in
Rwanda di impiegare la forza per fermare i massacri 267. I continui
resoconti del generale Dallaire sono sempre stati ignorati. La parola
genocidio è stata evitata in tutti i modi dai vertici dell’ONU. Il
“disimpegno” del quale le Nazioni Unite si sono macchiate ha avuto un
ruolo preponderante nell’evoluzione degli eventi. Il garante della pace
per antonomasia ha chiuso la serranda proprio nel momento in cui ci si
raccomandava ad esso. Le seguenti parole provano che l’ONU era a
conoscenza della possibile esplosione di violenza e smentiscono le
versioni di coloro che sostennero di aver considerato, in buona fede, le
violenze come degli eventi spontanei privi di ogni pianificazione:
“ […] i nostri comandi sono entrati in contatto con […] un
istruttore […] degli Interahamwe […] l’informatore ha detto di aver
ricevuto l’incarico di occuparsi delle manifestazioni di sabato scorso, il
cui scopo era colpire deputati dei partiti di opposizione partecipanti alla
cerimonia e soldati belgi. (Le milizie) speravano di provocare uno
scontro che desse il via alla guerra civile. […] Lo scopo principale degli
Interahamwe nel passato era proteggere Kigali dall’assedio dell’RPF. Da
quando è arrivata l’UNAMIR, gli è stato ordinato di censire tutti i Tutsi
che vivono a Kigali […] in previsione del loro sterminio. […] i suoi
267
Tale capitolo permette l’utilizzo della forza per mantenere (peace keeping), o ristabilire (peace
enforcing), la pace.
163
miliziani in 20 minuti potrebbero uccidere oltre 1.000 Tutsi. […] crede
che il Presidente (Habyarimana) non abbia il pieno controllo di tutti i
membri del suo vecchio partito/fazione. […] è disposto a indicarci un
grande deposito dove vengono custodite almeno 135 armi. […] è pronto
a condurci al deposito di armi anche stanotte […] egli richiede protezione
per sé e per la sua famiglia. Peux Ce Que Veux. Allons-y!” 268.
La foto che segue, tramite un gioco di parole, richiama ai poco
gratificanti trascorsi dell’ONU nel continente africano:
Nazioni Unite
269
268
Queste sono le parole che, tramite fax, il generale Dallaire invia in codice al generale Maurice
Baril, collaboratore del Dipartimento dell’ONU per le operazioni di peacekeeping guidato da Annan.
Dallaire termina il fax in francese “Purché lo si voglia: muoviamoci!”. E’ il 10 gennaio 1994 e le sue
parole resteranno inascoltate (in “Istruzioni per un genocidio” di Daniele Scaglione).
269
La foto è stata reperita, durante la ricerca, sul sito internet www.knarrnia.wordpress.com. Per
comprendere al meglio tali esperienze negative delle Nazioni Unite in Africa, citiamo le parole di
Gianfranco Lizza, docente di Geografia Politica ed Economica presso l’Università “Sapienza” di
Roma. “Nel decennio 1989-1999 le Nazioni Unite hanno promosso circa una trentina di operazioni di
peace keeping o peace enforcing, la maggior parte delle quali in Africa e nella Penisola Balcanica.
Alcune di queste, però, si sono concluse in tragici fallimenti. I principali sono: Somalia 1992 – ’94, a
seguito della dissoluzione del regime di Siad Barre, la Somalia entra in una spirale di violenze che
riduce allo stremo la popolazione civile. Gli Stati Uniti accolgono gli inviti dell’ONU a promuovere
l’invio di una forza multinazionale che viene rapidamente dispiegata ma che si disgrega altrettanto
rapidamente per effetto delle divergenze fra i vari contingenti militari dei diversi Paesi. In tale
164
In concreto il Segretario generale e i suoi collaboratori più stretti
non sono riusciti o, molto peggio, non hanno voluto informare ed
esortare il Consiglio di Sicurezza a prendere misure più proporzionate
alla situazione. Anche quando il Consiglio di Sicurezza è stato informato
dei fatti non sono state prese decisioni adeguate. I vertici decisionali
sono stati sopraffatti dalla gravità del frangente non dimostrandosi
all’altezza delle alte cariche ricoperte all’interno dell’organizzazione
internazionale con l’onere di impedire tragedie come questa. Le Nazioni
Unite, invece di intervenire, hanno abbandonato il Rwanda, preferendo
assistere gratuitamente allo spettacolo più cruento che l’Africa abbia mai
offerto.
Un Occidente distratto
La comunità internazionale ha fatto fatica a parlare di genocidio.
Soprattutto Bill Clinton e il suo entourage hanno cercato in tutte le
maniere di soprassedere. La scientifica pianificazione dei massacri non è
stata riconosciuta dal governo statunitense. Gli Stati Uniti si sono battuti
contro la partenza dell’UNAMIR e, in seguito, non solo hanno bocciato
ogni ipotesi di rafforzamento della missione ma hanno anche sollecitato
il ritorno a casa dei caschi blu. Riconoscere il genocidio avrebbe voluto
contesto l’ONU incontra grandi difficoltà anche nel gestire l’emergenza umanitaria e lascerà il Paese
nel 1994 in condizioni di estremo bisogno; […] Ruanda 1994, l’esplosione della violenza etnica in
Ruanda coglie l’ONU del tutto impreparato. Il suo intervento viene deciso con grave ritardo e deve
contrastare una situazione già altamente compromessa dal genocidio di 800.000 tutsi. Dopo
l’uccisione di 10 caschi blu belgi, l’ONU evita ogni impegno sul territorio. La successiva missione
internazionale guidata dalla Francia produrrà effetti ancora più nefasti; Angola 1994 – ’99, la tregua
tra le fazioni del MPLA e l’UNITA, annunciata dall’ONU con molto clamore nel 1994, si rivela
fragile e di breve durata. La guerra riesplode in tutta la sua violenza nel 1998, e costringe l’ONU a
richiamare tutto il suo personale a seguito dell’abbattimento di due aerei con a bordo alcuni
osservatori” in “Geopolitica. Itinerari del Potere” di Gianfranco Lizza.
165
dire intervenire militarmente in Rwanda. Come sottolineato nei capitoli
precedenti, il governo statunitense aveva incassato il colpo per la
questione somala e decise di non rischiare di perdere altri soldati per
operazioni strategicamente non utili agli interessi americani. A tale
proposito è brutalmente illuminante la seguente intervista a George W.
Bush, che al tempo dell’intervista era il candidato repubblicano alla
presidenza:
“Mister Bush, cosa farebbe se – il cielo non voglia – si ripetesse
una vicende come quella rwandese?, gli chiede il giornalista. ‘noi non
manderemmo nostri soldati per fermare una pulizia etnica o un genocidio
in luoghi al di fuori dei nostri interessi strategici – risponde il futuro
presidente – non invierei truppe in Rwanda’” 270.
A proposito del rapporto U.S.A. – Rwanda, Casadei e Ferrari
ricordano che Paul Kagame è stato addestrato e diplomato nel Kansas
all’interno del programma Imet e Levenworth, inoltre anche il colonnello
Innocent Nzabanita (Gisinda, “la belva”), responsabile di uno dei campi
militari in cui sono state addestrate le milizie Interahamwe, è stato
addestrato dagli americani 271.
Sia Francia che Belgio hanno le proprie responsabilità. Per quanto
riguarda il Belgio bisogna saper distinguere fra i soldati e il governo: i
soldati belgi hanno costituito la spina dorsale della forza di pace inviata
in Rwanda. Molti di loro si sono opposti allo smantellamento della
missione e non hanno abbandonato il Rwanda. Il governo belga, invece,
270
The International Panel of Eminent Personalities to Investigate the 1994 Genocide in Rwanda and
the Surrounding Events, Rwanda: The Preventable Genocide, maggio 2000 cfr. “Istruzioni per un
genocidio” di Daniele Scaglione.
271
Cfr. “Rwanda Burundi. Una tragedia infinita. PERCHE’?” di Rodolfo Casadei e Angelo Ferrari.
166
dopo l’uccisione dei propri soldati ha cercato, in ogni modo, di ottenere
la totale cancellazione della missione. Il Belgio, nonostante conoscesse
bene la situazione rwandese, si è preoccupato più di un’eventuale crisi
politica interna che poteva scaturire da un fallimento in Rwanda
piuttosto che di arrestare la mattanza fra le mille colline. Inoltre negli
anni precedenti al 1990 istruttori belgi avevano addestrato la Guardia
Presidenziale resasi responsabile, durante il genocidio, di orrende
vicende272. A scagionare, parzialmente, il Belgio va detto che i vertici
politici condannarono spesso il mancato rispetto degli accordi di Arusha
ma, in completa solitudine, dovettero cedere la parola e il campo.
La Francia non ha mai nascosto i suoi legami con il Presidente
Habyarimana e con il clan Akazu. Per tutta la durata del genocidio i
francesi non hanno mai interrotto i contatti con Kigali. La stessa Francia
ha coperto e reso possibile la fuga di esponenti di spicco dell’elite del
Potere Hutu. Inoltre la Francia ha legittimato platealmente il governo
genocidiario e la sua propaganda sostenendo che non era in corso uno
sterminio pianificato ma solamente un moto di rabbia contro l’RPF, vero
soggetto scatenante l’inizio delle ostilità. Nonostante l’ironia della
stampa francese273 Mitterand ha sostenuto, in seguito, che la Francia ha
svolto un ruolo di primo piano nel sostenere gli accordi di Arusha e che
l’Opération Turquoise si è sviluppata per sua espressa richiesta. Tale
operazione ha avuto qualche buon risultato come ad esempio la
creazione di una zona umanitaria sicura ma, al contrario, ha permesso la
fuga di molte decine di miliziani che hanno trovato riparo nei campi
272
ibidem
Una vignetta pubblicata su “Charlie Hebdo” raffigurava una donna uccisa a colpi di machete. Un
soldato francese accorreva e le raccoglieva qualcosa che aveva visto caderle dalla mano: Mademoiselle, il vostro fazzoletto…- In testa al disegno, una frase del ministro della Cultura Jack
Lang: -In Rwanda, il comportamento della Francia è stato esemplare - (ibidem).
273
167
profughi. Bruno Crimi, giornalista di Panorama, ha sostenuto che dietro
a Turquoise c’è stato il tentativo francese di prendere il controllo di una
parte del territorio rwandese prima che lo facesse il Fronte Patriottico.
Le intenzioni francesi erano quelle di condurre a un negoziato tra le ex
forza governative e quelle del FPR. A causa dello sbandamento delle
forze hutu e del dispiegamento di UNAMIR II, la missione turchese è
stata costretta a tramutarsi in una reale missione umanitaria 274. Detto ciò,
resta il fatto che la Comunità Internazionale non si prese carico
dell’immane tragedia rwandese e non seppe leggere la catastrofe nella
maniera adeguata.
Il ruolo della Chiesa
La Chiesa ha avuto un suo peso nel genocidio. Generalmente, in
Rwanda, la leadership della Chiesa Cristiana, e particolarmente di quella
Cattolica, ha giocato un ruolo centrale nella creazione dell’ideologia
razzista e nell’appoggio ad essa. Ha incoraggiato il sistema introdotto
dagli europei, ovvero: 1) la visione razzista, imposta da missionari e
colonialisti che assegnava un’importanza maggiore ad un gruppo
piuttosto che ad un altro; 2) il rigido controllo a cui sono stati sottoposti
gli studi storici e antropologici rwandesi; 3) la riconfigurazione della
società rwandese che ha trasformato divisioni socio – politiche, proprie
del periodo precoloniale, in separazioni puramente razziste (fino al
diretto
coinvolgimento
dei
Padri
Bianchi nella
creazione
del
274
“Mitterand l’africano” di Bruno Crimi, “Panorama”, 16 luglio 1994 in “Ruanda Burundi. Una
tragedia infinita, PERCHE’? di Rodolfo Casadei e Angelo Ferrari.
168
PARMEHUTU) 275. Fin dal loro arrivo in Rwanda i missionari
rappresentarono un punto di riferimento per la popolazione locale: prima
con i tedeschi e poi con i belgi i missionari collaborarono
nell’educazione scolastica fino a che nel 1929 ne acquisirono il
monopolio. Tramite la conversione al cristianesimo, in cambio della
protezione e della scolarizzazione, la quasi totalità della popolazione
abbandonò le credenze tradizionali. La Chiesa appoggiò le riforme
introdotte dai belgi. A condannare la gestione della Chiesa nella storia
del Rwanda, le parole di Padre Silvio Turazzi, missionario Saveriano:
“Nel passato, per la Chiesa rwandese, le cose non sono state più
facili: da una valutazione di superiorità in cui erano tenuti i tutsi, si è
passati, sollecitati dalla dottrina sociale, alla difesa dei più ‘emarginati’,
cioè gli hutu, senza ricercare sufficientemente le basi di una coesistenza
pacifica. Poi, a partire dal ’73, l’appoggio non abbastanza critico al
regime di Habyarimana e a partire dal ’90 il sostegno da parte di un
gruppo tutsi al Fronte Patriottico Rwandese (FPR)” 276.
Se da un lato alla Chiesa possono essere affibbiate responsabilità
storiche, dall’altro numerose figure della Chiesa hanno perso la vita
durante i massacri: all’inizio di settembre, nel paese non erano presenti
più di 60-80 sacerdoti indigeni e qualche decina di missionari. Prima
della guerra il clero contava 370 unità, mentre i missionari erano 251. Fu
più che dimezzato anche il numero delle religiose: prima della guerra
erano quasi 500, all’inizio di settembre si avevano notizie di 100-200
275
Secondo le parole di Ndahiro Tom, un commissario rwandese per i diritti umani, c’è stata una
profonda complicità storica e politica fra la Chiesa e il genocidio. La sua intervista è apparsa su
www.pambazuka.org.
276
Cfr. "Ruanda Burundi. Una tragedia infinita, PERCHE’? di Rodolfo Casadei e Angelo Ferrari.
169
suore locali, ed erano rientrate 30 missionarie 277. La testimonianza
seguente ci illustra il punto di vista di un cattolico rwandese:
“la Chiesa non ha preparato ideologicamente il genocidio, ma non
si può negare che la debolezza della sua reazione verso la violenza
quotidiana abbia predisposto la gente psicologicamente ad accettare la
violenza come qualcosa di normale” 278.
Il fatto che il genocidio più terribile della storia dell’Africa sia
avvenuto nel paese più cristianizzato del continente non può essere
considerato consequenziale ma sicuramente andrebbe analizzato in
maniera approfondita. Tale approfondimento uscirebbe fuori dalla nostra
ricerca, ed è per questo che tale esame potrà essere realizzato in
eventuali successive ricerche. Ci preme sottolineare, solamente, il
fallimento della Chiesa nella predicazione dei valori cristiani in un
Rwanda dimenticato anche da Dio. Per quanto riguarda le singole
responsabilità la Chiesa è stata accusata di gravi crimini: un esempio è
stato quello di Wenceslas Munyeshyaka, vicario alla parrocchia della
Santa Famiglia di Kigali, benché sospettato di aver partecipato al
genocidio, nel settembre del 1994 l’ordine dei Padri Bianchi l’avrebbe
aiutato a fuggire presso la parrocchia di Bourg-Saint-Andréol, nella
Francia del sud 279. Altri esempi riportati da Scaglione nel suo libro
riportano casi di preti che non riconoscono il genocidio e che descrivono
le violenze come una guerra scatenata dal FPR 280.
277
ibidem
Cfr. “Istruzioni per un genocidio” di Daniele Scaglione.
279
ibidem
280
ibidem
278
170
CAPITOLO IX
COSA RESTA OLTRE I CADAVERI
171
Le scuse dei grandi
Nonostante il tempo aiuti a rimarginare le ferite, il Rwanda porterà
per sempre addosso le cicatrici degli eventi del 1994. Sia agli occhi del
mondo, che preferì guardare altrove nel momento in cui un popolo intero
chiedeva aiuto; sia agli occhi dei rwandesi stessi, segnati in maniera
indelebile dal crudele concatenamento degli eventi: il Rwanda resterà
eternamente la terra del genocidio. Questo terribile crimine è stato
perpetrato da contadini, autisti, maestri, giovani senza lavoro. Se da una
parte decine di Tutsi sono stati massacrati, dall’altra migliaia di Hutu
hanno indossato i panni dei carnefici svolgendo il più terribile dei
compiti: fare pulizia col machete, uccidere l’altro anzi tagliarlo 281.
A distanza di tempo i grandi del pianeta hanno chiesto perdono:
nel 1998 lo fece Bill Clinton sostenendo che, all’epoca dei fatti, il mondo
non riuscì a comprendere realmente cosa stesse accadendo in Rwanda;
nel 2000 il Primo ministro belga Guy Verhofstadt riconobbe le
responsabilità del Belgio; il Presidente francese Mitterand, dal canto suo,
precisò che, nonostante qualche umano errore di valutazione, il governo
francese non aveva nulla da rimproverarsi 282; per quanto riguarda la
Chiesa, il Papa fu il primo capo di Stato a parlare apertamente di
genocidio nel maggio del ‘94. Però, lo stesso Giovanni Paolo II, nel suo
viaggio in Rwanda, nel 1990, omise di denunciare le discriminazioni
messe in atto dal governo 283. I maggiori dirigenti delle Nazioni Unite
281
Durante il genocidio non si utilizzava il termine kwica (uccidere) bensì gutema (tagliare).
Secondo Jean-Christophe Ferney i militari francesi hanno sparato più proiettili d’artiglieria in
Rwanda che durante l’intera operazione Daguet nel Golfo (J.-C. Ferney, La France au Rwanda:
raison du prince, déraison d’Etat, in “Politique Africaine” n. 51, ottobre 1993, p. 170 riportata da
“Rwanda Burundi Una tragedia infinita PERCHE’” di Rodolfo Casadei e Angelo Ferrari.
283
Scaglione nella sua lucida inchiesta cerca, grazie a documenti e fatti storici, di ripartire le
responsabilità internazionali del genocidio (“Istruzioni per un genocidio” di Daniele Scaglione).
282
172
giocarono a un cinico quanto sleale scarico di responsabilità: Boutros
Ghali incolpò i propri collaboratori; Iqbal Riza, all’epoca del genocidio
braccio destro di Kofi Annan, sostenne di essersi attenuto alle direttive
del Consiglio di Sicurezza; Kofi Annan stesso nel 1998 si recò a Kigali
da nuovo Segretario generale dell’ONU. In questa visita ammise
l’indifferenza del mondo ma tralasciò le proprie responsabilità come
capo del Dipartimento delle operazioni di peacekeeping 284.
Le scuse
285
Chi dimentica è complice
Dalle scabrose testimonianze analizzate nel corso di questo
elaborato risulta difficoltosa una risposta razionale all’impassibilità del
284
285
ibidem
La foto ritrae Kofi Annan in visita in Rwanda, 7 maggio 1998 (www.postkiwi.com).
173
mondo. La speranza, per quanto assurda, è che il genocidio non sia stato
vano. Ogni essere umano dovrebbe trarne un proprio insegnamento.
L’analisi peggiore e forse più vile porterà alcuni a considerare le stragi
rwandesi come un avvenimento tipico dell’Africa, come una guerra
tribale interna al Rwanda dove i corti hanno ammazzato i lunghi. Questa
fuorviante modalità di osservazione rappresenterebbe il fallimento
dell’intelletto e dell’ideale, per quanto utopico, di questo lavoro. Si è
cercato in questo elaborato di fare tutt’altra cosa ovvero scavare negli
avvenimenti per giungere alla conclusione che non è sufficiente
arrestarsi all’apparenza dei fatti. Ci è sempre richiesto uno sforzo
maggiore per contestualizzare ogni singolo avvenimento, ogni singola
direttiva impartita da New York, ogni singola telefonata tra Kigali e
Parigi, ogni singolo cadavere senza testa.
Nascoste sotto al milione di persone uccise nel 1994, dopo questa
accurata riflessione, risultano più nitidi: anni di propaganda di odio, sete
di potere, messe in scena della crudeltà, importazioni di armi e razzismo,
impoverimento dell’animo umano, disumanizzazione dell’altro. Le
parole di Romeo Dallaire, al termine di questo lavoro, non possono
risultarci indifferenti:
“Se c’è una lezione che possiamo trarre dagli avvenimenti
dell’aprile del 1994, riguarda il fatto che il genocidio è un evento quanto
mai personale: per quelli che vengono uccisi, ovviamente, e per quelli,
per quanto lontani, che non muovono un dito.
I nostri governi non sono migliori di noi. Le Nazioni Unite non sono
migliori dei governi che ne fanno parte” 286.
286
Intervista a Romeo Dallaire, riportata sull’Unità il 14 aprile 2005, in “Istruzioni per un genocidio”
di Daniele Scaglione.
174
Il genocidio mette a soqquadro le coscienze: rileggendo questa
storia risulta quasi fisiologico catalogare le morti, il sangue e la puzza
dei morti in un’epoca lontana e incompatibile con la moderna ed
esemplare società civile attuale.
I fatti rwandesi possono sembrare una storia degna del peggiore
dei film splatter con sangue e viscere bene in vista.
A volte però, la realtà è ben peggiore della più lugubre fantasia.
Oggi, a distanza di diciassette anni dall’aprile del 1994, l’orrore di
questa tragedia non va dimenticato, è compito di ogni essere umano
mantenerne vivo il ricordo. Anche le generazioni future avranno l’onere
di conoscere e studiare sui testi scolastici le terribili vicissitudini degli
Hutu e dei Tutsi. Non solo in Europa gli ebrei sono stati sterminati da
Hitler e dal Nazismo. Anche l’Africa ha avuto il suo Olocausto. Nel
paese dalle mille colline per rendere indelebile il dolore di quell’anno si
è deciso di preservare tutti quegli spazi che sono stati teatri di morte
durante il genocidio: chiese, scuole, municipi. Vengono chiamati i luoghi
della memoria.
All’interno tutto è rimasto come allora: vestiti stracciati, resti di
scarpe, ciondoli, teschi frantumati, tavoli rotti, ossa sparse senza senso.
La seguente fotografia mostra alcune delle persone colpite dalla
furia del machete come donne, bambini, uomini, vecchi semplicemente
facce.
La foto è stata scattata nel Memorial Center di Kigali:
Il ricordo
175
287
Si conclude tale elaborato con un enorme sospiro. Con una
riflessione esteriore ma soprattutto coinvolgente la nostra anima. I fatti di
sangue del Rwanda rappresentano uno dei più terribili eventi della storia
contemporanea recente. Se tralasciassimo le analisi economiche,
antropologiche e politiche resterebbe banalmente un uomo. Un uomo
che si è macchiato del male. Un uomo che ha sbaragliato le leggi di Dio
e dell’etica.
Un uomo che ne ha ucciso un altro, e un altro e un altro ancora.
In maniera sistematica, quasi indifferente.
Senza emozioni né coscienza. Senza dubbio né ragione.
Mai più.
287
La foto proviene da www.csmonitor.com (Memorial Center, Kigali).
176
Mai più una terribile storia come questa dovrà sacrificare
l’inchiostro di una penna. L’augurio colmo di speranza è che gli esseri
umani imparino dai propri errori e ne facciano tesoro perché,
parafrasando Jacopo Fò, Dio non ha impedito il Rwanda ma noi
possiamo riuscirci 288.
Solamente la memoria può contribuire a un futuro corso della vita
umana basato su etiche e solide fondamenta di giustizia e speranza.
CAPITOLO X
VOCI DAL SILENZIO
288
“Dio dopo il Rwanda” di Jacopo Fo (www.jacopofo.com). In questo emblematico scritto l’autore
richiama gli esseri umani a un senso di responsabilità necessario per il miglioramento delle relazioni
tra i popoli. Tale senso di responsabilità, secondo Fo, dovrebbe prescindere dalle credenze religiose
ma fuoriuscire spontaneamente dalla coscienza e dal buon senso di ogni singolo essere umano.
177
“Siamo stati spinti con la forza sulla collina di Nyanza dove siamo
stati aggrediti per ore, con delle granate prima e poi con dei machete e
delle pistole. Ho visto saltare il cervello di una bimba al mio
fianco…Ero coperta di ferite e avevo un coltello nella gamba. Facevo la
morta mentre i miliziani finivano le persone. Ho sentito la mia sorellina
che mi chiamava ‘Claire, Claire, non mi abbandonare, sono ancora
viva’. I miliziani l’hanno portata via, non l’ho mai più rivista. Un
assassino si è piegato su di me dicendo ‘Penso che questa sia ancora
viva’. Mi ha calpestata con le sue scarpe chiodate. Un altro l’ha
interrotto dicendo ‘Imbecille, è così che controlli che siano morti?
Guarda…’ E all’improvviso ho sentito un grosso peso sulla testa e sono
svenuta. Quando mi sono svegliata, un uomo stava in piedi di fianco a
me e cercava di riconoscermi. Mi ha chiesto cosa faceva mio padre.
‘Mio padre? Lavora al campo militare’. ‘Allora, sei una dei nostri. Ti
salverò’. Altre donne sono state salvate come me; ci hanno riunito e
sono stata affidata a un militare. Squadrandomi, mi ha detto ‘Hai l’età
di mia figlia. Nonostante tu sia Tutsi, perché, si vede, non ho la forza di
ucciderti, di violentarti. Non voglio il tuo sangue sulle mani. Senza
dubbio sarai uccisa, ma non da me’. E dicendo queste cose, se ne é
andato. Una donna anziana mi ha dato un perizoma e sono andata a
nascondermi in un piccolo chiosco dove c’era un rubinetto pubblico.
Quando il FPR è arrivato, un militare ci ha portato dell’acqua calda per
lavarci. Due minuti dopo, mentre si girava, è morto sotto i nostri occhi
colpito da una pallottola in pieno petto. Oggi, non ne posso più di
incontrare assassini. Ne ho abbastanza di vivere nella paura. Ho voglia
178
di lasciare il Rwanda, questa terra dove gli assassini corrono
liberamente”289.
“Ci siamo nascosti nelle paludi. Una sera, gli assassini ci hanno
sorpresi. Ho dato loro dei soldi perché non ci uccidessero. E anche una
radio. Hanno preso tutto ridacchiando. Ci siamo nascosti nelle paludi.
Hanno anche preso tutti i miei vestiti e persino la mia cintura. Solo
allora hanno cominciato il lavoro. Hanno cominciato dai miei bambini.
Ho visto cadere le gambe del primo, e poi la sua testa. Ho incominciato
a gridare, allora sono venuti verso di me. Mi hanno tagliata a pezzi e
sono svenuta. La mia più grande sfortuna fu di svegliarmi tra i cadaveri
dei miei. Avevo addirittura il cadavere di uno dei miei figli sopra di me.
Non potevo muovermi. Uno dei miei figli non era morto. Mi chiamava in
continuazione. ‘Mamma, svegliati. Sono ancora in vita" L'avevano
tagliata dappertutto. Ho guardato tutto intorno a me, ho guardato i
bambini, ho guardato mia madre. Ho detto a mia figlia sopravvissuta
‘dammi
da
bere’,
anche
se
non
poteva
trovare
acqua.
Siamo restate cosi per notti e giorni, paralizzate. Delle bestie venivano a
mangiare i cadaveri dei miei figli, e non avevo la forza di cacciarli. Un
mattino, credevo di morire, perché dei bacherozzi si muovevano nelle
mie piaghe. Ho domandato a mia figlia di andare a cercare da
mangiare, ma non era veramente per mangiare, era per allontanarla da
me e suicidarmi senza che lei mi vedesse. Appena partita, ho messo il
mio indice nella ferita che avevo sul collo e ho tirato per romperla
completamente. Ma non c'era più forza nelle mie mani, non sono riuscita
289
Claire K. Superstite, 22 anni, Kikukiro (Kigali) in “Le ferite del silenzio” di Yolande Mukagasana.
179
a finirmi. Invece di morire, il giorno dopo stavo cosi male che non
potevo nemmeno bere l'acqua. Quando mia figlia è tornata, le ho
spiegato il mio gesto e come non aveva funzionato... Quando il FPR ha
preso la regione, non ce ne siamo rese conto. Solo 15 giorni dopo
qualcuno è venuto a salvarci” 290.
“Ho saputo della morte di Habyarimana solo la mattina del 7
aprile. Ho chiesto a una vicina hutu perché c'erano dei gruppuscoli nel
centro del villaggio. Mi ha risposto con aggressività. "Smettila di fare
finta. Sai bene che il presidente è stato assassinato." Ho avuto
veramente paura. Per me, era la fine. Ripensando al 1992 mi sono
calmata, pensando che avrebbero assassinato solo dei ricchi e degli
intellettuali. Un anziano hutu, una volta amico di mio padre, è venuto a
prendere me e i bambini, poiché ero vedova. I figli di quel vecchio erano
degli Interahamwe. Sua moglie, una Tutsi, fu la prima a cacciarmi.
Esageravo la situazione, diceva. Suo marito ha dovuto impormi. Suo
figlio, il più pericoloso di tutti, mi ha preso e spinta con un'ascia. Sono
caduta sulla schiena. Ho visto l'ascia sollevata sopra di me, pronta a
colpire. L'immagine mi terrorizza ancora oggi. È il fratello più piccolo,
eppure anche lui miliziano, che mi ha salvato la vita. Mi ha tenuta in
ostaggio per tutto il periodo. Mi violentava regolarmente. Gli lasciavo
usare il mio corpo, a patto che non uccidesse i miei figli. ‘Non hai paura
dell’AIDS?’ ‘L’AIDS? Sì, ho paura, ma lo vedo come una fatalità.
Recentemente ho notato una macchia sulla mia gamba. Ho pensato
subito che era l’AIDS. Ma a che serve preoccuparsi? In ogni caso, se ho
290
Kandera Adèle, superstite, 49 anni, Nyamata (ibidem).
180
l’AIDS, non ho i mezzi per curarmi. Spero solo di non morire prima che
i miei figli siano grandi’. ‘Pensi di fare il test?’ ‘A che serve?’ ‘E non
gliene vuoi a quest’uomo che ti ha preso con la forza?’Certo che gliene
voglio. Testimonierò contro di lui. Se mi ha preso in ostaggio, non era
per amore. Era il suo modo di uccidermi”291.
“Tu sai bene che in tutta la storia del Ruanda, i Twa erano amici
dei Tutsi. Allora, raccontami come mai li avete uccisi. ‘Il cognato del
brigadiere è venuto a dire che eravamo degli esseri insignificanti e che
dovevamo inseguire i Tutsi scappati nella foresta, perché altrimenti
saremmo stati tutti uccisi’. E tu hai partecipato a questa caccia?
‘Sì. Ho ucciso tre Tutsi. Un certo Karasira, con un colpo di manganello.
Un certo Vianney, che era un mio amico, con un colpo di lancia. E un
bambino
di
12
anni,
con
diversi
colpi
di
pugnale’.
Qual era il tuo stato d'animo mentre facevi queste cose? ‘Era un po'
come un'epidemia. Prima di uccidere la prima volta, avevo paura. Ma
dopo il primo assassinio, sono diventato molto cattivo e molto crudele.
Era come se dentro di me fosse cresciuta una grande collera contro i
Tutsi, senza che ne capissi il perché. Le nostre azioni non erano
premeditate, agivamo sotto il dominio di una collera irrazionale
fomentata in noi dalle autorità. Non ero più un essere umano’.
E dopo, come ti sei sentito?‘Quando mi hanno arrestato, mi sono sentito
sollevato e ho confessato direttamente. Era così bello tornare ad essere
un essere umano. Oggi, mi rimetto alla giustizia degli uomini, accetterò
291
M. Vestina, superstite, 33 anni, Gahembe (ibidem).
181
la pena che mi sarà inflitta, anche se si tratta della morte. E per
l'eternità mi affido alla giustizia di Dio”292.
“L'8 aprile siamo fuggiti verso la parrocchia di Gikongoro.
Monsignor Misago collaborava con il prefetto per raggrupparci nei
luoghi dove gli Interahamwe avrebbero potuto attaccarci meglio. E
infatti, non ci hanno dato tregua durante tutto il genocidio. La guardia
presidenziale e l'esercito facevano delle specie di rastrellamenti con i
mitra. Dopo passavano i miliziani per finire i feriti a colpi di machete.
Era organizzato molto bene. Noi ci difendevamo come potevamo, con dei
sassi. Ma ci sono stati molti morti fino a luglio. Se ne contano circa
27.000, Ma credo ce ne siano stati di più.‘ Ma i Francesi erano arrivati,
no?’ I Francesi? Non impedivano agli Interahamwe di uccidere. Hanno
mandato i vecchi Tutsi dalla parte del FPR, per far vedere che
aiutavano. Ma i giovani Tutsi continuavano a farsi uccidere. I Francesi
hanno addirittura derubato le moto del Progetto agricoltura e le hanno
date agli artefici del genocidio per permettere loro di fuggire nello
Zaire. E prima di ripartire, hanno seppellito i morti con gli ultimi
Interahamwe e hanno piantato dell'erba e appiattito le fosse perché non
si vedesse che c'erano dei cadaveri sotterrati. Quando si è vista l'erba
crescere, sembrava un campo di calcio. In realtà, i Francesi hanno
salvato qualche Tutsi, ma hanno soprattutto permesso agli artefici dei
genocidio di fuggire, nel momento in cui per loro la guerra era persa.
‘Come vivi oggi? Che speranza hai?’ Vivo nella miseria e nel dolore.
Noi superstiti siamo sacrificati alla politica della riconciliazione
292
Innocent R., Twa, in prigione a Butare (ibidem).
182
nazionale. Sono i nostri assassini che ci guadagnano. Quando rientrano,
dobbiamo restituire le loro case, mentre loro ci hanno distrutto le nostre
e ci hanno uccisi. E a noi, chi ci renderà i nostri beni? E quando
testimoniano contro di loro, siamo morti, perché viviamo in mezzo a
loro. Mi ribello, ma mi sento totalmente impotente. Non credo alla
riconciliazione senza giustizia” 293.
“Con i miei amici abbiamo ucciso e sepolto 20 persone, tra le
quali sei bambini, in due giorni. Il sindaco ci ordinò di uccidere queste
persone, di dare la caccia ai tutsi e di ucciderli, altrimenti saremmo stati
picchiati, messi in prigione e uccisi. Abbiamo usato machete, bastoni,
randelli. So che non è giusto ma siamo stati obbligati. Nessuno di noi lo
fa se non è obbligato. Il sindaco ci ha dato una lista delle persone che
dovevano essere eliminate. Non avevo nessuna ragione di odio verso
quelli che ho ammazzato, c’erano i miei amici, ma ci hanno detto che
eravamo in pericolo e dovevamo difenderci, per questo distribuivano le
armi” 294.
“Durante quella stagione di carneficine ci alzavamo più presto
del solito per mangiare carne in abbondanza, e salivamo fino al campo
di calcio verso le nove o le dieci del mattino. I capi brontolavano contro
i ritardatari e noi partivamo all’attacco. La regola numero uno era
293
M. Emmanuel, superstite di Murambi, 40 anni, diventato guardiano del luogo (ibidem).
Telesphore Kabayiza, 46 anni, moglie e cinque figli, detenuto nel carcere di Kibungo, 100
chilometri da Kigali. E’ lì perché è uno dei miliziani interahamwe hutu, i più feroci, accusati delle
peggiori atrocità (in Rodolfo Casadei – Angelo Ferrari, Rwanda Burundi. Una tragedia infinita
Perché?, Editrice Missionaria Italiana, Bologna 1994).
294
183
uccidere. La regola numero due non c’era. L’organizzazione non era
molto complicata […] Moltissimi non sapevano uccidere, ma questo non
era un problema, perché all’inizio gli Interahamwe arrivavano sugli
autobus dalle colline vicine, a dare manforte. Erano più bravi, più
imperturbabili. Si vedeva che erano più specializzati. Davano consigli su
quali strade prendere e sulle tecniche per colpire. Ci passavano accanto
e gridavano: ‘Fà come me, se ti senti impacciato, chiedi aiuto’.
Approfittavano del tempo libero per iniziare quelli che non sembravano
molto a loro agio nel lavoro delle carneficine” 295.
“All’inizio eravamo troppo eccitati per pensare. Dopo c’eravamo
troppo abituati. Nello stato in cui eravamo, il pensiero che stavamo
facendo a pezzi i nostri vicini, tutti fino all’ultimo, non ci faceva nessun
effetto. Ormai era diventata una cosa normale. Non erano più i nostri
buoni vicini di sempre, quelli che ci passavano la latta di vino al bar;
non lo erano più perché dovevano sparire. Erano diventate persone,
come dire, di cui sbarazzarci. Non erano più quelli di prima, e neanche
noi lo eravamo. Non ci sentivamo a disagio per loro, e nemmeno per il
passato, dato che niente ci metteva più a disagio”296.
“La nostra tragedia ha radici lontane. Non è accaduto tutto
all’improvviso, si sapeva da tempo ciò che sarebbe successo […] La
situazione è semplicemente arrivata al culmine. Un pomeriggio che ero
295
Jean Hatzfeld, “A colpi di machete: la parola agli esecutori del genocidio in Rwanda”, ed.
Bompiani, 2004.
296
“African Rights Résistance au génocide: Bisesero”, avril-juin 1994 in “La radio e il machete” di
Fonju Ndemesah Fausta.
184
con la mamma, mio padre, che lavorava al ministero, è rientrato molto
preoccupato.
[…]
Dovevano
essere
indette
riunioni
per
la
sensibilizzazione per la difesa del potere hutu. Si doveva ripetere e
ripetere che se i Tutsi che erano stati cacciati dal Paese nel ’59 fossero
rientrati avrebbero sterminato tutti gli Hutu. […] Già allora mio padre
aveva avuto dei problemi […] Purtroppo ciò che aveva intuito è andato
oltre ogni previsione. […] Il paese si trovava in una situazione
economica davvero preoccupante. C’erano migliaia di giovani senza
terra né lavoro, senza istruzione, senza avvenire, un ottimo serbatoio per
i reclutatori. […] Con un paio di scarpe e una divisa nuove, magari un
piccolo salario, un’arma e un ideale da difendere, che l’ignoranza
faceva accettare senza la minima idea critica, sentivano di avere
finalmente uno scopo nella vita. […] L’indomani mattina era uscito
come al solito per andare in ufficio, nessuno di noi l’ha più rivisto. Sono
venuti a comunicarci che era rimasto vittima di un incidente d’auto e
sfortunatamente era morto. […] Già da prima molti oppositori o
moderati morivano in incidenti stradali sospetti” 297.
“…Ero immersa in quel magma di gente in fuga, dove per fare
dieci metri ci voleva un’ora. Arrivati alla fatidica sbarra del ponte Kivu
siamo passati sotto la protezione dell’UNHCR e ci hanno avviati nei
campi profughi di Goma. Così ero arrivata in Zaire, non da emigrante,
come progettato, ma da profuga forzata. Al campo, dove mio marito era
riuscito a trovarmi, attraverso le ricerche nei vari altri campi, e a
raggiungermi, non mi sentivo molto al sicuro, avvertivo sempre un alito
297
Ivana Trevisani, “Lo sguardo oltre le Mille Colline. Testimonianze dal genocidio in Rwanda”, ed.
Baldini Castoldi Dalai, Milano 2004.
185
malefico sul collo. La sera passavano tra le tende e ci spaventavano.
Già, ogni sera i miliziani mandati dal Comando giravano tra le tende e
per impaurirci raccontavano cose orribili, soprattutto a noi donne e ai
bambini. […] Ogni sera con il buio mi vedevo davanti agli occhi il
soldato che aveva fatto a pezzi la donna incinta e i tre che mi avevano
spinta e violentata sotto gli alberi, nella brousse. E nel silenzio della
notte risentivo la risata di rabbia del soldato alto e magro, mentre
tagliava con il machete, preso dal cadavere di un fuggiasco, la pancia
della donna che aveva appena violentata ‘Voi Hutu ci avete insegnato
che bisogna uccidere i serpenti con le loro uova’ e con la punta del
fucile tirava fuori il bambino, perché ormai la donna era a tre settimane
dal parto, insieme agli intestini. E tagliava pezzetti di cordone
ombelicale che dava da mangiare alla madre agonizzante” 298.
“…Ancora adesso, anche mentre te lo racconto, non riesco a
pensare come sia possibile poter vivere tranquillamente in una casa
dove un’intera famiglia è stata giustiziata, bere il tè in soggiorno mentre
nel prato davanti alla finestra ci sono nove persone seppellite, nove
persone capisci? Lì. Davanti a te, sotto i tuoi piedi…
E’ triste, ma il mio Paese, il Paese delle Mille Colline, è diventato ‘il
Paese delle montagne di ossa”. Mescolate insieme, senza più carta
d’identità. […] Mi preoccupa invece mio marito, se ne sta rintanato
nella stanza semibuia con una faccia sempre triste, non esce per paura
di essere denunciato da qualcuno […] Io per il momento non riesco
ancora a dormire normalmente, se non per pochissime ore, sono in uno
298
ibidem
186
stato d’allerta costante, ogni rumore dal buio potrebbe essere il segno
che stanno arrivando, che la vendetta è alla porta. Un nostro proverbio
dice che ‘Dio passa la giornata altrove, ma la sera ritorna in Rwanda’,
devo dire che in queste notti non mi sta facendo molta compagnia.
Ma per fortuna la notte finisce e ogni nuovo giorno guardo il mio
bambino e capisco che siamo qui, salvi, se non ho perso il latte e ho
potuto mantenerlo in vita è perché dobbiamo resistere ancora e andare
avanti, non può continuare così, la situazione dovrà cambiare. Per
tutti”299.
“Si chiama Mukandori ed è l’unica persona che è stata ritrovata
“intera”. Nel senso che le sue ossa erano ancora attaccate le une alle
altre quando l’hanno trovata. E’ perciò l’unica persona che ha il
privilegio di riposare nella sua bara di legno, ricoperta dal drappo
bianco e dalla croce, nel sottosuolo della chiesa. Tutte le altre
“persone” sono distribuite in una grande teca di vetro a più piani: i
teschi ad altezza di sguardo, sopra e sotto ossa dello stesso tipo,
allineate, ordinate. I teschi ti raccontano cosa fa un machete quando ti si
abbatte sul cranio, quando ti apre una feritoia perfetta, una linea retta
che ti priva della vita, lì, giusto sulla tua testa”300.
“…Poi salgo le scale per terminare nella sala dei genocidi nella
storia dell’umanità e in quella dei bambini. Trattenete il fiato adesso e
299
300
ibidem
Federica Cecchini, Dalle Colline. Le strade rosse del Rwanda, ed. Dell’Arco, Milano 2007.
187
seguitemi, su questo pavimento di legno tra queste pareti di
gigantografie sorridenti
[…] Non sono molti. Non sono molti qui
rispetto a tutti quelli che sono stati massacrati e mi parlano, ma io non
capisco cosa dicono o forse lo capisco bene e non ce la faccio a
sopportare tutto questo.
[…] “Il Domani Perduto”, così si intitola questa sala.
Ogni gigantografia di bambino è accompagnata da qualche riga che
spiega chi erano queste vittime tra le vittime.
Patrick G. S., cinque anni. Sport preferito: bicicletta. Cibo
preferito: patatine, carne, uova. Amica del cuore: sua sorella.
Comportamento: un bambino tranquillo, beneducato. Causa della
morte: machete.
Thierry I., nove mesi. Bevanda preferita: il latte materno.
Comportamento: piangeva molto. Caratteristiche: un bambino piccolo e
fragilità. Causa della morte: machete tra le braccia di sua madre.
Aurore K., due anni (un angelo, è bellissima). Bevanda preferita:
latte di mucca. Gioco preferito: nascondino con suo fratello più grande.
Comportamento: molto comunicativa. Causa della morte: bruciata viva
nella cappella di Gikondo.
David M., dieci anni. Sport preferito: calcio. Piaceri: fare ridere
le persone. Sogno: diventare un dottore. Ultime parole: “L’UNAMIR
verrà a salvarci”. Causa della morte: torturato a morte.
188
Ariane U., quattro anni. Cibo preferito: dolci. Bevanda preferita:
latte. Comportamento: una bambina molto carina. Causa della morte:
scavata con un coltello negli occhi e in testa.
Due anni, sparo in testa; diciassette anni, ucciso con un machete
nella chiesa di Nyamata; otto anni, machete; sei e sette anni, granata
nella doccia; tre e cinque anni, uccise da un machete a casa della
nonna; quindici mesi, uccisa nella chiesa di Muhoro…
…
Fine della Visita”301.
APPENDICI
301
ibidem
189
Si è scelto di allegare alla ricerca una serie di atti e/o documenti più volte
citati o comunque presi come riferimento nelle pagine precedenti.
Qui di seguito elenchiamo dunque quattro Appendici:
Hutu Power: i Dieci Comandamenti Hutu
Tale documento è considerato la pietra fondante dell’intera ideologia
estremista del Potere hutu. Si è scelto di riportarla in appendice perché
ha avuto un’importanza propria e funzionale alla divulgazione delle tesi
razziste e alla demonizzazione dei nemici tutsi.
Accordo di Pace di Arusha
L’Accordo (o meglio il tentativo) ha rappresentato uno spiraglio di
speranza. Quando ormai la guerra sembrava imminente, Arusha e le
aperture democratiche di Habyarimana hanno illuso la popolazione. Tale
Accordo compare in Appendice per due ragioni: da una parte per
conoscere formalmente quali fossero i termini previsti dall’intesa
(esercito, governo, rifugiati ecc.); dall’altra per confrontare le direttive
dell’Accordo con l’attuale ordine rwandese.
Dichiarazione Universale dei Diritti Umani
La Dichiarazione Universale compare in Appendice perché in totale
disaccordo con le vicissitudini rwandesi. I 30 articoli contrastano
imperativamente con i fatti di sangue raccontati in questo elaborato. E’,
inoltre, interessante paragonare tali articoli alla situazione post-genocidio
e alle violazioni dei diritti che hanno subito (e che in alcuni casi
subiscono ancora) larghe fasce della popolazione per mano del nuovo
governo.
190
Convenzione per la prevenzione e la repressione contro il delitto di
genocidio
La Convenzione riveste un’importanza storica e sociale dovuta anche al
momento storico nel quale è stata stipulata. All’interno di essa troviamo
una definizione ufficiale di genocidio e una classificazione degli atti che
rientrano in tale nomenclatura. Ai fini dell’elaborato, si è scelto di
inserire tale testo in Appendice per confrontare, impietosamente, ciò che
gli Stati propugnano sulla carta e ciò che in concreto succede nella vita, e
nella morte, di tutti i giorni.
APPENDICE N. 1
HUTU POWER: I DIECI COMANDAMENTI HUTU
191
UNO
Ogni hutu deve sapere che una donna tutsi, ovunque lei sia, lavora
nell’interesse del suo gruppo etnico tutsi. Di conseguenza noi
consideriamo traditore qualsiasi hutu che:
-sposi una donna tutsi;
- si leghi d’amicizia con una donna tutsi;
- impieghi una donna tutsi come segretaria o come concubina.
DUE
Ogni hutu deve sapere che le nostre ragazze hutu sono migliori e più
coscienziose nel loro ruolo di donne, mogli, madri. Non sono forse belle,
brave segretarie e più oneste?
TRE
Donne hutu, siate vigili e cercate di ricondurre a ragione mariti, fratelli e
figli.
QUATTRO
Ogni hutu deve sapere che ogni tutsi è disonesto in affari. Il suo unico
obbiettivo è la superiorità del suo gruppo etnico. Di conseguenza è
traditore qualsiasi hutu che faccia le cose seguenti:
- fare affari con un tutsi;
- investire il proprio denaro o il denaro governativo in un’impresa tutsi;
- prestare o prendere in prestito denaro da un tutsi;
- rendere servizio a un tutsi a livello di affari (fargli ottenere licenze di
192
importazione, crediti bancari, agevolarlo nella costruzione di edifici, di
mercati pubblici…)
CINQUE
Tutte le posizioni strategiche, siano esse politiche, amministrative,
economiche, militari o di sicurezza, devono essere affidate a hutu.
SEI
Il settore dell’educazione (allievi, studenti, insegnanti) devono essere
composti in maggioranza da hutu.
SETTE
Le forze armate ruandesi devono essere esclusivamente hutu.
L’esperienza della guerra del 1990 ci ha dato una lezione. Nessun
membro dell’esercito deve sposare una tutsi.
OTTO
Gli hutu devono smettere di avere pietà dei tutsi.
NOVE
Gli hutu, dovunque siano, devono dare prova di unità e solidarietà e
devono sentirsi direttamente toccati dalla sorte dei fratelli hutu
- Gli hutu dentro e fuori il Rwanda devono essere continuamente alla
ricerca di amici e alleati in favore della causa hutu, a cominciare dai
fratelli bantu.
- Devono lottare costantemente contro la propaganda tutsi.
193
- Gli hutu devono essere fermi e vigili nei confronti dei nemici comuni, i
tutsi.
DIECI
La rivoluzione sociale del 1959, il referendum del 1961 e l’ideologia
hutu devono essere insegnati a tutti gli hutu a tutti i livelli. Ognuno deve
diffondere questa ideologia. Ogni hutu che perseguiti il suo fratello hutu
per avere letto, trasmesso o insegnato questa ideologia, è un traditore.
(Apparso sul giornale degli estremisti pro-hutu, “Kangura”, il 10
dicembre 1990) 302
APPENDICE N. 2
302
Tale documento è stato reperito, già tradotto in lingua italiana, su www.benerwanda.org.
194
ACCORDO DI PACE DI ARUSHA
TRA IL GOVERNO DELLA REPUBBLICA DEL RWANDA
E IL FRONTE PATRIOTTICO DEL RWANDA
Il governo della Repubblica del Rwanda da una parte, e il Fronte
Patriottico del Rwanda dall’altra;
Fermamente determinati a cercare una soluzione politica negoziata
alla situazione bellica nella quale è coinvolto il popolo rwandese dal 1º
ottobre 1990;
Considerando e apprezzando gli sforzi congiunti da parte dei Paesi
della regione al fine di aiutare il popolo rwandese a ritrovare la pace;
Riferendosi a questo proposito ai molteplici incontri ad alto livello
organizzati rispettivamente a Mwanza nella Repubblica unita della
Tanzania il 17 ottobre 1990, a Gbadolite nella Repubblica dello Zaire il
26 ottobre 1990, a Goma nella Repubblica dello Zaire il 20 novembre
1990, a Zanzibar nella Repubblica unita della Tanzania il 17 febbraio
1991, a Dar Es-Salaam nella Repubblica unita della Tanzania il 19
febbraio 1991, e dal 5 al 7 marzo 1993;
Considerando che tutti questi incontri avevano lo scopo primario di
stabilizzare il cessate – il fuoco – per permettere di cercare una soluzione
al conflitto tramite negoziati diretti tra le parti;
Visto l’Accordo di cessate-il-fuoco di N’sele del 29 marzo 1991 come
è stato emendato a Gbadolite il 16 settembre 1991 e ad Arusha il 12
luglio 1992;
195
Riaffermando la totale determinazione delle parti al rispetto dei
principi dello Stato di diritto che comprende la democrazia, l’unità
nazionale, il pluralismo, il rispetto delle libertà e dei diritti fondamentali
della persona;
Visto che questi principi costituiscono la base di una pace durevole,
costantemente ricercata dal popolo rwandese, sia dalle attuali
generazioni sia da quelle future;
Visto il Protocollo di intesa relativo allo Stato di diritto firmato ad
Arusha il 18 agosto 1992;
Considerando che il principio di divisione del potere all’interno di un
governo di transizione a base allargata è stato accettato da entrambe le
parti;
Visti i Protocolli di intesa concernenti la divisione del potere firmati
ad Arusha, rispettivamente il 30 ottobre 1992 e il 9 gennaio 1993;
Dal momento che, per mettere fine alla situazione conflittuale che
oppone le due parti, occorre creare un unico Esercito nazionale e una
nuova Gendarmeria nazionale con la fusione delle Forze delle parti in
conflitto;
Visto il Protocollo di intesa relativo alla fusione delle Forze armate
delle due parti firmato ad Arusha il 3 agosto 1993;
Riconoscendo che l’unità del popolo rwandese non può essere
realizzata prescindendo dalla soluzione definitiva del problema dei
rifugiati rwandesi, e che il rientro dei rifugiati rwandesi nel loro Paese è
un diritto inalienabile e costituisce un’occasione di pace, di unità e di
riconciliazione nazionale;
Visto il Protocollo di intesa sul rimpatrio dei rifugiati rwandesi e il
loro re insediamento firmato ad Arusha il 9 giugno 1993;
196
Determinati a rimuovere tutte le cause che sono all’origine di questa
guerra, al fine di concluderla definitivamente;
In conclusione ai negoziati di pace svoltisi ad Arusha (Repubblica
unita della Tanzania) tra il 10 luglio 1992 e il 24 giugno 1993, e a
Kinihira (Repubblica rwandese) dal 19 al 25 luglio 1993, sotto l’egida
del mediatore, sua eccellenza Ali Hassan Mwinyi, presidente della
Repubblica unita della Tanzania; in presenza del rappresentante del
mediatore, sua eccellenza Mobutu Sese Seko, presidente della
Repubblica dello Zaire e degli ambasciatori dei presidenti in carica
dell’OUA, delle loro eccellenze Abdou Diouf, presidente della
Repubblica del Senegal e Hosni Mubarak, presidente della Repubblica
araba d’Egitto; del Segretario generale dell’OUA, dr. Salim Ahmed
Ghali e degli osservatori inviati dalla Germani, Belgio, Burundi, Stati
Uniti d’America, Francia, Nigeria, Uganda, Zimbabwe;
Prendendo a testimone la comunità internazionale;
Le parti convengono sulle seguenti disposizioni:
Articolo 1:
Si pone fine alle ostilità tra il Governo della Repubblica rwandese e il
Fronte patriottico rwandese.
Articolo 2:
Il Governo della Repubblica rwandese e il Fronte patriottico rwandese
firmano il presente Accordo di Pace comprensivo dei seguenti
documenti, come parti integranti;
197
I. L’Accordo di cessate-il-fuoco di N’sele del 29 marzo 1991 tra il
governo della Repubblica rwandese e il Fronte patriottico rwandese,
emendato a Gbadolite il 16 settembre 1991 e ad Arusha il 12 luglio;
II. Il Protocollo d’intesa tra il Governo della Repubblica rwandese e il
Fronte patriottico rwandese relativo allo Stato di diritto, firmato ad
Arusha il 18 agosto 1992;
III. I Protocolli d’intesa tra il Governo della Repubblica rwandese e il
Fronte patriottico rwandese sulla divisione del potere all’interno di un
governo di transizione a base allargata, firmati ad Arusha rispettivamente
il 30 ottobre 1992 e il 9 gennaio 1993;
IV. Il Protocollo d’intesa tra il Governo della Repubblica rwandese e
il Fronte patriottico rwandese sul rimpatrio dei rifugiati rwandesi e il loro
re insediamento, firmato ad Arusha il 9 giugno 1993;
V. Il Protocollo d’intesa tra il Governo della Repubblica rwandese e il
Fronte patriottico rwandese relativo alla fusione delle Forze armate di
entrambe le parti, firmato ad Arusha il 3 agosto 1993.
VI. Il Protocollo d’intesa tra il Governo della Repubblica rwandese e
il Fronte patriottico rwandese firmato ad Arusha, il 3 agosto 1993.
Questi documenti vengono presentati integralmente in allegato.
Articolo 3:
Le due parti concordano che la Costituzione del 10 giugno 1991 e
l’Accordo di pace di Arusha compongano indissolubilmente la legge
fondamentale che reggerà il Paese durante il periodo di transizione,
avendo attenzione alle seguenti disposizioni:
a. I seguenti articoli della Costituzione sono sostituiti dalle
disposizioni dell’Accordo di pace di Arusha relative agli stessi
198
argomenti. Si tratta degli articoli: 34, 35, 38, 39, 40, 41, 42, 43, 44, 45,
46, 47, 48, 49, 50, 51, 52, 54, 55, 56, 57, 58, 59, 60, 63, 65, 66, 67, 68,
70, 71, 73, 74, 75 comma 2, 77 comma 3 e 4, 81, 82, 83, 84, 85, 86, 87,
88 comma 1, 90, 96, 99, 101.
b. In caso di contrasto tra le altre disposizioni della Costituzione e
quelle dell’Accordo di pace, sono prevalenti queste ultime.
c. La Corte costituzionale verifica la conformità delle leggi e dei
decreti-legge alla Legge fondamentale così definita.
Nell’attesa della entrata in vigore della legge sulla Corte suprema, la
Corte costituzionale rimane composta dalla Corte di cassazione e dal
Consiglio di Stato congiunti. La presidenza è assicurata dal presidente
della Corte di cassazione.
Articolo 4:
In caso di contrasto tra le disposizioni della Legge fondamentale e quella
delle altre leggi e regolamenti, prevalgono le disposizioni della Legge
fondamentale.
Articolo 5:
Il Governo della Repubblica rwandese e il Fronte patriottico rwandese si
impegnano ad assicurare il rispetto e l’attuazione del presente Accordo
di pace.
Essi inoltre, si impegnano a promuovere l’unità e la riconciliazione
nazionale.
Articolo 6:
199
Entrambe le parti accettano il signor Twagiramungu Faustin nella carica
di primo ministro del governo di transizione a base allargata, in
conformità agli articoli 6 e 51 del Protocollo di intesa tra il Governo
della Repubblica rwandese e il Fronte patriottico rwandese sulla
divisione del potere nell’ambito di un governo di transizione a base
allargata.
Articolo 7:
Le istituzioni della transizione saranno attivate entro trentasette (37)
giorni dalla firma dell’Accordo di pace.
Articolo 8:
L’attuale governo rimane in carica sino alla sua sostituzione da parte del
governo di transizione a base allargata. Il suo mantenimento tuttavia non
significa che esso possa interferire sul mandato del governo di
transizione a base allargata in corso di formazione;
In nessun caso l’attuale governo potrà prendere delle decisioni che
potrebbero ostacolare l’attuazione del governo di transizione a base
allargata.
Articolo 9:
Il consiglio nazionale per lo sviluppo (CND) rimane in carica sino alla
formazione dell’Assemblea nazionale di transizione.
Tuttavia, a fare data dalla firma dell’Accordo di pace, esso non potrà
emanare leggi.
Articolo 10:
200
Il presente Accordo di pace viene firmato dal presidente della repubblica
rwandese e dal presidente del Fronte patriottico rwandese, in presenza:
- del mediatore, sua eccellenza Ali Hassan Mwinyi, presidente della
Repubblica unita di Tanzania;
- di sua eccellenza Yoweri Kaguta Museveni, presidente della
Repubblica dell’Uganda, Paese osservatore;
- di sua eccellenza Melchior Ndadaye, presidente della Repubblica
del Burundi, Paese osservatore;
- del rappresentante del mediatore, sua eccellenza Faustin Birindwa,
primo ministro della Repubblica dello Zaire;
- del dr. Salim Ahmed Salim, segretario generale dell’OUA;
- del rappresentante del segretario generale delle Nazioni Unite;
- del rappresentante del presidente in carica dell’OUA;
- dei rappresentanti degli altri Paesi osservatori: la Germania, il
Belgio, gli Stati Uniti d’America, la Francia, la Nigeria e lo Zimbabwe;
- delle delegazioni delle due parti;
Articolo 11:
Il presente Accordo di pace entra in vigore il giorno in cui viene firmato
da entrambe le parti.
Redatto a Arusha, il quarto giorno del mese di agosto 1993, in
francese e in inglese, testo originale è quello redatto in lingua francese.
Habyarimana Juvenal
Generale-maggiore, presidente
della Repubblica rwandese
201
Kany Arengwe Alexis
Colonnello, presidente
del Fronte patriottico rwandese
In presenza del mediatore
Ali Hassan Mwinyi
Presidente della Repubblica
Unita di Tanzania
In presenza del rappresentante del
Segretario generale
Delle Nazioni Unite
Vladimir Petrovsky
Segretario generale aggiunto
E direttore generale dell’ufficio
Delle Nazioni Unite a Ginevra
In presenza del segretario
Generale dell’OUA
Dr. Salim Ahmed Salim303
APPENDICE N. 3
303
Il presente documento è stato riportato, in lingua italiana, su Rodolfo Casadei – Angelo Ferrari,
Rwanda Burundi. Una tragedia infinita Perché?, Editrice Missionaria Italiana, Bologna 1994.
202
Il 10 dicembre 1948, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò e proclamò
la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, il cui testo completo è stampato nelle
pagine seguenti. Dopo questa solenne deliberazione, l'Assemblea delle Nazioni Unite
diede istruzioni al Segretario Generale di provvedere a diffondere ampiamente questa
Dichiarazione e, a tal fine, di pubblicarne e distribuirne il testo non soltanto nelle
cinque lingue ufficiali dell'Organizzazione internazionale, ma anche in quante altre
lingue fosse possibile usando ogni mezzo a sua disposizione. Il testo ufficiale della
Dichiarazione è disponibile nelle lingue ufficiali delle Nazioni Unite, cioè cinese,
francese, inglese, russo e spagnolo.
DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI UMANI
Preambolo
Considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri
della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce
il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo;
Considerato che il disconoscimento e il disprezzo dei diritti umani hanno
portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell'umanità, e che
l'avvento di un mondo in cui gli esseri umani godano della libertà di
parola e di credo e della libertà dal timore e dal bisogno è stato
proclamato come la più alta aspirazione dell'uomo;
Considerato che è indispensabile che i diritti umani siano protetti da
norme giuridiche, se si vuole evitare che l'uomo sia costretto a ricorrere,
come ultima istanza, alla ribellione contro la tirannia e l'oppressione;
Considerato che è indispensabile promuovere lo sviluppo di rapporti
amichevoli tra le Nazioni;
203
Considerato che i popoli delle Nazioni Unite hanno riaffermato nello
Statuto la loro fede nei diritti umani fondamentali, nella dignità e nel
valore della persona umana, nell'uguaglianza dei diritti dell'uomo e della
donna, ed hanno deciso di promuovere il progresso sociale e un miglior
tenore di vita in una maggiore libertà;
Considerato che gli Stati membri si sono impegnati a perseguire, in
cooperazione con le Nazioni Unite, il rispetto e l'osservanza universale
dei diritti umani e delle libertà fondamentali;
Considerato che una concezione comune di questi diritti e di questa
libertà è della massima importanza per la piena realizzazione di questi
impegni;
L'ASSEMBLEA GENERALE
proclama
la presente dichiarazione universale dei diritti umani come ideale
comune da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le Nazioni, al fine che
ogni individuo ed ogni organo della società, avendo costantemente
presente questa Dichiarazione, si sforzi di promuovere, con
l'insegnamento e l'educazione, il rispetto di questi diritti e di queste
libertà e di garantirne, mediante misure progressive di carattere
nazionale e internazionale, l'universale ed effettivo riconoscimento e
rispetto tanto fra i popoli degli stessi Stati membri, quanto fra quelli dei
territori sottoposti alla loro giurisdizione.
204
Articolo 1
Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi
sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri
in spirito di fratellanza.
Articolo 2
Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella
presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di
colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro
genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra
condizione. Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello
statuto politico, giuridico o internazionale del paese o del territorio cui
una persona appartiene, sia indipendente, o sottoposto ad
amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi
limitazione di sovranità.
Articolo 3
Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della
propria persona.
Articolo 4
Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù; la
schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma.
205
Articolo 5
Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a
punizione crudeli, inumani o degradanti.
Articolo 6
Ogni individuo ha diritto, in ogni luogo, al riconoscimento della sua
personalità giuridica.
Articolo 7
Tutti sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna
discriminazione, ad una eguale tutela da parte della legge. Tutti hanno
diritto ad una eguale tutela contro ogni discriminazione che violi la
presente Dichiarazione come contro qualsiasi incitamento a tale
discriminazione.
Articolo 8
Ogni individuo ha diritto ad un'effettiva possibilità di ricorso a
competenti tribunali contro atti che violino i diritti fondamentali a lui
riconosciuti dalla costituzione o dalla legge.
Articolo 9
Nessun individuo potrà essere arbitrariamente arrestato, detenuto o
esiliato.
206
Articolo 10
Ogni individuo ha diritto, in posizione di piena uguaglianza, ad una equa
e pubblica udienza davanti ad un tribunale indipendente e imparziale, al
fine della determinazione dei suoi diritti e dei suoi doveri, nonché della
fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta.
Articolo 11
1. Ogni individuo accusato di un reato è presunto innocente sino a
che la sua colpevolezza non sia stata provata legalmente in un
pubblico processo nel quale egli abbia avuto tutte le garanzie
necessarie per la sua difesa.
2. Nessun individuo sarà condannato per un comportamento
commissivo od omissivo che, al momento in cui sia stato
perpetuato, non costituisse reato secondo il diritto interno o
secondo il diritto internazionale. Non potrà del pari essere inflitta
alcuna pena superiore a quella applicabile al momento in cui il
reato sia stato commesso.
Articolo 12
Nessun individuo potrà essere sottoposto ad interferenze arbitrarie nella
sua vita privata, nella sua famiglia, nella sua casa, nella sua
corrispondenza, né a lesione del suo onore e della sua reputazione. Ogni
individuo ha diritto ad essere tutelato dalla legge contro tali interferenze
o lesioni.
207
Articolo 13
1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza
entro i confini di ogni Stato.
2. Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il
proprio, e di ritornare nel proprio paese.
Articolo 14
1. Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi
asilo dalle persecuzioni.
2. Questo diritto non potrà essere invocato qualora l'individuo sia
realmente ricercato per reati non politici o per azioni contrarie ai
fini e ai principi delle Nazioni Unite.
Articolo 15
1. Ogni individuo ha diritto ad una cittadinanza.
2. Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua
cittadinanza, né del diritto di mutare cittadinanza.
Articolo 16
1. Uomini e donne in età adatta hanno il diritto di sposarsi e di
fondare una famiglia, senza alcuna limitazione di razza,
cittadinanza o religione. Essi hanno eguali diritti riguardo al
matrimonio, durante il matrimonio e all'atto del suo scioglimento.
2. Il matrimonio potrà essere concluso soltanto con il libero e pieno
consenso dei futuri coniugi.
208
3. La famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha
diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato.
Articolo 17
1. Ogni individuo ha il diritto ad avere una proprietà sua personale o
in comune con altri.
2. Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua
proprietà.
Articolo 18
Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di
religione; tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di
credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, e sia in
pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo
nell'insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell'osservanza dei riti.
Articolo 19
Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso
il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di
cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo
e senza riguardo a frontiere.
Articolo 20
1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di riunione e di associazione
pacifica.
2. Nessuno può essere costretto a far parte di un'associazione.
209
Articolo 21
1. Ogni individuo ha diritto di partecipare al governo del proprio
paese, sia direttamente, sia attraverso rappresentanti liberamente
scelti.
2. Ogni individuo ha diritto di accedere in condizioni di eguaglianza
ai pubblici impieghi del proprio paese.
3. La volontà popolare è il fondamento dell'autorità del governo; tale
volontà deve essere espressa attraverso periodiche e veritiere
elezioni, effettuate a suffragio universale ed eguale, ed a voto
segreto, o secondo una procedura equivalente di libera votazione.
Articolo 22
Ogni individuo, in quanto membro della società, ha diritto alla sicurezza
sociale, nonché alla realizzazione attraverso lo sforzo nazionale e la
cooperazione internazionale ed in rapporto con l'organizzazione e le
risorse di ogni Stato, dei diritti economici, sociali e culturali
indispensabili alla sua dignità ed al libero sviluppo della sua personalità.
Articolo 23
1. Ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell'impiego,
a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro ed alla protezione
contro la disoccupazione.
2. Ogni individuo, senza discriminazione, ha diritto ad eguale
retribuzione per eguale lavoro.
3. Ogni individuo che lavora ha diritto ad una rimunerazione equa e
soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una
210
esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario,
da altri mezzi di protezione sociale.
4. Ogni individuo ha diritto di fondare dei sindacati e di aderirvi per
la difesa dei propri interessi.
Articolo 24
Ogni individuo ha diritto al riposo ed allo svago, comprendendo in ciò
una ragionevole limitazione delle ore di lavoro e ferie periodiche
retribuite.
Articolo 25
1. Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a
garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con
particolare riguardo all'alimentazione, al vestiario, all'abitazione, e
alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; ed ha diritto alla
sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità,
vedovanza, vecchiaia o in altro caso di perdita di mezzi di
sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà.
2. La maternità e l'infanzia hanno diritto a speciali cure ed assistenza.
Tutti i bambini, nati nel matrimonio o fuori di esso, devono godere
della stessa protezione sociale.
Articolo 26
1. Ogni individuo ha diritto all'istruzione. L'istruzione deve essere
gratuita almeno per quanto riguarda le classi elementari e
fondamentali. L'istruzione elementare deve essere obbligatoria.
L'istruzione tecnica e professionale deve essere messa alla portata
211
di tutti e l'istruzione superiore deve essere egualmente accessibile
a tutti sulla base del merito.
2. L'istruzione deve essere indirizzata al pieno sviluppo della
personalità umana ed al rafforzamento del rispetto dei diritti
umani e delle libertà fondamentali. Essa deve promuovere la
comprensione, la tolleranza, l'amicizia fra tutte le Nazioni, i gruppi
razziali e religiosi, e deve favorire l'opera delle Nazioni Unite per
il mantenimento della pace.
3. I genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere di
istruzione da impartire ai loro figli.
Articolo 27
1. Ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita
culturale della comunità, di godere delle arti e di partecipare al
progresso scientifico ed ai suoi benefici.
2. Ogni individuo ha diritto alla protezione degli interessi morali e
materiali derivanti da ogni produzione scientifica, letteraria e
artistica di cui egli sia autore.
Articolo 28
Ogni individuo ha diritto ad un ordine sociale e internazionale nel quale i
diritti e le libertà enunciati in questa Dichiarazione possano essere
pienamente realizzati.
Articolo 29
1. Ogni individuo ha dei doveri verso la comunità, nella quale
soltanto è possibile il libero e pieno sviluppo della sua personalità.
212
2. Nell'esercizio dei suoi diritti e delle sue libertà, ognuno deve
essere sottoposto soltanto a quelle limitazioni che sono stabilite
dalla legge per assicurare il riconoscimento e il rispetto dei diritti e
delle libertà degli altri e per soddisfare le giuste esigenze della
morale, dell'ordine pubblico e del benessere generale in una
società democratica.
3. Questi diritti e queste libertà non possono in nessun caso essere
esercitati in contrasto con i fini e principi delle Nazioni Unite.
Articolo 30
Nulla nella presente Dichiarazione può essere interpretato nel senso di
implicare un diritto di un qualsiasi Stato, gruppo o persona di esercitare
un'attività o di compiere un atto mirante alla distruzione di alcuno dei
diritti e delle libertà in essa enunciati 304.
APPENDICE N. 4
CONVENZIONE PER LA PREVENZIONE E LA REPRESSIONE
DEL DELITTO DI GENOCIDIO
(New York, 9 dicembre 1948)
Le parti contraenti
304
La Convenzione è stata presa da www.ohcr.org.
213
Considerando che l'assemblea generale delle Nazioni Unite, nella
risoluzione 96 (I) dell'11 dicembre 1946, ha dichiarato che il genocidio è
un crimine di diritto internazionale, contrario allo spirito e ai fini delle
Nazioni Unite e condannato dal mondo civile;
Riconoscendo che il genocidio in tutte le epoche storiche ha inflitto gravi
perdite all'umanità;
Convinte che la cooperazione internazionale è necessaria per liberare
l'umanità da un flagello così odioso;
Convengono quanto segue:
Articolo 1
Le parti contraenti confermano che il genocidio, sia che venga
commesso in tempo di pace sia che venga commesso in tempo di guerra,
è un crimine di diritto internazionale che esse si impegnano a prevenire
ed a punire.
Articolo 2
Nella presente convenzione, per genocidio si intende ciascuno degli atti
seguenti, commessi con l'intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un
gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale:
a. Uccisione di membri del gruppo.
214
b. Lesioni gravi all'integrità fisica o mentale di membri del gruppo.
c. Sottoposizione deliberata del gruppo a condizioni di vita intese a
provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale.
d. Misure miranti ad impedire nascite all'interno del gruppo.
e. Trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro.
Articolo 3
Saranno puniti i seguenti atti:
a. Il genocidio.
b. L'intesa mirante a commettere il genocidio.
c. L'incitamento diretto e pubblico a commettere genocidio.
d. Il tentativo di genocidio.
e. La complicità nel genocidio
Articolo 4
215
Le persone che commettono il genocidio o uno degli atti elencati
nell'articolo 3 saranno punite, sia che rivestano la qualità di governanti
costituzionalmente responsabili o che siano funzionari pubblici o
individui privati.
Articolo 5
Le Parti contraenti si impegnano ad emanare, in conformità alle loro
rispettive Costituzioni, le leggi necessarie per dare attuazione alle
disposizioni della presente convenzione e in particolare a prevedere
sanzioni penali efficaci per le persone colpevoli di genocidio o di uno
degli altri atti elencati nell'articolo 3.
Articolo 6
Le persone accusate di genocidio o di uno degli altri atti elencati
nell'articolo 3 saranno processate dai tribunali competenti dello stato nel
cui territorio l'atto sia stato commesso, o dal tribunale penale
internazionale competente rispetto a quelle Parti contraenti che ne
abbiano riconosciuto la giurisdizione.
Articolo 7
Il genocidio e gli altri atti elencati nell'articolo 3 non saranno considerati
come reati politici ai fini dell'estradizione.
Le Parti contraenti si impegnano in tali casi ad accordare l'estradizione in
conformità alle loro leggi ed ai trattati in vigore.
Articolo 8
216
Ogni Parte contraente può invitare gli organi competenti delle Nazioni
Unite a prendere, ai sensi della Carta delle Nazioni Unite, ogni misura
che essi giudichino appropriata ai fini della prevenzione e della
repressione degli atti di genocidio o di uno qualsiasi degli altri atti
elencati nell'articolo 3.
Articolo 9
Le controversie tra le Parti contraenti, relative all'interpretazione,
all'applicazione o all'esecuzione della presente Convenzione, comprese
quelle relative alla responsabilità di uno Stato per atti di genocidio o per
uno degli altri atti elencati nell'articolo 3, saranno sottoposte alla Corte
Internazionale di Giustizia, su richiesta di una delle parti alla
controversia.
Articolo 10
La presente Convenzione, di cui i testi cinese, inglese, francese, russo, e
spagnolo fanno ugualmente fede, porterà la data del 9 dicembre 1948.
Articolo 11
La presente Convenzione sarà aperta fino al 31 dicembre 1949 alla firma
da parte di ogni Membro delle Nazioni Unite e di ogni Stato non
Membro al quale l'assemblea generale abbia rivolto un invito a tal fine.
La presente convenzione sarà ratificata e gli strumenti di ratifica saranno
depositati presso il Segretario Generale delle Nazioni Unite.
217
Articolo 12
Ogni parte contraente potrà, in qualsiasi momento, mediante
notificazione indirizzata al Segretario Generale delle Nazioni Unite,
estendere l'applicazione della seguente Convenzione a tutti i territori o ad
uno qualsiasi dei territori dei quali è responsabile dei rapporti con
l'estero.
Articolo 13
Nel giorno in cui i primi 20 strumenti di ratifica o di adesione saranno
stati depositati, il Segretario Generale ne redigerà un processo verbale e
trasmetterà una copia di esso a ciascuno Stato Membro delle Nazioni
Unite e a ciascuno degli Stati non membri previsti nell'articolo 11.
La presente Convenzione entrerà in vigore il novantesimo giorno
successivo alla data del deposito del ventesimo strumento di ratifica o di
adesione.
Qualsiasi ratifica o adesione effettuata posteriormente a quest'ultima data
avrà effetto il novantesimo giorno successivo al deposito dello strumento
di ratifica o di adesione.
Articolo14
La presente Convenzione avrà una durata di 10 anni a partire dalla data
della sua entrata in vigore.
In seguito essa rimarrà in vigore per successivi cinque anni fra quelle
Parti contraenti che non l'avranno denunciata almeno sei mesi prima
della scadenza del termine.
218
La denuncia sarà effettuata mediante comunicazione scritta indirizzata al
Segretario Generale delle Nazioni Unite.
Articolo 15
Se, in conseguenza di denunce, il numero delle Parti alla presente
Convenzione diverrà inferiore a sedici, la convenzione cesserà di essere
in vigore dalla data in cui l'ultima di tali denunce avrà efficacia.
Articolo 16
Una domanda di revisione della presente Convenzione potrà essere
formulata in qualsiasi momento da qualsiasi Parte contraente, mediante
comunicazione scritta indirizzata al Segretario Generale.
L'Assemblea generale deciderà le misure da adottare, se del caso, in
ordine a tale domanda.
Articolo 17
Il Segretario Generale delle Nazioni Unite notificherà a tutti i membri
delle Nazioni Unite e agli Stati non membri previsti dall'articolo 11:
a. Le firme, ratifiche ed adesioni ricevute in applicazione
dell'articolo 11.
b. Le notificazioni ricevute in applicazione dell'articolo 12.
c. La data in cui la presente Convenzione entrerà in vigore, in
applicazione dell'articolo 13.
219
d. Le denunce ricevute in applicazione dell'articolo 14.
e. L'abrogazione della convenzione, in applicazione dell'articolo 15.
f. Le comunicazioni ricevute in applicazione dell'articolo 16.
Articolo 18
L'originale della presente Convenzione sarà depositato negli archivi
delle Nazioni Unite.
Una copia certificata conforme sarà inviata a tutti gli Stati Membri
delle Nazioni Unite e a tutti gli Stati non membri previsti dall'articolo
11.
Articolo 19
La presente Convenzione sarà registrata dal Segretario Generale delle
Nazioni Unite alla data della sua entrata in vigore 305.
Glossario
Abiiru: “uomini dei segreti reali”, sono i consiglieri del re nel periodo
precoloniale. A loro erano attribuiti poteri soprannaturali. Spettava a loro
305
Il testo completo della Convenzione è stato raccolto su www.studiperlapace.it.
220
stabilire i principi attraverso i quali il re avrebbe dovuto governare per il
benessere della comunità.
Akazu: “la piccola casa”, nel Rwanda precoloniale era il nome dato alla
corte reale. Dal 1985 viene usato per indicare l’entourage di
Habyarimana, in particolare sua moglie e i suoi parenti più stretti. In
pratica era il Consiglio ufficioso del Presidente.
Banyanduga: “originari del centro del paese”.
Banyarwanda: sono gli abitanti del Rwanda.
Bakiga: “originari della regione del Rukiga”, sono gli abitanti del nord.
Fra questi, la componente hutu rimase indipendente fino agli anni ’20
quando fu sconfitta da truppe alleate di colonizzatori belgi e Tutsi del
nord.
Batutsi: la maniera di riferirsi a un gruppo di Tutsi in Kinyarwanda.
Nella lingua italiana il termine diverrà Vatussi. Il prefisso “Ba” sta a
indicare il plurale.
Bm: Banca mondiale
CDR: “Coalition pour la Défense de la République”, partito estremista
fondato nel 1992
Clan: l’appartenenza ad esso è determinata da un antenato comune,
spesso una figura mitica. Il carattere mitico del clan viene accentuato
dalla presenza di un totem, animale o altro elemento naturale associato al
capostipite del clan.
Dieci Comandamenti Hutu: pubblicato nel dicembre 1990 dal
periodico Kangura. Si invitano gli Hutu a non sposare donne Tutsi, a non
intrattenere relazioni con i Tutsi ecc. Questo manifesto divenne sempre
più popolare fino ad esplodere nel 1994.
221
FAO: Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e
l’agricoltura.
FAR: Forces Armées Rwandaises, esercito rwandese.
FMI: Fondo Monetario Internazionale.
Gacaca: sono i tribunali tradizionali. Dopo il genocidio sono stati
riabilitati per facilitare e velocizzare i processi dei numerosi imputati.
Gp: Garde Présidentielle, esercito a difesa del Presidente Habyarimana.
Gutema: verbo che si traduce con “tagliare” ma che durante il genocidio
assunse il significato di uccidere.
Ibyitso: “complice”, nome dato dagli estremisti ai Tutsi residenti in
Rwanda e agli Hutu moderati e. più in generale, a tutti coloro che si
opponevano all’ideologia della superiorità razziale hutu.
Imana: divinità rwandese.
Indirect Rule: sistema di governo e amministrazione coloniale
tipicamente britannico, dove il governo coloniale si occupava dei
problemi di gestione delle risorse mentre quello indigeno si fondava sui
collegamenti con le autorità autoctone.
Ingoma: tamburo.
Inkotanyi: “i rudi combattenti”, nome dato dal FPR ai propri
combattenti. Era., in epoca monarchica, il nome di uno dei battaglioni
reali.
Interahamwe: “coloro che lavorano insieme”, componente più giovane
della milizia del MRND. Erano addestrate dall’esercito rwandese ma
talvolta anche da soldati francesi. Può essere considerata il principale
organo responsabile del genocidio.
222
Inyenzi: “scarafaggi”, era l’appellativo con cui venivano i Tutsi che,
dopo la Rivoluzione del 1959, si erano rifugiati nei paesi limitrofi,
soprattutto in Uganda.
Karinga: tamburo dinastico per eccellenza.
Kinyarwanda: lingua parlata dai rwandesi, sia Hutu che Tutsi. Lo stesso
idioma viene utilizzato in altre zone della Regione dei Grandi Laghi.
Lignaggio: segmento del clan che si forma sulla realtà storica di
parentela.
Mdr: Mouvement Démocratique Républicain, principale partito
dell’opposizione negli anni ’90.
Mdr-Parmehutu: Mouvement Démocratique Rwandais / Parti du
Mouvement e de l’Emancipation Hutu, movimento fondato dal
Presidente Kayibanda diventa partito unico nel 1966.
Mito hamitico: teoria che ipotizza una supposta e mai scientificamente
provata origine etiopica della popolazione Tutsi, che sarebbe giunta in
Rwanda come conquistatrice, asservendo gli agricoltori Hutu.
Mrnd: Mouvement Révotionnaire National pour le Développement,
partito unico fondato da Habyarimana nel 1974.
Mututsi: modo di riferirsi a un individuo Tutsi in Kinyarwanda. Il
prefisso “Mu” sta a indicare il singolare.
Muzungu: parola swahili per indicare l’”uomo bianco”.
Mwami: il re, di origine divina, nel periodo precoloniale e coloniale.
Operation Noirot: operazione francese lanciata per venire in aiuto al
Presidente Habyarimana dopo l’invasione da nord del RPF nel 1990.
Operation Turquoise: operazione militare francese in Rwanda. Diverse
voci si contrastano a proposito: secondo alcuni tale missione ha protetto
223
l’esodo degli Hutu; secondo altri è servita per rafforzare il prestigio e
l’immagine a livello internazionale della Francia.
RDC: Repubblica Democratica del Congo.
RPF: Rwandan Patriotic Front, movimento militare nato sul finire degli
anni ’80 nelle foreste ugandesi tra i profughi Tutsi rwandesi e mercenari
locali. Sotto la guida di Paul Kagame riuscì a fermare il genocidio e a
prendere Kigali nell’estate del 1994.
RTLM: Radio Télévision Libre des Mille Collines.
Rukiga: regione del Rwanda settentrionale alla frontiera con l’Uganda.
Tpir: tribunale penale internazionale per il Rwanda. Istituito dalle
Nazioni Unite per giudicare gli organizzatori del genocidio. Il tribunale
ha sede ad Arusha, in Tanzania.
Twa: i pigmei, o popolo della foresta. Costituiscono circa l’1% della
popolazione e nel corso dei secoli sono stati considerati una razza
arretrata.
Ubuhake: forma di contratto, rapporto di clientela fra due o più persone.
Attraverso questo sistema un padrone cedeva l’uso del bestiame a un
cliente, coinvolgendo così soprattutto famiglie che non possedevano
bestiame.
Umuganda: istituzione nata nel 1974, consisteva in un lavoro gratutito
imposto agli agricoltori.
UNAMIR: United Nations Assistance Mission for Rwanda, inviata nel
1993 in Rwanda per sovrintendere gli accordi di pace tra il governo e il
Fronte Patriottico.
UNHCR: Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati.
UNOMUR: United Nations Observer Mission Uganda – Rwanda,
missione di osservazione delle Nazioni Unite in Uganda e Rwanda.
224
Ringraziamenti
225
“La felicità è reale
solo quando condivisa” 306
Nelle mie intenzioni questa sarebbe dovuta essere la pagina da
scrivere in maggior scioltezza ma in realtà la stesura dei cosiddetti
ringraziamenti da un lato mi emoziona e dall’altro mi cala addosso il
peso della responsabilità: e se dimenticassi qualcuno?
Comincio per cui ringraziando tutti coloro che non compariranno
in questo breve ma intenso elenco.
Un ringraziamento doveroso alla professoressa Pia Angerame per
avermi accompagnato in questo percorso concedendomi un’ampia
libertà di ricerca che mi ha permesso di realizzare, nel modo più
congeniale, questo lavoro.
Vorrei ringraziare le innumerevoli persone incontrate nel corso di
questa vita universitaria, ognuna delle quali, mi ha lasciato un ricordo:
Mattia, Alessandro, Elisa, Marco, Flavia, Andrea, Silvia, Michele, Rita,
Sante, i tesisti, i borsisti, le signore Daniela e Domenica e molti altri.
Un ringraziamento alle numerose associazioni che spendono i
loro soldi e il loro tempo per il Rwanda: Komera Rwanda, Benerwanda,
Umudufu, Progetto Rwanda e molte altre. A loro va la mia stima. A
proposito di associazioni, non posso non spendere due parole per Amka
306
Citazione tratta dal film “Into the wild”.
226
Onlus che mi ha permesso di mettere piede nel Continente Nero donando
alla mia indagine la giusta empatia verso il Rwanda e verso l’intera
terra rossa africana.
Devo ma soprattutto voglio ringraziare i miei familiari, in
particolare mamma e papà, che mi hanno supportato e sopportato in
questi lunghi anni di studio. E’ grazie ai loro sacrifici che ho potuto
coronare, nel migliore dei modi, questo cammino.
Un pensiero di cuore per quelle persone che oggi non possono
essere qui per condividere con me questo giorno ma che porto sempre
gelosamente dentro.
Un grazie speciale ai miei amici. Quelli di sempre: Mario, Luca,
Ghelo, Maga, Ferdi, Umberto, Ezio e Ilio. Che, a modo loro, mi hanno
offerto quella serenità senza la quale questa e altre esperienze non
avrebbero avuto lo stesso sapore.
Un ringraziamento a Martina che, durante questo viaggio, c’è
sempre stata.
Bibliografia
227
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1995
 Rwanda: la lista del console, documentario, produzione
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232
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233

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