L`idea di sostenibilità in architettura
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L`idea di sostenibilità in architettura
Politecnico di Torino Dottorato in Architettura e Progettazione Edilizia XXIV ciclo L’idea di sostenibilità in architettura Natura, tecnologia, democratizzazione Auto-definizioni architettoniche Indice INTRODUZIONE _L’ipotesi costruttiva_Le mappe bibliografiche_Le idee chiave_La struttura della ricerca_Gli esiti della ricerca LA STORIA DELLA SOSTENIBILITA’ IN ARCHITTTURA Michela Penna _Le origini del progetto sostenibile _Le tre fasi del progetto sostenibile _I primi passi dell’architettura sostenibile: la protezione ambientale fra regolamentazione e controllo (1970-1990)_La formalizzazione: una fase ponte fra riforme e flessibilità (1980-2000)_La natura globale del concetto: verso comunità sostenibili (1990-2010) NATURA Architettura e ecologia _La deformazione antropocentrica e le origini illegittime del pensiero ambientalista_I ripensamenti moderni. La natura come fonte di integrità_Gli esordi dell’etica ambientale. Visioni architettoniche_Il superamento della crisi energetica. Trascrizioni verdi_Il ruolo sociale dell’ecologia. Declinazioni locali come soluzioni quotidiane_L’idea di autosostenibilità. Declinazioni rigenerative. TECNOLOGIA Architettura e economia _Dall’ecologia all’economia. Visioni riformiste _Economia ecologica. Visioni frugali_Biodeiversità. Trascrizioni locali_Identità e sviluppo. Declinazioni politiche. DEMOCRATIZZAZIONE Architettura e processi decisionali _Contro gli autoritarismi. Le complessità e il conflitto in architettura_L’approccio ideologico. Visioni educatrici_L’approccio pragmatico. Visioni esplorative_La mediazione. Trascrizioni istituzionali_Il processo di empowerment. Declinazioni sociali_Il progetto come ‘Trading Zone’ per la costruzione di immagini condivise AUTODEFINIZIONI ARCHITETTONICHE Visioni, trascrizioni, declinazioni ANTOLOGIA Natura _Paolo Soleri. Arcology: the city in the image of man_Richard Buckminster Fuller. Operating Manual for Spaceship Earth_Emilio Ambasz. Architettura e Natura/Design & Artificio_James Wines. Ventidue domande a James Wines president of SITE_Ugo Sasso. Quarantasette domande a Ugo Sasso. Speciale bioarchitettura_Sim Van der Ryn. Design for life_Renzo Piano. Giornale di bordo. Nouméa 1991_Jan Kaplinky. Green Questionnaire_Ken Yeang. The Green Skyscraper_Agance Babylone. Natura Attiva Tecnologia _Richard Buckminster Fuller. Approaching the benign environment_ Paolo Soleri. Technology and cosmogenesis_Hassan Fathy. Architecture for the Poor_Yona Friedman. L’architettura di sopravvivenza_Fabrizio Carola. Antiche tecnologie per una nuova architettura_Renzo Piano. La responsabilità dell’architetto_Thomas Herzog. Solar Energy in the architecture and urban planning_Stefan Benisch. Benisch, Behnisch & Partner_Samuel Mockbee. University-community design partnership: innovation in practice_Hermann Kaufmann Democratizzazione _Giancarlo De Carlo. La piramide rovesciata_Ralph Erskine. Architettura di bricolage e partecipazione_Lucien Kroll. Ecologie urbane_Renzo Piano. Giornale di bordo. Otranto 1978_Balkrishna Doshi_Peter Hübner. Building as a social process_Carin smuts. Architecture as empowerment_Diebedo Francis Kéré. Fare architettura in Africa_Alejandro Aravena. Elemental_Giancarlo Mazzanti. L’architettura nella trasformazione sociale di Medellin GLOSSARIO INDICE DEGLI ARTICOLI BIBLIOGRAFIA Introduzione L’ipotesi costitutiva La ricerca muove da una constatazione apparentemente oggettiva: il forte impatto dell’idea di sostenibilità sulla disciplina architettonica e urbana. I centinaia di testi pubblicati al riguardo, ma anche l’istituzione di nuovi corsi di laurea e la nascita o il rinnovamento di diverse riviste sviluppatesi proprio attorno al tema a partire dagli anni della sua formalizzazione - intorno agli anni ottanta rappresentano infatti una prova chiara del profondo interesse rivolto all’idea. Ma quali sono i significati, le questioni e i valori impliciti nel termine? E, soprattutto, le sue reali implicazioni sulla cultura del progetto? La necessità di rispondere a queste domande rappresenta l’ipotesi costitutiva della ricerca il cui obiettivo è quello di indagare l’idea di sostenibilità come paradigma culturale - e quindi le relazioni tra filosofie politiche e filosofie progettuali da essa innestate o innestabili - per provare a verificarne l’affidabilità progettuale. E’ cioè possibile partire da questo concetto per definire un quadro di temi progettuali rinnovato capace di rispondere alle nuove condizioni strutturali del territorio? Un insieme di prefigurazioni formali in grado di orientare strategie di sviluppo innovative per una società profondamente in crisi? Le mappe bibliografiche La storia imprescindibilmente interdisciplinare del concetto di sostenibilità ha richiesto alla ricerca di prendere avvio da un’indagine esterna al campo prettamente progettuale. A partire da alcuni testi sulle origini, sulla storia e sulla critica dell’idea (cfr. Bibliografia 1), ma anche dall’analisi degli eventi storici più influenti, delle conferenze tenutesi sul tema e delle politiche nazionali e internazionali (cfr. Bibliografia 4), si è quindi provato ad indagare il dibattito etico e filosofico sviluppatosi intorno alla stessa e ad individuarne i contributi fondanti. Ambiti apparentemente distanti come quelli delle filosofie ambientali (cfr. Bibliografia 5.1), dell’economia ecologica (cfr. Bibliografia 5.2), delle riflessioni epistemologiche e della critica al paradigma moderno (cfr. Bibliografia 5.3) oltre che delle teorie sociologiche (cfr. Bibliografia 5.4) sono stati analizzati mediante fonti dirette ed indirette con la volontà di costruire una mappa bibliografica interdisciplinare sull’idea di sostenibilità mediante la quale definire un quadro complessivo delle questioni e dei valori propri della nuova matrice semantica richiesta dalla stessa. Per poi domandarsi quali di questi fossero stati introdotti anche in ambito architettonico. Il passaggio dall’ambito di indagine più generale - l’idea di sostenibilità - a quello più disciplinare – l’idea di progetto sostenibile - non è tuttavia stato né semplice né scontato. Verificando lo stato dell’arte della letteratura presente sul tema (cfr. Bibliografia 2), è infatti immediatamente possibile capire che i contributi che provano a tracciare i tratti della filosofia dell’architettura sostenibile, a ricostruirne le origini e la storia sono veramente limitati: invece di provare ad esaminare le filosofie progettuali definitesi attorno al tema e cercare di intrecciarle all’interno delle filosofie politiche internazionali, molti autori preferiscono calarsi sul piano tecnico e operativo definendo un proprio elenco di ‘caratteristiche sostenibili’ da applicare al progetto o fornendo liste di ‘architetture sostenibili’ senza procurare alcuna indicazione rispetto al processo progettuale che le ha generate. Per ovviare a questa lacuna, si è quindi sviluppata un’indagine sulle riviste di architettura più diffuse a livello internazionale. Grazie al motore di ricerca ‘Avery Index’ sono stati individuati gli oltre cinquemila articoli pubblicati sul tema ‘sostenibilità’ o ‘sostenibile’ dagli anni Ottanta al 2011, e, mediante la loro analisi, si è provato a definire il quadro teorico mancante. Un importante lavoro di classificazione ha reso possibile ricavare non solo dati quantitativi significativi come base per la ricerca, ma soprattutto una mappa bibliografica disciplinare sull’idea del progetto sostenibile che ha fornito informazioni centrali rispetto ai temi e ai protagonisti riconosciuti come tali all’interno del dibattito sullo stesso. Sovrapponendo le due mappe bibliografiche è infatti stato possibile provare a costruire una storia disincantata dell’idea di architettura sostenibile nel suo complesso, individuandone l’origine e le possibili fasi di sviluppo. In particolare, il confronto costante della mappa disciplinare con il panorama politico e culturale internazionale ha reso possibile l’identificazione di tre possibili ondate del progetto sostenibile (Longhi; 2004); tre fasi cioè, che, pur sovrapponendosi e confondendosi, si distinguono chiaramente per il loro modo di interpretare il tema della sostenibilità e, di conseguenza, per le strategie e gli strumenti politici, ma anche progettuali, utilizzati per indirizzare la questione. Cambiamenti generali e complessi, per i quali risultava però molto problematica sia l’individuazione delle possibili ricadute progettuali sulle retoriche, ma anche sulla strutturazione e sulla morfologia del territorio, sia la costruzione di strategie e scenari concreti sui quali fondare nuovi processi di sviluppo dello stesso. Le idee chiave Per questo motivo si è deciso di provare a rielaborare la mappa bibliografica disciplinare ottenuta precedentemente nel tentativo di superare, almeno temporaneamente, la complessità e la superficialità del quadro generale provando ad individuare le questioni chiave con le quali fosse possibile ricostruire più nello specifico l’introduzione e la trasformazione del dibattito sulla sostenibilità in ambito architettonico e soprattutto le sue ricadute. La sovrapposizione delle due mappe sotto questo punto di vista ha infatti fatto emergere con evidenza il continuo confronto - all’interno del dibattito - dell’architettura con altre discipline profondamente coinvolte dallo stesso. Un confronto che può certamente essere individuato come uno degli stimoli principali per la trasformazione semantica di alcune idee certamente centrali per il tema: è infatti a partire dal dialogo dell’architettura con l’ecologia e con le filosofie ambientali che l’idea di natura si trasforma, è l’emergere di nuove teorie economiche ad aprire una riflessione profonda sulla tecnologia e il suo ruolo, così come sono le riflessioni e gli studi sui modelli decisionali a sviluppare e trasformare l’idea di democratizzazione del processo progettuale. In questo senso, la ricerca ha quindi provato a stringere l’ampio campo del dibattito facendo emergere dalle mappe generali dei percorsi bibliografici specifici inerenti le singole parole-chiave: sono state individuate le figure e le posizioni più significative - esterne ed interne al nostro ambito disciplinare – rispetto alle idee di natura, tecnologia e democratizzazione e su queste, in seguito ad approfondimenti bibliografici mirati (cfr. Bibliografia 9), si è provato a tracciarne la storia, le metamorfosi semantiche e le relative conseguenze progettuali. La struttura della ricerca La volontà di individuare le metamorfosi semantiche indotte dalle costruzioni culturali definite dall’idea di sostenibilità ha ovviamente implicato un’analisi approfondita non tanto dei singoli progetti trattati, quanto degli scritti e delle retoriche proposte dalle figure ritenute significative per ciascun tema. Vista quindi l’ampia quantità di materiale raccolto, ma anche l’intenzione di proporne una rilettura critica e non diretta, in fase di stesura della tesi si è deciso di dividere il lavoro in due parti: un primo volume sarà appunto dedicato ai saggi, mentre una sorta di antologia dei casi trattati costituirà il secondo volume. La prima sezione della ricerca sarà quindi composta da cinque capitoli: un primo saggio introduttivo cornice di riferimento per le parti successive - sull’idea di sostenibilità in architettura, i tre saggi specifici relativi alle idee di natura, tecnologia e democratizzazione e un ultimo saggio conclusivo nel quale, ripercorrendo trasversalmente i capitoli centrali, si proverà a rispondere alle questioni da cui muove la ricerca, tornando alla visione complessiva e complessa richiesta dal tema. La seconda sezione, invece, sarà composta da schede di approfondimento sulle figure le cui retoriche progettuali sono scelte – non per imposizioni cronologiche o geografiche, ma solo per la significatività delle loro posizioni - per la costruzione dei saggi. Esse conterranno una breve descrizione introduttiva del progettista seguita da una raccolta di testi - estrapolati da sue pubblicazioni, relazioni progettuali o interviste - capaci di restituire una posizione chiara dello stesso rispetto ad una o più delle idee chiamate in questione. In entrambe le parti, l’obiettivo è quello di mettere in evidenza, in un continuo confronto spaziale e temporale, le costruzioni culturali delineate spesso in modo tutt’altro che lineare dai singoli casi, provando ad evitare ricadute tautologiche del racconto e ad ipotizzare un suo possibile sviluppo. Sviluppo spesso stimolato, ancora una volta, da riferimenti esterni dallo specifico campo disciplinare dell’architettura. Gli esiti della ricerca Come affermato sin dal principio l’obiettivo della ricerca è quello di provare a costruire la storia di un’idea di cui negli ultimi quarant’anni il nostro ambito disciplinare ha certamente abusato, svuotandola dei suoi contenuti. In questo senso, i saggi prodotti dalla ricerca, così come le mappe bibliografiche e la piccola antologia dalle quali essi si sviluppano, sperano di rappresentare già in se stessi un risultato importante: un primo tentativo di andare a colmare quel silenzio della teoria molte volte denunciato ma mai affrontato. Una prima analisi sistematica e organica delle filosofie progettuali definitesi attorno al tema sulla quale riflettere. Detto questo, la ricerca intende però provare a chiudersi anche con una riflessione sulla reale portata innovativa dell’idea di sostenibilità in ambito architettonico. In questo forte momento di crisi globale e di ridefinizione degli assetti del territorio, siamo cioè in presenza di una nozione di portata ‘rivoluzionaria’ finalmente capace di restituire all’architettura un pregnante ruolo civico e politico, oppure di una sorta di meccanismo di aggiustamento del tutto interno alle concezioni più tradizionali dello sviluppo socio-economico? Nonostante sia certamente impossibile immaginare un’acquisizione della definizione più radicale e innovativa dell’idea da parte delle politiche internazionali senza un’‘antropizzazione’ della stessa, tuttavia gli scenari proposti dai capitoli sulle singole idee, così come i continui rimandi interni agli stessi, mettono in evidenza una serie di prospettive comuni che potrebbero diventare la base proprio per un’agenda di nuovi indirizzi progettuali in grado di orientare nuovi scenari di sviluppo. Prospettive rinnovate e strategie utili nell’indirizzare lo ‘spirito’ della ricerca progettuale verso la definizione di una migliore qualità sociale e di stili di vita capaci di rispondere alle nuove condizioni generali, con forti ricadute potenziali sia sulle retoriche di progetto che sulla strutturazione e sulla morfologia del territorio. In una prospettiva nella quale il principale esito della ricerca potrebbe consistere nell’individuazione di uno scarto metodologico piuttosto dirompente rispetto alle riflessioni e alle pratiche attuali. La storia della sostenibilità in architettura Fase 0_Le origini del progetto sostenibile Per molte persone il movimento dell’architettura sostenibile è iniziato nei primi anni Settanta come risposta alla crisi petrolifera, per altri è iniziato un decennio prima con la pubblicazione del testo Silent Spring, il testo di Rachel Carson che per molti ha dato avvio al più vasto movimento ambientale moderno. Altri ancora credono che le vere radici dell’architettura sostenibile possano essere trovate molto molto prima, nelle forme dell’architettura vernacolare sparsa in tutto il mondo. La verità è che, per certi versi, tutte queste posizioni sono corrette. Per diverse ragioni. Innanzi tutto perché, come sottolineato da Jason McLennan, nessun “movimento” ha solo un punto di inizio, ma la definizione di ogni idea avviene grazie a molti processi di causa ed effetto, di azione e reazione, di nessi e connessioni che spesso scorrono nei secoli e poi perché, entrando nello specifico del tema, la comparsa dell’ecologia all’interno del discorso sull’architettura si basa su paradosso storico effettivamente presente da sempre. E cioè che l’architettura esiste principalmente in quanto lotta contro i fenomeni naturali e, quindi, da sempre, ha dovuto fare i conti con lo spostamento dei rapporti fra uomo e ambiente da essa stessa determinati. La verità, dunque, è che la cosiddetta architettura sostenibile, se intesa in senso lato, ha avuto molti inizi e la sua storia può andare indietro più di quanto non si possa ricordare. Il problema è però capirne l’evoluzione storica e distinguerne i significati nelle sue diverse fasi per capire quale sia quello che ci interessa realmente. Se è, infatti, vero che è possibile individuare un inizio biologico per il progetto sostenibile dovuto appunto al fatto che da sempre l’uomo ha alterato l’ambiente per crearsi un confort ambientale ideale, oppure un inizio coincidente con la comparsa delle molteplici architetture vernacolari che, sparse in tutto il mondo, in fondo consideravano già idee vicine alla nozione di sostenibilità come quella del regionalismo, dello sfruttamento dell’apporto solare e delle biomasse e del bio-mimetismo, o ancora un terzo inizio risalente all’era industriale, quando molti problemi ambientali iniziarono ad emergere e molte persone cominciarono a prenderne atto iniziando a comprendere la connessione fra le attività moderne e la salute delle persone e dell’ambiente, è giusto dire che tutti questi inizi hanno sì introdotto molte strategie e processi propri del progetto sostenibile, ma mai considerando le ragioni e la reale complessità della filosofia che ne stanno dietro. Già la maggior parte delle culture preindustriali, per esempio, nell’atto di insediarsi faticavano duramente per cercare di stabilire un equilibrio fra l’ambiente costruito e quello naturale ma esse non stavano certo cercando di realizzare un’architettura sostenibile: stavano semplicemente tentando di definire delle condizioni di confort attraverso gli strumenti e le tecnologie che avevano a disposizione, probabilmente incuranti del legame esistente fra le loro azioni e i problemi ambientali globali. Leggermente diverso, invece, è il discorso relativo alla seconda parte dell’Ottocento e la prima parte del Novecento. Nei centocinquanta anni che in qualche modo precedettero l’ingresso ufficiale dell’ecologia nell’arena politica iniziarono infatti a delinearsi delle posizioni molto più consapevoli rispetto al problema. Ripercorrendo velocemente la storia, già nel 1849 Henry David Thoureau, naturalista dilettante, pubblicò il testo La disobbedienza civile nel quale appariva, forse per la prima volta, una nuova sensibilità nei confronti della natura che in qualche modo negava la visione antropocentrica del mondo insita nella cultura occidentale. Dopo di lui molti altri personaggi si avvicinarono al tema e nel decennio successivo al 1860 fecero il loro ingresso nel vocabolario scientifico e sociale due termini poi diventati fondamentali per la definizione del concetto di sostenibilità: entropia e ecologia. In particolare il primo venne coniato nel 1862 dal fisico tedesco Rudolph Clausius per definire la dispersione di materia ed energia in funzione della seconda legge della termodinamica, mentre il secondo venne coniato quattro anni dopo dallo zoologo tedesco Ernst Haeckel con la volontà di designare la teoria che in natura tutto è interconnesso. Una visione che indebolì ulteriormente l’antropocentrismo, degradando gli umani a una specie fra le tante altre e che iniziò ad esercitare un’evidente influenza sulla politica, sull’economia, ma anche sull’arte e sull’architettura. Le forme organiche dell’Art Nouveaux, per esempio, possono essere interpretate come il corrispondente artistico delle illustrazioni scientifiche prodotte dallo studioso, mentre architetti come Rudolf Steiner, il seguace e biografo più influente di Haeckel, iniziarono a loro volta a mostrare delle loro interpretazioni del rapporto fra architettura ed ecologia: gli edifici dell’architetto non funzionavano in modo veramente ecologico, ma erano la rappresentazione simbolica delle sue simpatie ecologiste, secondo un approccio etico, spirituale e quasi religioso alla questione ecologica che presentava una vera e propria forma di riverenza verso la natura e che nei decenni successivi fece la sua comparsa anche negli scritti di diversi architetti influenti del XX secolo. Malgrado la loro dipendenza dalla cultura industriale, per esempio, secondo alcuni Wright e Le Corbusier possono essere considerati entrambi dei protoecologisti, il primo in riferimento all’architettura organica e alla sua volontà di costruire dentro la natura, il secondo alla città verde e alla sua volontà di costruire sopra la natura. A questi va certamente aggiunto Richard Neutra, a quanto pare il primo architetto ad aver utilizzato in modo specifico la parola ecologia durante un dibattito sulla progettazione. Nel suo testo Survival through Design, pubblicato nel 1954 prima dell’avvento del movimento ambientale moderno, l’architetto austriaco affrontò il tema del rapporto tra ecologia e design, senza però specificare come arrivarci e avendo quindi, come Wright e Le Corbusier, un’influenza abbastanza trascurabile nella promozione di un’architettura ecologicamente consapevole. Almeno in quegli anni. Solo Paolo Soleri, verso la fine degli anni Sessanta, riprese il concetto di densità verticale elaborato da Le Corbusier per cercare di dare una risposta in termini architettonici al movimento ecologista. Ma le sue megastrutture completamente isolate geograficamente, come molte proposte utopiche, non fecero che ricreare quei modelli antropocentrici a cui pensavano di opporsi. In questo senso, quindi, fino alla fine degli anni Sessanta, l’influenza del movimento ecologista all’interno dei dibattiti politici ed architettonici può considerarsi marginale, rendendo dunque il concetto di sostenibilità e la sua introduzione in ambito architettonico estremamente recente. E forse più recente di quanto si possa immaginare. Come si è tentato di dimostrare, infatti, nonostante il termine stesso abbia fatto il suo debutto già nel 1713 all’interno del testo Syllvicultura economica – il primo vero manuale di selvicoltura scritto dal nobile tedesco Carl von Carlowitz - e nonostante probabilmente abbia radici ancora più profonde, esso di fatto non è mai stato utilizzato con il significato a cui oggi si vuole tendenzialmente fare riferimento fino agli ultimi decenni e, forse, se si va in profondità, agli anni Novanta. Perché anche se l’evidenza sempre maggiore dei problemi e dei rischi ambientali causati dalla società capitalistica – sottolineata, fra l’altro, da una serie di studi importanti come il rapporto I limiti dello sviluppo pubblicato dall’MIT nel 1972 – portò alla nascita e al rapido sviluppo del movimento ambientalista moderno e, potremmo dire, come suo sottoprodotto, dell’architettura sostenibile probabilmente già dagli anni Settanta, occorre chiedersi quante delle idee oggi implicite nel temine fossero realmente alla base del movimento sin dalla sua nascita. Come vedremo in seguito, analizzando in retrospettiva gli ultimi quarant’anni, infatti, è possibile leggere una chiara evoluzione del modo in cui la questione ambientale è stata percepita ed affrontata, e, di conseguenza, delle strategie e degli strumenti politici, ma anche progettuali, usati per indirizzare queste questioni. E la sostenibilità, così come oggi vorrebbe essere intesa, sembra essere realmente entrata in campo molto tardi. Fase 1 _ I primi passi dell’architettura regolamentazione e controllo (1970-1990) sostenibile: la protezione ambientale fra La prima fase del movimento moderno legato all’architettura sostenibile si aprì dunque in stretta connessione alla crescita del più generale movimento ecologista come movimento sociale e politico che, durante gli anni Settanta e Ottanta, portò i paesi industrializzati dell’Occidente a percepire la necessità di definire come priorità nazionale la riduzione dell’inquinamento e lo sfruttamento delle risorse causati dalle attività umane. In particolare, l’architettura sostenibile degli anni Settanta fu la reazione dell’industria della costruzione alla realizzazione del fatto che le costruzioni fossero fra le maggiori responsabili del consumo di energia (40%) e - come sottolineato dallo studio di Richard Stein Architecture and Energy – del fatto che fosse il modo con cui erano costruiti gli edifici a causare gli sprechi maggiori, rendendo l’architettura una grande determinante dei problemi ambientali che oggi affrontiamo. La maggior leva per il cambiamento arrivò con la crisi internazionale provocata dalla Guerra dello Yom Kippur nell’ottobre del 1973 durante la quale i paesi arabi produttori di petrolio si misero d’accordo per imporre un embargo petrolifero contro gli USA e gli altri paesi sostenitori di Israele. Un embargo che durò sei mesi, ma ebbe effetti devastanti sull’economia per diversi anni a venire, generando fra l’altro una crisi energetica decennale che divenne, però, uno stimolo verso la conduzione di ricerche progettuali alternative. Queste si mossero sostanzialmente in due direzioni: risposte di natura tecnica e scientifica da un lato e fantasie utopistiche dall’altro. Partendo dalle prime, in questi anni, molti stati e molte regioni modificarono i loro regolamenti edilizi per incoraggiare livelli più alti di isolamento termico e concedettero finanziamenti pubblici per la ricerca di energia alternativa. Queste iniziative furono all’origine di enormi trasformazioni del paesaggio - basti pensare all’Altamont Pass Windfarm, nel nord della California, dove intorno alla metà degli anni Settanta furono installate quasi cinquemila turbine eoliche o allo stato di Israele all’interno del quale, grazie ad un programma di incentivi fiscali, in un solo decennio i riscaldatori d’acqua solari vennero installati nel novanta per cento delle abitazioni – ma non produssero necessariamente progetti migliori. I nuovi standard edilizi e i diversi incentivi, infatti, fecero ridurre del venti per cento il consumo energetico, ma, relegando la discussione sull’ecologia ai dati di natura tecnica, finirono per definire un approccio che rimase per lo più interno alla ricerca scientifica e che non riuscì quasi mai ad assumere un punto di vista olistico. D’altro canto, invece, personaggi come Michael Reynolds e Steve Bear, proposero una grande varietà di approcci progettuali decisamente eccentrici sperimentando energie e materiali alternativi, mentre in Europa Settentrionale, così come in California, si formarono gruppi di utopisti - fra i quali, per esempio, la Findhorn Comunne, un eco villaggio scozzese fondato sulla base di un approccio spirituale molto simile a quello di Steiner – il cui idealismo e le cui regole estremamente rigide li relegarono però sempre al margine. In tutti gli stati coinvolti dalla crisi, poi, gli architetti iniziarono a riscoprire strategie vernacolari e bioregionaliste. Già a metà degli anni Sessanta la sensibilità ambientale della San Francisco Bay ispirò la progettazione del Sea Ranch - uno dei primi insediamenti pensati secondo specifici criteri ecologici per la progettazione del quale gli architetti presero spunto dai tipici fienili locali - e il successo di questo edificio influenzò molto diversi architetti californiani. Fra questi Christopher Alexander che, dopo il 1968, rifiutò la teoria meccanicista dei sistemi per lasciarsi conquistare dal fascino e dalla saggezza dei costruttori indigeni e Sim Van der Ryn che, oltre a fondare un istituto per la promozione di stili di vita più ecologici, come architetto di stato negli anni Settanta venne incaricato di costruire sei edifici governativi a consumo ottimale di energia da usare come modelli. Tuttavia l’esempio più significativo di coscienza ecologica degli anni Settanta fu un architetto non occidentale: l’egiziano Hasan Fathy che nel suo Architecture for the poor presentò l’idea di provare a costruire nella maniera più eco-efficiente possibile all’interno dei confini di una regione, raccontando i tentativi fatti per insegnare le antiche tecniche di costruzione con il fango agli abitanti dei villaggi poveri allo scopo di dare loro un mestiere e di incoraggiare l’industria edile a fare a meno di materiali e di tecnologie di importazione. La bellezza del suo lavoro e la logica di investimento nelle risorse locali influenzarono molto diversi movimenti fra cui Intermediate Technology - poi Appropriate Technology – il gruppo fondato dall’economista Ernst Friedrich Schumacher, ma, in realtà, anche i suoi sforzi fallirono. Fathy, infatti, come molti altri architetti animati dalla volontà di esaltare la tradizione, ha finito con il separala dalla realtà quotidiana, riducendola ad una nostalgia mai accettata dagli abitanti. Durante questi anni, quindi, né l’approccio tecnico né l’approccio spirituale alla questione ecologica raggiunse realmente risultati di successo, contribuendo a definire una percezione non positiva del cosiddetto progetto ecologico. Se, infatti, tutti i tentativi compiuti permisero di iniziare a diffondere una maggior conoscenza degli obiettivi del progetto sostenibile, i loro frequenti fallimenti fecero sì che si diffondesse anche una generale sfiducia nei suoi confronti. Una sfiducia, in qualche modo, aggravata dalle scelte politiche che lo accompagnarono. Una delle caratteristiche fondamentali della filosofia politica e progettuale che sta alla base della prima fase di sviluppo del concetto di sostenibilità, infatti, fu il bisogno di centralizzare il potere mediante la definizione di linee guida forti e uniformi. Si era cioè convinti che per raggiungere un cambiamento sostanziale in un breve periodo di tempo fosse necessario un sistema forte di regolamentazione e di controllo che i governi e gli attori locali non sarebbero stati in grado di gestire. Partendo quindi dal presupposto che aziende ed industrie non avrebbero cooperato volontariamente, ma che, al contrario, si sarebbero opposte in tutti i modi possibili, vennero definite regole rigide per la riduzione dell’inquinamento nelle varie componenti dell’ambiente (aria, acqua, suolo,…). Regole che, sebbene produssero significativi miglioramenti, aprirono anche tutta una serie di problemi e, conseguentemente, una forte critica al movimento. In particolare fra le più importanti limitazioni di questa politica vi erano i suoi alti costi per l’economia e gli affari (molte industrie migrarono), la rigidità imposta all’industria, la creazione di un apparato burocratico complesso e ingombrante e la sua enfasi su azioni distinte di rimedio più che su azioni complessive e preventive. Ironicamente, infatti, l’enfasi – spesso propria del movimento ecologico stesso e quindi delle politiche da esso determinate – su concezioni quasi mistiche di un bilancio che doveva essere preservato presumeva che la salvaguardia dello stesso fosse un compito riservato a pochi – e soprattutto agli scienziati – gettando un aura apolitica sull’urgenza della protezione della terra che metteva da parte tutte quelle politiche ambientali concernenti le questioni di potere e di ineguaglianza, le relazioni sociali e così via. Definendo, cioè, politiche specifiche per le diverse componenti dell’ambiente, l’approccio prescrittivo, finì con il non preoccuparsi abbastanza dell’obbiettivo più ampio della sostenibilità e quindi della natura globale di questo concetto, non arrivando mai a sviluppare, come abbiamo visto anche per quanto concerne l’architettura, strategie e approcci più comprensivi capaci di fornire, nello stesso tempo, soluzioni per la riduzione dell’inquinamento, ma anche di incoraggiare il miglioramento dello sviluppo economico e della qualità della vita. Non a caso, ritornando all’ambito architettonico, il movimento “tecnico” prese il nome di Energy Conserving Design, rivelando, come abbiamo visto, una chiara inclinazione verso la sola questione energetica. Un’inclinazione sintomo dell’immatura comprensione dell’interconnessione di tutte le questioni concernenti il movimento. Il periodo non era maturo per un cambiamento a larga scala e questo fece sì che, dopo pochi anni, molti progettisti scomparvero fra le file dei professionisti ignorando le lezioni con le quali essi avevano brevemente flirtato. E per tutti questi motivi, per molti l’architettura verde degli anni Settanta rimase al massimo un pugno nell’occhio o una scomoda mania, relegando il movimento a margine e facendogli attraversare quella che John Stuart Mill probabilmente definirebbe fase del ridicolo. Una fase che, sotto certi aspetti, continuò anche nel decennio successivo. Anche gli anni Ottanta, infatti, furono caratterizzati da pochi segni importanti: il movimento stava diventando organizzato ma non aveva molta strada da fare. Passata l’emergenza dettata dalla crisi petrolifera, l’energia era di nuovo economica e le persone vedevano un bisogno minore di conservare, determinando un decennio di decadenza e consumo, politicamente regressivo in termini di ambiente. Il motto era nuovamente “il più è meglio” e “il meno è noioso” e lo stile architettonico del giorno diventò il postmodernismo, determinando un chiaro regresso verso l’idea che gli edifici potessero e dovessero essere costruiti nello stesso modo, senza considerazioni concernenti il luogo, il clima e la cultura. In questo decennio quelli che sarebbero poi diventati i principali protagonisti delle idee dell’architettura sostenibile, continuarono a praticare , ma affrontando moltissimi ostacoli: la buona informazione era scarsa, così come era scarso il sostegno da parte della mentalità industriale più diffusa, i cosiddetti “materiali verdi” erano pochi e quasi sempre più costosi e la frequente mancanza di conoscenza portava a sbagli di progettazione che fecero sì che molti degli edifici progettati per conservare energia durante gli anni Settanta finirono anche per essere pieni di problemi che, tuttavia, furono per i progettisti l’ennesimo sintomo della necessità di considerare nel processo progettuale una serie di questioni più ampia. Alla fine degli anni Ottanta, quindi, pochi obiettivi erano stati raggiunti in termini di impatto ambientale e le costruzioni usavano più energia che mai. Tuttavia, le personalità e idee chiave si stavano raccogliendo e, in appena pochi anni, avrebbero portato a cambiamenti significativi. Fase 2 _ La formalizzazaione: una fase ponte fra riforme e flessibilità (1980-2000) Negli anni Novanta, infatti, le cose iniziarono a cambiare: qui e là più sostenitori si unirono al movimento, forse come reazione alla decadenza del decennio precedente, ma anche come reazione rispetto al visibile declino della salute dell’ambiente. Un declino la cui percezione venne accelerata drasticamente da due eventi inquietanti: l’accertamento della presenza del buco nell’ozono nel 1985 e la catastrofe della centrale di Chernobyl nel 1986, che, in pochi anni, insieme alla minaccia sempre più presente del riscaldamento globale, stravolsero completamente l’atteggiamento nei confronti dell’ecologia, portando la questione ecologica al centro del dibattito in molti campi e trasformandola in uno dei temi principali della politica locale e internazionale. In particolare, fra il 1987, anno della pubblicazione della relazione delle Nazioni Unite Our common future, e il 1992, anno del Summit di Rio, la nozione di sostenibilità venne formalizzata e ufficialmente adottata dalla comunità internazionale determinando un cambiamento piuttosto radicale. Sotto la minaccia della cosiddetta “Apocalisse Verde”, il dibattito ecologico si fece quindi più intenso e le varie ideologie ecologiste si mossero in direzioni diverse, facendo anche il loro ingresso nell’arena accademica: sostenendo le ipotesi avanzate da James Lovelock nella sua Teoria su Gaia, il filosofo norvegese Arne Naess definì i principi dell’Ecologia Profonda; l’indiana Vandana Shiva si fece promulgatrice dell’Ecofemminismo, mentre Murray Bookchin coniò il termine Ecologia Sociale. Inoltre, in questi anni, una parte del movimento ambientalista riprese con maggior considerazione la posizione dell’ingegnere americano Bukminster Fuller che già negli anni Sessanta aveva promosso scienza ed tecnologia come soluzioni al danno ecologico, definendo la posizione High Tech come una derivazione dell’ecologia riformista. Anche in campo architettonico, poi, i cambiamenti furono piuttosto rilevanti. Nello stesso anno del Summit di Rio, Environmental Building News, quella che ancora oggi è la più importante fonte di informazione dell’industria sul tema, fu pubblicata per la prima volta, offrendo finalmente al mondo della produzione un’informazione professionale obiettiva e imparziale sulle scelte di progettazione verdi e nel 1990-1991, sotto la leadership di Bob Berkebile, l’Istituto Americano degli Architetti formò il suo primo Committee on the Environmental con la volontà di proporre ricerche all’interno delle quali l’energia non era più l’unica questione, aprendo così il campo a una nuova fase dell’architettura sostenibile. Almeno per certi aspetti, infatti, il tema cominciò ad emergere in modo più complesso. Poco per volta, l’idea della sostenibilità come modello complessivo di sviluppo iniziò a consolidarsi a discapito dell’idea di “verde” che la identificava col solo miglioramento ambientale e professionisti e teorici di questo movimento iniziarono ad ampliare le questioni che consideravano come proprie. Le riflessioni sugli aspetti energetici vennero affiancate da riflessioni più ampie non solo sui materiali e sul loro rapporto con il benessere ambientale e umano, ma anche sugli aspetti economici e sulla qualità della vita e vi fu un enorme cambiamento anche nei soggetti coinvolti. La più generale disgregazione dello spazio politico iniziata con la caduta del muro di Berlino e la crisi delle democrazie nazionali, aggiunte al fatto che durante la prima fase i governi nazionali avevano praticamente ignorato il più ampio movimento della sostenibilità, generando come detto uno scetticismo generale, fecero sì che nella seconda fase la fiducia nei confronti dei governi stessi e nel fatto che questi, da soli, potessero dirigere o controllare tutte le attività diminuì drasticamente e iniziò a diffondersi la consapevolezza che le strategie prescrittive, benché estremamente utili come cornice legale e politica, per essere realmente efficaci, dovevano essere completate da una molteplicità di strategie collaborative definite da soggetti diversi. Già a partire dalla metà degli anni Ottanta iniziò quindi a diffondersi l’idea che un approccio più decentralizzato e collaborativo nella definizione delle politiche, delle regole e degli obiettivi fosse il modo migliore per rispondere alle agende nazionali. E In questo senso, associazioni professionali, imprenditori industriali, gruppi no-profit e singoli individui iniziarono ad applicare approcci diversi, dando vita ad una vera e propria fase di transizione caratterizzata appunto dagli sforzi per rendere più flessibile ed efficiente l’apparato normativo definito nelle prima fase. Seguendo questa prospettiva, il passo della legislatura e del processo di identificazione di nuove forme di inquinamento rallentò in modo sensibile rispetto ai decenni precedenti, ma gli obiettivi vennero estesi. In particolare, l’obbiettivo di definire un apparato normativo rigoroso venne progressivamente sostituito – anche se mai dal tutto – dalla volontà di bilanciare gli obbiettivi ambientali con le priorità economiche e sociali, mediante politiche più flessibili, caratterizzate da incentivi, tanto quanto da prescrizioni di governo. Il desiderio era quello di trovare un terreno di mezzo con la fiducia nel fatto che portare insieme nell’arena politica i principali portatori di interesse avrebbe favorito una maggiore comprensione e cooperazione e avrebbe permesso a tutte le parti di focalizzarsi sull’area di interessi condivisi e di accordo politico. Un atteggiamento, questo, che cambiò anche il panorama architettonico, all’interno del quale poco per volta si iniziò a pensare che, affinché il movimento dell’architettura sostenibile crescesse ulteriormente, sarebbe stato necessario definire un approccio più inclusivo, uno non necessariamente condotto e guidato dagli architetti. Negli Stati Uniti, per esempio, David Gotterfried e Mike Italiano proposero una nuova visione dell’AIA’s Committee on the Environment, una visione che vedeva il comitato come un’associazione volontaria composta da componenti rappresentativi di tutti gli aspetti della professione – architetti e architetti del paesaggio, ingegneri, costruttori, industriali e accademici - proponendo così un approccio inclusivo che si rivelò essere uno dei più significativi passi in avanti nel campo verso la sostenibilità. Già nel 1993, infatti, il US Green Building Counci (USGBC) si era formato e comprendeva personalità molto diverse che, come previsto da Gottfried e Italiano, avviarono importanti progetti pilota, fra i quali la definizione del sistema di classificazione LEED (Leadership in Energy e Environmental Design), che aveva come obiettivo principale quello di aiutare i progettisti a capire quanto un edificio fosse “verde” e avesse delle buone performances ambientali. Contemporaneamente, in tutto il mondo, si arrivò all’organizzazione di molte conferenze interdisciplinari, a livello regionale, nazionale e internazionale, che servirono a raccogliere persone, idee e materiali, portando anche ad un netto miglioramento dell’architettura costruita: gli edifici erano disegnati meglio, sia tecnicamente che esteticamente e nuove costruzioni come il Deramus Pavilion (1995), il Wildflower Center (1998) e il Chesapeake Bay Foundation (1999) furono largamente pubblicati e ammirati sia in termini puramente compositivi, sia dal punto di vista ambientale. Inoltre, organizzazioni come l’AIA Committed of the Environment iniziarono ad istituire dei premi annuali con lo scopo di riconoscere i progetti migliori, sia in termini di performance ambientali, sia, diciamo, di performance artistiche e anche architetti di fama come Rogers e Piano iniziarono ad avvicinarsi e a sostenere il movimento. In ambito progettuale, in particolare, iniziarono quindi a definirsi atteggiamenti diversi che persistono ancora oggi. Innanzi tutto quello dei più inclini alla tecnica per i quali porre l’enfasi sulla sostenibilità significa riconcettualizzare completamente le priorità della professione architettonica con l’obbiettivo di enfatizzare i vantaggi delle tecnologie verdi energicamente efficienti e definire un nuovo approccio con altri professionisti come scienziati naturali e ingegneri. Costituito sostanzialmente dai seguaci di Fuller e, quindi dei sostenitori dell’architettura High Tech, questo gruppo – fra cui ritroviamo, per esempio, l’architetto malesyano Ken Yeang, il primo a proporre con il Menara Mesiniaga Building (1992) la tipologia dell’edificio high-rice bioclimatico e Norman Foster, l’erede di maggior successo dell’ingegnere americano - pur proponendo soluzioni almeno in apparenza completamente alienate dal mondo naturale, si propone di fornire le massime prestazioni possibili in termini di sostenibilità, lavorando per superare la contraddizione insita nel fatto di proporre soluzioni ad alta entropia per ridurre l’entropia stessa. A questi si oppone tutto quell’insieme di architetti che enfatizzano la dimensione socio-politica dell’architettura rispetto a quella tecnica e scientifica. Per loro lavorare sulla sostenibilità significa provare ad integrare le questioni sociali, culturali ed economiche all’interno della definizione di sostenibilità ambientale, andando quindi alla ricerca di qualcosa di più vicino alla tecnologia intermedia, anche percorrendo strade diverse: il tedesco Thomas Herzog e l’australiano Glenn Murcutt, per esempio, progettano i loro edifici cercando di sfruttare l’orientamento e i sistemi passivi, mentre il Rural Studio fondato dall’americano Sam Mockbee usa materiali non convenzionali, spesso abbandonati, coinvolgendo anche studenti volontari nella costruzione. Fra questi due estremi si inserisce l’atteggiamento di chi ha reagito alla crisi ambientale dando una risposta, spesso soprattutto estetica, che ricorda la Land Art e cioè cercando di rievocare le forme del terreno o di integrarsi in esse. L’idea, resa popolare dall’architetto messicano Emilio Ambasz già all’inizio degli anni Ottanta, è poi stata ripresa non solo da molti altri architetti del panorama internazionale, come Piano e gli MVRDV, ma anche nel mondo della botanica con Patrick Blanc che, verso la fine degli anni Novanta, perfezionò un metodo per creare collage di materiali vegetali da usare come rivestimento. Con il passare degli anni, quindi, il movimento è maturato muovendosi anche in direzioni diverse, ma assumendo, in generale, un atteggiamento differente: chi sosteneva l’architettura sostenibile iniziò a parlarne in modo diverso e il duro messaggio di colpevolezza rivolto a chi “costruiva nel modo sbagliato” cominciò ad essere sostituito da argomentazioni più persuasive che presentavano i benefici di una progettazione diversa. Passato quindi da una posizione marginale ad una centrale, il movimento ha, in qualche modo, preso fiducia espandendosi notevolmente: durante la seconda fase vennero create nuove riviste e anche giornali tradizionalmente più conservatori, come Architectural Record, iniziarono a pubblicare articoli sull’argomento. Fase 3_La natura globale del concetto: verso comunità sostenibili (1990-…) Se, insomma, ancora agli inizi degli anni ’90, il progetto sostenibile era un tema marginale, all’inizio del nuovo millennio il tema è diventato centrale e il decennio che stiamo vivendo sarà probabilmente conosciuto come il decennio in cui la questione ecologica è diventata comunemente accettata e riconosciuta. Oggi persone con background e stili di vita diversi hanno iniziato ad adottare i principi del progetto sostenibile e “il verde” è diventato, almeno in modo retorico, una vera e propria politica. Anche nel senso stretto del termine. Basti pensare a quanto accaduto già alla fine degli anni Ottanta in Germania: l’apocalisse verde aiutò il partito ecologista tedesco a prendere l’8% dei voti a livello nazionale e a prendere il potere in alcune città, come Friburgo, che poco più tardi iniziarono a definire le politiche più progressiste d’Europa, fornendo un chiaro esempio dei cambiamenti avvenuti nelle politiche edilizie e negli stili di vita della città. In questo senso, nell’ultima fase le barriere percepite rispetto il progetto sostenibile sembrano essere cadute: le persone stanno iniziando a credere che esso generi edifici migliori, certamente più sani e meno costosi a lungo termine, ma, in alcuni casi, anche a breve termine. Questo anche grazie ad una lista crescente di studi redatti da persone come Judy Heerwagen e Vivian Loftness, ricerche, cioè, che stanno iniziando a dimostrare anche alla parte più scettica del mondo industriale che “il verde” può avere dei ritorni sostanziali e immediati. Inoltre, architetti particolarmente sensibili al tema, come per esempio Glenn Murcutt, stanno iniziando a ricevere riconoscimenti importanti, quali il Pritzker Prize for Design, assegnato ai migliori progettisti dell’anno dall’AIA. Tuttavia, al di là della crescente importanza dell’idea, la caratteristica distintiva della terza fase sembra soprattutto essere la realizzazione da parte di un numero crescente di persone del fatto che sia necessaria una fondamentale trasformazione non di alcuni aspetti tecnici della nostra vita, ma del modo in cui gli uomini si relazionano all’ambiente e, più in generale, di quello con cui conducono le loro vite. In questa fase, cioè, obbiettivi come la riduzione dell’inquinamento e la ricreazione degli habitat, propri soprattutto della prima fase, appaiono assolutamente sbiaditi e limitati rispetto a quello della sostenibilità, finalmente inteso considerando la completa complessità del termine. Al di là dell’ambiguità che continua a caratterizzare il termine – esiste una sostenibilità debole ed una forte, per alcuni essa rappresenta un insieme di regole pragmatiche, per altri è un imperativo etico e morale – negli ultimi dieci anni sembra infatti piuttosto chiaro che la lezione da imparare dagli anni Settanta e Ottanta non sia tanto quella che il compromesso e la cooperazione sono necessari per ammorbidire la rigidità del sistema top-down di definizione di regole e controllo - come avvenuto nella seconda fase -, ma che sia invece necessario un approccio fortemente più coraggioso e comprensivo capace di definire una filosofia e una strategia della sostenibilità. Questo andando ben oltre la più ristretta attenzione caratteristica del primo modo di pensare e delle prime politiche:il maggiore cambiamento avvenuto nell’arco delle tre fasi di sviluppo del progetto sostenibile è certamente la transizione dall’idea di protezione ambientale a quella di sostenibilità, nella quale le questioni considerate nella prima sono diventate inglobate in una struttura più comprensiva. Una struttura per la definizione della quale non è più sufficiente il processo di decentralizzazione iniziato nella seconda fase, ma sono invece necessarie strategie multisettoriali e integrative basate sulle comunità e capaci di superare le posizioni del funzionalismo verde spesso determinate nelle fasi precedenti. Se infatti, sotto certi aspetti, la coscienza ecologica rientra nel generale allontanamento dell’era postmoderna dal determinismo, dall’antropocentrismo e dalla teleologia, sotto molti altri, i presentimenti apocalittici oggi latenti a causa della consapevolezza del riscaldamento globale e degli altri problemi e rischi ambientali hanno involontariamente portato molti teorici contemporanei verso una restaurazione dell’idea, molto criticata, di una meta-narrazione. Contrariamente alle sue intenzioni, cioè, il cosiddetto progetto sostenibile ha spesso prodotto un insistente funzionalismo ambientalista che, carico di strutture ideologiche, si è occupato dei sintomi delle questioni senza affrontare lo status della sovrastruttura che ha permesso che questi si manifestassero, con il risultato di produrre soluzioni tappabuco a effetto placebo nella maggior parte dei casi. Un risultato che solo la crescente consapevolezza della terza fase sulla reale missione della sostenibilità sembra poter superare. In questo senso, sembra particolarmente significativa la critica che inizia ad essere rivolta a molti approcci di tipo burocratico al progetto sostenibile. L’obiettivo politico che fossero tenuti in considerazione gli aspetti ecologici in modo da arrivare ad un design e uno sviluppo più efficienti ulteriormente incentivato dal Protocollo di Kyoto firmato nel 1997 ed entrato in vigore nel 2005 – ha infatti spesso determinato la definizione di pragmatiche liste di controllo che hanno lo scopo di quantificare la costruzione e le prestazioni degli edifici: lo studio HOK, per esempio, uno dei più grandi studi al mondo tra l’altro scelto da numerose agenzie impegnate nell’ecologia, usa un metodo che comporta una serie infinita di liste di controllo, mentre nell’ultimo decennio il sistema di valutazione LEED elaborato dal Green Building Council statunitense è stato applicato a più di 14.000 progetti. Ma oggi i pareri rispetto a questo tipo di approccio stanno cambiando e non è più un’eccezione il punto di vista di chi pensa che si tratti di un metodo che, aggiungendo la voce sostenibilità alle sue tabelle, non fa nulla per cambiare la logica positivistica che ha creato il problema. Le critiche rispetto ad edifici, come la California Academy of Science di Piano o il Getty Center di Mayer, che hanno ricevuto valutazioni molo alte da questi sistemi, sono sempre più frequenti ed in molti oggi provano a rivelare le loro contraddizioni incentivando fortemente il riferimento ad altri tipi di approcci. Le teorie sviluppate negli ultimi anni dalla prima generazione di architetti ecologisti, per esempio, non sembrano prestarsi facilmente alla quantificazione richiesta dalla diplomazia internazionale dopo Kyoto, ma sembrano avvicinarsi molto di più al reale significato del progetto sostenibile. Basti pensare all’approccio definito verso la fine degli anni Novanta da Sim Van der Ryn e Stuart Cohen: il loro sistema di cinque principi per un design ecologico - coltivare soluzioni originarie del luogo, impostare il progetto in base a valutazioni di tipo ecologico,imitare la natura x inserirsi armonicamente in essa, realizzare che chiunque può essere progettista e rendere visibile la natura per quanto possa guidare i progettisti verso l’applicazione di pratiche corrette, non cercando di dare un valore numerico a un effetto calcolabile, non sembra tener conto degli aspetti burocratici legati al budget energetico. Secondo la stessa linea di programma proposta anche dai sostenitori del Natural Capitalism, il piano ecologico per l’industria definito da un altro dei principali attori della prima generazione del movimento ecologista, Amory Lovins, con la volontà di ricondurre il mondo della società dei consumi verso stili di vita più ecologici. L’obiettivo è quello di risolvere il problema alla radice e non più con soluzioni formali o tecniche di superfici. In questo senso, modelli pratici come il BedZED di Bill Dunster rappresentano dei progetti sperimentali importanti. Ma i riferimenti occidentali oggi non sono di certo i soli possibili. Seppur inizialmente sollevata come problema di natura etica solo nei paesi industrializzati dell’Occidente, la sostenibilità è infatti ormai diventata l’argomento tecnico, politico e legale al centro del dibattito internazionale. E se alcuni paesi in via di sviluppo, malgrado alcuni progetti di facciata come Dong Tang, stanno rischiando di ripetere gli stessi errori già compiuti dai paesi sviluppati, in alcune parti del terzo mondo si sta lavorando per costruire una vera coscienza ecologica basata non solo sulla conservazione delle risorse, ma anche sul rispetto e lo sviluppo delle tradizioni. Ragione per la quale, giunti alla terza fase del progetto sostenibile, i contributi di progettisti come, fra gli altri, Francis Kéré e Carin Smuts rivestono un ruolo centrale. Natura Ecologia e architettura La deformazione antropocentrica e le origini illegittime del pensiero ambientalista. La natura è stata da sempre una delle più importanti categorie per la definizione dell’architettura. Ricostruzioni della storia di quest’idea, come il saggio di Adrian Forty pubblicato all’interno del testo Parole e edifici (Forty; 2000), mostrano come, nonostante tutte le variazioni subite durante i secoli, il rapporto tra natura e cultura, tra natura e artificio abbia rappresentato un nodo problematico permanete nella tradizione teorica dell’architettura, insieme al tentativo continuo delle ideologie susseguitesi nel tempo di oggettivizzare l’idea (Soper; 1995). In termini positivi, così come in termini negativi. Prima definita come fonte delle proporzioni e di bellezza nel De re edificatoria di Leon Battista Alberti, come principio di costruzione e decorazione nell’Essai sur l’Architecture di MarcAntoine Laugier o ancora come elemento da imitare nei suoi principi intrinseci da Quatremère de Quincy, lo storico inglese mette infatti in evidenza come a partire dal XIX secolo i termini del rapporto fra architettura e natura, comunque sempre considerate fino a questo momento come categorie separate, si invertano. Nel suo saggio, in particolare, egli attribuisce a Gottfried Semper il merito di aver coniugato la teoria dell’imitazione e dell’artificio di Quatremère de Quincy con l’idealismo tedesco, producendo una delle più significative teorie dell’artificialità sviluppate all’interno dell’ambito architettonico. L’accettazione totale da parte di Semper della tesi sviluppata da Goethe e dai filosofi tedeschi della generazione successiva secondo cui l’architettura poteva assomigliare alla natura ma non era natura, porta infatti, secondo Forty, gli architetti europei del primo Novecento non solo a considerare l’architettura come natura inorganica costruita dalle mani dell’uomo ma anche a pensare di poter fare a meno del modello naturale di architettura. Segnando una prima rottura profonda nella storia dell’idea della quale sarà possibile percepire l’eco anche molti decenni successivi. Pensare che il significato della disciplina architettonica derivi interamente dal fatto di essere un’opera dell’uomo, in nessun modo dipendente dalla natura, significa infatti tagliare i legami tra architettura e natura e iniziare a considerare quest’ultima non più un’autorità assoluta da contemplare, ma qualcosa a cui contrapporsi. Con la definizione di una spaccatura fra i due termini che, come sottolineato da Sergio Bartolommei nel suo testo Etica e natura, gli sviluppi della scienza naturale - delle teorie di Darwin in primis - e del pensiero razionalista non avrebbero che enfatizzato, sottoponendo le riflessioni su questo concetto ad una profonda trasformazione anche in campo politico e sociale. Basti pensare, per esempio, alla teorizzazione di Marx e Engels di due tipi di natura, quella da cui l’uomo ricava i suoi materiali e quella prodotta dall’uomo manipolatore come risultato delle sue attività (Forty; 2000): scomponendo la natura in parti è la distinzione stessa fra questa e la cultura ad essere messa in discussione, con forti ripercussioni anche in ambito architettonico. Le argomentazioni di Semper sono infatti destinate a diventare l’atteggiamento peculiare dell’architettura moderna all’inizio del XX secolo: attraverso una visione strumentale del mondo che la separa completamente dall’etica, il pensiero architettonico dominante mette la natura al bando. Il nuovo concetto organizzatore della disciplina diventa la tecnologia e la relazione fra le società avanzate e l’ambiente subisce una pesante deformazione antropocentrica (Catton, Dunalp; 1978) basata non solo sul dualismo netto natura-cultura, uomo-ambiente, naturaleartificiale ma anche sull’idea che la natura non abbia nulla da offrire. Almeno superficialmente. Se analizzata in profondità, infatti, la fenomenologia del moderno e dei decenni che lo precedono è tutt’altro che una caricatura monolitica e sin a partire dalla metà dell’Ottocento è possibile individuare alcune voci discordanti rispetto al credo dominante, in ambito architettonico, così come nel più ampio panorama culturale. Pochi anni dopo l’affermazione di Semper che l’architettura non avrebbe trovato i suoi modelli in natura (Forty; 2000), Henry David Thoureau pubblica infatti due testi destinati a ispirare nei decenni successivi i primi movimenti di protesta verso la visione antropocentrica imperante: Walden ovvero Vita nei boschi (1847) e La disobbedienza civile (1849). Testi nei quali il filosofo e scrittore americano presenta un punto di vista che non solo nega la visione antropocentrica del mondo propria della cultura occidentale - ponendo nuovamente l’enfasi sulle interconnessioni fra uomo e natura - ma identifica proprio nella wilderness una possibile alternativa salvifica alla civiltà posseduta dall’idolo del profitto economico (La Vergata, Ferrari; 2008). Non solo. Anche in ambito architettonico, pochi anni prima della fine del secolo e pochi anni dopo la definizione del termine ecologia da parte di Ernst Haeckel, Ebenzer Howard, con la pubblicazione di Tomorrow, riporta la pianificazione urbanistica nell’alveo dei temi ambientali, mettendo l’accento su una progettazione responsabile: un processo possibile solo attraverso un ripensamento del patto evolutivo con la natura che alimenterà, NOTE dentro i percorsi tutt’altro che lineari della storia dell’idea, importanti sperimentazioni. E proprio intorno agli anni venti del Novecento - anni in cui il Movimento Moderno sta per raggiungere la sua massima espressione - è Rudolf Stainer, il seguace e biografo più influente di Haekel, ad avvicinarsi alle prime posizioni ecologiche descrivendo i suoi edifici con termini e toni esoterici che certamente hanno a che fare con il vitalismo organicistico di Thoureau: la sua opera in particolare è frutto di un funzionalismo spirituale che si ispira per analogia alle forme della natura, ritenuta appunto - come per il filosofo americano - alternativa salvifica alla civiltà posseduta dall’idolo economicoantropocentrico (Ingersoll; 2009). Negli stessi anni in cui parte del pensiero culturale e architettonico segnala un distacco netto dalla natura essa inizia cioè nuovamente a concentrare su di sé un rinnovato interesse: l’idea di wilderness avanzata da Thoureau assume il valore di fonte d’integrità stimolando una forte attenzione verso la sua protezione. Attenzione che se a livello istituzionale si traduce con l’istituzione di organismi come l’Office International pour la Protection de la Nature - destinato a divenire una delle più importanti organizzazioni internazionali in materia di ambiente - in architettura viene trascritta mediante la riscoperta dell’analogia con le forme naturali. Sebbene non esista un tratto unico che identifichi l’architettura degli anni trenta, appare cioè evidente che, in generale, in questi anni le forme diventano più complesse e organiche, le facciate più elaborate, le finiture e i materiali più ricchi di ‘effetti naturali’: l’implicito interesse verso la natura come presunta e palliativa fonte di integrità diviene più esplicito nelle idee, nelle immagini e nelle forme (Curtis; 1982). E anche voci emblematiche del Movimento Moderno si avvicinano al tema. Letti sotto questo punto di vista, Frank Lloyd Wright e Le Corbusier, pur essendo separati da posizioni e linguaggi estremamente diversi, possono essere accomunati dalla volontà di restituire, attraverso la natura, una nuova integrità alla vita umana. Come traspare dai suoi scritti, Wright, permeato dal trascendentalismo di Ralph Waldo Emerson, si avvicina alla natura in termini spirituali e romantici esaltandone l’aspetto di derivazione divina. Ora siete liberati tramite il vetro, i piani a sbalzo e il senso dello spazio che diventa operativo. Ora siete posti in relazione con il paesaggio […] siete parte di esso quanto lo sono gli alberi, i fiori, il terreno […] Ora siete liberi di diventare un elemento naturale del vostro ambiente, cosa che, io credo, è stata l’intenzione del vostro creatore. (F. Lloyd Wright. Cit. in O.Lloyd Wright; 1966) Per l’architetto statunitense l’architettura e la società affondano le proprie radici in un ordine naturale. Motivo per cui un’architettura conforme alla natura sarebbe necessariamente conforme alle esigenze fondamentali delle persone. Quelle stesse esigenze di cui inizia ad occuparsi anche Le Corbusier. Nel 1924, in un articolo pubblicato sull’Esprit Nouveau, egli scrive: Rientrerebbe nello spirito della nuova architettura, della nuova attesa urbanistica la ricerca di soddisfare le più recondite esigenze umane restituendo il verde e il paesaggio urbano e reintroducendo la natura nel campo delle nostre fatiche quotidiane; ci sentiremmo finalmente tranquillizzati di fronte alla angosciosa minaccia della grande città che imprigiona, opprime, soffoca, asfissia coloro che vi sono capitati. (Le Corbusier; 1924. Cit. in Lima; 2010 ) Se l’uomo di Wright è radicato a terra e deve poter godere della natura attraverso spazi che possano integrarlo e renderlo direttamente partecipe nei confronti della stessa, quello di Le Corbusier è invece un uomo che si solleva da essa e la contempla: la stessa riflessione dell’architettura sull’inadeguatezza delle condizioni igieniche che segnano tristemente l’habitat e la sua genetica propensione a cogliere l’innata positività delle risorse e delle potenzialità offerte dal mondo naturale pensato come wilderness generano cioè, nello stesso tempo, soluzioni architettoniche profondamente differenti. Aprendo una prospettiva di accordi provvisori, contrasti e contraddizioni destinata a rimanere costante lungo tutti gli sviluppi della storia del rapporto fra natura e architettura. E infatti, in pochi anni, la situazione diventa molto più complessa. Se, fino a quel momento, il malessere del secondo dopo guerra aveva ridimensionato coscienze e responsabilità trasformando in sfida comune la necessità di soddisfare i bisogni primari della gente, è il rapido boom economico degli anni successivi ad aprire nuove questioni fra cui quella - centrale per il dibattito sulla sostenibilità - della promozione di un progetto che inizia ad essere indicato come ecologicamente consapevole. La progressiva definizione, fra gli anni sessanta e gli anni settanta, del movimento ambientalista e delle filosofie ambientali fa cioè sì che il rinnovamento del rapporto uomo-natura divenga un’esigenza fondamentale non solo per ricondurre l’uomo alla natura - e soddisfare in questo modo le sue esigenze - ma anche per preservare e conservare la natura stessa. Gli esordi dell’etica ambientale. Visioni architettoniche come soluzioni. Sebbene l’ambientalismo di massa - inteso come ideologia e insieme delle iniziative politiche finalizzate alla tutela e al miglioramento dell’ambiente - non si manifesti prima degli anni sessanta del Novecento, molti testi sulla cultura ambientale (La Vergata, Ferrari; 2008. Mortari; 1998) sostengono che, in qualche misura, la visione sistemica della natura propria dell’ecologismo sia stata anticipata da alcune figure di precursori identificati come antesignani della filosofia ambientale contemporanea. E fra queste vi è certamente la figura chiave di Aldo Leopold. Autore del famoso testo Almanacco di un mondo semplice, lo scrittore e scienziato americano infatti non continua solo a raffrontarsi con l’idea di wilderness secondo il percorso iniziato da uomini come Thoureau e White, ma, introno alla metà degli anni trenta, inizia a confrontarsi con l’ecologia che, nel mondo accademico e politico americano vede la sua fioritura proprio in quel periodo: quello segnato dal Dust Bowl (Armandi; 2006). Un confronto fondamentale grazie al quale Leopold, all’intensa convinzione che difendere la natura selvaggia sia necessario perché essa ha un grande valore per lo sviluppo di una sensibilità ricca e armoniosa come anche per l’avanzamento della conoscenza scientifica, affiancherà progressivamente la consapevolezza - assolutamente centrale per il tema della sostenibilità - che uomo e natura, natura e cultura non possano più essere pensate come parti separate (Leopold; 1948). Anticipando un punto di svolta essenziale nella storia del rapporto. Pensando all’ecologia né come ad una scienza astratta coltivata al riparo dai problemi politici e sociali concreti - né come una scienza sovversiva - che fa diventare la difesa della natura un attacco indiscriminato contro il mondo moderno - ma come un sapere elaborato in vista di un buon management ambientale, Leopold ne coglie infatti il paradigma della comunità biotica elaborato da Charles Elton per sostenere la necessità di pensare insieme storia naturale e storia sociale (Armandi; 2006). L’immagine della comunità come strumento euristico porta cioè il filosofo a un’inedita definizione del rapporto uomo-natura, per la prima volta caratterizzata da una continuità anziché da una rottura e da una declinazione plurale dei termini. Una definizione destinata a sollevare temi e questioni fino a questo momento certamente estranei sia al mondo dell’architettura che al panorama culturale internazionale. Il problema da cui nasce l’etica ambientale di Leopold non è infatti quello del valore intrinseco - come sarà poi in molte delle etiche ecocentriche che a lui si sono riferite e com’era stato per secoli nella definizione del rapporto fra architettura e natura - ma quello dell’uso, o meglio, degli usi della Terra; della definizione cioè non di un equilibrio stabile - che vede l’uomo come perturbatore di ordini naturali stabili dotati di regole di funzionamento ottimale - ma di equilibri dinamici. Di equilibri dettati dalla consapevolezza del valore della diversità - sia nella sua dimensione biologica che nella sua dimensione culturale - e inevitabilmente legati alla necessità di guardare al mondo come casa comune e di imparare a pensare come una montagna (Leopold; 1948), lontano e a lungo termine. Secondo una prospettiva che mette appunto in evidenza un’esigenza comune: quella di superare l’idea di riconciliazione fra uomo e natura a favore della preservazione della stessa e della rinnovabilità delle risorse. Ed è in questa direzione che anche l’architettura sembra muoversi. Se infatti lo scrittore americano elabora il principio dell’etica della terra fra la metà degli anni tenta e la fine degli anni quaranta, è a partire da quest’ultimo decennio che in ambito architettonico si apre la fase pionieristica dell’energia solare: nel 1947 viene pubblicato il primo edificio con copertura in collettori solari, otto anni più tardi si svolge il primo congresso mondiale sulla materia (Lima; 2010) e architetti come Richard Neutra iniziano a parlare di ecologia (Ingersoll, 2009). Ma le ricadute del dibattito sono tutt’altro che lineari e gli effetti delle discussioni sul tema restano assolutamente trascurabili almeno fino a qualche anno più tardi, quando l’ecologia entra prepotentemente a far parte dell’arena politica. A’ Nonostante le importanti basi teoriche definite da Leopold già nei decenni precedenti, è negli anni sessanta che il movimento ambientalista compie i suoi primi passi dando realmente voce al tema. Nel 1962, con la pubblicazione di Silent Spring, Rachel Carson avverte gli americani che stavano avvelenando la biosfera con i pesticidi a base di DDT, mentre gruppi come il Sierra Club in California cominciano ad esercitare pressioni politiche in favore della protezione dell’ambiente. Piazze europee e americane vengono popolate dalle proteste contro i test nucleari e - sebbene caratterizzati da discontinuità e contraddizioni - iniziano a definirsi con più chiarezza i tratti dell’etica ambientale. In particolare - all’interno di una materia caotica e tuttora in piena espansione - si iniziano a distinguere due punti di vista dicotomici: il primo sostenuto da chi difende la necessità e l’urgenza di una nuova etica ecologica fondata sulla negazione del dominio umano sulla natura, sulla nozione di equilibrio della stessa e sull’idea di interdipendenza degli esseri; il secondo da coloro che affermano la sufficienza di un allargamento dell’etica tradizionale capace di includere empaticamente nuovi soggetti e nuove questioni. Sinteticamente, rivoluzionari da una parte e riformisti dall’altra (Bartolommei; 1989). E se questa distinzione può facilmente essere riconosciuta nell’ambito delle filosofie ambientali ponendo a confronto le posizioni dell’ecologia profonda elaborate dal filosofo norvegese Arne Naess (Naess; 1972) con le posizioni dell’ambientalismo filosofico riformista sviluppate da John Passamore (Passamore; 1974), essa - sotto diverse forme - può essere rintracciata, dagli anni sessanta ad oggi, anche all’interno del dibattito architettonico. A cominciare appunto dai primi pionieri che affrontano in modo organico e complesso il tema della preservazione delle risorse e, più in generale, della terra. Negli stessi anni in cui Paolo Soleri inizia ad occuparsi della realizzazione di Arcosanti in Arizona, in Colorado, per esempio, viene realizzata secondo le idee di Buckminster Fuller Drop City, evidenziando la diversità delle posizioni teoriche - e delle conseguenti applicazioni spaziali - generate dall’intersezione fra una medesima questione culturale e differenti definizioni dell’idea di natura. L’architetto italiano e quello americano vengono infatti stimolati da uno stesso input - e cioè la presa di coscienza della necessità di ridurre al minimo l’uso di energia e materiali per preservare la fragilità del pianeta - ma la loro differente personalità e i differenti contesti fisici e culturali nei quali si inseriscono, li fanno giungere a soluzioni profondamente diverse. Nonostante il suo legame con i circoli trascendentalisti di Emerson e Thoureau (Foster, Fernandes-Galiano; 2010), Fuller è un ingegnere e matematico così ben inserito nel suo tempo da risultare contemporaneamente alleato con gli ideali del mondo industriale e eroe per i giovani membri della contro-cultura americana. Seppure nella sua radicalità, la proposta che egli avanza resta unita ad uno dei più robusti traslati della modernità e cioè all’idea che la congiunzione di architettura, tecnologia e produzione di massa abbia il potere di risocializzare il progetto, dirigendone l’efficienza scientifica e risolvendo così i problemi della scarsità. L’efficienza a cui Fuller si riferisce è così un’efficienza quantitativa - fatta di costi, peso dei materiali, percentuali di performance per unità di peso investita, giorni necessari per la costruzione - che può essere pensata in termini di performance e che deriva da un’idea di natura in larga parte riconducibile a quella di energia e dei principi generali che la riguardano. Un’idea che nei decenni successivi porterà alla determinazione di quella corrente che la Green Architecture Guide definisce come high performance green. Apparentemente più vicina al biocentrismo radicale, la posizione di Soleri si fonda invece su un esplicito ancoraggio alla sacralità della vita che porta il progettista a mettere in moto una vera e propria revisione del razionalismo architettonico e ad una profonda critica verso l’evoluzione industriale della scienza su cui Fuller fa affidamento. Isolato in un ambiente protetto e praticamente privo di interferenze con il mondo esterno, l’asceta italiano ricava dall’osmosi con l’ecologia non solo la volontà e la determinazione nel limitare l’uso della Terra, ma la fiducia in un rapporto inedito fra artificio e natura capace, a suo avviso, di ricostruire in funzione del rispetto reciproco, un patto evolutivo fra le due parti. Nel 1960, descrivendo la propria Città del Mesa egli afferma: L’uomo e la natura [sono] uguali nella concezione e nella creazione. (Soleri; 2003 ) Rispetto, armonia, riverenza e coerenza sono le parole che più frequentemente ricorrono nei suoi scritti, come contraltare emotivo e non più denotativo - all’equilibrio e alla riconciliazione invocati dall’architetto americano. In entrambi i casi, la visione dell’ambiente non è più quella di un bacino di risorse da predare e sfruttare, ma se per Fuller la natura ci rivela lo stato dell’arte nel progetto e nella tecnologia, per Soleri essa è costituita da un insieme di elementi - che l’autore chiama potenziali cosmici - con cui instaurare, attraverso un nuovo patto evolutivo, quei flussi creativi e quelle reazioni benefiche capaci di rinnovare i legami necessari a definire la magia cellulare: quel processo per cui ogni nuovo elemento viene spontaneamente realizzato in perfetta relazione con gli elementi circostanti. Per l’architetto italiano, la scarsità delle risorse fa cioè sì che spazio, aria, sole, luce, vento, terra e atmosfera vengano viste in un’accezione certamente più ampia di quella attribuita loro fino a pochi anni prima - come energia cosmica da incanalare opportunamente negli habitat a favore della qualità ambientale, contro inquinamento e sprechi, ma anche di quella spirituale. Ai meccanismi razionali e quantitativi di Fuller concretizzati nelle cupole geodetiche e nelle case prefabbricate, egli oppone Arcosanti, un «organismo estetico con la compassione quale suo contenuto» (Soleri; 2003), vera e propria «macchina di spiritualizzazione» (Lima; 2001) governata dalle leggi fisiche di complessità e miniaturizzazione. Come Fuller, anche Soleri affronta come problema cardine quello della produzione di energia e della conservazione delle risorse, ma per lui l’architettura diventa un fenomeno di ecologia umana trasformando le città in organismi che riflettono nella loro complessità strutturale la complessità della vita che contengono e includono. Ragione per la quale negli organismi progettati dall’architetto italiano, gli elementi infrastrutturali atti a risolvere questi problemi non sono soltanto strumenti, ma si configurano anche come autentici elementi abitativi e spettacolari all’interno della continua ricerca di quell’integrazione fra fisico e metafisico richiesta dalla diretta consequenzialità fra squallore ambientale e squallore spirituale che l’asceta riconosce nelle città contemporanee. Tuttavia, al di là della lontananza delle teorie costruite dai due architetti, nelle loro posizioni è possibile rintracciare alcuni punti di convergenza comuni, importanti da sottolineare per gli sviluppi dell’idea di natura nei decenni successivi. Se infatti i due pionieri divergono completamente nelle loro ipotesi di partenza apparentemente fisiocentrica e caratterizzata da una spiritualità laica quella di Soleri, dichiaratamente antropocentrica e scientifica quella di Fuller - le definizioni di natura alle quali essi giungono sembrano in realtà compiere uno spostamento verso una direzione comune. Il percorso di entrambi, infatti, non tende a concludersi nel solo rispetto dell’ambiente come natura esterna da ammirare - o contemplare come si augurava Le Corbusier - per soddisfazione dell’animo o per raptus imitativi, ma si evolve verso l’idea più complessa del rispetto dell’ambiente naturale come generatore di vita. A partire già dagli anni sessanta, nella costruzione di nuovi spazi alternativi alla città contemporanea il confronto dell’architettura con l’ecologia e il crescente movimento ambientalista porta a pensare alla natura come fonte di ispirazione non solo nelle sue forme, ma anche nei suoi processi e nei suoi metodi. Organiche, contraddittorie, additive e plurali le arcologie di Soleri; minimali, sottrattive e standardizzate le domes di Fuller; entrambe nascono dalla volontà di riconciliarsi con la natura attraverso una forma di rifugio nei suoi mezzi, imparando dai principi generali che sembrano essere operativi nell’universo. Declinati secondo la storia in Soleri, tradotti in soluzioni tecnologiche in Fuller, questi devono comunque insegnare all’uomo ad intercettare e reindirizzare l’energia locale riorganizzandone e deviandone i flussi in modo tale che essi generino «the city in the image of the man» per Soleri, «il massimo beneficio umano» per Fuller con il minimo uso di energia e materiali. In questa fase, l’emergere della fragilità e dei limiti del pianeta [Link Introduzione] fanno cioè sì che l’idea di natura venga in ogni caso prevalentemente ricondotta a quella di energia da incanalare per il soddisfacimento delle più profonde esigenze umane e il riferimento alla natura come wilderness viene affiancato e in parte sostituito dal riferimento a fenomeni naturali di generazione di energia, quali le maree degli oceani, il vento, il potere del sole e la produzione vegetale di alcol. In architettura, ma anche in ambito istituzionale. Se infatti durante gli anni sessanta sono soprattutto dei pionieri ad occuparsi della questione della scarsità delle risorse, nel decennio successivo la crisi energetica internazionale provocata dalla Guerra dello Yom Kippur e il riconoscimento del problema anche da parte di alcuni esponenti della comunità scientifica (Meadows; 1972) conducono il tema alla ribalta. All’inizio degli anni settanta il governatore della California - Jerry Brown incarica l’architetto di stato Sim Van der Ryn - considerato un pioniere dell’architettura sostenibile per i suoi tentativi di definire ambienti sensibili al clima e al luogo - di sviluppare il primo programma governativo per la costruzione di uffici efficienti dal punto di vista energetico e di condurre alla definizione di standard energetici da applicare a tutti gli uffici della California. Segnando un punto di svolta importante per il tema del riscaldamento passivo, ma, più in generale, anche per la crescente consapevolezza della responsabilità dell’uomo - e dell’architettura - rispetto alla crisi ambientale. Una consapevolezza destinata ad accentuarsi. Nel 1977, in particolare, Architecture and Energy - uno studio di Richard Stein finanziato dall’American Institute of Architecture - dimostra che è il modo in cui sono costruiti gli edifici a causare il maggior spreco di energia, trasformando l’uso cosciente e responsabile della natura - delle sue risorse fisiche ed energetiche - in un vero e proprio imperativo etico che, laddove la discussione si spinge oltre i meri cambiamenti tecnologici, produce non solo soluzioni ingegneristiche ma anche spazi contratti e sofisticati. Basti pensare alle arcologie di Soleri come alle domes di Fuller, al di là della differenza dei linguaggi, esse sono entrambe costituite da spazi densi, compatti e spazialmente limitati destinati ad ottimizzare la loro partecipazione attraverso la progressiva cancellazione e minimizzazione, mediante il consumo di se stesse mandato della complessità. Spazi che contraendosi non producono certo un’estetica univoca, ma processi morfologici accomunati dal tentativo di provare ad indicare nelle loro stesse forme un valore energetico limitato. Non solo. Le differenti posizioni emerse in questi decenni sembrano trovare un ulteriore punto in comune nel raccogliere almeno teoricamente - l’invito fatto da Leopold di pensare a lunga distanza e ad una scala più larga e comprensiva, mentre su entrambi i fronti il superamento della concezione di uomo e natura come elementi separati auspicato dallo scrittore americano sembra ancora lontano, anche se uomo e natura iniziano ad essere posti sullo stesso piano. Per Fuller come per Soleri, l’uomo non è più dominatore della natura, perché ora sa di esserne parte integrante, di essere immerso in un divenire evolutivo che esige la messa a punto di un ruolo responsabile e di un nuovo habitus mentale. Tuttavia, è proprio la sua peculiarità di essere intelligente, dotato di mente oltre che di cervello, a dargli una funzione fondamentale nell’universo, quella di più grande e di più potente creatore o trasformatore di ecologia. In modo più o meno dichiarato, negli anni settanta, l’intento resta sicuramente più quello di riformare l’ambiente che non quello di rifondare l’uomo. Egli resta un plasmatore il cui compito è quello di trasfigurare la natura in quella che Soleri chiama neo-natura, un substrato fisico-minerale - nettamente distinto da quello naturale - che sia in grado, dal momento che la natura non lo è, di rendergli servizi specifici ed esclusivamente umani. Il mimetismo imitativo di Wright viene quindi parzialmente abbandonato a favore della riflessione nietzschiana sulla capacità dell’uomo di affrancarsi da ciò che è fittizio, proponendo con linguaggi distanti e plurali alternative radicali all’ecosistema naturale. La cooperazione con la natura non conduce cioè solo più ad un’armonizzazione con il paesaggio o a forme organiche, ma, al contrario, l’intervento della mente viene interpretato come un filtro trasformatore che intellettualizzando i processi tratti dal mondo organico, astraendoli, li cambia. Siamo tutti interpreti della realtà - afferma Soleri - non sappiamo cosa siamo ma interpretiamo e diveniamo. Questo sembra suggerire che abbiamo un filtro e perciò filtriamo tutto quello di cui abbiamo percezione, questo filtraggio in un certo senso trasforma il prodotto da naturale o organico in termini di biologia, in qualcosa di molto più astratto, molto più connesso con come il cervello funziona e come raccoglie e risponde a degli stimoli che esistono ma di cui non sappiamo il significato. L’organico diventa intellettualizzato. (Soleri. Cit.in Lima; 2000) L’architettura diventa inorganica per necessità. Forma fisica dell’ecologia dell’umano, essa comprende ed emula la natura solo ai fini della trascendenza. La natura resta al di fuori, immensa, disponibile, ma è anche, nella veste della sua stessa metafora, miniaturizzata e costruita all’interno dell’architettura che, per Fuller come per Soleri, rappresenta non un obiettivo ma una soluzione ai problemi del pianeta. Sebbene da fronti diversi, entrambi gli architetti, infatti, rispondono ai problemi della società autodefinendo le loro architetture come vere e proprie visioni alternative alle dispendiose città capitaliste e al dilagare incontrollato della megalopoli. Visioni sulle quali fondare una nuova società, un nuovo ordine socio-comportamentale e una pacifica rivoluzione sociale. Il superamento della crisi energetica. Trascrizioni verdi. Nonostante Soleri e Fuller vengano oggi riconosciuti come importanti pionieri della cosiddetta architettura sostenibile, le ricadute delle loro costruzioni teoriche sui decenni immediatamente successivi alla loro formulazione non sono affatto così immediate. La loro volontà di proporre visioni architettoniche alternative con le quali contrastare le città disegnate dal consumo materialista li pone infatti spesso nella posizione di figure utopiche incapaci di confrontarsi con il contesto reale. Se infatti le loro visioni di comunità isolate fondate su una consapevolezza condivisa hanno una forte attrattiva in campo teorico, questa si frantuma nello scontro con le realtà materiali e con la complessità della vita collettiva. Così, mentre la visione di Soleri - appositamente lontana dal mondo reale continua tutt’oggi a svilupparsi nel deserto dell’Arizona, già intorno alla metà degli anni settanta tutte le comuni costituite nel decennio precedente ispirandosi al pensiero di Fuller scompaiono: per i giovani degli ultimi anni sessanta la visione dell’architetto americano ha rappresentato una fuga dal bisogno di lottare per la distribuzione delle risorse e l’adatta organizzazione della vita, di aderire alle istituzioni e di confrontarsi con altri individui ma negli anni seguenti il loro fallimento ha dimostrato come le tecnologie, l’architettura e il progetto - senza un adeguato sostegno politico - non possano certo sostenere la comunità. Inoltre, se la crisi energetica causata dall’embargo petrolifero dei paesi arabi ha portato all’emergere di una nuova sfaccettatura dell’idea di natura, è proprio l’attenuarsi della stessa a causare un ulteriore spostamento semantico del termine. Mentre figure come Soleri continuano la loro ricerca visionaria verso un’architettura sostenibile, riacquisiti i sufficienti approvvigionamenti di petrolio dai paesi del Medio Oriente, per la maggior parte degli architetti la natura vede nuovamente diminuire drasticamente il suo valore accentuando e aumentando ulteriormente le contraddizioni e le coesistenze interne non solo all’ambito architettonico, ma anche a quello istituzionale. Proprio negli anni ottanta, infatti, quegli stessi governi che continuavano a servirsi senza remore di un’economia capitalista priva di regole e di attenzioni verso la natura cominciano a promuovere iniziative di protezione verso la stessa decisamente rilevanti: nel 1982 l’ONU approva la Carta Mondiale della Natura e cinque anni più tardi la Commissione Mondiale su Ambiente e Sviluppo porta alla pubblicazione del Rapporto Brundtland. E se il primo documento non fa che affermare a livello istituzionale e internazionale la necessità di mutare il rapporto uomo-natura sulla base, ancora una volta, del valore intrinseco che viene attribuito a quest’ultima, il secondo non rappresenta solo il primo documento internazionale in cui viene introdotto il concetto di sviluppo sostenibile, ma anche - mediante la definizione dello stesso - il primo in cui i termini del rapporto cambiano. Esso infatti non parla della natura in quanto tale, ma si riferisce all’ambiente in stretta connessione al benessere delle persone e, quindi, anche alla qualità ambientale e, nel tentativo di conciliare ambiente e sviluppo, interessi della natura e interessi umani, afferma che questi non sono realtà separate, ma, al contrario, strettamente connesse. La tesi è chiara e il superamento delle definizioni precedenti è evidente: Ambiente e sviluppo non sono realtà separate, ma al contrario presentano una stretta connessione. Lo sviluppo non può infatti sussistere se le risorse ambientali sono in via di deterioramento, così come l’ambiente non può essere protetto se la crescita non considera l’importanza anche economica del fattore ambientale. Si tratta, in breve, di problemi reciprocamente legati in un complesso sistema di causa ed effetto, che non possono essere affrontati separatamente, da singole istituzioni e con politiche frammentarie. (Rapporto Brundtland; 1987) Natura e artificio non vengono più intese come due entità separate - anche se interagenti e complementari - ma come elementi interdipendenti, afferenti a un medesimo paradigma concettuale e quindi fungibili l’una con l’altra. Con nuove e diverse ricadute progettuali. Se infatti fra i sostenitori della cosiddetta architettura sostenibile la ricerca di rispetto, cooperazione o riconciliazione con la natura dei decenni precedenti inizia ad essere affiancata da una ricerca di interdipendenza e di fusione con essa, questa viene, ancora una volta, interpretata secondo modalità e posizioni assolutamente differenti. Alcuni anticipatori come Sim Van der Ryn iniziano a declinare l’idea di fusione fra uomo e natura nello sforzo - poi sviluppato nei decenni successivi - di definire nuovi modi di vita e le loro strutture corrispondenti, ma, nella maggior parte dei casi, l’idea viene letteralmente tradotta nel tentativo di unire i due termini mediante mezzi estetici. Con l’energia nuovamente economica, le persone sentono infatti meno il bisogno di conservare e l’architettura non si rivolge più tanto verso risposte tecniche, ma anche, se non prevalentemente, verso risposte formali. Sia fra gli esponenti dell’high performance green, che fra quelli del cosiddetto natural green (Brennen; 2009). Nei primi, in particolare, l’idea di fusione viene trascritta in ambito architettonico dando letteralmente vita alla massa muraria, che acquisendo intelligenza e diventando una membrana permeabile, si autodefinisce come un dispositivo interattivo in grado di dialogare all’interno con gli abitanti e all’esterno con la natura. Basti pensare, intorno alla metà degli anni ottanta, a realizzazioni come l’Insitut du Monde Arabe di Jean Nouvel o la Torre dei Venti di Toyo Ito destinate a diventare riferimenti sui quali orientare una produzione in cui i confini fra animato e inanimato, materia ed energia, organico e inorganico diventano labili. Per i secondi, invece, lo stimolo indotto da un’idea di natura che almeno in parte si riavvicina al concetto di wilderness porta a rendere gli elementi dell’ambiente naturale una parte dell’architettura - proprio come la muratura, l’acciaio, il calcestruzzo e il vetro - riducendo sostanzialmente la stessa ad un unico colore: il verde. Dando nuovamente per scontate le qualità estetiche e spirituali intrinseche nel mondo naturale, architetti come Emilio Ambasz la cui originalità e stravaganza progettuale non possono certamente essere soggette a seppur labili classificazioni iniziano a costruire situazioni ipernaturali autodefinendo la propria architettura come un risarcimento ambientale, compensazione proposta al cittadino per un mondo sempre più frenetico, inquietante e innaturale. Rifiutandosi cioè di assecondare e rappresentare il mondo nel suo evolversi, nel suo accelerarsi e nel suo smaterializzarsi, Ambasz prova ad opporsi a tali frenesie mediante la definizione di una stabilità che, come realtà o anche solo come immagine surreale, funga da confortante controcampo. Attraverso la definizione di una nuova visione nella quale l’architettura non viene più ottimisticamente proposta come soluzione, come per Fuller o per Soleri, ma come semplice e temporanea compensazione. In questo senso, mediante l’immagine di un’architettura ossequiosa del paesaggio e non più contrapposta ad esso, immagini di tecnologia e primitivismo vengono sovrapposte, natura e architettura vengono fuse e all’accelerazione della realtà viene opposta, come potenziale approccio globale, una profonda ricerca di stabilità che trova rappresentazione nella coesistenza armonica anche dal punto di vista formale fra natura e artificio. Gli edifici continuano ad essere pensati come natura fatta dall’uomo ma la vegetazione e il terreno vengono integrati al loro interno. Tetti verdi, terrapieni, graticci, alberi collocati sui balconi, rampe erbose, giardini pensili e vasche d’acqua si sovrappongono alle costruzioni con la volontà di riconsegnare alle città tutto lo spazio naturale che sarebbe stato sottratto loro da progetti tradizionali. Gli strumenti propri dell’high performance green vengono occultati da materiali naturali e le tecnologie diventano uno strumento non da ostentare ma con le quali suggerire le presenze architettoniche. E coprire, rivestire, restituire diventano le parole chiave di molte costruzioni retoriche. Non solo. Mentre architetti come Wright tendevano a descrivere gli alberi e il resto della vegetazione come un accento compositivo all’interno o intorno ai loro edifici e l’habitat come estensione del terreno adiacente, il nuovo accento formale stimolato dalla fine della crisi energetica porta a riconoscere nella natura non solo qualità formali e spirituali intrinseche, ma anche un’esperienza rituale. Nei progetti più significativi degli anni ottanta, topografia e vegetazione si trasformano in una sorta di microcosmo narrativo di un’immaginaria utopia e la struttura architettonica viene nascosta, ridotta a geometrie minime che funzionano come inquadrature per il paesaggio. Opponendo all’ottimismo del decennio precedente, una malinconia che, se non ben controllata, rischia di trasformarsi in una venatura nostalgica paralizzante che, come avvenuto per molte voci del dibattito ambientale (Assennato; 2010), potrebbe ricondurre la natura ad un mero sfondo di contemplazione. A qualcosa da ammirare anziché da modificare, con risultati, in campo architettonico, senza dubbio discutibili. Se infatti durante gli anni ttanta le riflessioni più profonde sulla nuova interiorizzazione del paesaggio e del rapporto tra uomo e natura hanno condotto ad una concezione rinnovata ed arricchita dello spazio come spazio sistema - passando dall’idea di spazio chiuso, circoscritto e limitato ad un’idea di spazio interno-esterno e di spazio pubblico come elemento altrettanto importante dell’architettura soprattutto negli ultimi decenni, quelle più superficiali che si sono collocate lungo questa via interpretativa hanno prodotto performance artistiche o formali, immagini di un falso idillio preindustriale esente da ogni cambiamento. Accanto ad una pratica architettonica sincera e positiva, molteplici opere di camouflage naturalistico hanno cioè caratterizzato il naturale come una mera arma in più a servizio dell’edilizia, alla quale sembra che oggi niente sia più negato se occultato, ingentilito o scambiato per un intorno verde. Il cemento si è coperto di verde; l’architettura ha indossato un mantello vegetale e si è trasformata in collina; gli edifici si sono sottoposti ad una cosmesi o si sono smaterializzati per affrontare luoghi urbani irrisolti o per sopperire ad un’afasia linguistica (Repishti; 2008). Proprio come il funzionalismo tanto combattuto, le contaminazioni verdolatriche in molti casi sono diventate qualcosa che si esegue coscienziosamente senza conferire loro alcun altro valore estetico e culturale. In molti casi, esse vengono ridotte ad elementi applicati più per simboleggiare l’aggiornamento progettuale che non un rapporto logico con la tecnica, la forma, lo spazio e il contesto generando un’irrituale naturalizzazione che ha assecondato il rifiuto collettivo di un mondo costruito da manufatti con la speranza di eludere la classica barriera natura-artificio e di allontanare l’angoscia per il futuro, colmando lo scarto apertosi tra il fallimento del modello di sviluppo capitalistico e la presa di coscienza delle responsabilità collettive e individuali. Una speranza che tuttavia non può certo essere risolta da un atteggiamento che è esso stesso frutto di un fenomeno di geografia economica, del “business as usual”, ma solo da una nuova visione della natura finalmente basata su principi ecocentrici anziché ego-centrici. Consapevoli di questo, negli stessi anni ottanta, architetti come James Wines, profondamente influenzati dai saggi sull’ambientalismo di scrittori come Rachel Carson e Arne Naess (Angrisano; 1999), provano ad opporsi all’irrituale naturalizzazione in atto approfondendo l’idea già anticipata da Fuller della natura come portatrice di informazioni, arricchendola però di un’importante valenza formale. Secondo un’ulteriore posizione e sfaccettatura, essa inizia cioè ad essere pensata non solo come insieme di elementi verdi, spesso considerati privi di valore estetico e culturale, ma al contrario come unica fonte di simbolismo totalmente universale, rigenerativa di contenuto, capace di eliminare le ridondanze e di rivelare costantemente nuove informazioni da porre alla base di un nuovo linguaggio, ma soprattutto di una nuova consapevolezza. Definendo una prospettiva differente nella quale l’architettura non si definisce come compensazione o come strumento di elusione estetica della barriera fra natura e artificio, ma come portatrice dei più importanti messaggi del suo tempo. Architetture sensibili e integrate nel loro contesto diventano fortemente iconografiche per trasformarsi in veri e propri simboli del movimento ambientalista progettati proprio con l’intento di provocare un cambiamento nella consapevolezza della società. Anticipando in parte le idee diffuse dalla pubblicazione del Rapporto Brundtland e schierandosi contro la scelta professionale di enfatizzare i vantaggi tecnologici e sottovalutare gli aspetti sociali ed estetici, l’architetto americano fondatore dei SITE propone cioè di usare il simbolismo legato alla natura come mezzo per connettere l’architettura al suo contesto culturale e ad un’immagine centrata sulla terra. L’obiettivo primario della posizione rappresentata dai SITE è di superare le soluzioni tecniche imposte dall’alto - e quindi incapaci di farsi comprendere - attraverso una comunicazione diretta con la gente raggiungibile mediante strutture sensibili ai cambiamenti ambientali, come a quelli sociali; mediante un’architettura che traduca i preziosi obiettivi del movimento ambientalista - il confronto con l’ecologia e la preservazione delle risorse in primis - in un linguaggio estetico capace di riconciliare l’uomo e la natura. Diversamente da Fuller, per Wines e i suoi seguaci senza l’arte l’intera idea di sostenibilità fallisce e gli edifici devono quindi sì farsi fortemente iconografici ma sempre senza sacrificare la loro qualità artistica. In questo senso gruppi come i SITE superano l’idea di Ambasz di fusione fra interno ed esterno risolta mediante entità quasi astratte, ma soprattutto i camouflage naturalistici, sottolineando piuttosto l’importanza dell’integrazione della struttura e del contesto come parti inseparabili dell’ambiente. In risposta alla nascente età dell’informazione e dell’ecologia, essi propongono edifici come sistemi integrati - termine ripreso anche da altri architetti come Sim Van der Ryn - di informazioni non solo più ecologiche, ma anche sociali, psicologiche, culturali, contestuali capaci di instaurare una profonda relazione simbolica con l’intorno. Relazione che diverrà centrale nei decenni successivi. Nel frattempo, tuttavia, l’approccio prettamente estetico sviluppato durante gli anni ottanta continuerà, almeno a livello teorico, ad alimentare il dibattito fra le generazioni successive. Anche quando, negli anni novanta, la pubblicazione di nuovi rapporti sullo stato del pianeta (Meadows; 1992. Worldwatch Institute; 1988) e lo svolgersi di nuove conferenze internazionali sul tema mettono nuovamente in evidenza il declino della salute dell’ambiente e quindi il pericolo di un’imminente crisi ecologica spostando nuovamente l’attenzione verso gli aspetti tecnici della nostra disciplina - la questione formale continua ad essere evidenziata come centrale da diversi protagonisti del dibattito. Per studi come Foster & Associati e i Future System, negli ultimi decenni la natura diventa un modello da trascrivere in architettura su diversi livelli, a partire dai materiali per arrivare alle performance degli edifici, conducendo sempre più all’idea già introdotta nel decennio precedente - di edifici dinamici: forme vive e reattive capaci di adattarsi a differenti condizioni ambientali. Gradualmente forme fisse e pesanti lascino così spazio ad edifici leggeri e allungati, flessibili e in parte mobili. Ma questa non è la sola direzione lungo cui continua a trasformarsi il rapporto uomo-natura. Sempre più frequentemente, infatti, anche gli stessi architetti che si stavano occupando della progettazione di ‘polmoni viventi’ dall’alto tasso tecnologico iniziano ad attribuire all’ecologia un significato molto più ampio di quello attribuitole fino a quel momento, allargando notevolmente le questioni da considerarsi dentro il campo del movimento. Il ruolo sociale dell’ecologia. Declinazioni locali come soluzioni quotidiane. Se fra la fine degli anni sessanta e i primi anni settanta del Novecento l’opinione pubblica e i grandi mezzi di comunicazione nei paesi industrializzati avevano scoperto l’ecologia come bandiera di un’ondata di contestazione nei confronti delle alterazioni provocate all’ambiente naturale, nei decenni successivi i significati attribuiti al termine si sono moltiplicati ed ampliati trasformandolo in un simbolo, molto meno specifico e molto più diffuso, di speranza nel cambiamento verso condizioni di vita più in armonia con la natura. La disciplina accuratamente definita dal biologo tedesco Ernst Haeckel come l’insieme di conoscenze che riguardano l’economia della natura e lo studio di tutte le complesse relazioni degli organismi con l’ambiente circostante e tra di loro (Smith, Smith; 2009) viene trasformata dagli ambientalisti in una disciplina in grado di fornire una guida per le relazioni dell’uomo con l’ambiente portando non solo alla definizione di molteplici settori disciplinari quali l’ecologia della mente, l’economia ecologica, l’ecologia umana, ma soprattutto alla scoperta del suo ruolo sociale. In questo senso, Felix Guttari nel suo testo Le tre ecologie chiarisce bene il problema. Per l’autore la prima ecologia è sociale - è importante che tutti possano esprimere e contribuire alle decisioni che li coinvolgono -; la seconda è psicologica - si tratta del rapporto di ciascuno con il mondo che lo circonda - e solo in un terzo momento interviene la terza ecologia, quella fisica: l’ingegneria verde. Inizia cioè a definirsi una prospettiva secondo la quale l’ecologia diventa scienza delle relazioni non solo rispetto ad elementi o parti fisiche, ma anche rispetto agli attori e al loro rapporto con il contesto, introiettando la società e la cultura all’interno della definizione di ecosistema. Mentre infatti Leopold nei suoi scritti faceva riferimento al paradigma della comunità biotica di Charles Elton descrivendo quest’ultima come ad un insieme di individui che condividono lo stesso ambiente fisico e tecnologico formando un gruppo riconoscibile (Armandi; 2006), ad affermarsi negli anni successivi è certamente il paradigma ecosistemico odumiano. Paradigma per il quale l’oggetto di studio non è solo più una singola comunità ma un’intera porzione di biosfera e cioè l’insieme di organismi animali e vegetali che interagiscono fra loro e con l’ambiente che li circonda mediante cicli interconnessi e indipendenti operativamente inseparabili. Con risvolti radicali sul progetto. Sotto questo punto di vita, declinare in ambito architettonico l’importanza data all’interconnessione dall’ecologia significava infatti considerare il verde e la natura come elementi in grado di rappresentare un approccio sensibile non solo al clima e all’inquinamento - come già avveniva nei decenni precedenti ma anche al tessuto culturale, attribuendo all’architettura definita come sostenibile la capacità di accrescere appieno il significato della vita. Secondo una prospettiva nella quale, almeno in teoria, niente separa le azioni ambientali da quelle culturali e l’ecologia da nuovo ed effimero stile viene pensata come un’arte di vivere, una logica, una politica, una morale. Anche per alcuni architetti che negli anni settanta erano riconosciuti sostenitori del progetto efficiente dal punto di vista energetico l’idea di conservare energia e risorse e procurare un ambiente salutare in cui vivere viene progressivamente affiancata dalla volontà di elaborare un sistema modello per il supporto della vita. Un sistema che un ampio numero di persone possa usare per preparare il futuro e migliorare la vita quotidiana. Sim Van der Rin, per esempio, in testi come Ecological design (Cowan, Van der Rin; 1996) e Design for life (Van der Ryn; 2006) sposta progressivamente la sua attenzione verso la definizione di ambienti - dalla comunità alla specifica scala dell’edificio - che siano sensibili al luogo e al clima, ma che rispondano anche ai bisogni umani e siano di sostegno sia ai sistemi ecologici che alla qualità della vita. Quello che è necessario per l’architetto olandese, è un cambiamento del punto di vista, uno spostamento della consapevolezza che segni un punto di svolta nella crescita della popolazione e nei livelli personali di consumo ancora una volta possibile mediante un sistema di progettazione che imiti e si integri con i processi naturali. Se cioè i primi incontri con i temi affrontati dal’ecologia enfatizzavano soprattutto l’aspetto fisico delle idee di sostenibilità e di natura - il miglioramento della qualità dell’aria e dell’acqua, la riduzione dei consumi di energia, il ripristino e la conservazione delle risorse naturali e la riduzione dei rifiuti - progressivamente esse vengono viste come concetti multi-sfaccettati che comprendono la dimensione sociale, politica, economica, culturale e spirituale, tanto quanto quella ecologica. E per una parte del dibattito architettonico il nocciolo del problema si sposta. La protezione del verde, l’organizzazione del traffico e l’utilizzo del sughero al posto della lana di roccia diventano elementi complementari, necessari ma non sufficienti: la possibilità di stabilire un nuovo equilibrio non sta più nelle singole scelte, nei materiali o nella tecnologia, quanto piuttosto nel recupero delle prospettive, dei significati, degli orizzonti. E l’architettura inizia a autodefinirsi non solo come potatrice iconografica dei più importanti messaggi lanciati dal movimento ambientalista ma come strumento con cui integrare i flussi e le strutture al fine di migliorare concretamente la qualità della vita. In America, ma anche in Europa dove, probabilmente anche grazie alla maggiore ricchezza del palinsesto storico delle città e alle radici più profonde delle tradizioni rispetto al contesto americano, alla fine degli anni ottanta inizia ad emergere un nuovo concetto: quello di bioarchitettura intesa come un’architettura mirata ad integrare le attività dell’uomo alle preesistenze ambientali ed ai fenomeni naturali con l’obiettivo, appunto, di realizzare un miglioramento della qualità della vita attuale e futura. Opponendosi al punto di vista espresso dall’high performance green, architetti come Ugo Sasso, fondatore dell’Istituto Nazionale di Bioarchitettura a Bolzano nel 1991, iniziano cioè a sostenere la tesi che il cosiddetto progetto ecologico o sostenibile non debba esaurirsi nell’edificio eco-sostenibile dal punto di vista tecnologico, ma debba invece avere al centro l’uomo, la qualità sociale del vivere della persona, la sua appartenenza al luogo geografico e sociale e la salvaguardia del suo mondo di relazioni stratificatosi attraverso il tempo nelle città e nei paesi. Per i rappresentanti della bioarchitettura così intesa, l’architettura da portatrice di messaggi universali diventa sempre più declinata a livello locale, complice del territorio e del carattere dei luoghi verso i quali si estende la definizione di natura. La crescente consapevolezza di dover salvaguardare l’ambiente terrestre per consegnarlo alle generazioni future conduce cioè verso differenti direzioni. Da un lato, grazie ad eventi internazionali come la Conferenza di Rio o l’accordo di Kyoto, quegli stessi governi che avevano stimolato il dibattito sul tema dell’interdipendenza fra i programmi di sviluppo e le azioni di protezione dell’ambiente assumono impegni precisi e circoscritti per contrastare le cause dell’inquinamento, controllare il ciclo di vita dei materiali e valutare il comportamento energetico degli edifici e del processo edilizio spronando la ricerca e l’innovazione tecnologica al fine di attuare processi produttivi che minimizzino l’uso delle materie prime e stabilizzino le concentrazioni in atmosfera dei gas serra. Dall’altro, alcuni professionisti del verde iniziano a definire l’ambiente come quel contesto di relazioni che rende possibile un fenomeno, spostando il rapporto dialettico uomo-natura verso la contrapposizione - intuita e auspicata da Leopold già negli anni quaranta - fra ciò che è naturale e ciò che è culturale. Pensando alle diverse culture come a modi specifici e peculiari di abitare la natura, questi affiancano il piano ambientale a quello sociale e culturale e l’obiettivo primario diventa la qualità della vita. L’essenza della qualità ecologica spaziale, cioè, prima che urbanistica ed architettonica diventa sociale, economica, politica. Una qualità definibile più che nei singoli elementi, nel sistema di relazioni che si instaurano nel tempo e nello spazio all’interno del contesto; più che nell’immagine della sua architettura, nel modello sociale che questa intende proiettare. In questi anni, ritorno alla natura significa quindi ritorno al suo significato, all’esperienza dell’alterità, alla riscoperta della sua dimensione locale. Dimensione che, sebbene facesse parte dei dibattiti architettonici ormai da diversi decenni, viene certamente riportata alla ribalta dall’emergere degli studi ecologici e dall’interpretazione propostone nei documenti internazionali e nei diversi ambiti disciplinari. Se infatti il rapporto della Commissione Brundtland sottolineava l’indispensabilità della diversità delle specie per il normale funzionamento degli ecosistemi e della biosfera nella sua totalità, in campo architettonico il concetto di biodiversità viene declinato in uno stimolo verso la riscoperta del locale e delle relazioni che lo costituiscono e nell’idea - poi sviluppata nei decenni successivi da architetti come Ken Yeang attivi in ambiti caratterizzati da un forte radicamento delle tradizioni - che non esistano simboli culturali ovvi e universali ma che la cultura venga definita più ampiamente dai modi in cui le persone vivono, dalle loro abitudini e dal loro stile di vita. Se dobbiamo applicare il concetto di ecosistema al progetto - afferma l’architetto malese nel suo testo Designing with nature - allora il sito di progetto deve fin dall’inizio essere concepito polisticamente dal progettista come un’unità che consiste di componenti biotici come abiotici - viventi e non viventi - che funzionano insieme come un tutt’uno per formare un ecosistema, e prima che qualsiasi azione umana possa essere inflitta sul sito di progetto, le sue caratteristiche e interazioni devono essere identificate e completamente comprese. (Yeang; 1995) In questo senso, nelle architetture più significative sviluppate a partire da questa posizione non vi è una mera applicazione di elementi decorativi e formali del passato, ma una traduzione delle tipologie tradizionali in soluzioni architettoniche contemporanee, progettate appunto non come trascrizioni ma come declinazioni culturali. Benefici spaziali e tecnologici dell’architettura moderna sono allineati ad una comprensione del clima locale e ad una consapevolezza dei modelli culturali mirati a sintetizzare la modernità con l’eredità tradizionale. Negli anni novanta, così come nei decenni precedenti, non cambia dunque la posizione dell’uomo rispetto alla natura perché anche gli esponenti più rilevanti della bioarchitettura, come già faceva Soleri, continuano a parlare di architetture fatte e realizzate per l’uomo che dovrà abitarle - ma cambiano gli obiettivi, il significato attribuito ad entrambi e, di conseguenza, la definizione spaziale. Considerando gli edifici, la città, il territorio come organismi, l’architettura più interessante di questa fase rifiuta infatti di ridurre la complessità alla sommatoria dei diversi componenti costruttivi: così come un essere vivente è qualcosa di diverso e di più dei suoi elementi, ogni singola stanza diventa un luogo che vive attraverso le mutue relazioni. Anche lo spazio edificato diventa nella sostanza qualcosa di diverso rispetto alla giustapposizione razionale dei suoi pezzi e dimensione, superficie, forma non sono più parametri sufficienti con i quali descriverlo. Sono l’aria, i colori, i suoni, la vegetazione, la vibrazione della luce ma anche i rapporti di simpatia e di adesione con l’intorno a definirne la ricchezza antropologica. Perché secondo questo punto di vista sviluppato a partire dal tema della biodiversità, la qualità, sebbene la sottenda, non è più appiattibile sulla quantità, né può scaturire come sommatoria o accostamento di elementi pur qualitativamente rilevanti. Nasce invece sempre e solo come relazione tra le parti: se le parti riescono ad esprimere elementi di relazione, lo spazio si presenta comprensibile e quindi è possibile attribuirgli significato. Secondo un passaggio importante per l’attribuzione di valore. Realizzazioni come il Centro Culturale Jean-Marie Tjibaou in Nuova Caledonia diventano allora l’esempio delle potenzialità di una lettura morfologica ed ecologica del territorio capace di restituire ricchezza di contenuti e di forme nel paesaggio visto come complesso tra elementi naturali e costruiti. In questo, come in altri casi, è l’informazione - il raccolto più significativo delle struttura ecologica - ad organizzare la forma mediante un processo di astrazione e significazione della stessa. Com’era già stato auspicato dalla singola personalità di Soleri alcuni decenni prima, negli anni novanta,- in modo certamente più esteso - al rispetto per l’ambiente viene progressivamente affiancato quello della cultura del luogo, della sua geografia e del suo clima. Un rispetto non più reverenziale e mistico, ma propositivo, che spinge l’architettura oltre la mimetizzazione e il camouflage arricchendo il compito della nostra disciplina. Questa diversa definizione dell’idea di natura sembra infatti richiedere all’architetto di cogliere l’occasione che, di volta in volta, una particolare cultura, un particolare ambiente e una particolare società gli offrono; di riconoscere e valorizzare potenzialità che altri non vedono. Non camaleontismo ma una professionale attitudine ad ascoltare, a cercare di capire per poi interpretare e sintetizzare nel momento espressivo formale. Un momento che, diversamente da quanto proposto dalle idilliache soluzioni verdi, non esclude affatto un certo grado di tensione fra costruito e natura, fra ‘found’ e ‘built’, fra locale e universale. Secondo una visione che, come sottolineato per esempio da Rogers nel 1996, sposta sempre di più l’enfasi dagli edifici al progetto urbano e da scelte semplici, come l’energia o il riscaldamento globale, a scelte complesse, come appunto l’ecologia. Tuttavia, se da un lato la convinzione che i limiti della conoscenza della natura si ampliano nel momento stesso in cui la osserviamo spinge gli esponenti più vicini alla cosiddetta corrente del natural green ad allontanarsi sempre più decisamente da una metodologia codificata e semplificata, proprio negli stessi anni negli Stati Uniti e nel Regno Unito vengono rispettivamente definiti due dei più riconosciuti sistemi di valutazione dell’efficienza energetica e dell’impronta ecologica degli edifici, il Leadership in Energy and Enviromental Design (1994) e il BRE Enviromental Assesment Method (1990). Accentuando, ancora una volta, le contraddizioni, le irregolarità e le molteplici sfaccettature presenti nelle modalità con cui l’architettura si è relazionata al tema del rapporto fra uomo e natura. Ma se ulteriori riflessioni su sistemi di classificazione e di valutazione non potrebbero portarci molto distanti da dove già si è arrivati, a nostro avviso, è da un approfondimento dell’idea di natura come ecosistema che la disciplina architettonica potrebbe trarre importanti spunti per suoi ulteriori sviluppi. L’idea di auto-sostenibilità. Declinazioni rigenerative. La costante riflessione sul rapporto uomo natura posta alla base del dibattito sulla sostenibilità e stimolata dal confronto fra architettura e ecologia ha quindi condotto negli ultimi decenni ad un’ulteriore definizione dell’idea di natura come ecosistema. E se i primi anni dell’introduzione e dell’interpretazione di questo concetto in ambito architettonico hanno condotto soprattutto ad una riflessione sul tema delle relazioni e dell’interdipendenza delle sue parti, negli ultimi anni la riflessione si sta in parte spingendo oltre. Se realmente compresa, la definizione di ecosistema data da Odum, ponendo l’accento sull’inseparabilità dei suoi componenti e dei cicli ad essi correlati, non suggerisce infatti solo l’importanza delle relazioni, ma anche la mancata autonomia di ogni forma di vita e il fatto che, di conseguenza, la specie e gli individui capaci di sopravvivere non siano necessariamente i più forti, come nell’accezione darwinista, ma piuttosto quelli capaci di favorire relazioni simbiotiche; i più funzionali cioè al sistema di relazioni che va creandosi in uno specifico ecosistema. Con importanti ricadute teoriche e progettuali. La presa di coscienza di questo aspetto ha infatti condotto architetti come Ken Yeang non solo a porre l’enfasi sull’interdipendenza e sull’interconnessione fra le attività - sia naturali che umane - ma anche sulla loro reciproca influenza. Secondo una prospettiva nella quale, per la prima volta, la natura non viene più considerata come un semplice contenitore che sviluppa pressione selettiva sulla specie ma come una sorta di organismo che scambia con gli esseri viventi. Questi evolvono sotto la pressione ambientale, ma il loro metabolismo e comportamento cambiano l’ambiente stesso mediante una dinamica co-evolutiva per cui l’architettura non si pone più né come soluzione o complice passiva, né come semplice elemento di compensazione o strumento informativo, ma come complice attiva, ripartiva e produttiva per la stessa. L’obiettivo progettuale diventa quello di raggiungere una relazione simbiotica tra il sistema creato dall’uomo e l’ecosistema naturale e la declinazione del concetto di ecosistema nel progetto non porta più ad una semplice trascrizione materica o materiale dei suoi meccanismi e delle sue strutture ma ad una proposta migliorativa per lo stesso. A diventare centrale è l’idea di auto-sostenibilità, ancora una volta derivata da due principi biologici: quello di auto-poiesi e quello di autorganizzazione rispettivamente definiti da Humberto Maturana e Francisco Varela (Maturana, Varela; 1980) e da Stuart Kauffman (Kaufmann; 1993). In particolare, il concetto di autopoiesi nasce dalla necessità di dare una definizione di sistema vivente scollegata da specifiche caratteristiche funzionali e basata sul sistema in quanto tale, secondo una prospettiva sicuramente simile a quella richiesta dagli sviluppi dell’idea di natura e di sostenibilità. E con questo obiettivo, già negli anni settanta, i due biologi cileni avevano proposto l’idea di sistemi autopoietici, ossia di sistemi capaci di ridefinirsi continuamente, di sostenersi e di riprodursi al proprio interno superando l’idea di un equilibrio naturale statico - spesso adottato dalle retoriche architettoniche - a favore di quella di un equilibrio dinamico che tuttavia non altera le proprietà del sistema stesso. Secondo un punto di vista certamente simile a quello che qualche anno più tardi propose il biologo americano. Kauffman ha infatti teorizzato che la complessità dei sistemi biologici e degli organismi derivi dall’autorganizzazione in dinamiche distanti dall’equilibrio e non solo dal meccanismo della selezione naturale darwinista. Egli definisce l’autorganizzazione come la proprietà manifestata da alcuni sistemi complessi, formati da molteplici elementi interagenti tra di loro, di sviluppare strutture ordinate ed organizzazione alla scala superiore. Questi sistemi, a suo avviso, sono capaci di creare strutturazione facendo crescere la complessità interna anche quando i singoli elementi del sistema si muovono in modo autonomo ed in base a regole puramente locali (Lima; 2010). Con spunti assolutamente centrali per la nostra disciplina. Il fuoco dell’attenzione speculativa è spostato ancora una volta dai componenti alle relazioni che intervengono in un ecosistema ma dalle relazioni interne dipende non solo più la sua plasticità e la sua capacità di adattarsi ma soprattutto la sua capacità nell’evolvere trovando nuove soluzioni agli elementi di criticità che emergono nel tempo. Introducendo nuovi concetti che poco per volta vengono acquisiti anche da alcuni esponenti dell’ambito architettonico. Nel 1999, occupandosi del grattacielo come un elemento della città Ken Yang scrive: L’enfasi è sull’interdipendenza e sull’interconnessione nella biosfera e nel suo ecosistema. La caratteristica principale del progetto ecologico è la connessione fra le attività, sia materiali che umane; questa connessione consiste nel fatto che nessun elemento della biosfera resta inalterato dalle attività umane e che tutte le attività si influenzano a vicenda. (Yeang; 1999) Accanto alle trascrizioni verdi e alle declinazioni locali inizia cioè a diffondersi l’idea che tutti i sistemi costruiti debbano avere una relazione attiva reciproca con il loro ambiente locale e con il resto della biosfera (B&B, 1996). Una prospettiva che cambia i termini del problema per cui, per esempio, la vera questione aperta dall’urbanizzazione continua e dall’uso estensivo della terra diventa la perdita della capacità degli ecosistemi di autoregolarsi, di assimilare i prodotti umani e di evolversi generando nuova vita e nuovo capitale. Un problema al quale fino ad ora l’architettura non ha mai risposto con un reale riorientamento del sistema di pensiero e dell’approccio progettuale. Se infatti la nostra disciplina ha sempre avuto a che fare con l’ambiente circostante, con le condizioni fisiche e climatiche in cui si inserisce e con la loro trasformazione, è solo con l’incontro con queste teorie e con l’assunzione del loro punto di vista che essa inizia a considerare la possibilità non solo di mutare, ma di migliorare lo stato ambientale pre-esistente. Riconosciuta la simbiosi fra i sistemi costruiti e quelli naturali, l’architettura deve certamente continuare a minimizzare la sua dipendenza dalle capacità elastiche dell’ambiente naturale ma deve anche provare a ripararlo e restaurarlo. Motivo per cui studi come l’Agence Babylone iniziano a parlare di natura attiva, un concetto con il quale il progetto va oltre la sostenibilità e diventa rigenerativo e rivitalizzatore dei sistemi sottostanti, sia naturali che culturali. Secondo un punto di vista per cui la biosfera non deve più essere isolata dagli interventi umani e trasformata in una riserva naturale, ma imitata nelle sue proprietà, nelle sue strutture e nei suoi processi per dar vita ad ecosistemi migliori. Il progetto non deve più essere passivo, a basso impatto energetico, ma concretizzarsi in uno sforzo molto più complesso per ideare edifici con conseguenze positive, riparative e produttive per l’ambiente naturale (Yeang; 1999). Il sistema progettato - scrive Yeang in The green skyscraper - deve creare un ecosistema bilanciato delle componenti biotiche e non o, meglio, definire una relazione produttiva e riparativa con l’ambiente naturale, sia a livello locale che a livello globale. (Yeang; 1999) La metafora prima utilizzata per il singolo edificio amplia la sua scala e diventa analogia estesa a tutta la città. L’edificio non è quindi solo più un oggetto spaziale, ma un sistema progettato di cui funzioni interne e relazioni esterne costituiscono parti integranti. Secondo una teoria inclusiva, comprensiva e aperta volta alla definizione di una nuova visione del futuro anticipatrice - capace cioè di guardare oltre i bisogni di questa generazione e riabilitativa. L’obiettivo, per architetti come Ken Yeang, è la definizione di spazi nuovi, ambivalenti, ambigui e intermediari, capaci di giocare un ruolo centrale nella società umana quanto nella città e nelle architetture. Filtri ambientali che permettano la determinazione di una relazione selettiva e fluida fra interno ed esterno; spazi transitori come verande, portici, terrazze, atri, muri e coperture multiple atti a definire l’immagine della città come giardino urbano, ma soprattutto ad incentivare uno stile di vita, qualitativamente migliore e all’aria aperta. In una prospettiva per la quale l’inverdimento degli edifici deve essere esteso agli affari, alle politiche, all’economia e alle abitudini di vita. In questo senso, nell’ultimo decennio, in molti progetti per il nuovo assetto del territorio - dalla Tropical Verandah City di Yeang (Hamzah; 1998), al programma internazionale Grand Paris (2011), al concorso per i dipartimenti di Essonée e Yvelines (2008) - la natura diventa, almeno nelle intenzioni, un vero e proprio motore urbano, un elemento integrato in tutti gli aspetti della vita della città che, mediante ‘alte tecnologie naturali’, struttura insediamenti e abitudini. Lo scopo è quello ricreare il meraviglioso mix di usi, persone e spazi proprio dei territori e dei sistemi più complessi e vivaci, ma anche quello - prima dimenticato - di caratterizzare qualitativamente e esteticamente i luoghi. Compreso come il rapporto con la natura oggi non possa più passare attraverso la rappresentazione della stessa, l’architettura, parallelamente a quanto avvenuto per la Land Art americana prima e per l’Arte Ambientale europea dopo, diviene esperienza della natura che opera al suo interno plasmandola e arricchendola con la volontà di restituire una nuova identità estetica ai luoghi (D’Angelo; 2001). Progettare con la natura assume benefici estetici come ecologici e il paesaggio diventa intersoggettivo come tutti i valori culturali, secondo un punto di vista che considera l’ambiente in modo antiessenzialista e non naturalistico. Non più naturale contro artificiale, ma insieme umano e non umano, oggetti organici ed inorganici, tecnici e simbolici, politici e biologici (Assennato, 2010). Se si prova quindi a costruire un bilancio, la riflessione sull’idea di natura stimolata dal dibattito sulla sostenibilità non ha condotto ad un superamento dell’approccio antropocentrico a favore di uno fisiocentrico, ma - almeno per alcune voci del dibattito - ad un suo rovesciamento: se si continua cioè a parlare di sostenibilità soprattutto in riferimento ai bisogni e agli interessi della specie umana, vi è stata almeno in parte una sorta di autoabdicazione della soggettività umana nella sua funzione di centro del sapere teoretico e pratico. Nessuno fra Soleri, Fuller, Piano e tutti gli altri cosiddetti ‘professionisti del verde’ afferma che gli uomini debbano eleggere direttamente le leggi individuate dalle scienze naturali a norma della loro azione pratica, ma lungo il loro percorso di ricerca essi hanno scoperto e stanno scoprendo, anche attraverso posizioni variegate e disorganiche e sviluppi tutt’altro che lineari, un ordine del mondo oggettivo, una struttura dell’essere che, nella sua obiettività, svincola l’uomo stesso dall’obbligo tipicamente moderno di rispondere a se stesso - e soltanto a se stesso - dei fondamenti del suo sapere e del suo valore (Dellavalle, 1998). Il progressivo emergere della problematica ecologica ha cioè fatto sì che il principio di autonomia proprio del paradigma moderno fosse messo in discussione: è la dimensione oggettiva dei limiti esterni che iniziano ad imporsi sull’azione umana a non rendere più possibile la definizione di uomo e natura come parti separate e a richiedere non solo una rivoluzione epistemologica, ma anche una reimpostazione programmatica di ogni singola disciplina. Sposate le tesi proposte dall’ecologia del profondo e dai sostenitori dell’olismo, per i rappresentanti più profondi ed interessanti dell’architettura verde se opto per la tutela della natura non è per via del suo valore intrinseco, della distillazione razionale di un dovere o della scelta di un bene, ma per il riconoscimento della superiorità sostanziale della totalità dell’ecosistema rispetto alle sue parti. Quello che sembra essere condiviso è così non un appello al ritorno alla sostanza, ad una verità ontologica, quanto piuttosto ad un esame autocritico del soggettivismo capace di avviare il passaggio verso il paradigma comunicativo e la centralità dell’intersoggettivismo. Un passaggio attraverso cui raggiungere - anche come prodotto collaterale - un considerevole ampliamento dei doveri dell’uomo nei confronti dell’ambiente. Il semplice recupero della consapevolezza che la natura sostiene le nostre vite implicherebbe infatti un impegno progettuale volto a mantenere l’integrità dei processi, dei suoi cicli e dei suoi ritmi oltre che l’assunzione di un punto di vista sistemico capace, come spesso avviene per necessità nei paesi del terzo mondo, di superare l’approccio tecnologico [Link Capitolo 2] per farsi generatore di nuovi spazi sociali di nuove forme di vita nelle città. Cosa che non sempre avviene nel cosiddetto mondo sviluppato nel quale mentre programmi internazionali come il Protocollo di Kyoto, le ingiunzioni del Club di Roma e il Rapporto Stern mettono sempre più in evidenza la necessità di una riduzione drastica del consumo dell’energia e delle risorse prodotte dal nostro pianeta mediante nuove politiche sociali e un cambiamento nello stile di vita, al di là delle dichiarazioni di intenti, anche architetti come Yeang, Foster, Rogers, che guardano verso i sistemi naturali per ispirarsi, molte volte continuano a riproporre un approccio ancora marcatamente tecnologico. Seguendo lo stesso atteggiamento - propriamente occidentale - per cui programmi come la UK Strategy for Sustainable Contruction sono ancora basati sulla volontà di permettere una crescita continua e di raggiungere maggiori profitti. La salute attuale del nostro pianeta mostra però chiaramente che quello che è stato fatto fino ad ora non è abbastanza: nonostante i considerevoli progressi tecnologici, la portata delle riduzioni raggiunta sui livelli di consumo è molto lontana e traguardi come l’Obiettivo Europeo 20-20-20 restano ardui da raggiungere. E' quindi sul cambiamento dello stile di vita che le discipline legate al progetto spaziale dovrebbero concentrare i loro sforzi e rinnovare il loro impegno per rispondere finalmente ai requisiti della società civile, rigenerando - come in parte sta già avvenendo - il corpo della conoscenza sul quale riposano, ma soprattutto i loro modi di agire e praticare. Pensando al mondo - e al binomio architettura-natura - come ad un unico organismo, il progetto deve far sì che la questione delle risorse influenzi ogni aspetto delle nostre vite: l’habitat, i trasporti, la produzione, il consumo. In sintesi, i modi con cui viviamo lo spazio. Nessun altro scenario probabilmente sarà forte abbastanza da rispondere agli urgenti bisogni di questo secolo. Cosa succederebbe quindi se noi provassimo a pensare alla costruzione di forme architettoniche, urbane e paesaggistiche in relazione a modi di vivere rinnovati sulla base del tema delle risorse e dell’energia? Quali sarebbero le conseguenze spaziali se il progetto provasse ad individuare i vincoli tra la vita urbana e i parametri energetici? I casi presentati nell’ambito della ricerca mostrano che, anche se in modo latente e forse inconsapevole, questa domanda è sempre stata alla base della riflessione sull’idea di sostenibilità. Gli spazi compressi di Soleri e Fuller, quelli che scompaiono nel verde di Ambasz e Wines, gli spazi integrati di Van der Ryn, Sasso e Piano, così come gli spazi simbiotici di Yeang o dell’Agence Babylone, se temporaneamente letti progressivamente, costituiscono un interessante percorso di ripensamento delle qualità spaziali della società civile attraverso differenti idee di natura, mediante pesi e valori diversi attribuiti alle risorse e all’energia. Un percorso al quale tuttavia oggi viene chiesto di spingersi oltre, magari tralasciando un po’ della sua occidentalità per rivolgersi verso quei paesi nei quali lo sviluppo sostenibile è soprattutto un modo di vivere, obbligo pratico, ma anche spirituale e sociale. In stati dove il riscaldamento globale, le risorse e l’energia costituiscono un argomento meno vitale, l’idea di sostenibilità sta infatti generando la cornice necessaria per quel processo decisionale integrato che ancora manca al cosiddetto mondo sviluppato [Link Democratizzazione] . La percezione meccanicista condivisa da molti architetti e ingegneri occidentali ha infatti fino ad oggi trovato espressione soprattutto nell’attenzione rivolta all’energia, ai combustibili fossili, agli indicatori e alle definizioni: il rapporto fra uomo e natura - come, più in generale, l’idea di sostenibilità - è stato misurato invece che sentito. Facendo perdere al progetto l’opportunità di giocare un ruolo politico più evidente. Una situazione che, il superamento della cesura fra natura e artificio, natura e cultura dovrebbe progressivamente aiutare ad oltrepassare. Il punto di vista olistico implicito nell’idea di ecosistema emersa negli ultimi anni, così come i concetti di interconnessione, transitorietà e auto-organizzazione ed esso correlati dovrebbero infatti condurre l’architettura ad una rinnovata ricostruzione delle questioni ambientali all’interno di un’arena tematica certamente più ampia di quella attualmente considerata. Riconoscendo le conseguenze ambientali delle questioni sociali e politiche, l’architettura dovrebbe stimolare l’immaginazione pubblica a guardare oltre la stretta definizione di standard ambientali per un ripensamento totale delle politiche che rendono questi standard possibili. Considerando le probabili implicazioni politiche dell’ambiente costruito, essa dovrebbe cioè suggerire strategie atte a costruire un sano rapporto operativo fra uomo e ambiente. Se fino ad oggi il dibattito riguardante l’idea di natura si è quindi spesso sviluppato attorno alla diatriba fra sostenitori degli standard e detrattori degli stessi, fra esponenti dell’high performance green ed esponenti del natural green, fra scelte tecniche e scelte sociali è obiettivo della ricostruzione appena sviluppata mostrate come la vera questione in realtà sia un’altra. Ossia se l’architettura - arricchita da tutte le posizioni definite negli ultimi decenni - possa o meno autodefinirsi come strumento in grado di delineare i termini del dibattito politico. Secondo una prospettiva nella quale la natura non deve più fornire uno sfondo decorativo per la commedia umana e nemmeno abbellire lo squallore delle città ma costituire il risultato di un complesso progetto di costruzione dello spazio antropizzato. Un progetto finalmente biologico, raggiungibile solo mediante un cambiamento radicale dei nostri valori sociali [Link Tecnologia]. Tecnologia Economia e architettura Dall’ecologia all’economia. Visioni riformiste. In ambito architettonico così come nel più ampio campo culturale, ai percorsi di trasformazione dell’idea di natura vanno affiancati quelli relativi all’idea di tecnologia. Il lento e incerto riconoscimento della superiorità della totalità ecosistemica rispetto alle sue parti, così come il progressivo superamento del principio di autonomia proprio del paradigma moderno [Link_Natura] sottintendono infatti, almeno per le posizioni più significative del dibattito, una profonda riflessione sui valori che fino allo svilupparsi dello stesso ne avevano costituito le basi. Messa in dubbio l’immagine antropocentrica dell’uomo demiurgo coltivata dalla cultura moderna, la sua posizione nel mondo e la sua destinazione, diventa cioè inevitabile una riflessione radicale sul mito della crescita e sulla fede illimitata nell’apporto della tecnologia da essa derivato. Una riflessione che non può prescindere da una collaborazione e un confronto serrato fra la neonata scienza ecologica e la dominante scienza economica, imputata principale della crisi ambientale del pianeta (Daly; 1977. Marchettini, Tiezzi; 1999) e destinata - almeno in teoria - ad un profondo cambiamento. Un raffronto che, come sottolineato da gran parte della letteratura sul tema (Fedeli; 1990. Webber;1991), inizia a mettere in dubbio non tanto il sistema capitalistico in sé ma piuttosto, più in generale, il credo nella crescita e nello sviluppo senza limiti inseguito dalla cultura occidentale (Ruffolo, 1985): è attorno ad esso che gravita una delle principali contraddizioni di fondo tra l’approccio economico e l’approccio ecologico al rapporto uomonatura (Martinez-Alier; 1987). Se la crescita è infatti sempre un bene per l’economia, l’ecologia evidenzia come la crescita illimitata possa trasformarsi in un grave pericolo; se per l’economia tradizionale la salute, ma anche il benessere e il consenso sociale, possono essere garantiti da un tasso di crescita alto e stabile del prodotto, per l’ecologia è proprio lo studio degli ecosistemi naturali a dimostrare che essi invariabilmente smettono di crescere quando raggiungono i limiti rappresentati dalle risorse disponibili. E’ la questione dei limiti e del loro riconoscimento a diventare centrale, a rappresentare il primo e più importante nodo da affrontare nel confronto fra economia e ecologia, fra i sostenitori dell’ottimismo e del pessimismo tecnologico: minati i valori della certezza e dell’infinitezza propri della modernità, l’instaurazione di una pretesa cognitiva assoluta e insieme di un’enorme potenza trasformativa diventa labile aprendo un dibattito ormai in auge da quasi cinquant’anni. Fra le filosofie ambientali, in ambito economico, ma anche in campo architettonico. E’ cioè possibile superare i sempre più evidenti limiti del pianeta mediante un continuo sviluppo della scienza e della tecnologia, oppure occorre abbandonare definitivamente questi mezzi prettamente antropocentrici a favore di un nuovo paradigma culturale e di nuovi stili di vita? E’ dal contrapporsi, ma anche dall’intrecciarsi di posizioni riformiste e radicali rispetto a questo tema che il dibattito si sviluppa già a partire dalla seconda metà dell’Ottocento (Martinez-Alier; 1987). Nel 1854, in particolare, viene pubblicato per la prima volta Walden ovvero vita nei boschi, il diario in cui lo scrittore americano Henry David Thoreau descrive l’esperienza di completa solitudine vissuta per circa due anni in un capannone costruito sulle rive del lago Walden nel Massachusetts. Una denuncia provocatoria verso le conseguenze sociali e morali dell’affermazione di un’economia - e di una civiltà - commerciale ed industriale a suo avviso tanto alienata dalla natura [link_Natura], quanto dalle profondità più autentiche dello spirito umano (La Vergata, Ferrari; 2008). In particolare, mettendo in primo piano i problemi dell’inquinamento, del disboscamento e della riduzione dello spazio della wilderness, l’autore avanza una critica sociale radicale e un progetto di riforma spirituale incentrato sul culto della sobrietà e dell’essenzialità apertamente polemico rispetto alla civiltà urbana da cui prende distanza. Di fronte alle distorsioni sociali e morali della civiltà della crescita egli afferma provocatoriamente la necessità di ridurre in modo drastico i consumi e lo sfruttamento dell’ambiente mediante una liberazione definitiva dalla dipendenza alienante dai bisogni artificiali progressivamente indotti dal mercato. Proponendo la natura come alternativa salvifica alla tecnologia che li ha generati, secondo una prospettiva critica certamente radicale ma non totalmente isolata. Solo pochi anni più tardi infatti, attraverso una visione certamente più scientifica e meno mistica, il filosofo ed economista britannico 1 John Stuart Mill presenta l’idea di economia di stato stazionario da lui intesa come situazione di crescita zero della popolazione e dello stock di capitale fisico, ma - a differenza di Thoureau - con miglioramenti continui nella tecnologia e nell’etica (Daly; 1996). Nello stesso momento in cui la maggior parte degli economisti teme lo stato stazionario identificandolo con la fine del progresso, Mill lo auspica sostenendo che una condizione stazionaria del capitale e della popolazione non implichi affatto uno stato stazionario e stagnante del progresso umano, con un profondo ridimensionamento del ruolo della tecnologia. Mentre infatti la teoria economica dominante parte da parametri non fisici - come appunto la tecnologia - e indaga il modo in cui le variabili fisiche devono modificarsi per soddisfare un equilibrio determinato dai 1. John Stuart Mill è stato un filosofo ed economista britannico. Considerato come uno dei massimi esponenti del liberalismo e dell’utilitarismo, i suoi principi di economia politica oggi vengono ripresi soprattutto dai sostenitori di un’economia distato stazionario. Mill infatti aveva presentato quest’idea già nel 1957 intendendola come situazione di crescita zero della popolazione e dello stock di capitale fisico, ma con miglioramenti qualitativi continui nella tecnologia e nell’etica. Cfr. Daly; Oltre la crescita: l’economia dello sviluppo sostenibile; Edizioni Comunità; Torino; 2001. primi, il punto di vista definito da Mill inizia ad invertire il rapporto: parte dai parametri fisici - un mondo finito in primis - per indagare il modo in cui le variabili non fisiche possono essere condotte a un equilibrio praticabile per tutto il complesso sistema biofisico di cui siamo parte. Definendo un nuovo punto di vista per cui non sono più le condizioni fisico-quantitative a doversi adattare a quelle qualitative, ma viceversa. Tuttavia, per tutto il secolo successivo alla pubblicazione di questi testi, entrambi vengono quasi dimenticati dall’ambito culturale dominante e nonostante ricerche come quella di Juan Martin-Alier (Martinez-Alier; 1987) dimostrino chiaramente l’esistenza - almeno lungo tutto l’arco del Novecento - di una linea di pensiero alternativa a quella dell’economia e della scienza in questo periodo riconosciute come ufficiali, essa rimane priva di posizioni realmente capaci di formulare un pensiero alternativo compiuto e radicale come i due autori sembravano premettere. In ambito architettonico, in particolare, la questione dei limiti sembra emergere attraverso le posizioni di alcuni pionieri come Richard Buckminster Fuller solo intorno alla metà del secolo successivo. Nato in una famiglia distinta - che includeva la zia femminista e scrittrice legata ai circoli trascendentalisti proprio di Emerson e di Thoreau - l’architetto americano inizia a sviluppare la sua ricerca - poi durata cinque decenni - verso un progetto capace di massimizzare il beneficio umano con un uso minimo di energia e materiali. Avvertite le nuove urgenze imposte dall’emergenza planetaria, a partire proprio dalla questione dei limiti, Fuller sposta le sue attenzioni progettuali sul principio di realizzare il massimo dei risultati con il minimo impiego di energia, in funzione di un’idea di economicità intesa come ottimizzazione di risorse secondo principi che restano logici e razionali. Convinto, come Thoreau, che l’architettura debba soddisfare non solo i bisogni materiali, ma anche le richieste psico-fisiche, il progettista va però alla ricerca di un nuovo rapporto fra uomo e natura - un rapporto sinergico e non alienante - promuovendo ancora una volta un rinnovato sistema industriale e tecnologie innovative capaci di fare more with less e perciò pronte, secondo il suo punto di vista, a migliorare le vite umane, andando alla ricerca dei bisogni essenziali e smantellandone il bagaglio materiale. Per l’architetto, il progresso scientifico e tecnologico deve allontanarsi da teorie specialistiche, aprioristiche e assolutistiche, per farsi comprensivo, empirico e applicativo; esito di un’indagine concreta. Dove piegarsi alle esigenze di una nuova metodica progettuale - capace di indirizzare l’umanità su un percorso di crescita responsabile in accordo con l’ambiente - ma il suo ruolo rimane comunque indiscusso. Se Fuller fa cioè proprie molte delle posizioni avanzate dal fronte ambientalista - dalla consapevolezza dei limiti delle risorse, alla necessità di superare materialismo e specializzazione - nella teoria che l’architetto espone in testi come Operating Manual for Spaceship Earth (Fuller; 1969) o Approaching the benign environment (Fuller; 1970) rimane assolutamente vivo uno dei più robusti traslati della modernità: l’idea che la collaborazione fra architettura, tecnologia e produzione di massa abbia il potere di risocializzare il progetto dell’edificio e dirigere l’efficienza scientifica verso la soluzione del problema della scarsità (Sorkin;2008). Non solo, il ruolo della tecnologia, invece di contrarsi, si espande. All’interno del secondo testo, in particolare, egli scrive: […] esiste una nuova e sorprendente alternativa alla politica: è la rivoluzione della scienza del progetto che da sola può risolvere il problema. (Fuller; 1970) A differenza di quanto implicito nella definizione di stato stazionario di Stuart Mill, l’assunzione di consapevolezza dei limiti delle risorse di Fuller non presuppone ancora quell’inversione di ruolo fra parametri fisici e non fisici, fra risorse e tecnologia auspicata dell’economista britannico ma, al contrario, scienza del progetto e tecnologia diventano strumentisoluzioni in grado di sostituirsi anche alla politica. Il principio del fare more with less dell’architetto americano è cioè un credo che si spinge ben oltre il less is more estetico del minimalismo moderno. Nutrito dal principio dell’economicità e non certo da un approccio estetico, l’operato del progettista mira all’ideazione di tecnologie innovative in grado non solo di configurare una nuova relazione fra l’uomo e la macchina, ma anche di aprire le porte alla consapevolezza rimodellando l’individuo e, con lui, il gruppo. Egli spinge ancora i suoi ascoltatori ad immaginare un mondo reso migliore attraverso i medesimi mezzi messi in discussione, sebbene in modi diversi, sia da Thoreau che Mill: la tecnologia, le macchine, la gestione, il progetto. In questa prospettiva, sono significative le descrizioni che l’architetto fa del suo lavoro più innovativo rispetto a queste riflessioni: la serie di case prefabbricate iniziate con la 4D House e culminate con la Dymaxion Dwelling Machine. Esse vengono descritte come case pensate per poter rispondere al massimo beneficio umano con il minor impiego possibile di energia, materiali e tempo. L’intera Dymaxion House, per esempio, doveva essere spedita al suo sito in un grosso tubo che conteneva tutti i suoi elementi, nessuno dei quali pesava più di cinque chilogrammi, permettendo così all’intera casa di pesare tre tonnellate, circa il tre percento rispetto ad un edificio tradizionale della stessa grandezza. Fuller risponde cioè alla questione dei limiti attraverso un nuovo atteggiamento progettuale: leggerezza, semplificazione e semplicità di costruzione rappresentano per l’architetto informazioni quantitative fondamentali da rendere visibili non tanto come strumenti per l’azione, quanto come strumenti per una visione. Mezzi attraverso i quali proporre una diversa visione del mondo basata sulla nozione di efficienza innata nella natura [link_Natura]. Una nozione che richiede necessariamente un progetto comprensivo e complesso, indice di totalità e connessione. L’obiettivo dell’inventore delle cupole geodetiche è così un progetto orientato al contenimento quantitativo, capace di diffidare dalle convenzioni e dalle abitudini per guardare sempre ad una rappresentazione più ampia in termini di responsabilità e conseguenze dell’intervento stesso. Per lui l’architettura e la tecnologia vanno pensate in termini di perfomance: la sfida del design è quella di produrre la nave più potente con il minor peso possibile (Fuller; 1969) così come quella dell’architettura è di aumentare la percentuale di performance per unità di peso investita. La valutazione della quantità di performance ottenute per unità di peso delle risorse mondiali utilizzate per migliorare gli standard di vita deve cioè diventare un obiettivo diretto dei politici ed è appunto compito della tecnologia diffondere questa consapevolezza e, con questa, fondare una nuova società, assumendo così un evidente ruolo politico. E’ evidente poi - scrive per esempio Fuller in Approching the benign environment - che la richiesta mondiale di pace avanzata dai giovani può essere esaudita solo attraverso una rivoluzione tecnologica che farà così tanto di più con così tanto di meno per ogni richiesta come quella di produrre abbastanza per sostenere tutta l’umanità. E’ chiaro che questo obiettivo può essere raggiunto solo attraverso questa rivoluzione tecnologica-progettuale. (Fuller; 1970) La tecnologia diventa il principale strumento della visione progettuale alternativa proposta da Fuller [link_Natura], soluzione diretta al problema della scarsità delle risorse. E la vera questione posta dal progettista non è se gli architetti, mediante la tecnologia, possano o meno introdurre dei miglioramenti tecnici al consumo di energia, ma piuttosto se possano definire i termini del dibattito politico. Pur essendo profondamente coinvolto dagli ideali del mondo scientifico e industriale di cui fa parte e partendo quindi da un punto di vista fondato sull’ottimismo tecnologico e su una posizione riformista, l’architetto americano sviluppa cioè una tesi che cambia radicalmente il ruolo della tecnologia e dei progettisti. Non più specialisti, ma comprehensive designer capaci di processare in modo neutrale le informazioni prodotte e le tecnologie sviluppate dal mondo dell’industria e della scienza, per tradurre entrambe in strumenti per la felicità - materiale ma anche spirituale - umana. Diversamente dagli specialisti, il comprehensive designer deve essere consapevole della necessità del sistema di essere bilanciato e del corrente spiegamento delle sue risorse; deve agire come mietitore delle potenzialità del pianeta, raccogliendo i prodotti e le tecniche dell’industria e ridistribuirle in accordo con i modelli sistemici. Deve diventare sintesi di un artista, un ingegnere, un inventore, un meccanico, un oggettivo economista e uno stratega; non un burocrate ma una figura capace di cogliere l’intera rappresentazione e di raggiungere un’integrazione psicologica anche mentre lavora con i prodotti della tecnocrazia (Foster, Galiano; 2010). In una prospettiva nella quale la società deve vedere le sue risorse distribuite non per rispondere alle domande dei politici o degli economisti, ma alle leggi naturali che già mantengono il sistema della natura in equilibrio. Tuttavia, se la crescente consapevolezza della fragilità del pianeta spinge Fuller, e con lui molti esponenti della controcultura degli anni sessanta e settanta, verso un’idea di tecnologia che va ben oltre la preoccupazione per la conservazione delle risorse limitate non sempre le riflessioni dei cosiddetti sostenitori dell’ottimismo tecnologico risultano così profonde. Al contrario, spesso esse si traducono in costruzioni teoriche incapaci di considerare le possibili implicazioni progettuali dell’ambiente costruito, soluzioni tecniche anziché strategie. Presa coscienza dei problemi ambientali rimane cioè viva la fede nel fatto che questi possano essere risolti semplicemente mediante ingenti investimenti e interventi tecnologici volti ad aumentare senza limiti la produttività delle risorse naturali e a migliorare l’efficienza dei sistemi produttivi. E, in ambito economico così come in ambito architettonico, in coesistenza e contrasto con le posizioni di Fuller e altri pionieri, iniziano a comparire analisi quantitative basate su una precisa descrizione dei flussi di energia e dei materiali. Internamente all’economia standard, in particolare, si sviluppa la cosiddetta economia dell’ambiente (Martinez-Alier; 1987), una branca della disciplina chiamata ad affrontare la questione del fallimento del mercato nel trattare il problema delle esternalità ambientali. L’istituzione americana Resource for the future - fondata nel 1952 e autrice delle più importanti ricerche degli anni sessanta e settanta sulle questioni ambientali - nel 1979 fonda l’Association of environmental and resource economists e inizia a diffondere il punto di vista proprio dell’economia ambientale mediante la 2 rivista Journal of enviromental economics . Un modello di atteggiamento per il quale, di fronte ad un’accresciuta consapevolezza della questione ecologica e ad un’estesa domanda di qualità ambientale da parte del pubblico, alcuni economisti - così come parte degli architetti - si attrezzano per internalizzare nel sistema economico-produttivo i costi ambientali, per integrare nei loro calcoli o nei loro progetti i costi della depurazione, per individuare i modi più efficienti per ottenere un dato livello di abbattimento degli inquinanti e per modificare i prezzi relativi fra prodotti dannosi e non all’ambiente, senza però porsi alcuna questione relativa ai vincoli teorici e metodologici - ma anche ai fini - dell’economia e dei principi da essa diffusi. Tocca ai tecnici definire gli obiettivi quantitativi: gli economisti devono solo indicare il modo più efficace per farli assumere; i meccanismi equilibratori automatici propri dell’economia di mercato dovrebbero poi fare il resto. Senza rotture né spaziali, né temporali, a partire dagli anni settanta, l’efficienza diviene l’obiettivo da perseguire. Nelle loro ricerche, tecnocrati americani come Elsner, Benson, Akin e Berndt iniziano a fornire un collegamento fra l’energetica sociale antecedente agli anni trenta e gli studi ecologici degli anni sessanta e settanta, ma i diversi riferimenti alle opere, per 3 esempio, del chimico e fisico britannico Frederick Soddy sostenitore già negli anni venti dell’importanza cruciale delle leggi della termodinamica nell’economia - vengono utilizzati per sostenere uno sconfinato ottimismo tecnologico che certamente l’autore non avrebbe condiviso (Martinez-Alier; 1987). Quella che si delinea nell’intero ambito culturale è cioè soprattutto una corrente riformista che considera la crisi ecologica come un problema fondamentalmente scientifico e tecnologico da risolvere, o quanto meno ridimensionare, proprio attraverso la ricerca scientifica e tecnica, via necessaria e sufficiente non tanto per raggiungere l’obbiettivo ritenuto utopistico di pervenire ad una completa soluzione della crisi ecologica quanto per ipotizzare interventi realistici mirati a limitare le varie forme di criticità ecologica. Secondo un punto di vista per cui la causa fondamentale del peggioramento della qualità della vita conseguente alla crisi ambientale va individuata in una scienza disattenta alle dinamiche ecologiche e in una tecnologia invasiva ed esso può quindi essere risolto attraverso il potenziamento dello sviluppo scientifico e di una tecnologia ‘eco-compatibile’. Una tecnologia economica il cui ruolo diviene centrale anche in ambito architettonico, sebbene con significati multipli e sfaccettati. Se infatti l’idea di efficienza ed economicità nella riflessione di pionieri come Richard Fuller viene tradotta in obiettivi complessi e radicali oltre che in un’importante revisione dei valori, il punto di vista di molti di coloro che optano per una posizione riformista finisce con il tradursi in programmi bastai sugli standard e sui codici, in una mera giustapposizione di azioni correttive e di vincoli generati da regole ancora una volta esogene e insostenibili, certamente figlie del sistema di pensiero diffuso dall’economia moderna. Nel tentativo di trasformarsi in scienza essa incorpora infatti le principali idee dell’illuminismo nei suoi fondamenti filosofici - la fede in un progresso illimitato, un antropocentrismo forte che considera la natura come un semplice beneficio strumentale e la convinzione che l’uomo possa dominare la stessa grazie al metodo scientifico e allo sviluppo tecnologico - determinando una marcata rottura fra uomo e natura che gran parte dell’ambito architettonico non fa che acquisire portando ad una completa scomparsa della terra non solo dal corpus della teoria economica stessa, ma anche dal progetto. L’adesione ad una visione preanalitica dell’economia come sistema isolato e una teoria statica del mercato consentono cioè al progetto, così come all’economia, di includere la terra nel capitale considerando le precondizioni naturali come variabili esogene ininfluenti. Secondo un approccio scientifico, anziché storico, incapace di cogliere le reali interazioni fra sistema ecologico e sistema economico (Tiezzi; 1999) e rivolto alla definizione di una disciplina accademica deduttiva concentrata sui suoi principi interni ma completamente incurante delle sue ricadute sulla vita sociale. Una scienza determinista e specialistica slegata dall’esperienza ma capace, proprio grazie ad un alto livello di astrazione, di produrre forti illusioni di grande sviluppo e benessere. Illusioni tuttavia poste pesantemente in questione dalla crescente consapevolezza sociale della crisi ecologica, capace, intorno agli 2. Resources for the future è un’associazione no-profit americana, fondata nel 1952, che conduce ricerche interdisciplinari indipendenti sulle questioni ambientali, sul tema delle risorse naturali ed energetiche. Riconosciuta come il primo ‘think tank’ dedicato esclusivamente a queste questioni essa ha avuto una forte influenza nel campo dell’economia delle risorse. Cfr. www.rff.org. 3. Frederick Soddy è stato un chimico e fisico britannico vissuto a cavallo fra il XIX e il XX secolo. Egli è ritenuto un riferimento importante per molti esponenti dell’economia ecologica poiché già negli anni venti riconobbe l’importanza cruciale delle leggi della termodinamica per l’economia, anticipando un tema che sarebbe stato sviluppato con maggior profondità e dettaglio da Nicholas Georgescu-Roegen cinquant’anni più tardi. Cfr. Martinez-Alier; Economia ecologica. Energia, ambiente, società; Garzanti; Milano; 1991. anni settanta, di stimolare definizioni dell’idea di tecnologia profondamente differenti. Economia ecologica. Visioni frugali. Mentre negli anni settanta i governi iniziano a muoversi verso provvedimenti difensivi e conservativi - basti pensare alla tassa petrolifera, rinnovata due volte nel ‘73 e nel ’79, o in genere ai divieti, alle limitazioni fiscali e amministrative proposte in quegli anni - una parte sempre più rilevante del mondo accademico inizia a domandarsi quali siano i reali risultati degli stessi e se non sia invece necessario sostituire l’analisi sempre più raffinata di una visione difettosa con una visione del tutto nuova. Diversamente da quanto accaduto nei decenni precedenti caratterizzati da appelli isolati e poco strutturati, parallelamente al fronte riformista, comincia a delinearsi un fronte critico realmente significativo - e peraltro eterogeneo - nei confronti del credo della crescita. In contrasto alle posizioni incentrate sull’ottimismo tecnologico, iniziano ad emergere nuove sensibilità che, combinandosi secondo varie forme, danno origine ad un insieme di teorie che nelle loro contraddizioni e irregolarità trovano tuttavia un accordo provvisorio nella critica comune rivolta ai tradizionali modelli di sviluppo: l’idea che la crescita economica e l’apparato tecnologico ad essa connesso possano autonomamente garantire stabilità e felicità, nonché un elevato e diffuso livello di qualità della vita, comincia ad essere messa sempre più in discussione e inizia ad insinuarsi il dubbio che essa, sul lungo periodo, possa rivelarsi controproducente per i sistemi sociali. Anche fra gruppi di scienziati e movimenti politici ritenuti, fino a quel momento, fonti più che autorevoli. In questo senso, la pubblicazione nel 1972 del rapporto scientifico I limiti dello sviluppo (Meadows;1972) rappresenta certamente un momento a forte carattere simbolico [Link_La storia della sostenibilità in architettura]. Elaborato da alcuni scienziati del Massachussets Institute of Tecnology convinti che il rapporto uomo-natura stesse raggiungendo il collasso, il rapporto rappresenta infatti il primo documento ufficiale in cui il credo dello sviluppo illimitato e della crescita lineare e costante ancora assolutamente dominante negli anni settanta - viene messo in discussione da un pulpito scientificamente autorevole, da soggetti non certo etichettabili come rivoluzionari, oscurantisti o scientificamente reazionari e attraverso gli stessi strumenti analitici - modelli dinamici quantitativi e simulazioni con gli elaboratori - abitualmente utilizzati in econometria. Con l’introduzione dei concetti di limiti dello sviluppo, crescita zero e di stato di equilibrio globale, il testo viola definitivamente il tabù linguistico che aveva sempre associato l’idea di sviluppo a quelle di linearità, illimitatezza e positività, sfidando la filosofia del materialismo non attraverso messaggi esoterici provenienti da saggi o da santi, ma mediante la descrizione del corso concreto degli eventi fisici. L’ideologia della crescita e la fede nell’onnipotenza tecnologica illimitata vengono cioè chiamate a scontrarsi con i crudi fatti (Daly, Cobb; 1989): la degradazione ambientale, la disintegrazione sociale e tutta quella gamma di problemi evidenziati da una letteratura destinata a diventare sempre più ampia (Brown; 1971. Leontief; 1977. U.S. Goverment; 1980. World Watch Institute; 1984,1987. Brown, Postel; 1987. Meadows; 1992) oltre che dal corso stesso degli eventi. E’ infatti a partire dall’embargo petrolifero del 1973 che tutti, ottimisti e pessimisti tecnologici, iniziano a parlare di crisi energetica provando a valutare il rapporto - ritenuto più o meno indissolubile - fra la scarsità emergente di risorse naturali e il processo economico nel suo complesso. Formatosi il fronte critico nei confronti del credo della crescita e cominciata la fine del grande consenso, nel periodo compreso tra i primi anni settanta e i primi anni ottanta del Novecento, il dibattito su ambiente e sviluppo viene alimentato da una fiera contrapposizione tra i persistenti fautori della crescita economica e dello sviluppo tecnologico, da un lato, e gli ambientalisti, dall’altro. A I limiti dello sviluppo (Meadows;1972) si contrappone, per esempio, L’anno duemila (Kahn; 1967), un saggio nel quale il futurologo Herman Kahn nega completamente l’esistenza dei limiti fisici della crescita economica e dei consumi nella convinzione, ancora una volta, che tecnologia e mercato possano permettere all’umanità uno sviluppo inarrestabile, ampliando all’infinito i confini degli ecosistemi. Ma se fino a quel momento molti esponenti dell’ambito architettonico ed economico avevano preferito optare per posizioni sviluppate a partire da un punto di vista certamente vicino all’ottimismo tecnologico del futurologo americano, i primi anni settanta segnano certamente l’aprirsi di una frattura verso la direzione opposta. Nello stesso anno in cui Fuller pubblica Operating Manual for Spaceship Earth, il Massachussets Institute of Tecnology edita Arcology: the city in the image of man - l’approdo del ventennale percorso di ricerca di Paolo Soleri verso un habitat alternativo incentrato sulla frugalità e sull’anti-materialismo - e due anni più tardi l’economista rumeno Nicholas Georgesu-Roegen pubblica il 4 testo fondatore dell’economia ecologica The entropy law and the economic process (Georgesu-Roegen; 1971). Finché le cosiddette esternalità avevano riguardato dettagli secondari, il modo di procedere sostenuto dai riformisti era cioè apparso ragionevole e vincente, ma ora che erano questioni di cruciale importanza - come la capacità della terra di continuare a sostenere la vita - ad essere considerate come tali allora diversi gruppi culturali iniziano a chiedersi se non sia forse giunto il momento di ridefinire completamente i valori fondamentali e di elaborare un altro insieme di astrazioni capace di abbracciare anche ciò che si continuava a sottendere all’indagine. Secondo una prospettiva per la quale, abbandonato sia il punto di vista dell’economia del cowboy - che considerava il sottosistema economico come infinitamente piccolo rispetto al sistema globale - sia quello dell’economia dell’astronauta - per la quale l’economia coincideva con il sistema globale - (Boulding; 1968), a diventare centrale era la questione della scala: quanto poteva espandersi il sottosistema economico in relazione al sistema globale? Quanto poteva estendersi il capitale tecnologicoartificiale rispetto a quello naturale? In risposta ad una società iper-consumistica e alla conseguente drammatica distruzione dell’ambiente, figure più vicine al pessimismo tecnologico come Paolo Soleri propongono un modello di atteggiamento nel quale non rivendicano solo la contrazione fisica del contenitore urbano [Link_Natura] ma piuttosto l’idea di frugalità, definita dall’architetto italiano come il più sofisticato uso di spazio e tempo, processo di interiorizzazione antimaterialistico (Lima; 2000). Un concetto mirato a delineare prima che nuove tecnologie un nuovo modello comportamentale capace di controbattere il consumo esasperato e sempre maggiore della produzione e, conseguentemente, anche la fede illimitata nella tecnologia. In un glossario redatto molti anni dopo ma coerente con l’apparato teorico già elaborato negli anni settanta, definendo la tecnologia, egli scrive: In essa è inserita la spinta evolutiva prima che la mente inizi il processo di comprensione. Utile alla vita fino all’inizio della consapevolezza, ciò che da allora ad oggi conta e conterà poi è il suo uso ‘cosciente’. Pertanto, le prossime forme da riempire di funzioni devono essere impregnate di compassione se si vuole evitare che diventino il rivestimento che pone fine alla vita. (Soleri. In Lima; 2000) A Soleri non interessa un progetto all’avanguardia, ma soprattutto l’espressione di un modello di vita coerente con i limiti del pianeta. Nei suoi scritti, il rapporto reverenziale per la vita naturale e umana non comporta, come per i contemporanei esponenti riformisti, vincoli di genere burocratico o imperativi condizionati dal valore di mercato delle cose, ma un proposito esistenziale che cerca di ristabilire un ordine congruo nella totalità degli elementi esistenti mediante un processo di spiritualizzazione degli atti materiali. A differenza dello stesso Fuller, Soleri, in particolare, avverte sui rischi della tecnologia: se posta sullo stesso livello del materialismo potrebbe rappresentare il più grande ostacolo all’umanizzazione dell’uomo (Lima; 2000), un’inesauribile fonte di frustrazione: la cieca brutalità dell’uomo tecnologico deve essere trasformata in un’intensa ricerca di un nuovo equilibrio biologico, con attenzione non solo verso i limiti biofisici, ma anche verso quelli etico-sociali. Per l’architetto italiano la sperimentazione formale e l’esasperato tecnologismo propri dell’avanguardia moderna non avevano cioè prodotto alternativa alcuna alla città orizzontale e al suo consumo di territorio e di paesaggio, per cui andavano sostituiti mediante un atteggiamento progettuale capace di cogliere, come per Fuller, la complessità della realtà. Ma per lui tecnologia e progresso scientifico non sono centrali come per l’architetto americano. Per dare nuovo significato all’architettura, Soleri utilizza consapevolmente materiali poveri - solitamente attribuiti alla cosiddetta tradizione popolare -, tecnologie sobrie, meno ridondanti e di buon senso a servizio dell’uomo, i metodi più efficaci e meno costosi per ridurre degrado, inquinamento e spreco. Per lui è nella sproporzione tra la causa fisica e l’effetto trans fisico [che] si attua la massima disfatta dello spreco. (Soleri. In Lima; 2001) Il conflitto è tra finalità e strumentazione. Consapevole dell’inarrestabilità del progresso scientifico e tecnologico, mediante testi come The omega seed (Soleri; 1981) prima o Technology and cosmogenesis? (Soleri; 1985) dopo, il progettista si interroga sul rapporto fra uomo e tecnologia stimolandone l’utilizzo come mezzo e non come fine nella crescita dell’essere umano. Di fronte all’escalation tecnocratica, che aggredisce visibilmente ogni aspetto della vita, Soleri si esprime contro dando alternative radicali: la tecnologia rimane 4. L’economia ecologica è una disciplina che mira ad essere il luogo di intersezione tra ricerca economica e ricerca ecologica, superando le distinzioni disciplinari. Distaccandosi dall’approccio proposto dall’economia dell’ambiente essa tenta di ricostruire il sub-stato fisico del ragionamento economico, oggi basato su una definizione del valore dei beni legata solo al prezzo di mercato attuale, e di reinserire l’economia umana nella più grande ‘economia del vivente’.Cfr. MartinezAlier; op. cit. per lui uno strumento potente ma a fondamento della sua estrinsecazione positiva deve esserci l’unione con la spiritualità. Solo in sinergia con essa, questa avrebbe potuto diventare un forte antidoto contro il materialismo e la distruzione dell’ambiente umano, contro le insoddisfazioni ed i disagi sociali sempre più evidenti. Ciò che lo interessa non è dunque il processo meccanico quantitativo, ma l’intento qualitativo, l’obiettivo di porre la tecnologia non più a servizio del profitto ma delle reali esigenze umane, materiali e quantitative ma soprattutto spirituali e qualitative. In questo senso, nonostante il concetto compaia già negli scritti di Fuller (Fuller; 1969) di quegli stessi anni, è con Soleri (Soleri; 2003. Lima; 2010) che il riferimento all’idea di entropia diventa esplicito in ambito architettonico, così come in ambito ecologico, segnando il primo importante momento di incontro tra la nostra disciplina e l’economia ecologica. 5 Se infatti, la teoria economica neoclassica aveva insegnato che il capitale creato dall’uomo grazie al progresso tecnologico era un surrogato quasi perfetto delle risorse naturali, l’ingresso nell’arena dell’ecologia e la crescente pressione degli eventi portano progressivamente all’emergere della corrente di pensiero interdisciplinare riconducibile all’economia ecologica, mettendo profondamente in dubbio quest’ipotesi. Nel corso degli anni settanta, attraverso contributi interdisciplinari (Cottrell; 1955. Rappaport; 1967. Odum; 1971. Pimentel; 1973. Leach; 1976. Chapman; 1975. Foley; 1981), l’economia applicata nell’ambito dell’uso di energia diviene una branca della teoria economica e proprio la pubblicazione del testo The entropy law and the economic process (Georgescu-Roegen; 1971) segna l’avvio di un rovesciamento concettuale nella teoria economica. Nata come tentativo di superare le frontiere delle discipline tradizionali per sviluppare una conoscenza integrata dei legami tra sistemi ecologici e sistemi economici, l’economia ecologica getta infatti le basi per un’analisi dei processi economici fondata sul concetto - ereditato dalla fisica - di entropia. Esso, introdotto per la prima volta nell’ambito della 6 termodinamica da Rudolf Clausius nel suo Trattato sulla teoria meccanica del calore per indicare la misura del disordine presente in un sistema fisico qualsiasi e l’indisponibilità di un sistema a produrre lavoro, viene adottato da alcune scienze sociali come appunto l’economia ecologica per sostenere l’idea che certi processi siano irreversibili e unidirezionali, non ripetibili senza costo. Definendo una prospettiva nella quale la concezione dell’attività economica come processo puramente circolare non può che essere abbandonata a favore di un’analisi capace di riconoscere i cambiamenti qualitativi (GeorgescuRoegen; 1971). Interpretare la seconda legge della termodinamica in funzione del processo economico conduce cioè alcuni economisti, come Nicholas Georgescu-Roegen, Kenneth Boulding e più tardi Herman Daly, a comprendere come per esempio le operazioni di ristrutturazione e riciclo delle componenti e dei materiali di base spesso suggerite dai sostenitori dell’ottimismo tecnologico richieda non un consumo diretto di materia o energia, ma della capacità di riorganizzare la materia e l’energia stesse; come ciò che viene restituito all’ambiente sia qualitativamente diverso da ciò che viene estratto. Con l’assunzione di un punto di vista per il quale capitale naturale e capitale creato dell’uomo non risultano più sostituibili, ma complementari. Non si può - spiega qualche anno più tardi l’economista americano Hermann Daly - costruire la medesima casa impiegando meno legno e sostituendolo con più seghe. (H. Daly; 1996) Una cosa era cioè dire che le conoscenze tecnologiche e non sarebbero aumentate - e nessuno lo negava - un’altra era presupporre che il contenuto delle nuove conoscenze avrebbe potuto abolire i vecchi limiti prima che ne emergessero di nuovi; che la semplice accelerazione della rivoluzione tecnologicaprogettale avrebbe potuto costituire una soluzione necessaria e sufficiente alla questione dei limiti tralasciando, ancora una volta, quella della scala. Il passaggio da un mondo in cui le risorse naturali erano relativamente abbondanti mentre il capitale prodotto dagli esseri umani era scarso, a un mondo in cui valeva l’opposto, per gli esponenti dell’economia ecologica così come per i progettisti che sposano il punto di vista soleriano, inverte completamente il fattore limitante: a loro avviso, il mondo si stava inesorabilmente spostando da una situazione in cui questo era rappresentato dal capitale di produzione umana ad una nella quale l’elemento limitante era diventato il capitale naturale generando una condizione in cui quello che prima era un comportamento economico stava diventando un comportamento antieconomico. A cambiare è in particolare il modello di scarsità, con la conseguenza che, per rimanere economico, il modello comportamentale deve adeguarsi: invece di massimizzare il rendimento del capitale tecnologico-artificiale ed investire in esso, si è chiamati a massimizzare i rendimenti del capitale naturale e ad investire in quest’ultimo. 5. In economia con la locuzione teoria neoclassica ci si riferisce ad un approccio generale alla disciplina economica -sviluppato a partire dagli anni settanta dell’Ottocento - basato sulla determinazione di prezzi, produzione e reddito attraverso il modello di domanda e offerta. Essa, insieme al paradigma della crescita sul quale si fonda, viene sottoposta ad una profonda critica dagli esponenti dell’economia ecologica che ne attaccano soprattutto la teoria soggettivista del valore, ritenuta responsabile dello spostamento d’attenzione dalle risorse all’utilità e all’efficienza. Cfr. Daly; op. cit. 6. Rudolf Clausius è stato un fisico e matematico tedesco. Egli è considerato uno dei fondatori della termodinamica poiché nel 1850 gettò le basi per la formulazione del secondo principio della termodinamica dimostrando l’impossibilità del passaggio spontaneo del calore da un corpo freddo ad uno caldo. Quindici anni dopo, indotto a porre una distinzione tra le trasformazioni reversibili e quelle irreversibili, introdusse il principio di entropia in seguito introdotto in ambiti non strettamente fisici come quello economico. Cfr. Martinez-Alier; op. cit. Pur sviluppandosi dalla stessa questione culturale, a differenza di quanto fatto dall’economia ambientale, il nuovo paradigma emergente dalla prospettiva auspicata dall’economia ecologica prova a cogliere l’invito avanzato nei primi decenni del secolo da Stuard Mill e avvia il tentativo di sviluppare le proprie riflessioni a partire da parametri fisici dati - un mondo finito, complesse interrelazioni ecologiche, le leggi della termodinamica - per poi indagare solo in un secondo momento il modo in cui le variabili non fisiche - tecnologia, distribuzione e stili di vita - possono essere condotte ad un equilibrio praticabile e giusto con il complesso sistema biofisico di cui siamo parte. Definendo due idee divergenti di tecnologia. Se infatti per la maggior parte degli esponenti riformisti questa rappresenta lo strumento su cui fondare una nuova visione del pianeta all’interno della quale i valori del paradigma moderno restano inalterati, per i critici più radicali rispetto al credo della crescita essa diventa uno strumento complementare da subordinare - come l’economia - alle esigenze etiche e sociali della società garantendo a tutti gli uomini una condizione di vita migliore, basata su una ricchezza reale. La declinazione qualitativa e sociale del concetto di entropia non si oppone cioè alla sua trascrizione quantitativa e tecnologica, ma richiede l’abbandono della visione strumentale a favore di una continua ricerca sul senso dell’agire umano e sulle direzioni che l’utilizzo dello strumento tecnologico assume nel mondo. Non una completa rinuncia alla tecnologia, ma una valutazione dell’intervento non più sulla scala della possibilità tecnologica, quanto su quella della comprensione scientifica e del reale benessere umano. Secondo un atteggiamento politico e progettuale, in cui il tema centrale della ricerca di una scala ottimale, anziché della crescita illimitata, richiede cioè una valutazione del benessere economico - e quindi della ricchezza - completamente diversa da quella implicita nel tradizionale uso del Prodotto Nazionale Lordo come indicatore fondamentale del progresso. Se tra l’idea di crescita e quella di sviluppo si era prodotta nel tempo una marcata coincidenza semantica, a partire dagli anni settanta sono proprio le ricerche di architetti come Soleri, ma anche di economisti come Nordhaus e Torbin o Daly e Crobb, a sottoporre questo indice ad una critica serrata richiedendo un nuovo passaggio 7 dalla crematistica all’oikonomia , dall’idea che ‘più si ha meglio è’ alla determinazione di ciò che è sufficiente, dalla nozione di abbondanza a quella di qualità (Daly, Crobb; 1989). Secondo un punto di vista per il quale una semplice crescita nella scala della produzione o dell’innovazione tecnologica non rappresenta necessariamente il massimo dei beni e la soluzione di tutti i problemi, così come l’aumento del benessere economico non coincide necessariamente con quello del benessere complessivo. In questo senso l’idea di frugalità di Soleri può certamente essere avvicinata al precedente more with less di Fuller (Lima; 2010), ma se nelle relazioni progettuali fatte dall’architetto americano il principio viene ancora tradotto soprattutto in dati quantitativi relativi ai singoli elementi, per l’architetto italiano la leanness deve emergere soprattutto dall’unitarietà del risultato finale. Ciò che egli richiede alla tecnologia ed al progetto è la massimizzazione non dei profitti, della quantità dei consumi, della rendita o del valore attuale delle cose materiali, ma della qualità della vita, del benessere sociale, dei bisogni essenziali. Richiede produzione di tempo, di informazione, di cultura e di relazioni socievoli; di quei valori di ordine estetico, intellettuale e 8 relazionale che nel 1977 Ronal Inglehart aveva definito come valori postmaterialisti (Inglehart; 1977). Restituendo certamente una definizione più cauta e meno ottimistica dell’idea di tecnologia che, in alcuni casi, sfocia in posizioni ancora più radicali. Se il punto di vista di Soleri può infatti essere eletto come rappresentante di un modello d’atteggiamento di critica radicale verso il credo della crescita che tuttavia non rifiuta categoricamente la ricerca verso tecnologie sofisticate e 9 complesse, architetti come Yona Friedman , negli stessi anni settanta, interpretano le proposte avanzate da Thoureau e da Mill secondo un punto di vista certamente più estremo capace di restituire un’ulteriore sfaccettatura dell’idea di tecnologia. Divenuto celebre fra la fine degli anni cinquanta e i primi anni sessanta attraverso la pubblicazione del Manifesto dell’architettura mobile (Friedman; 1956), l’architetto ungherese nel corso dei decenni successivi abbandona progressivamente la fiducia nella prefabbricazione, nelle macrostrutture e nella tecnologia in generale a favore non solo del culto della sobrietà e dell’essenzialità auspicato da Thoureau ma anche di una controrivoluzione tecnologica fondata sul ritorno a forme di vita più elementari. Per Friedman, in particolare, la constatazione dei limiti delle risorse e della loro esauribilità - delle scarsità naturali, ma anche sociali e morali - deve necessariamente condurre verso la necessità di ridurre in modo drastico i consumi e lo sfruttamento dell’ambiente contenuta nell’idea di sopravvivenza (Friedman; 1978). Convinto che penuria e scarsità rappresentino le madri del progresso tecnico e sociale per tutti quei processi fondati sull’apprezzamento della qualità della vita anziché sull’adesione 7. La crematistica viene definita già da Aristotele come lo studio della ricchezza o l’arte di fare denaro, mentre per oikonomia si intende l’amministrazione dell’economia familiare che mira a massimizzare il valore d’uso per tutti i membri della famiglia nel lungo periodo. Esponenti dell’economia ecologica come Daly e Crobb ne evidenziano tre differenze essenziali: l’attenzione dell’oikonomia per una prospettiva di lungo, anziché di corto periodo; la presa in considerazione della stessa dei costi e dei benefici dell’intera comunità e non solo di quelli di chi partecipa ad una transizione e il suo interesse ai valori d’uso concreti e alla loro limitata accumulazione, anziché al valore di scambio astratto e alla sua tendenza all’accumulazione illimitata. Cfr. DALY, COBB; Un’economia per il bene comune; Red; Como; 1994. Tit.orig. For the common good; Beacon Press; Boston; 1989. 8. Ronald Inglehart è un politologo e sociologo statunitense e direttore del World Values Survey, un osservatorio -costituito da una rete di sociologi estesa a livello globale - sullo stato dei valori politici, religiosi, morali e socioculturali delle differenti culture mondiali. Nel testo The silent revolution, pubblicato nel 1977, egli evidenzia l’importante cambiamento di valori intercorso tra generazioni nelle popolazioni delle società industriali avanzate sottolineandone le ampie implicazioni politiche. Cfr. INGLEHART; The silent revolution; Edizioni Ambiente; Princeton University Press; 1977. ad un tenore di vita sempre più alto, l’architetto ungherese propone l’architettura di sopravvivenza come controproposta grazie alla quale imparare ad essere poveri. Un’architettura elementare capace di facilitare i bisogni essenziali dell’uomo - la produzione di cibo, l’approvvigionamento di acqua, la protezione climatica ma anche la salvaguardia dei beni privati e collettivi, l’organizzazione dei rapporti sociali e la soddisfazione estetica di ognuno - mediante tecnologie semplici e povere, ma profondamente innovative. Strumenti e processi - spesso definiti come conviviali, alternativi o utopistici (Ruffolo; 1985) - non solo a basso consumo di energia ma fondati sul concetto di natura abitabile, cioè sull’abitabilità della natura con un impatto minimo sulla stessa (Friedman; 2004). Nella definizione dell’architettura di sopravvivenza l’inversione fra parametri non fisici e variabili fisiche auspicata da Mill giunge cioè a compimento: il compito della tecnologia non è più quello di produrre ecosistemi artificiali come soluzioni ma di rendere abitabili, nel modo più semplice e immediato possibile, quelli esistenti. E’ quello di trasformare il modo in cui l’uomo impiega la natura mediante espedienti tecnologici ed ecosistemi artificiali durevoli, riparabili e riciclabili volti semplicemente a migliorare quelli esistenti, mediante un nuovo atteggiamento nei confronti dell’abitare che - in coerenza con l’idea di natura sviluppata in quegli anni [link_Natura] - ne limiti le trasformazioni. In una prospettiva fondata sul comportamento quanto sui mezzi. Parallelamente alle teorie avanzate dall’economia ecologica, ma anche da Arne Naess e dal movimento dell’ ecologia profonda [link_Natura], per Friedman i mutamenti ideologici necessari per superare la crisi ecologica e sociale in atto sono cioè rintracciabili in una semplicità dei mezzi capace di rendere gli abitanti autosufficienti, mettendo definitivamente in discussione la questione della scala globale, oltre che il ruolo della nostra disciplina. Rifiutata la realizzabilità degli obiettivi universali dell’architettura moderna e della visione di mondo prospettata dall’era consumistica su scala mondiale, per questa posizione estrema non resta infatti che affidarsi ad un modello contrapposto in cui ciascuno abbia la possibilità di inventarsi autonomamente mezzi di sopravvivenza eterogenei mirati a soddisfare il progetto di vita desiderato. Con un definitivo superamento di quel punto di vista tecnocratico che per Friedman è responsabile della cosiddetta generazione dei nuovi poveri - di uomini cioè in possesso di molto denaro ma incapaci di procurarsi le cose in quantità sufficiente a soddisfare le norme e le convenzioni dell’epoca -, testimonianza diretta del fatto che il problema della povertà - così come altri - non può affatto essere risolto dal progresso scientifico e tecnologico sostenuto dal modello dominante della crescita illimitata. Se Friedman si trova cioè in accordo con la critica di Fuller verso la specializzazione, nella posizione assunta dall’architetto ungherese questa non viene risolta - come per l’architetto americano e per la maggior parte delle posizioni riformiste - nella definizione della figura di un comprehensive designer pronto a fornire soluzioni universali, quanto piuttosto in quella di un architetto grammatico-insegnante; un docente di lingue tenuto a trasmettere quella conoscenza del linguaggio sulla quale si fondano i processi di auto pianificazione. Assumendo un modello di atteggiamento che porta ad una nuova concezione tecnologico-architettonica mirata ad ideare soluzioni flessibili e contingenti capaci di rispondere al meglio a situazioni specifiche - magari anche impreviste o inattese - che nei decenni successivi troverà ulteriori applicazioni e definizioni. Biodiversità. Trascrizioni locali. Mentre in posizioni radicali come quella di Friedman è la fiducia nell’auto-pianificazione [Link_Democratizzazione] e nel ruolo defilato degli architetti a condurre verso un’idea di tecnologia sempre meno universale e sempre più determinata dai caratteri contingenti di ogni singola situazione, nei decenni successivi sono gli stessi sviluppi del rapporto fra ecologia ed economia e la loro interpretazione a livello istituzionale a calare la definizione della stessa a livello locale restituendo così un’ulteriore interpretazione dell’idea. L’ingresso nell’arena politica della scienza ecologica spinge infatti gli esponenti più radicali della disciplina economica a sottolineare la dipendenza gerarchica della stessa dall’ecosistema naturale. Nel 1977 l’economista americano Herman Daly pubblica il testo Steady-State Economics (Daly; 1977) in cui, in aperto contrasto con gli esponenti della cosiddetta economia neoclassica, per la prima volta l’economia viene definita come un sottosistema dell’ambiente con possibili ripercussioni radicali sulla stessa. Negatane l’autonomia disciplinare, in questa prospettiva, essa viene infatti chiamata a superare i propri confini disciplinari per aprirsi alle scienze naturali, come a quelle sociali e all’etica; ad allargare la prospettiva ed il profilo teoretico delle sue teorie per fornire risposte concrete e coerenti all’età del disagio (Ruffolo; 1985). Secondo una vera e propria rivoluzione scientifica e culturale che - per Daly così come per tutti gli esponenti dell’economia ecologica - dovrebbe sostituire le visioni meccanicistiche e riduzionistiche proprie del paradigma moderno con visioni revolution; Edizioni Ambiente; Princeton University Press; 1977. 9. Yona Friedman è un architetto e urbanista ungherese naturalizzato francese. Nel 1956, al X CIAM di Dubrovnic, il suo Manifest de l’architecture mobile contribuì a mettere definitivamente in discussione i principi della progettazione architettonica e urbanistica di quegli anni, contrapponendovi un’architettura fondata sull’auto-pianificazione e per questo capace di comprendere ed assecondare le continue trasformazioni sociali. Cfr. YONA FRIEDMAN; L’architettura di sopravvivenza: una filosofia della povertà; Bollati Boringhieri; Torino; 2009. prodotte in termini di relazioni; spostare l’attenzione né sull’oggetto, né sul soggetto ma sulle storie, sulle relazioni nel tempo. Se cioè la fisica meccanica aveva trasmesso all’economia l’idea che la vita traeva tutta la sua energia non da qualcosa di autonomamente contenuto nella materia vivente, ma unicamente dal mondo inanimato (Soddy; 1922), l’apporto della conoscenza ecologica alla teoria economica comporta esattamente il contrario. Chiamando la disciplina a rompere i propri legami con le scienze ‘reversibili’ per fondarsi su scienze senza fondamenti e in divenire - biologiche e termodinamiche - per le quali la riduzione del sistema vivente a quantità non sia più possibile; ad orientarsi verso una visione progettuale evoluzionistica capace di confrontarsi con il comportamento dinamico dei sistemi e con la loro eterogeneità, oltre che con gli aspetti del tempo, dell’incertezza e della irreversibilità dei processi ecologici, come di quelli economici e progettuali (Ceruti; 1995. Prigogine; 1997). Se cioè i sostenitori di una nuova civilizzazione tecnologica più consapevole rispetto alle questioni ambientali - dagli esponenti dell’economia ambientale alle figure della corrente culturale riformista – in quegli stessi anni continuano a fornire risposte universali quantitative ed astratte, prive di alcun confronto con il territorio, fra gli esponenti dell’economia ecologica e le figure più radicali dell’ambito progettuale inizia a diffondersi la consapevolezza nel fatto che la cultura del limite non scaturisca solo dalla ricerca di equilibri ambientali, ma anche dal confronto con i territori stessi e con la cultura dei luoghi. Introiettando nel dibattito sulla sostenibilità la questione - già in auge negli anni cinquanta - dello scetticismo diffuso circa la possibilità di applicare grandi modelli universalistici indipendentemente dal contesto geografico e storico. Un tema che aveva introdotto nell’ambito progettuale due nuove dimensioni, quella patrimoniale - ossia il riferimento ad una sedimentazione di fattori materiali e immateriali attivati, trasformati e utilizzati come insieme di risorse per l’innesco o il mantenimento di processi di sviluppo - e quella relazionale - la capacità cioè degli attori locali di costruire collettivamente delle rappresentazioni -, già presenti nelle riflessioni degli anni settanta e ottanta di architetti come Balkrishna Doshi, Hassan Fathy o Fabrizio Carola. Architetti indigeni e non - operanti nei paesi del terzo mondo con l’obiettivo di sperimentare progetti in grado di dar voce all’identità nazionale mediante una metodologia progettuale capace di intrecciare modernità e tradizione e di relazionarsi alle specificità dei luoghi, alla sapienza delle tradizioni, alle tecniche costruttive e ai materiali naturali. Interpreti, forse in parte anche involontari e inconsapevoli, del progressivo processo di frammentazione locale non solo dell’idea di tecnologia ma, più in generale, del dibattito sulla sostenibilità. Se il pensiero occidentale, e tutta la produzione architettonica da esso derivata, stava ponendo l’accento sulle soluzioni tecnologiche esasperando le scelte dal punto di vista delle tecniche e dei materiali impiegati e considerando risolto il problema abitativo nell’ambito del confort ambientale attraverso l’adozione di sistemi di controllo ambientale artificiale come gli impianti [Link_La storia della sostenibilità in architettura], i problemi energetici che interessano il mondo industrializzato a partire dagli anni settanta mostrano la fragilità di questo approccio rinnovando l’interesse per esperienze costruttive ‘popolari’, fatte di adesione ai luoghi, al clima e alle risorse locali. Basate non più su un approccio correttivo, ma sostanziale e sostanziato dall’uso, ma anche dalle capacità, dalle risorse, dalle preesistenze. In questo senso, sulla linea definita dall’idea di sopravvivenza di 10 Friedman, l’architetto egiziano Hassan Fathy , in particolare, conquista l’attenzione internazionale con la pubblicazione nel 1973 del suo libro Architecture for the Poor (Fathy; 1973). Un testo nel quale egli descrive nei dettagli l’esperienza - mai terminata - relativa alla progettazione e alla realizzazione del villaggio di Gourna, costruito vent’anni prima con mattoni di terra cruda secondo i concetti architettonici egiziani tradizionali: le 11 case con i cortili, i claustra, il malqaf, i mashrabiya , le logge, gli archi e i tetti a forma di cupola. La qualità e i valori inerenti la risposta tradizionale dell’uomo all’ambiente - scrive l’architetto all’interno del suo testo - dovrebbero essere conservati senza rinunciare al progresso scientifico. La scienza può essere applicata a vari aspetti del nostro lavoro, se, allo stesso tempo, è subordinata alla filosofia, alla fede, alla spiritualità. (Fathy; 1973) Ricordando posizioni e termini assunti da Soleri, Fathy ne ricalca anche i principi: l’assoluta priorità dei valori umani e l’uso di tecnologie appropriate. Ma rispetto a questi applica le sue idee in un contesto specifico, evidenziando l’importanza dell’uso di tecnologie in grado di consentire la cooperazione degli utilizzatori, ma anche il ruolo essenziale della tradizione e, soprattutto, il risveglio - tramite l’architettura - dell’orgoglio per la cultura nazionale. A Gourna, opponendo ad un progetto di case costruite con telai in cemento un villaggio realizzato in maniera tradizionale, il suo 10. Nato ad Alessandria nel 1900, l’architetto, ingegnere e professore egiziano Hassan Fathy ha dedicato la sua carriera allo studio di soluzioni residenziali nei paesi in via di sviluppo con l’obiettivo di sostenere l’economia e migliorare gli standard di vita nelle aree rurali. La sua ricerca progettuale si fonda sul ruolo essenziale che l’architetto attribuisce alla tradizione e sulla sua volontà di risvegliare l’orgoglio per la cultura nazionale proprio tramite l’architettura e l’uso di tecnologie appropriate. Il suo intervento più significativo è certamente quello realizzato, anche se solo in parte, fra il 1946 e il 1953 a Gourna, un villaggio presso il famoso sito archeologico di Luxor nel quale Fathy propose di sostituire un progetto di case costruite in cemento armato con uno di case realizzate dagli stessi abitanti con mattoni di terra cruda. Cfr. Fathy; Construire avec le people. Historire d’un village d’Egypte: Gourna; Sindband; 1970. 11. Claustra, malquaf e mashrabiya rappresentano elementi caratteristici dei sistemi di ombreggiamento e di ventilazione dell’architettura vernacolare egiziana. I claustra sono dei graticci ricavati da pannelli di gesso originariamente utilizzati negli edifici termali romani per schermare le grandi aperture poste nelle zone elevate, mentre il malquaf, o captatore del vento, consiste in un pozzo situato sopra l’edificio e provvisto di un’apertura affacciata sui venti prevalenti. Il mashrabiya indica invece delle aperture schermate da una griglia di legno formata da piccole balaustre lignee di sezione circolare, disposte ad intervalli regolari a formare obiettivo non è cioè tanto quello di dimostrare che si possono costruire case in maniera più economica rispetto a quelle europee, ma soprattutto quello di risolvere un problema sociale: incoraggiare l’industria edile a fare a meno di materiali e tecnologie di importazione - come il calcestruzzo armato - e fornire agli abitanti poveri della zona un lavoro e delle competenze spendibili anche in seguito. Motivo per il quale egli stesso insegna loro la costruzione in mattoni di terra cruda, di archi, cupole, volte tradizionalmente diffusi nella regione. Quella che Fathy propone è la configurazione di legami con antichi principi legati all’esperienza degli uomini; la sostituzione del Magistero Sperimentale con quello Esperenziale (Trombetta; 12 2002), a favore di un’idea di tecnologia che Rosario Giuffrè definisce adattiva (Giuffrè; ). Una tecnologia cioè capace di modificare le proprie funzioni e la propria struttura per corrispondere alle condizioni contestuali, relazionarsi alla storia, ai singoli individui, alle comunità. Negli scritti dell’architetto egiziano, termini come appartenenza, tradizione, riconoscibilità emergono come centrali portando ad una definizione di tecnologia intesa come reinterpretazione dell’esistente. Come elemento conforme ai presupposti culturali, tecnici, materici e ambientali del campo di intervento inteso come luogo riconoscibile delle trasformazioni necessarie e necessitate dalla domanda d’uso locale. Tuttavia, se parte dell’impianto teorico del progettista sembra far emergere con forza la volontà di prefigurare una direzione strategica capace di indicare una molteplicità di soluzioni progettuali alternative tutte radicate nel contesto culturale piuttosto che norme progettuali e formali cogenti, alcuni capitoli 13 dei suoi scritti , così come parte del suo lavoro, sembrano far riemergere la tentazione di affrontare il tema attraverso la fisica tecnica e la mera trascrizione di soluzioni formali tradizionali, rendendo ambiguo e sottoponendo a una forte critica la sua posizione. Fra gli anni settanta e ottanta, inoltre, i tempi non sono forse maturi per le riflessioni avanzate da Fathy e lo stesso esperimento proposto a Gourna fallisce, ma l’influenza del suo costrutto teorico sul dibattito resta comunque innegabile. La logica di investimento nelle risorse locali proposta dall’architetto egiziano viene, per esempio, ripresa dal movimento Intermediate Technology - in seguito denominato Appropriate technology - fondato dall’economista Ernst Friedrich 14 Schumacher che, nello stesso anno della diffusione di Architecture for the Poor (Fathy; 1973) pubblica il testo Smalli is beautiful (Schumacher; 1973). Un testo nel quale l’autore, proprio come Fathy, definisce la produzione basata su risorse locali per il soddisfacimento di bisogni locali come il modo più razionale di esprimere la vita economica, criticando invece la dipendenza dalle importazioni, e il conseguente bisogno di produrre per esportare, come atteggiamento antieconomico. Segnando un primo passo importante verso l’uscita del discorso sull’ecologia da una prospettiva occidentale e l’inclusione di una gamma più ampia di fonti culturali. Secondo questo modello d’atteggiamento, il problema non è infatti la scelta fra crescita moderna e stagnazione tradizionale, fra tecnologie sofisticate e tecnologie primitive, ma l’individuazione di un giusto sostentamento, di un giusto corso dello sviluppo fondato su tecnologie appropriate. E’ quello di coniugare con tecnologie d’oggi processi progettuali contestualmente collocati; di individuare tecnologie capaci di ottenere una buona produttività senza ricorrere all’alta intensità di capitale proprio delle tecnologie troppo raffinate. E se gli sforzi di Fathy falliscono nell’immediato, è possibile ritrovare la sua enfasi su questi temi nelle retoriche di molti architetti che, nei decenni successivi, iniziano a ridimensionare il loro ruolo a favore di progetti e tecnologie capaci di sottostare ai valori sociali dei luoghi. Soprattutto nei paesi del terzo mondo. Nel 1978 l’architetto indiano Balkrishna Doshi avvia in India una nuova ricerca sull’edilizia residenziale locale a basso costo fortemente focalizzata sui legami tra la cultura occidentale e quella orientale [Link_Democratizzazione] che segna l’inizio di un nuovo percorso nella sua ricerca progettuale. Fortemente legato al movimento dell’Architettura Moderna e all’internazionalismo modernista nei decenni precedenti, negli anni ottanta Doshi inizia infatti a contaminare l’ispirazione lecorbusiana che aveva caratterizzato i suoi lavori fino a quel momento con un collegamento esplicito alla cultura indiana in termini di spazialità, di materiali e di rapporto con l’acqua facendo emergere il conflitto interiore vissuto da molti architetti del sud del mondo nel loro tentativo di assimilare le tecnologie ‘sviluppate’ occidentali con la propria cultura e i propri valori. Nella realizzazione di edifici come il piccolo museo Hussain Gufa nel campus di Ahmedabab egli, in particolare, utilizza un approccio locale tradotto nell’utilizzo di materiali umili disponibili sul posto - quali la terra e frammenti di piatti rotti - e di una tecnologia costruttiva locale - basata, come auspicato da Fathy, più sul lavoro degli uomini piuttosto che sulle attrezzature - usata da secoli per la costruzione di tempietti reliquari. Evidenziando come continuare a considerare la generazione di Doshi come la protagonista di una lotta apertamente positiva per il progresso sia una lettura inadeguata (Steele; 2005), che tralascia completamente le discrepanze individuate fra i principi internazionalisti moderni e la realtà elementare del costruire in un paese in via di sviluppo - fra la una griglia di legno formata da piccole balaustre lignee di sezione circolare, disposte ad intervalli regolari a formare delle decorazioni minute di tipo geometrico. Cfr. Trombetta; L’attualità del pensiero di Hassan Fathy nella cultura tecnologica contemporanea; Rubettino; Soveria Mannelli; 2002. 12. Rosario Giuffré è professore ordinario di Tecnologia dell’Architettura presso l’Università degli Studi di Firenze. Lavora sui temi riguardanti gli aspetti metodologici disciplinari e le questioni operative sulla cultura tecnologica della progettazione ambientale, sul problema della complessità attraverso la definizione di processi compatibili e possibili per il governo delle trasformazioni dei luoghi. Cfr: Giuffrè, Glossario di Progettazione Ambientale dell’Unità di Ricerca TEMENOS. Disponibile sul sito www.unirc.it/dastec/temenos. 13. Al riguardo si veda, per esempio, il testo Natural Energy and Vernacular Architecture: principles and examples with reference in hot arid climates pubblicato per l’United Nation University dall’University Chigago Press nel 1986. Dopo una prima parte dedicata al rapporto fra uomo, ambiente e architettura, la seconda parte del testo è completamente dedicata al rapporto fra architettura e comfort, toccando argomenti quali il fattore solare, il fattore eolico e i flussi d’aria, il fattore umidità. Cfr. Trombetta; L’attualità del pensiero di Hassan Fathy nella cultura tecnologica contemporanea; Rubettino; Soveria Mannelli; 2002. propria formazione occidentale e la propria cultura d’origine - dai suoi stessi protagonisti. Se infatti Doshi avvia la ricerca del sincretismo in India, negli 15 stessi anni, l’architetto italiano Fabrizio Carola inizia la sua ricerca verso l’invenzione e la divulgazione di soluzioni tecnologiche appropriate alle risorse africane. Figlio di un impresario italiano, l’architetto-costruttore - uomo del progresso - viene a contatto con la sfera della necessità durante i suoi primi viaggi in Africa negli anni settanta. In Mali e in Nigeria egli si scontra con i discutibili risultati ottenuti dall’imposizione della civiltà occidentale e delle sue tecnologie in questi paesi per poi recarsi in Egitto e scoprire i lavori di Hassan Fathy. La riflessione su questa figura e sulle esperienze personali precedenti lo portano a convincersi del fatto che - in modo simile a quanto avvenuto in Egitto - la scienza mediterranea delle costruzioni potrebbe instaurare un dialogo altrettanto fecondo, sia dal punto di vista culturale che da quello economico, con la cultura africana ed i suoi artigiani. Un obiettivo tuttavia a suo avviso raggiungibile solo attraverso l’instaurazione di uno scambio culturale tra pari (Contal, Revedin; 2009). Riferendosi costantemente all’architettura spontanea e agendo sui significati che entrano nella costruzione delle forme, Carola mette così a fuoco un repertorio di soluzioni e di segni che ricorrono all’interno del continuo divenire della tradizione per sottoporli al procedimento logico del progettare e con essi arricchire l’habitat di quegli stessi ambienti dai quali vengono prelevati. Definendo un atteggiamento per il quale i materiali da costruzione tipicamente locali, la realizzazione di edifici nel pieno rispetto delle tradizioni culturali e delle specifiche realtà in funzione delle necessità e dei costumi propri delle popolazioni locali e il loro diretto intervento nel processo di costruzione rappresentano mezzi con cui migliorarne le condizioni di vita. Ma quella messa in atto dall’architetto italiano non è affatto una semplice trascrizione delle tecnologie locali, quanto una loro reinvenzione. Venuto a conoscenza del metodo del compasso ligneo mediante il lavoro di Fathy, egli - a differenza di quanto fatto dall’architetto egiziano - ne modifica le caratteristiche, ne varia la geometria, l’assetto e l’asse di rotazione con piccole innovazioni che gli consentono di ottenere una gamma più ampia di soluzioni spaziali capaci di una maggior efficacia nell’uso dello spazio interno, ma anche di una migliore ventilazione; così come per l’Ospedale di Kaedi la vulnerabilità alla pioggia dei tradizionali mattoni essiccati al sole viene risolta dal progettista attraverso la loro inusuale cottura in un forno alimentato non da legna ma da materiale di scarto delle produzioni locali: lo studio delle tecnologie locali, sotto questa diversa accezione, diventa cioè non un punto di arrivo ma un punto di partenza per un processo di miglioramento delle stesse da sviluppare in funzione delle esigenze contingenti. Mettendo fondamentalmente in atto quanto auspicato da Fathy. L’idea di tecnologia insita nelle retoriche di Carola, in particolare, viene arricchita da una rinnovata attenzione verso la materia su cui insiste ogni luogo, verso la forma che questa materia definisce e le relazioni tra questi elementi. Le cupole dell’ospedale sono a doppia calotta in modo tale che l’intercapedine fra i gusci garantisca un efficace isolamento termico, alla base delle cupole vi sono bocchette di ventilazione che consentono il passaggio dell’aria nell’intercapedine, il meccanismo costruttivo del compasso ligneo rende le cupole autoportanti, e quindi estremamente semplici ed economiche, durante le fasi di costruzione: i ragionamenti tecnici stimolati dalla questione ecologica restano vivi nel suo pensiero, ma vengono calati nel luogo mediante la materia. In questo senso, la terra, sia cruda sia sottoforma di mattone cotto diventa il materiale privilegiato dall’architetto perché lavora bene a compressione, è facilmente reperibile e producibile in sito, mentre volte, archi e cupole rispondono efficacemente ai criteri di economicità e rapidità di esecuzione: la materia si fa elemento strategico del comporre e il processo che regola l’uso del materiale determina necessità e specificità anche figurative. In una prospettiva in cui le tecnologie non vengono più scelte a priori, per la loro valenza innovativa, ma vengono determinate da tutti i dati del luogo: il clima, le condizioni sociali dei futuri utenti, i materiali e i mezzi disponibili, la qualità della manodopera, il budget disponibile, il tempo di consegna. (Carola. In Alini; 2007) E la ricercata economia del progetto - e con essa anche la sua riuscita - non deriva più solo dalla scelta di tecnologie semplici ed economiche, realizzabili dalla stessa popolazione locale, ma soprattutto dal loro rapporto con materia, funzione e forma. Negli anni in cui la cultura architettonica dominante continua a sostenere l’idea di un nuovo stile internazionale, Carola, rivolgendo lo sguardo verso un orizzonte apparentemente marginale come l’Africa, si fa portavoce di un atteggiamento che mette a sistema e divulga un sapere tecnico locale che si era perso, aprendo le porte, come auspicato da Schumacher, a fonti culturali diverse da quelle occidentali. Se infatti le esperienze di Fathy e Carola negli anni ottanta restano iniziative piuttosto isolate e rivolte a paesi in via di 2002. 14. Ernst Friedrich Schumacher fu un influente filosofo ed economista tedesco. Il suo libro Smalli s beautiful, pubblicato per la prima volta nel 1973, venne tradotto in molte lingue diffondendo la profonda critica dell’autore verso le economie occidentali e le sue proposte per l’adozione di tecnologie umane, decentralizzate ed appropriate. Cfr. SCHUMACHER; Piccolo è bello: uno studio di economia come se la gente contasse qualcosa; Mondadori; Milano; 1978. 15. Figlio di un impresario napoletano, Fabrizio Carola lavora da trentacinque anni all’invenzione di una tecnica e un’arte costruttiva appropriate alle risorse africane. Formatosi alla Scuola Nazionale Superiore d’Architettura di Bruxelles, nel 1967 deposita un brevetto sul cemento armato che gli vale il riconoscimento del Regolo d’Oro; ma è il suo primo viaggio in Mali nel 1971 a dare una svolta alla sua carriera avviando i suoi studi sulle tecniche e i materiali della tradizione. In Africa, per conto di organizzazioni non governative, conduce una serie di ricerche sull’abitare e sulle tecniche costruttive tradizionali rivolgendo la sua attenzione prevalentemente alle relazioni tra materia e luogo. Cfr. Carola; Vivendo, pensando, facendo…memorie di un architetto; Intra Moenia; 2009. sviluppo, nel decennio successivo le istituzioni europee stesse divengono simbolo di un vero cambiamento. A cavallo fra gli anni ottanta e gli anni novanta, mentre l’affermazione della necessità del limite viene riconosciuta a livello internazionale [link_La storia della sostenibilità in architettura] e alcuni architetti iniziano a parlare degli edifici come sistemi integrati [link_Natura], su più fronti si inizia a riconoscere come fino a quel momento il limite sia stato interpretato prevalentemente in termini riduttivi, isolato dagli elementi progettuali come un concetto ‘in negativo’ di natura quantitativa, riconoscendo l’apertura della svolta ecologica a ben altri approcci di natura propositiva. Il punto di vista proposto dagli esponenti dell’economia ecologica, così come dalle posizioni più radicali dell’etica ambientale [link_Natura], implicava infatti uno spostamento di fondo di tipo epistemologico, una dimensione del pensare e dell’agire, completamente diversa dalla dominante ragione strumentale e dal suo correlato tecnologico, che poneva al centro i modi di vita e le ragioni che li percorrevano: una razionalità comunicativa e relazionale che inizia ad esprimersi nel riconoscimento del valore territoriale endogeno (Ferraresi; 2011). In ambito economico, la critica alla disciplina cambia fronte d’attacco spostandosi dalle contraddizioni interne del capitalismo alle frontiere esterne della stessa: le sue relazioni con l’ambiente naturale e l’ambiente sociale. Nel 1989, con la pubblicazione del testo For the common good, gli economisti americani John Cobb e Herman Daly - in quel momento membro della Banca Mondiale - sferrano un forte attacco verso quella metamorfosi epistemologica che aveva portato ad un altissimo livello di astrazione del modello economico riducendo la società ad un campo gravitazionale assimilabile al mercato nel quale particelle indipendenti l’una dall’altra - gli uomini - agiscono mossi dalla semplice forza della massimizzazione del profitto. Una semplificazione che, se per i due economisti poteva essere accettabile per una disciplina che mirava ad essere una ‘scienza esatta’ all’interno di un contesto in cui era possibile assumere di essere lontano dai limiti - biofisici ma anche etico e sociali -, diventava intollerabile nel momento in cui l’economista, dismesso il camice bianco della scienza pura, si faceva politico in una realtà nella quale non era più possibile ignorare le scarsità assolute e non considerare l’ambiente come motivo di preoccupazione. L’economia viene cioè chiamata da parte dei suoi stessi rappresentanti ad abbandonare i valori che ne avevano costituito le basi per ricostruire il substrato fisico del suo ragionamento e reinserire l’economia umana nella più generale economia del vivente. Pochi anni dopo, inoltre, la Conferenza delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo, tenuta a Rio de Janeiro nel 1992, spinge il dibattito internazionale oltre il tema della scarsità esprimendo significativamente l’affermazione di un altro valore: quello della biodiversità. Un valore non solo difensivo, ma qualitativo e progettuale che ben presto entra a far parte anche delle riflessioni etico-culturali. Al di là dei limiti del Rapporto elaborato a Rio [link_La storia della sostenibilità in architettura], la rivendicazione della biodiversità come ricchezza ambientale negli anni successivi viene infatti accolta, fin dal principio, da diversi ambiti culturali in forte intreccio alla rivendicazione della diversità culturale e degli stili di vita come ricchezza delle forme di civilizzazione e delle economie, richiedendo sia alla scienza che alla tecnologia un profondo e radicale mutamento di rotta. Se l’economia della saggezza (Daly; 1996) sollecitava infatti i tecnologi nel fornire soluzioni economiche, accessibili, compatibili con il bisogno di creatività dell’uomo e adatte ad essere applicate su piccola scala, il concetto di biodiversità aggiungeva a queste richieste una rivendicazione di singolarità che presto emerge in ambito istituzionale, così come in quello progettuale. Nel ciclo di programmazione compreso fra il 1994 e 1999, gran parte delle risorse comunitarie vengono indirizzate ad iniziative locali per lo sviluppo che impongono la mobilitazione dal basso di energie, risorse, competenze e saperi, mentre anche architetti di fama internazionale iniziano a sentire il dovere di farsi coinvolgere, almeno nelle retoriche, dal dibattito sulla dialettica fra dimensione macro e dimensione micro, fra globale e locale. In questo senso, è significativo l’intervento di Renzo Piano a Noumea, in Nuova Caledonia. Il progetto del Centro Culturale Kanak è infatti costruito su una retorica di legittimazione fondata sulla volontà di sottolineare l’attenzione rivolta alle qualità peculiari dei luoghi e l’importanza dell’ascoltare, capire e conoscere culture distanti da quelle occidentali, contro gli interventi astratti, deterritorializzati, omologanti ed esogeni propri dei modelli di sviluppo dominanti. Niente di nuovo rispetto a quanto sostenuto alcuni decenni prima da precursori come Fathy, Doshi o Carola, ma il riconoscimento internazionale attribuito a Piano rende il messaggio molto più forte di quanto avvenuto precedentemente contribuendo a diffondere un punto di vista fino a questo momento rimasto circoscritto all’interno di esperienze locali isolate - spesso ritenute marginali - e poco conosciute. Una prospettiva che, schierandosi apertamente contro l’idea di crescita senza limiti, anche nei paesi occidentali, inizia ad interpretare il progresso tecnologico e scientifico in funzione di quello etico e morale, provando così a colmare quel divario fra i due - inarrestabile il primo e inesistente il secondo - che si registra nella nostra modernità. Con la definizione di una diversa idea di tecnologia che - abbandonato il ruolo di simbolo della modernità - si carica della propria responsabilità etica con l’obiettivo di farla prevalere sulle questioni mercantili, commerciali e tecniciste. Secondo una lezione di sobrietà che, pur partendo da presupposti simili a quelli posti alla base delle riflessioni di architetti come Friedman, non implica affatto una rinuncia a risposte tecnologiche avanzate, ma richiede un loro utilizzo non invadente e la capacità di rinnovarsi e di rispecchiare la diversità senza mimetizzarsi. In occidente, come nei paesi in via di sviluppo. Identità e sviluppo. Declinazioni politiche. Negli anni di passaggio fra il XX e il XXI secolo il riconoscimento delle identità e delle differenze diviene quindi un valore fondante per molte iniziative anche lontane dai paesi del terzo mondo. L’incontro tra sedimenti del patrimonio territoriale - manifesti e latenti - e la loro interpretazione innovativa in chiave di sostenibilità si trova infatti alla base di processi progettuali che, se in parte vengono stimolati dalle energie sociali insorgenti dalle nuove povertà, dall’altra vengono prodotti semplicemente da una nuova consapevolezza rispetto alla necessità di costruire società locale, nuove interazioni fra le popolazioni e il loro territorio. Sulla linea di un processo che sembra muoversi in una direzione diametralmente opposta al tecno ambientalismo cavalcabile solo dai grandi e dall’industria. Se, fra gli anni novanta e il primo decennio di questo secolo, 16 17 architetti come Thomas Herzog o Stefan Benish si schierano infatti con la parte più avanzata dell’industria, incentrando la loro attenzione sullo sviluppo di tecnologie ecologiche - durature e a basso costo per il primo, a basso consumo e con una forte componente di condivisione sociale per il secondo - mediante un rapporto costante proprio con il mondo della produzione 18 industriale, architetti come Samuel Mockbee e Andrew Freear partono da una critica radicale dell’industrialismo per farsi sostenitori della decrescita mediante un’architettura della decenza (Contal, Revedin; 2009). Definendo, ancora una volta, la coesistenza di prospettive e idee contrastanti: mentre il punto di vista riformista - volto verso una società hi-tech - conduce allo sviluppo dell’architettura climatica e ambientale e di tecnologie complesse, raffinate e sofisticate, quello radicale pensa ad una società low-tech rivoluzionata non da interventi emblematici sporadicamente finanziati da soggetti forti - come i ministeri, le università o i magnati industriali -, ma da piccoli interventi semplici e diffusi gestiti ed incidenti dalla e nella sfera del quotidiano. Nel primo caso, è la questione energetica a rimanere centrale: per architetti come Behnisch - ex studente di economia l’economia dell’energia deve essere cambiata a favore di un nuovo sviluppo capace di trasformare gli obiettivi e le attività sociali dell’uomo. L’architettura deve dare forma alla società costruita sul nuovo patto energetico ma i protagonisti del processo non cambiano: è attraverso la collaborazione con le avanguardie industriali del proprio tempo che i problemi possono essere risolti e a definire le basi etiche, sociali ed economiche della città sostenibile devono ancora essere pochi soggetti industrie, centri di ricerca, università - eletti ad ‘inventori’ della società futura. Nel secondo, invece, è il rapporto con la realtà sociale ed economica a diventare determinante; il confronto con le risorse disponibili e con le popolazioni locali. Con - come mostra l’atteggiamento proposto dal Rural Studio - un radicale capovolgimento della gerarchia dei ruoli e della conoscenza. Nei territori meridionali degli Stati Uniti, in particolare, la crisi degli anni novanta non fa che confermare l’idea che l’industrializzazione non fosse altro che una diversa forma di 19 colonialismo. La cosiddetta black belt era stata colonizzata prima dall’industria del cotone, in seguito fallita, e poi da quella dei semi di soia, che aveva impoverito i fertili terreni dell’area per poi fallire a sua volta: anziché sviluppo l’industrializzazione aveva cioè portato lo sfruttamento delle risorse da parte di attori esterni. Consapevole di questo Samuel Mockbee nel 1992 fonda presso la Auburn University il Rural Studio, proprio con l’obiettivo di fornire al profondo sud una via di salvezza, che l’architetto americano individua nella possibilità di utilizzare la costruzione e lo sviluppo di tecnologie semplici ma innovative come leva economica e l’architettura come leva culturale. Avviato come esperimento pedagogico attraverso il quale porre gli studenti a contatto diretto con la realtà, lo studio diventa un laboratorio di architettura sociale e sostenibile fondato sulla volontà di utilizzare i mezzi a disposizione nell’area di intervento e un processo continuo di confronto con i committenti per individuare delle soluzioni pratiche - sostituitesi alle astratte conoscenze scolastiche - in grado di dar vita a una nuova società locale. In Alabama - uno stato troppo povero per sostenere sistemi energetici sofisticati o costosi-, insieme progettisti, studenti e famiglie locali progettano, costruiscono e riciclano materiali alla portata di tutti; realizzano case essenziali ma spaziose e 16. L’architetto tedesco Thomas Herzog viene considerato uno dei massimi esponenti nel campo dell’architettura bioclimatica. Grazie ad un costante rapporto con il mondo della produzione industriale ha sviluppato un’ampia conoscenza delle dinamiche correlate ai processi costruttivi e dal 1974 la questione dell’uso di energie rinnovabili in architettura rappresenta il fulcro di tutta la sua sperimentazione sia nei progetti realizzati che nella ricerca universitaria. Considera gli edifici parte di una nuova dimensione di equilibrio energetico corrispondente al quartiere urbano, in cui deve essere controllato ogni elemento di consumo e di produzione energetica. Cfr. Herzog; Solar Energy in architecture and urban planning; Prestel; Munich-New York 1996. 17. L’architetto tedesco Stefan Benisch è considerato uno dei pionieri del dibattito sull’architettura sostenibile intesa, per definizione dello stesso autore, come architettura climatica e ambientale. Nato a Stoccarda nel 1957, Stefan è figlio di Günter Benisch, figura importante dell’architettura tedesca. A partire dagli anni ottanta lavora fra l’Europa e l’America dove, dopo la realizzazione della sede della Genzyme a Cambridge nel Massachusetts viene considerato un esperto del settore. Convinto che la questione energetica sia anche più strategica e determinante per il nostro futuro, lavora con società di ricerca all’avanguardia nel settore delle nuove tecnologie energetiche investendo le proprie capacità in programmi, spesso molto raffinati, per quegli attori - industrie, centri importanti strutture per servizi e spazi pubblici pensati ‘con’ e non ‘per’ gli abitanti con l’obiettivo di recuperare le condizioni abitative, ma anche di ristabilire il tessuto sociale e rivitalizzare le piccole città. Mediante un processo attraverso il quale il Rural Studio oppone sia al conservatorismo compassionevole proprio della politica - diventato peraltro nel 2001 la dottrina di George Bush - che all’ottimismo determinato dell’atteggiamento riformista uno sviluppo capace di contare su se stesso, sui propri bisogni ma anche sulle proprie capacità, di cui l’architettura rappresenta sia strumento che risultato. In una prospettiva nella quale le tecnologie proposte non vanno valutate solo e tanto per la loro capacità di lavorare con materiali poveri e riciclati, quanto per il loro spessore politico e culturale: ridotto lo slancio utopistico e idealistico degli anni novanta, oggi il Rural Studio diretto da Freear non propone infatti un’architettura idealistica, ‘selvaggia’ e fragile, ma un’architettura contenuta ed essenziale dettata dalla necessità. Una tecnologia nella quale la creatività sfida la povertà richiedendo il contributo delle imprese, stimolando l’economia locale e progettando una rivitalizzazione dell’intera società. In questo senso, la stazione dei vigili del fuoco di Newbern è emblematica. Rilocalizzata al centro della città per contribuire alla vita pubblica, questa grande struttura di legno e metallo è caratterizzata da alte qualità costruttive ed estetiche. La costruzione è basata sull’utilizzo di piccoli elementi immediatamente disponibili sull’area e poco costosi, ma assemblati e finiti con precisione e cura: con la definizione di un approccio in cui è la qualità raggiunta dalla ricerca tecnologica e progettuale ad ottimizzare il materiale, all’interno di una ricerca che lo studio sta sperimentando anche in ambito residenziale. In modo analogo a quanto proposto da Aravena in Cile [link_Democratizzazione], Freear e i suoi collaboratori stano infatti cercando di ottenere un alloggio prototipo del costo di 20.000 dollari, non a caso l’equivalente del prestito concesso dal programma USDA Rural Development alla fascia più povera della popolazione. Destinando metà della somma alla manodopera e metà ai materiali necessari, i primi esempi di queste abitazioni non rinunciano né a riprendere elementi propri dell’architettura locale, né all’attenzione verso accorgimenti tecnici richiesti dal dibattito sulla sostenibilità: verande, ventilazione incrociata e gradi aggetti del tetto per combattere il calore diventano elementi esemplari di un progetto essenziale che tuttavia non rinuncia alla qualità. Secondo una presa di posizione politica fondata sull’idea che l’utilizzo di tecnologie semplici non significhi necessariamente il costituirsi di limiti progettuali e che, grazie alla qualità dell’idea, della progettazione, dei particolari e dell’esecuzione, anche un materiale rudimentale possa permettere non solo la costruzione di un’opera raffinata, ma anche l’avvio di un processo di rinascita. E, sebbene sia esageratamente ottimistica l’immagine di un mercato delle imprese pesantemente influenzato dalle pressioni esercitate sia dalle sempre più diffuse situazioni di necessità - a nord e a sud del mondo -, sia da ‘consumatori sempre più consapevoli’, esperienze come quelle del Rural Studio in Alabama rappresentano certamente un segnale del fatto che l’interesse dell’industria verso le questioni sociali sta crescendo, delineando una nuova sfaccettatura dell’idea di tecnologia che potrebbe mettere definitivamente in dubbio l’opposizione storica fra i sostenitori dell’industria e quelli della decrescita. Non potrebbe infatti essere possibile un rinnovamento dell’economia basato sul riconoscimento del valore potenziale del patrimonio territoriale, su una visione coevolutiva e processuale del territorio capace di generare effetti specifici e retroazioni sulle tecnologie e sulle organizzazioni? E non potrebbe essere proprio la ricerca tecnologica a stimolare questo tipo di approccio? Una prima novità di quest’ultimo decennio sembra risiedere nel fatto che una risposta positiva a queste domande potrebbe giungere non più da paesi o aree sottosviluppate, lontane da un’industria avanzata, ma da regioni che su questa industria hanno costruito la loro forza. In ambito istituzionale, il Vertice Mondiale sullo Sviluppo Sostenibile tenutosi a Johannesburg nel 2002 ha rappresentato il primo momento di riconoscimento internazionale dell’idea che la crescita economica non sia la base dello sviluppo mentre, in ambito progettuale, un nuovo atteggiamento fondato su questa convinzione sta emergendo anche in regioni ricche, lontane dalla cosiddetta sfera della necessità. Basti pensare, per esempio, al modello d’atteggiamento proposto non solo dai progettisti, ma dall’intera comunità del Voralberg, una ricca regione austriaca che ha cambiato e sta cambiando la propria identità anche, se non soprattutto, grazie al forte coinvolgimento politico e sociale dei suoi architetti. Qui l’élite locale - in gran parte costituita dai progettisti e dagli ottimi carpentieri del Voralberg - sta infatti chiaramente subordinando le sue conoscenze tecniche alla civiltà con un lavoro che, andando ben oltre la definizione di nuove tecnologie o nuove forme, sta rendendo non solo possibile ma estremamente proficua la collaborazione fra un punto di vista ‘avanzato’, come quello dell’industria, e un punto di vista più ‘conservatore’ come quello degli abitanti legati alle caratteristiche peculiari del proprio luogo d’origine. investendo le proprie capacità in programmi, spesso molto raffinati, per quegli attori - industrie, centri di ricerca e università - che a suo avviso vanno eletti ad ‘inventori’ della società futura. Cfr. Contal, Revedin; Progettare la sostenibilità; Edizioni Ambiente; Milano 2009. 18. Samuel Mockbee è stato il fondatore del Rural Studio. Professionista diventato docente, egli voleva insegnare agli studenti facendoli calare nella realtà sociale ed economica. Nel 1992 l’idea assunse la forma di un laboratorio attraverso il quale mandare gli allievi a progettare e costruire case per gli abitanti della Contea di Hale, la regione più povera dell’Alabama. Vent’anni dopo il Rural Studio è ancora attivo e sotto la direzione di Andrew Freear - succeduto a Mockbee dopo la sua morte ha saputo trasformarsi da esperimento pedagogico ed idealista ad un laboratorio concreto di architettura sociale e sostenibile. Cfr. ibidem. 19. La Black Belt, chiamata così per il colore del terreno, è una regione molto fertile che si estende da Newbern all’Alabama occidentale. 20 La vicenda dei Baukünstler - così vengono chiamati gli architetti della regione - prende avvio fra gli anni settanta e gli anni ottanta quando essi, differentemente da quanto avvenuto in Alabama, iniziano a comprendere il pericolo - paesaggistico e ambientale, ma anche economico e sociale - nel quale la loro regione rischia di incorrere: se gli abitanti del Voralberg non si fossero mobilitati l’industria si sarebbe impossessata della regione trasformandone completamente l’economia con il rischio di distruggere tutte quelle attività artigianali su cui si strutturava la società. Data la posizione eccezionale della valle, gli anni del boom economico austriaco avrebbero infatti potuto portare ad una drastica sostituzione di risorse endogene quali le attività agricole, il legno e i suoi mestieri da parte dell’industria esogena del cemento molto più attrezzata per ritmi di costruzione veloce di quanto non lo fossero i carpentieri della regione - con una conseguente urbanizzazione incontrollata della valle e con benefici economici che probabilmente sarebbero stati colti solo da soggetti estranei al territorio. Compreso questo, i progettisti del Voralberg iniziano a studiare, insieme ai carpentieri, delle soluzioni costruttive più semplici e più economiche per le case tradizionali in legno in modo tale che queste possano essere proposte allo stessi prezzo di quelle realizzate in calcestruzzo armato. L’obiettivo da perseguire è ben chiaro: spostare in avanti i limiti di tecnologie costruttive altrimenti destinate alla marginalità e trasformare così la crescita della regione in sviluppo proprio attraverso la ricerca architettonicotecnologica. Un intento - poi sviluppato dalla generazione successiva e alimentato dal giovane dibattito sul tema della sostenibilità - la cui originalità stava e sta appunto nell’idea che non necessariamente il conflitto fra le ragioni economiche e quelle identitarie, fra posizioni riformiste e radicali, sia un limite e che quindi le trasformazioni non abbiano necessariamente bisogno di fare tabula rasa: il Voralberg, secondo questi architetti, può cioè modernizzarsi e diventare competitivo sul mercato europeo non adeguandosi a spinte esogene ma mantenendo il proprio stie abitativo, i propri boschi e i mestieri tradizionali. Per fare questo, però, era ed è necessario che i progettisti lavorino a stretto contatto con i carpentieri locali in modo tale da comprendere e utilizzare le loro idee e il loro ruolo per trasformare un’attività ancora artigianale e poco competitiva in un’industria del XXI secolo ed elaborare quindi ciò che gli economisti in quegli stessi anni, riferendosi soprattutto ai paesi del terzo mondo, chiamano auto-sviluppo. E così è stato. Negli ultimi decenni la regione ha vissuto una trasformazione profonda, un cambiamento d’identità di cui l’architettura e la ricerca tecnologica sono state e continuano ad essere un vettore determinante: il numero degli studi è cresciuto a dismisura, le imprese che costruiscono con il legno sono diventate un polo di eccellenza mondiale e, aspetto determinante, molti si sono convinti del fatto che, per far sì che quest’area continui ad essere leader nell’industria dell’edilizia sostenibile sia necessario continuare a darsi nuovi obiettivi e ad innovare senza mai recidere le radici impiantate nel territorio. Con un atteggiamento mediante il quale la tecnologia ha saputo farsi politica e rendere visibile una nuova narrazione collettiva e a lungo termine non più incentrata sulla crescita ma sullo sviluppo. 21 Come Mockbee e Freear, architetti come Hermann Kaufmann nati e cresciuti nei laboratori artigianali di questa regione definiscono un modello d’atteggiamento fondato sulla fiducia nella possibilità di definire una qualità architettonico-tecnologica capace di trasformarsi non solo in qualità ambientale, ma in un fattore di sviluppo sociale e culturale. Tuttavia, le loro idee non vengono più applicate ad un contesto sottosviluppato o in forte difficoltà economica, ma in una ricca regione occidentale che ha semplicemente deciso di investire su una prospettiva di territorializzazione non più definita dalla conservazione della natura originaria del tipo territoriale e dell’identità storica data, ma da criteri e forme innovative, dall’emergenza di identità condivise fra attori interessati alla costruzione di un nuovo progetto. Delineando certamente una nuova idea di tecnologia attiva e dinamica e, parallelamente, una nuova prospettiva di sviluppo auto-determinante nella quale posizioni riformiste e radicali, questioni universali e saperi contestuali non sono più incompatibili e l’idea di sostenibilità diventa sempre più legata alla necessità di una declinazione politica e progettuale locale e frammentata. 20. Il termine significa letteralmente ‘artista della costruzione’ ed è sinonimo di ‘architetto’. Nel Voralberg indica un importante movimento costituito da significativi professionisti della regione - come Carlo Baumschlager e Dietmar Eberle, Helmut Dietrich e Bruno Spagolla - che ne hanno alimentato il vivace dibattito interno rappresentando le varie correnti del pensiero ambientalista: low o high tech, ruralista o urbanizzatore, favorevole al cemento o al legno. Cfr. Kapfinger; Architecture in Voralberg since 1980; Kunsthaus Bregenz Voralberg Architektur Institut; 1999. 21. Nato nel 1955 e proveniente da una famiglia di carpentieri, Herrmann Kaufmann è un architetto austriaco la cui carriera è profondamente legata alla storia recente della sua regione d’origine, il Voralberg, e del movimento dei Baukünstler. Condiviso con questi l’intento di creare una qualità ambientale accessibile a tutti come fattore di sviluppo sociale e culturale, va alla ricerca di un’architettura capace di promuovere una gestione sostenibile delle risorse, concentrandosi prevalentemente sull’utilizzo del legno con l’obiettivo di spostare in avanti i limiti di tecnologie costruttive altrimenti destinate alla marginalità. Cfr. Kapfinger; Hermann Kaufmann wood works: architecture durable; Springer; New York; 2009. Democratizzazione Architettura e processi decisionali Contro gli autoritarismi. La complessità e il conflitto in architettura. Fra i presupposti del paradigma estetico (Bateson; 1972) invocato dal dibattito sviluppatosi attorno al tema della sostenibilità [Link_La storia della sostenibilità in architettura] vi è certamente la rivalutazione del valore della complessità. I percorsi epistemologici sui quali esso si fonda - dal riferimento al pensiero meridiano (Camus; 1937) all’ecologia della mente (Bateson; 1972), dall’autopoiesi (Maturana e Varela; 1980) alla scienza senza fondamenti (Prigogine; 1997) - stanno infatti mettendo sempre più in evidenza la necessità di tornare a considerare l’interazione e il conflitto come risorse, sollecitando diverse discipline a trasformare il loro statuto in funzione della definizione di un progetto chiamato a mediare oltre che a proporre soluzioni. Un obiettivo per il raggiungimento del quale la forma fisica assume un ruolo centrale (Clementi; 2004). Sviluppatosi il pensiero delle differenze e venute meno le grandi ideologie e la fede nel progresso irreversibile [Link_Tecnologia], è diventato forte il nesso fra essere e abitare (Isola, 1999) e l’importanza data alle relazioni ha portato al superamento dell’idea di uno spazio astratto e semplificato in favore di quella di un luogo che non può più essere visto separatamente dall’uomo. Una svolta nodale in cui il progetto morfologico trova la possibilità di superare gli aspetti tecnici e funzionali del proprio operare, individuando il fondamento del costruire nella possibilità di realizzare, tramite i luoghi, la stessa esistenza umana. Non solo. Sotto l’occhio della sostenibilità, i grandi rischi che l’ambiente e, quindi, il nostro abitare corrono a causa degli interventi che operiamo su di essi fanno sì che il dominio dell’estetica tenda a dislocarsi e ad intrecciarsi con questioni etiche e gli slittamenti del significato attribuito alla natura [Link_Natura] - districati lungo un percorso che, pur sotto molte sfaccettature, sembra muoversi dal significato di cosa sostanziale in sé, ad effetto di intrecci complessi di pratiche - richiede un passaggio ad un etica della responsabilità capace di occuparsi di civitas e non soltanto di urbs (Dematteis; 1999). In una prospettiva nella quale la nostra ‘disciplina’ non sembra più potersi basare su un progetto interamente ingegneristico che, riducendo i soggetti e gli oggetti sotto il governo di una necessità tecnologica, avrebbe come punto di forza l’operatività materiale ma ridurrebbe arbitrariamente la complessità, ma sembra invece dover puntare alla definizione di un progetto come pratica politica cosciente capace di porre al centro proprio la conservazione della complessità - di modelli culturali e immaginari -, con le sue contraddizioni e i suoi conflitti, rappresentando soggetti e non oggetti e mettendo insieme punti di vista diversi in funzione delle cosiddette ragioni del luogo. Con l’obiettivo di potenziarlo trasformandolo. Una progettazione fisica, quindi, attenta più all’esistenza che al progetto, capace di far sì che il paesaggio diventi il farsi di una società in un certo territorio (Lanzani; 2003). Tuttavia, nonostante si parli di questi temi da anni, fino ad ora si è difficilmente pensato al progetto come ad un potenziale disegno di mediazione dei conflitti. Al contrario, una delle cause principali dell’attuale discrasia tra le teorie e le pratiche sembra proprio essere il fatto che le retoriche dello sviluppo che stanno definendo i nostri paesaggi non concedano alcun rilievo alle trasformazioni fisiche del territorio. Troppo frequentemente viene data per scontata la consequenzialità fra le idee guida dello sviluppo, le politiche relative e le pratiche di trasformazione del territorio che, invece di tradurre in forme concrete la varietà degli interessi, dei programmi e degli interventi (Palermo; 2004), continuano a ricoprire un ruolo passivo, dal quale per alcune figure della nostra disciplina è probabilmente arrivato il momento di liberarsi. Il tema del progetto morfologico come progetto culturale e di mediazione nel corso degli anni si è fortemente trasformato in stretto legame con il contesto politico e culturale che ne ha determinato l’introduzione e poi le evoluzioni. Negli anni che vanno dagli ultimi decenni dell’Ottocento ai primi del Novecento sono il problema dell’industrializzazione e della conseguente costruzione di grossi agglomerati urbani e la parallela acquisizione da parte delle masse di una nuova coscienza politica ad alimentare la questione. Gli scritti degli utopisti in Francia e in Gran Bretagna, l’esperienza delle gardencities in Inghilterra e la relativa costituzione, nel 1912, della ‘Associazione Internazionale della Città-Giardino’, la diffusione della dottrina della Scuola Filosofica di Chicago e la fondazione nel 1923 della ‘Regional Planning Association’ rappresentano i primi segni non solo di un modo nuovo di considerare la città, ma anche dello sviluppo di una nuova forma di coscienza sociale e in embrione - dell’idea di democratizzazione (Collimore; 1982). Nel suo testo Cities in evolution, Patrick Geddes, sociologo e biologo inglese, anticipa il tema proponendo fra gli attori del risanamento e della pianificazione il luogo e la gente: il luogo come sistema da preservare e rivitalizzare; la gente, cioè gli abitanti, come soggetti attivi, come coloro che meglio di chiunque altro possono condurre ad una pianificazione che oggi definiremo sostenibile della città proprio perché capaci di esprimere la cultura del luogo (Geddes; 1915). La ‘ritrovata’ sensibilità ambientale di inizio Novecento [Link_Natura] vede cioè anticipati nella teoria del bioregionalismo formulata da Geddes alcuni principi fondatori - dalla necessità di conservare e valorizzare le risorse naturali, a quella di salvaguardare la biodiversità degli ecosistemi presenti; dall’attenzione per l’analisi della realtà esistente, a quella per le interazioni fra processi naturali e antropizzazione del territorio - dell’attuale idea di sostenibilità (Bisceglia; 2007). Ma se i primi decenni del Novecento vedono certamente avanzare da più fronti principi ispiratori utili a proporre nuovi e più complessi livelli di interazione fra progettisti e abitanti - e con essi l’introduzione dell’idea di democratizzazione dei processi decisionali - è solo fra gli anni sessanta e settanta che questi vengono colti nell’ambito del dibattito sul tema. In un contesto fortemente influenzato dalla controversia politica e culturale sviluppatosi attorno alle questioni chiave dell’egualitarismo e della pratica antigerarchica (Viale; 1978). In particolare, nel 1968 prende il via, a livello potremmo dire globale, un processo radicale, e in alcuni momenti anche violento, di rinnovamento della società. Un processo alimentato da tutti quei gruppi di pressione politica - spesso portatori di interessi particolari - che, spinti dal progressivo processo di massificazione della società, iniziano a rivendicare un ruolo di attori attivi nella trasformazione della società, dell’economia e della politica di governo. Rivendicando il ritorno al rispetto dell’individuo e delle esigenze di vita naturale cancellati dalla società fordista, masse operaie da un lato e masse studentesche dall’altro iniziano a riunirsi nella lotta contro le istituzioni, contro gli imperialismi del capitale e contro le impostazioni dei padroni, con messaggi rivoluzionari d’ispirazione anarchica che, anche se mossi da ansie di democratizzazione e sinceramente libertari, risultano però carenti di una reale cultura democratica e, quindi, esposti alle ideologie. Il risultato è l’esasperarsi del distacco tra i cittadini e il sistema politico, tra società civile e istituzioni che, a partire da questi anni, mostrano sempre maggiori difficoltà nel riuscire a rappresentare le naturali evoluzioni della società e le spontanee istanze di riforma provenienti dal basso, con forti conseguenze anche nel nostro ambito disciplinare (Viale; 1978). Le controversie culturali e politiche iniziano infatti a riflettersi anche all’interno del dibattito sulla cultura e la pratica del progetto architettonico e urbanistico, sfociando in una vera e propria rivoluzione culturale condotta contro gli autoritarismi del Movimento Moderno e della progettazione tecnocratica. La critica, in particolare, viene rivolta ai principi dell’ideologia razionalista e ai miti del funzionalismo che propugnano la possibilità di attuare una riforma sociale verso una società più libertaria e egualitaria attraverso la produzione di un’architettura ‘democratica’, considerata sincera e uguale per tutti, forte di una moralità della forma. E l’immagine della macchina per abitare inizia ad essere descritta come un’immagine utopico-dispotica perfetta ma vuota e deserta che, spingendo sul razionalismo tecnologico e escludendo il disordine della vita, ne ostacola lo stesso meccanismo (Kroll; 2001). Del resto anche il Movimento Moderno - scrive 1 Giancarlo De Carlo all’interno di una riflessione del 1978 sullo stato dell’arte dell’architettura - ha finito con il riflettere fedelmente le esigenze del potere del suo tempo. Aveva promesso una Nuova Gerusalemme fondata sulla giustizia, sulla libertà e sulla riconquista del diritto all’espressione per tutti. Invece ha finito per occuparsi di come si poteva ridurre al minimo essenziale lo spazio destinato all’abitazione dei poveri […] Aveva promesso l’Armonia sociale dell’Unità dell’ambiente architettonico. Invece ha finito per adottare la pratica di dividere le città in zone e di separare ogni zona, urbana o suburbana o di campagna, la residenza dallo scambio, il lavoro dal gioco, il moto dalla quiete, l’uso come consumo dall’uso come contemplazione, la sfera privata da quella pubblica, la riunione dalla socializzazione. (De Carlo; 1978) Progressivamente fra i progettisti inizia cioè a diffondersi l’idea che, inversamente da quanto sostenuto dal Movimento Moderno, non sia più possibile produrre lo spazio ambientale ed architettonico ad un tavolo da disegno, lontano dalle cose reali (Erskine; 1963. Cit. in Ray; 1978) e in funzione di un’utenza anonima o, peggio ancora, di una committenza speculatrice ma che occorra invece sostituire l’astratta visione concepita dall’architetto con progetti capaci di contenere l’apprezzamento dei valori locali, il riconoscimento delle possibili emergenze, l’ipotesi dell’uso delle fabbriche e dell’ambiente secondo l’interpretazione data dagli stessi cittadini al di là di qualsiasi struttura culturale precostruita. Secondo un punto di vista a partire dal quale architetti come Giancarlo De Carlo e Ralph Erskine, prima, e Lucien Kroll, poi, iniziano a mostrare una maggior consapevolezza rispetto al valore di principi quali il confronto, la pluralità, la diversificazione e il disordine, formulando osservazioni che daranno vita ad un rinnovato contesto culturale e ad un vivace dibattito sulle ragioni 1. Giancarlo De Carlo è una delle figure di maggior rilievo nel panorama architettonico italiano e internazionale. Tra i fondatori del Team X - il movimento che negli anni cinquanta opera la prima vera rottura con il Movimento Moderno e le tesi funzionaliste - egli è tra i primi a sperimentare ed applicare in architettura la partecipazione degli utenti al processo progettuale. Attraverso testi come La piramide rovesciata (1968) e Un’architettura della partecipazione (1972) egli mette in discussione l’insegnamento tradizionale teorizzando una gestione dell’architettura più democratica e aperta e con la realizzazione del Villaggio Matteotti di Terni (1969-1975) dà vita alla quella che per molti rappresenta la più interessante esperienza italiana di progettazione partecipata. Cfr. Brunetti, Gesi; Giancarlo De Carlo; Alinea; 1981. dell’architettura e dell’urbanistica che sembra progressivamente scardinare alcuni capisaldi della tradizione tecnocratica, preannunciando una ‘rivoluzione paradigmatica’. Un cambiamento radicale grazie al quale l’architettura mira ad opporsi a quell’epistemologia positivista che aveva portato, già con gli utopisti dell’Ottocento, alla definizione di modelli ideali statici e rigidi - per la riorganizzazione del territorio in cui l’individuo umano era un tipo e il conflitto e la diversità non erano contemplati a favore di un progetto strettamente connesso alle condizioni sociali e morali dell’epoca cui appartiene, costruito per l’uomo, partecipe dei suoi problemi e delle sue sventure e quindi capace di soddisfarne ogni esigenza morale e materiale (De Carlo. In Brunetti, Gesi; 1981). Ad essere messi in discussione sono quei modelli èlitari - basti pensare ai contributi di Weber o di Shumpter - che avevano portato alla costruzione di enormi organizzazioni pubbliche e private che, con l’ossessione dalla tecnica, dalla produttività e dall’efficienza, avevano gradualmente eliminato le questioni politiche e morali dalla vita pubblica, minacciando di sommergere la vita sociale e causando quell’ulteriore scarto fra la sfera della competenza tecnica e quella della vita quotidiana che stava mettendo in crisi tutto il sistema professionale fondato sul principio di razionalità (Held; 1997). Il riconoscimento del fallimento di quella forma burocratica del rapporto fra pubblico e privato per cui ad ogni bisogno poteva essere fatto corrispondere un servizio, un oggetto o un manufatto apre cioè, nel più ampio ambito culturale e sociale così come nel campo dell’architettura, una vera e propria crisi delle istituzioni che porta alla richiesta di un ritorno a forme di vita più conviviali (Illich; 1974) e all’affermazione di alcune teorie progettuali che vedono il progetto come un’occasione di mobilitazione sociale. E l’azione diretta dal basso inizia ad essere studiata come possibile risposta alla pervasiva oppressione dell’uomo sotto le istituzioni capitalistiche dello stato borghese, avviando, nella nostra ‘disciplina’, una vera e propria ‘rivoluzione di metodo’. L’approccio ideologico. Visioni educatrici. In questo contesto si inserisce l’interesse di alcuni architetti come 2 appunto Giancarlo De Carlo o Ralph Erskine per il significato sociale del progetto urbano e di architettura: all’interno di quel conflitto sociale che si ritiene spesso essere stato l’elemento generatore del primo ciclo di procedure progettuali nate dal basso, di un primo confronto dei progettisti con la diversità e con l’idea di democratizzazione. Un ciclo alimentato dalla rivendicazione di modalità alternative di produzione della città, dall’uscita nella città e sui temi della città di quei movimenti chiaramente connotati sul piano ideologico e con una composizione sociale sostanzialmente omogenea - che fino agli anni sessanta e settanta erano rimasti dentro le fabbriche (Fareri; 2004). Nonostante molti progetti urbanistici dei decenni precedenti presentino grande interesse per il loro aspetto antropologico3 sociale , i primi studi europei chiaramente riconducibili all’idea di democratizzazione in ambito architettonico vengono attribuiti a 4 Nikolaas Habraken , architetto e urbanista olandese che, opponendosi ai principi del Mass Housing, nei primi anni sessanta comincia ad interessarsi alla possibilità di lasciare agli utenti una certa libertà per la sistemazione di alcuni spazi all’interno del complesso abitativo (Collymore; 1982). Habraken è convinto che la casa non debba essere fornita come un prodotto finito ai futuri abitanti e propone un modello d’atteggiamento nel quale la democratizzazione dei processi decisionali viene definita come un’operazione capace di generare possibilità inaspettate, capaci di inserire sia l’aspetto tecnico che quello umano all’interno di nuove prospettive. Il processo costruttivo della residenza - scrive l’architetto olandese in un saggio del 1961 - può essere inteso come l’azione collettiva di una società che adempie a certe condizioni senza le quali non sarebbe possibile la propria esistenza. Questo processo è un fenomeno affascinate e ingloba sia considerazioni razionali relative per esempio agli aspetti costruttivi, finanziari e organizzativi, sia impulsi di natura biologica, radicati nelle relazioni fondamentali dell’esistenza umana. (Habraken; 1961. In Collymore; 1982) Con l’obbiettivo di determinare la conformazione delle residenze attraverso l’influenza degli abitanti e delle loro attività più essenziali nel 1964 egli costituisce, insieme ad altri professionisti e sotto il patrocinio dell’ordine nazionale olandese degli architetti, il SAR - Stichting Architecten Research - un gruppo di progettisti mirato alla messa a punto di un programma teorico per la progettazione e la valutazione delle cellule abitative fondato su un meccanismo aperto all’adozione di variazioni all’interno delle abitazioni mediante la definizione di due classi di elementi progettuali separati: una ‘struttura di supporto’ - caratterizzata dagli elementi di tipo statico e impiantistico - studiata dall’architetto e all’interno di un campo decisionale comunitario e unità separabili la cui definizione sarebbe stata lasciata ai futuri 2. Ralph Erskine è stato un architetto britannico naturalizzato svedese la cui filosofia progettuale si è fortemente incentrata sul tema della democratizzazione. In particolare Erskine considera la partecipazione di coloro che saranno i veri utenti dei suoi edifici come elemento essenziale che l’architetto deve offrire alla comunità e la sua architettura si basa su due concetti fondamentali: gli edifici devono adattarsi al clima del luogo ed essere costruiti per le persone che li abiteranno. Tra le sue opere più famose vi sono il complesso residenziale nella città britannica di Newcastle denominato ‘Byker Wall’, alcuni edifici dell’Università di Stoccolma e il nuovo complesso abitativo progettato per l’Expo Bo01 a Malmo. Cfr. Collymore; Ralph Erskine; Alinea; Firenze; 1986. 3. Anche se negli anni del boom economico l’idea della democratizzazione dei processi decisionali non è ancora totalmente acquisita, appare chiara l’intenzione di alcuni progettisti di non voler imporre la propria volontà creativa e la propria esperienza professionale al di sopra delle proposte suggerite dalla cultura dei futuri utenti. Questo tipo di atteggiamento, non ancora esplicitamente dichiarato, è, per esempio, alla base della filosofia progettuale di molti architetti italiani degli anni cinquanta e di alcune realizzazioni urbanistiche di questi anni quali il quartiere ‘La Martella’ di Matera, l’esperienza comunitaria realizzata da Olivetti a Ivrea su progetto di Quaroni e Doglio, l’esperienza dello stesso Doglio e di Samonà a Cefalù e la prima esperienza di Ridolfi a Terni. Cfr. utenti mettendo così in atto una prima esperienza di democratizzazione nel senso auspicato dal punto di vista di cui Habraken si fa portavoce. Secondo una prospettiva nella quale all’architetto si lascia il compito di definire una serie di elementi generatori combinabili mediante l’indicazione di una serie di varianti di base, mentre agli abitanti spettano varianti specifiche da suggerire per le zone di loro competenza. Con evidenti limiti teorici e metodologici. Se infatti il proposito del gruppo era quello di definire e regolare la democratizzazione del processo progettuale il metodo suggerito viene, per esempio, immediatamente ripreso dall’industria per la costruzione di elementi prefabbricati riducendo l’operazione alla scelta di una vasta gamma di componenti offerte dal mercato o dal progettista stesso. Alla scala dell’edificio, così come alla scala urbana. Nel 1973 l’inserimento di nuovi elementi nel gruppo di studio SAR porta infatti ad estendere la ricerca all’ambiente urbano mentre, negli stessi anni, architetti come Giancarlo De Carlo sembrano compiere la medesima operazione. Nell’Italia degli anni settanta, in particolare, la crisi delle forme tradizionali dell’intervento pubblico e l’inadeguatezza in termini di appartenenza culturale, di efficacia dell’intervento e di costi delle politiche abitative producono forme sperimentali del progetto urbano fra le quali il processo messo in atto per il ripensamento del Villaggio Matteotti a Terni rappresenta certamente una delle esperienze più significative. Qui, come in molte operazioni contemporanee all’intervento, sono le sollecitazioni di un comitato cittadino a riproporre il problema del quartiere - uno dei più degradati del complesso abitativo costruito negli anni trenta per i dipendenti delle acciaierie - ed è lo scontro tra interessi diversi - l’amministrazione comunale, l’Acciaieria Terni e le organizzazioni operaie - ad invocare la democratizzazione del processo progettuale. Visto che le tensioni fra le parti riguardano principalmente le modalità di realizzazione delle possibilità edificatorie previste dal nuovo PRG, De Carlo - incaricato del ripensamento - viene infatti spinto da suoi collaboratori come l’architetto De Seta e il sociologo De Masi non solo a formulare diverse alternative di insediamento e sviluppo urbano, ma anche a porre come condizione essenziale dell’iter progettuale il coinvolgimento dei cittadini in ogni fase dello stesso, a partire dalle riunioni preliminari alla progettazione vera e propria. Convinto del fatto che tutti gli uomini, ed in particolare coloro che si trovano in condizioni subalterne, debbano partecipare attivamente all’organizzazione della propria vita scegliendo gli spazi in cui lavorare e abitare, in questo caso De Carlo organizza una fase strutturata di confronto con i cittadini. All’analisi e ricognizione dei dati oggettivi di carattere socio-economico viene cioè affiancato uno scambio transattivo prolungato fra il progettista e gli abitanti: una prima discussione plenaria viene organizzata con l’obbiettivo di valutare, mediante un confronto diretto con gli utenti, i primi risultati progettuali e di avviare il processo per la definizione tipologica dei singoli alloggi per poi passare ad assemblee organizzate nelle quali il compito del progettista diventa quello di tradurre in disegni le esigenze ed i bisogni espressi dal pubblico e arrivare alla definizione di soluzioni progettuali specifiche da sottoporre al vaglio di ciascun nucleo famigliare mediante strumenti di interfaccia diretti come i plastici. Come per i lavori del SAR, a Terni l’idea di democratizzazione invocata dai progettisti si concretizza cioè nella definizione di quarantacinque diverse soluzioni residenziali atte a soddisfare tutte le possibili richieste individuali, ma anche di proposte più vaste relative agli spazi pubblici, nell’intento di soddisfare i bisogni dell’intera comunità. Con risultati dai risvolti alterni. Se infatti il caso di Terni rappresenta certamente una delle esperienze più interessanti in materia di democratizzazione dei processi decisionali, occorre tuttavia non dimenticare i limiti di un approccio ancora fortemente basato sull’attribuzione di un’importante carica ideologica al ruolo del progettista: nel Villaggio Matteotti, così come in molti casi simili di questo periodo, l’ideologia professionale sposta il conflitto sociale sulla costruzione del progetto - sul quale nei fatti le parti in conflitto non hanno controllo reale - mentre l’ideologia politica porta a pensare che essere schierati dalla parte degli esclusi garantisca di per sé una corretta interpretazione dei bisogni e delle domande. L’idea del progetto come mezzo di mediazione e l’apertura di un reale confronto fra il tecnico e i cittadini rimangono soprattutto apparenti e gli architetti continuano ad investirsi di un ruolo principalmente educativo e pedagogico. Ho osservato - scrive Ralph Erskine tracciando un bilancio dell’esperienza partecipativa svolta alla 5 Resolute Bay - […] che la partecipazione e le discussioni sono utili sotto vari punti di vista. Per prima cosa forniscono al progettista ed agli stessi abitanti informazioni importanti sulle varie necessità e preferenze degli utenti […]. In secondo luogo è fondamentale per il successo del progetto che i futuri abitanti, in numero più alto possibile, dividano volontariamente e coscientemente la responsabilità del processo creativo e quindi le conseguenze che ne Doglio, l’esperienza dello stesso Doglio e di Samonà a Cefalù e la prima esperienza di Ridolfi a Terni. Cfr. Collymore; op. cit. 4. Nikolaas Habraken è un architetto e urbanista olandese che sin dagli anni sessanta va alla ricerca della definizione di un processo progettuale alternativo ai principi del Mass Housing attraverso il coinvolgimento degli abitanti all’interno dello stesso. Direttore del SAR dal 1965 al 1975, viene conosciuto a livello internazionale nel 1972 attraverso la pubblicazione della versione inglese di Supports. An alternative to Mass Housing, un testo pubblicato dall’architetto in lingua madre già dieci anni prima - nel quale egli propone la possibilità di lasciare agli utenti la progettazione e la realizzazione di alcuni spazi delle loro residenze e degli spazi comunitari. Cfr. Habraken; Strutture per una residenza alternativa; Saggiatore; Milano; 1974. 5. Il nuovo impianto urbano di Resolute Bay è una città per eschimesi e bianchi canadesi posta nella fascia artica del Canada nella progettazione della quale Ralph Erskine utilizza la partecipazione come strumento attraverso il quale integrare le esigenze e i modi di vita dei due gruppi chiamati a convivere in un clima così rigido. Cfr. Collymore; op. cit. derivano. In terzo luogo è molto importante anche l’aspetto pedagogico di tale operazione, e ciò è vero soprattutto per i meno privilegiati che debbono esercitarsi nella loro facoltà di pensare a cose astratte e nell’impegno di analizzare e di risolvere i problemi e di prendere decisioni se vogliono riuscire a liberarsi della loro condizione di inferiorità e divenire cittadini veramente validi e partecipi, capaci di dare un contributo importante ad una società moderna, acquisendo quindi anche la necessaria fiducia in se stessi. (Erskine. Cit. in Collymore; 1982) La definizione dell’idea di democratizzazione sviluppata a partire dagli anni sessanta e settanta non implica cioè importanti cambiamenti nelle idee del progettista riguardanti cosa, come e dove dovesse essere la costruzione e gli incontri con gli abitanti vengono interpretati soprattutto come occasione per attivare un processo educativo. Per i progettisti - ancora auto-definiti come sicuri interpreti delle esigenze degli abitanti - continua ad essere sufficiente la presa di coscienza dei bisogni degli utenti mediante un confronto iniziale con gli stessi. Ma il semplice atto della consultazione e la consapevolezza delle variazioni che ne potrebbero derivare costituiscono necessariamente un diritto dei futuri abitanti che devono poter comunicare con coloro che progettano il loro ambiente. In questo senso, risultano assolutamente emblematici della posizione i dialoghi tra De Carlo e Peter Smithson - membro, come il progettista italiano, del Team X - sul tema della definizione delle terrazze giardino e la sua critica del progettista italiano verso la richiesta degli operai di piastrellare le terrazze e la loro incapacità di liberarsi dal tradizionale. Se guardate i settimanali in Italia, ogni settimana avete la rappresentazione della casa di una qualche star, Sofia Loren piuttosto che un’altra. Hanno terrazze dove hanno fantastici divani dove stanno solo per il fotografo, ovviamente […] ma questa è l’immagine che è spinta nella mente della gente e controllare questo tipo di alienazione è lungo e difficile […] io voglio disalienarli e, naturalmente, disalienare me stesso nello stesso momento. (De Carlo. Cit. in Samassa; 2004) L’approccio ai processi decisionali allargati resta intriso di ideologia e pensiero politico: l’obiettivo non è solo quello di favorire un arricchimento della conoscenza degli abitanti aprendo nuovi orizzonti e offrendo nuovi stimoli di riflessione ma è quello di guidare un processo di disalienazione delle masse lavoratrici assoggettate alla società dei consumi, contribuendo a produrre apprendimento in un’ottica di mobilitazione sociale dalle tinte piuttosto anarchiche. E il dubbio che ne scaturisce - smosso, per esempio, dalla critica stessa del progetto di Terni (Schlimme; 2004) - è che nelle diverse forme di conversazione con gli abitanti sviluppate a partire da questo punto di vista non vi sia tanto un interesse a stimolare le interazioni progettuali dei cittadini, quanto un tentativo da parte del progettista di convincere gli abitanti ad approvare un progetto già pensato altrove in tutte le sue parti. In una prospettiva in cui il sapere intellettuale - il linguaggio dei progetti - resta quello degli architetti, anche se espressione peculiare e contingente dell’opera derivata dalle sollecitazioni dei futuri utenti-partecipanti all’operazione progettuale. L’approccio pragmatico. Visoni esplorative. La vicenda di Terni non ha un lieto fine. Il clima di collaborazione con le autorità che aveva reso possibile condurre un processo così faticoso e costoso, non solo per gli aspetti tecnici del progetto ma anche per lo sforzo politico dei dirigenti delle acciaierie, si infrange infatti proprio nelle fasi di realizzazione dello stesso durante le quali gli abitanti del quartiere vengono esclusi dal controllo economico dei terreni e del cantiere stesso determinando l’apertura di un nuovo conflitto politico che porta i sindacati a stracciare l’accordo con i dirigenti dell’azienda e l’amministrazione di sinistra a proseguire la sua lotta ideologica contro la fabbrica causando, di fatto, il fallimento del progetto ma anche la formazione di un fronte critico verso le retoriche sulle quali De Carlo aveva fondato l’intero processo progettuale. Ad essere messe in dubbio sono le reali ricadute del coinvolgimento degli abitanti sul processo progettuale e quella che si costruisce è una diversa storia del Villaggio: una storia nella quale la ricchezza formale delle abitazioni e degli spazi pubblici e le diversità morfologiche che sembravano davvero essere il prodotto di un processo decisionale democratico e plurale risultano non solo troppo deboli, ma anche false, perché già scritte nei sei punti che l’architetto genovese aveva stilato come obiettivi di massima da raggiungere (Schlimme; 2004). Tuttavia, al di là della fondatezza o meno di questa critica, il fallimento dell’esperienza di Terni e il dibattito sviluppatosi attorno ad esso negli anni immediatamente successivi alla vicenda divengono sintomi della presa di coscienza dei limiti del Doglio, l’esperienza dello stesso Doglio e di Samonà a Cefalù e la prima esperienza di Ridolfi a Terni. Cfr. Collymore; op. cit. 4. Nikolaas Habraken è un architetto e urbanista olandese che sin dagli anni sessanta va alla ricerca della definizione di un processo progettuale alternativo ai principi del Mass Housing attraverso il coinvolgimento degli abitanti all’interno dello stesso. Direttore del SAR dal 1965 al 1975, viene conosciuto a livello internazionale nel 1972 attraverso la pubblicazione della versione inglese di Supports. An alternative to Mass Housing, un testo pubblicato dall’architetto in lingua madre già dieci anni prima - nel quale egli propone la possibilità di lasciare agli utenti la progettazione e la realizzazione di alcuni spazi delle loro residenze e degli spazi comunitari. Cfr. Habraken; Strutture per una residenza alternativa; Saggiatore; Milano; 1974. 5. Il nuovo impianto urbano di Resolute Bay è una città per eschimesi e bianchi canadesi posta nella fascia artica del Canada nella progettazione della quale Ralph Erskine utilizza la partecipazione come strumento attraverso il quale integrare le esigenze e i modi di vita dei due gruppi chiamati a convivere in un clima così rigido. Cfr. Collymore; op. cit. modello d’atteggiamento ideologico e dell’idea di democratizzazione ad esso correlata. Di una consapevolezza che, negli anni successivi, conduce ad una nuova definizione dell’idea maggiormente rivolta alla sperimentazione di processi attenti alla definizione di migliori modalità interattive e relazionali di gestione del conflitto, nei quali il carattere pragmatico assume un ruolo sempre più rilevante. Il panorama italiano, in particolare, si avvicina molto a quello anglosassone nel quale movimenti come il Community Architecture in Gran Bretagna, la Social Architecture e 6 l’Advocacy Planning negli Stati Uniti non a caso affondano le loro radici nelle esperienze delle self-help community condotte già a partire dagli anni cinquanta nei paesi del Terzo Mondo. In contesti nei quali, come evidenziato da Balducci, la scarsità delle risorse economiche locali rende necessario studiare politiche abitative basate sull’utilizzo di risorse locali e sul riconoscimento dei valori, oltre che dei problemi, connessi a questo mondo, ma nei quali, esattamente come sta avvenendo in Occidente, l’obiettivo principale rimane quello di dare una risposta all’inadeguatezza dei progetti proposti dalla cultura autoreferenziale. Con una significativa dilatazione dell’area del dibattito, a nord e a sud del mondo il tema comune emergente diventa quello di rappresentare i reali bisogni della popolazione; di ridurre le ragioni e le origini della separazione tra progettisti e fruitori che, di fatto, avevano causato il fallimento delle politiche pubbliche, soprattutto di quelle relative alla questione abitativa (Balducci; 1996). Sotto diverse forme, si diffonde cioè un punto di vista che, pur sotto differenti sfaccettature, ha come costante la fiducia nella democratizzazione dei processi decisionali come mezzo attraverso il quale trasformare non solo l’ambiente ma anche gli stili di vita, ricostruendo il tessuto sociale e le comunità che per molti gran parte degli interventi paternalistici del dopoguerra avevano distrutto (Jacobs; 1961). E la piena utilizzazione di tutte le risorse analitiche e progettuali depositate nell’esperienza quotidiana degli abitanti diventa la condizione imprescindibile di rinnovati processi decisionali e di nuove metodologie progettuali. In Egitto Hassan Fathy lavora alla costruzione di un’architettura per i poveri mirando al miglioramento degli standard di vita nelle aree rurali attraverso la collaborazione con gli abitanti delle stesse e insegnando loro come costruire con materiali e tecniche locali; in Mali ed in Nigeria Fabrizio Carola prova a proporre progetti-modello di autosviluppo fondati su uno scambio culturale tra pari capace di produrre architetture dense di significati, appropriate al contesto e appropriabili dalle popolazioni locali [Link_Tecnologia] mentre in India Balkirishna Doshi, ispirandosi ai modi di vita propri delle baraccopoli locali, abbandona la moderna suddivisione a reticolo delle città, a suo avviso completamente scollegata dalle consuetudini comuni, a favore di un’idea di edilizia abitativa intesa come processo e non come prodotto. Per Doshi, in particolare, il problema è chiaro: i quartieri moderni sono inospitali perché rigidi, sconnessi dal contesto e progettati senza comprendere lo stile di vita degli abitanti. Tutte questioni superabili solo mediante una nuova idea di democratizzazione e di progetto. Nella definizione di modelli di edilizia popolare alternativa a Indore, per esempio, egli capovolge i principi generatori dei modelli moderni di città cogliendo invece i vantaggi delle aree residenziali degradate definitesi spontaneamente: grazie alla stretta collaborazione di un team multidisciplinare, il progettista indiano delinea un masterplan completamente basato sulle richieste degli abitanti dimostrando che, nonostante i vincoli economici, può essere possibile dar vita ad un ambiente vissuto e piacevole, capace di conciliare le esigenze estetiche a quelle funzionali e di fornire risposte chiare e mirate nelle quali la sfera umana prende fondamentale importanza. Non tanto attraverso un progetto funzionale, quanto attraverso una visione socialmente qualificata nella quale il concetto di self-help, di auto-sviluppo diventa centrale. Oltre a coinvolgere la popolazione nella definizione del piano, Doshi infatti, in questo caso, progetta un’unità abitativa di base pensata per crescere in modo incrementale: per ogni casa vengono realizzati tutti i servizi - le tubazioni, il bagno e la cucina - e una stanza poi, senza alcuna regola, gli abitanti hanno la possibilità di espandere la propria unità aggiungendo delle stanze separate o aprendo un’attività commerciale o artigianale in funzione delle loro esigenze. L’idea di democratizzazione dei processi decisionali non è più uno strumento attraverso il quale educare gli abitanti e dar loro la possibilità di scegliere una soluzione fra tante, ma un mezzo con cui stimolarne la libertà del costruire e la variazione della forma mentre la sequenza spaziale definita dall’architetto continua a garantire la coerenza e l’identità del sito. Secondo un punto di vista che, se si diffonde in modo significativo nei paesi in via di sviluppo, trova adesione anche in Europa dove, già verso la fine 7 degli anni settanta, architetti come Lucien Kroll e lo stesso Ralph Erskine si avvicinano ad un atteggiamento decisamente più pragmatico che ideologico. Sebbene ancora ispirato ai principi anarchico-liberali che orientano la posizione ideologica, Kroll, per esempio, viene mosso soprattutto dalla pragmatica necessità di rendere efficienti e vivibili luoghi dimostratesi inadatti ed inospitali a causa del loro astrattismo e della loro totale indifferenza verso i contesti sociali 6. La definizione negli anni sessanta di movimenti quali il Community Architecture in Gran Bretagna e la Social Architecture e l’Advocacy Planning negli Stati Uniti rappresenta un’importante segnale della significativa diffusione del concetto di Community Architecture, di un’architettura alternativa alle pratiche architettoniche convenzionali, progettata e realizzata con la partecipazione attiva dei futuri fruitori. Il concetto di Advocacy Planning, in particolare, viene introdotto per la prima volta dall’urbanista Paul Davidoff in un articolo pubblicato sul ‘Journal of the American Institute of Planners’ nel 1965, mentre le fondamenta del Community Architecture Movement vengono gettate dal progetto per la Black Road Area sviluppato sotto la guida dell’architetto britannico Rod Hackney come reazione alle politiche governative di rilocalizzazione e sviluppo. Cfr. Towers; Building democracy; UCL Press; Londra; 1995 7. Lucien Kroll è un architetto belga impegnato sui temi del recupero urbano e della sostenibilità ambientale. Egli si pone in rigida opposizione alle modalità razionaliste di concepire lo sviluppo urbano e la forma architettonica secondo principi astratti e utopici, sperimentando approcci progettuali volti a superare l’ideologia della meccanizzazione industriale e a recuperare un rapporto con l’identità locale e le storie personali. Autore di testi come The architecture of complexity (1986), tra i suoi progetti si ricorda il recupero della ZUP di Perseigne ad Alençon. Cfr. Kroll; Ecologie urbane; Franco Angeli; Milano; 2001. ed antropologici, mentre il collega inglese - ancora diviso fra la volontà creativa e l’essere utile - inizia a parlare della forma come di un bene primario capace di concorrere alla reintegrazione sociale della personalità di ciascuno. Nel progettare nuovi quartieri, entrambi i progettisti mirano cioè alla crescita dell’uomo sociale (Collymore; 1982), ad un’architettura ancora funzionale, ma soprattutto significante per le persone che la faranno vivere, usandola e modificandola col modificarsi delle condizioni esistenziali di ognuno. Il compito dell’architettura diviene cioè quello di rendere possibile ciò che gli abitanti vorrebbero se fossero liberi di scegliere, se potessero generare il proprio ambiente in autonomia e, per far questo, è chiamata ad assumere un metodo libertario, più pragmatico che ideologico, ritenuto capace di rifare il mondo ogni giorno, riorganizzare e riadattare l’ambiente a partire dal piccolo gusto quotidiano (Kroll; 2001). In questo senso, nel recupero della ZUP di Perseigne ad Aleçon Kroll, chiamato dagli abitanti in rivolta contro la loro condizione urbana, attiva un processo di collaborazione molto stretta con gli stessi sia nelle fasi di studio e conoscenza del luogo, sia nelle fasi successive di elaborazione del progetto, ottenendo come risultato un paesaggio composito, totale espressione della quotidianità e della conoscenza popolare del luogo. Incaricato di coordinare il progetto di riqualificazione del quartiere periferico, a completamento di indagini già svolte precedentemente dal sociologo Arlindo Stephani e dall’urbanista Jean-Jaques Argensos, l’architetto belga non adotta una strategia partecipativa strutturata, come De Carlo, ma si cala nella vita del quartiere, assumendo il punto di vista di un osservatore partecipante e mettendosi in contatto sia sul piano comunicativo che su quello emotivo con gli abitanti con l’obiettivo di individuare tutti gli stimoli e le esigenze non esprimibili in forma razionale ma che, proprio perché legati alla parte più densa e profonda della psiche, potrebbero avere un peso prioritario nella formazione di un ambiente in cui l’uomo possa riconoscersi recuperando, senza nostalgie stilistiche, gli istinti, le tradizioni, i dialetti. Un metodo piuttosto radicale, ma derivato dalla convinzione che il paesaggio urbano debba essere prodotto, prima di tutto dall’azione antropica e spontanea dell’abitante, secondo un approccio che, ancora una volta, sembrerebbe rientrare nel dibattito filosofico che negli stessi anni si sta conducendo attorno alla necessità di liberare la scienza dai razionalismi del secolo precedente (Abbagnano; 1996). Il filosofo Paul Feyeraben, in particolare, aveva iniziato ad esprimere il suo rifiuto verso l’epistemologia razionalisticometodologica a favore di un approccio fortemente pragmatico allo studio della scienza. Un approccio capace di mettere in guardia dal metodo precostruito per cogliere, invece, la rilevanza del progresso scientifico in base alle ricadute sul tessuto sociale e sul contesto politico con l’obiettivo di garantire il superamento dei conflitti e l’emancipazione sociale e di produrre teorie efficaci piuttosto che vere. In ambito filosofico, così come in quello architettonico, verso la fine degli anni settanta si iniziano cioè a delineare i caratteri di un pluralismo anti-autoritario, nel quale l’anarchismo costruisce il presupposto culturale per una società aperta nella quale le teorie scientifiche e non sono chiamate a dialogare per accrescere le culture del mondo, rinunciando a una sterile e inutile competizione (Feyeraben; 1979). In cui l’approccio e l’apprendimento reciproco diventano due elementi nodali della prassi di democratizzazione messa in atto, la cui sfida sta nel coordinare la pluralità delle posizioni messe in campo attraverso un confronto diretto e costante nel quale l’architetto è tenuto a mettere da parte le competenze tecniche, i propri narcisismi e i propri schemi autoritari per dar voce alla pluralità delle posizioni emergenti nell’area di intervento. Attraverso un processo progettuale in cui ogni contributo è chiamato a confrontarsi sullo stesso piano, sottoponendo le proprie scelte al controllo ed al giudizio degli altri, attraverso scambi deliberativi anche in situazioni di conflitto. Non solo. Uno degli aspetti più interessanti di esperienze come quelle del recupero della ZUP di Perseigne progettato ad Alençon da Kroll o del nuovo sviluppo del quartiere di Byker a Newcastle upon Tyne elaborato da Erskine è certamente la scelta dei rispettivi progettisti di valorizzare nell’orientamento specifico del lavoro progettuale e nelle retoriche sulle quali esso si fonda le relazioni piuttosto che l’oggetto. Una diversa idea di democratizzazione amplia cioè il campo d’attenzione non limitandolo più ai singoli oggetti architettonici, ma espandendolo agli spazi pubblici. Le pavimentazioni, le recinzioni, la sistemazione paesaggistica, le zone aperte al di sotto degli edifici o fra i gruppi di costruzioni - anche se realizzati in modo semplice e mediato - vengono studiati attentamente come percorsi socializzanti atti a generare relazioni con e fra gli abitanti pensati appunto soprattutto come esseri sociali. Con un atteggiamento che rispecchia, ancora una volta, un sentimento diffuso tra i progettisti e non. Basti pensare, fra le altre, alla pubblicazione negli stessi anni settanta dell’Ecologia della mente di Bateson (Bateson; 1972). L’emergente consapevolezza rispetto alla complessità della società inizia cioè a spingere alcuni progettisti a rinnovare e modificare il proprio metodo progettuale secondo la matrice culturale e filosofica del Alençon. Cfr. Kroll; Ecologie urbane; Franco Angeli; Milano; 2001. pragmatismo americano e in particolare a considerare gli abitanti - le loro esperienze, la loro complessità e i loro conflitti - una risorsa sociale non solo per comprendere meglio il mondo, ma anche per trasformarlo. E, a differenza di quanto avvenuto nei decenni precedenti, in molte occasioni progettuali di questi anni, la metodologia di ricerca proposta inizia a discostarsi profondamente dalla neutralità e dall’indifferenza delle semplici tecniche applicative, portando, al contrario, alla definizione di un processo progettuale non più educativo ma esplorativo caratterizzato da un’apertura alla comunicazione, alla tolleranza e alla prontezza a riconoscere il proprio errore e a comprendere le idee degli altri senza imporre le proprie. Un metodo di coesistenza basato sulla discussione libera e sulla pluralità e portatore di un’idea più profonda e reale di democratizzazione che, già all’inizio degli anni ottanta, inizia ad interessare anche le istituzioni. La mediazione. Trascrizioni istituzionali. L’atteggiamento fortemente anarchico e poco strutturato sul piano procedurale proposto dall’approccio pragmatico all’idea di democratizzazione non offre tuttavia agli attori istituzionali più garanzie di quelle offerte dall’approccio ideologico. Motivo per il quale interventi come quelli proposti da Kroll non hanno esito diverso rispetto all’operazione di Terni. Ad Alençon, in particolare, le istituzioni locali - piuttosto scettiche in tema di pratiche di democratizzazione - decidono di incaricare un tecnico dell’amministrazione della supervisione del lavoro di equipe diretto da Kroll e nonostante la decisione iniziale di realizzare un settore del complesso progettato dall’architetto belga come prototipo dell’intera operazione sul quale in seguito impostare principi di sviluppo, soluzioni architettoniche e metodi di democratizzazione del governo, questa, negli anni successivi, resta solo una promessa. Vista la netta opposizione del consiglio locale, il prototipo è infatti l’unica parte che il progettista riesce a realizzare, mentre l’ottanta per cento dell’area rimane come prima del suo intervento: i costi di un’operazione così radicale e complessa per le istituzioni risultano troppo elevati e il tipo di ascolto proposto a tutti gli abitanti, assolutamente aperto e trasparente, viene ritenuto dannoso per l’operato politico. Tuttavia, analizzando le esperienze di progettisti come appunto Fabrizio Carola e Balkrishna Doshi, ma anche come Peter 8 Hübner , si può constatare che, almeno in ambito architettonico, gli anni ottanta - successivi alla diffusione sia dell’approccio ideologico che di quello pragmatico all’idea di democratizzazione - non sono caratterizzati dalla cosiddetta sindrome Nimby descritta da Fareri come caratteristica di quello che lui definisce il secondo ciclo di partecipazione, ma da alcune esperienze che, contrariamente alle aspettative generate dal fallimento di molte operazioni del decennio precedente, iniziano a mettere in evidenza un nuovo atteggiamento delle istituzioni e l’importanza sempre maggiore attribuita dalle stesse agli abitanti, inoltrandoci quindi direttamente in quella che per l’urbanista milanese rappresenta una terza fase (Fareri; 2004). Una fase nella quale il progressivo e travagliato processo di democratizzazione dei processi decisionali inizia ad essere rivalutato fino ad essere inteso come: contromisura, come tentativo da parte degli attori istituzionali di affrontare i problemi di decisionalità e di efficacia generati nel periodo precedente […] il coinvolgimento degli abitanti diventa condizione per internalizzare nelle politiche obiettivi e conoscenze di attori che erano ieri scambiati per deboli e si riconoscono oggi forti, per generare progetti migliori e condivisi, enfatizzando la rilevanza del contesto come importante condizione per aumentare la capacità di decidere. (Fareri; 2004) Tanto da coinvolgere anche architetti della fama di Renzo Piano il cui lavoro già in questi anni non ha certo bisogno di legittimazione nel confronto con gli abitanti - ed istituzioni come l’UNESCO. Nel laboratorio di quartiere organizzato ad Otranto, in particolare, l’architetto e l’amministrazione utilizzano il percorso partecipativo come strumento di appropriazione attraverso il quale far rinascere l’orgoglio di vivere nella città antica. Secondo un punto di vista certamente paragonabile alla posizione di architetti operanti nei paesi in via di sviluppo, come Fathy e Carola, ma arricchito dall’appoggio delle istituzioni. Mentre, Carola in Mali, così come in Nigeria lavora scontrandosi con autorità locali e membri delle Organizzazioni Non Governative mossi da uno spirito non troppo diverso da quello dei dirigenti coloniali che li avevano preceduti (Contal, Revedin; 2009), ad Otranto sono le stesse istituzioni ad incentivare il processo di democratizzazione come mezzo a loro favore stimolando un’esperienza che, sebbene modesta sia per dimensioni che per durata, rappresenta un’operazione estremamente importante nella definizione di un’ulteriore sfaccettatura dell’idea di democratizzazione. Incaricato appunto dall’UNESCO, in questo caso, il progettista genovese, fortemente influenzato dalla figura di De Carlo (Piano. 8.Peter Hübner è un architetto tedesco. Dopo aver iniziato la sua carriera come progettista di edifici prefabbricati, egli diviene professore all’Università di Stoccarda dove, in collaborazione con Peter Sulzer, intraprende una serie di esperimenti progettuali incentrati sul tema della partecipazione destinati a cambiare il corso della sua architettura. Nei primi anni ottanta egli progetta e realizza insieme agli studenti il Bauhäusle, un ostello temporaneo, definendo un atteggiamento progettuale interattivo che nei decenni successivi sviluppa nella progettazione di alcuni circoli giovanili in quartieri disagiati della città di Stoccarda e, soprattutto, di alcune scuole. Per Hübner i processi di democratizzazione non solo responsabilizzano chi vi partecipa ma offrono agli abitanti l’opportunità di vivere in un ambiente realizzato in modo diverso, dove questi possono rispecchiare più facilmente il loro vissuto. Cfr. Hübner; Peter Hübner: building as a social process; Axel Menges; StoccardaLondra; 2007. Cit. in De Seta; 2000), va infatti oltre quanto proposto dal maestro facendo riferimento non solo all’architettura come ad un servizio per la comunità o come ad un progetto di convivenza ma anche come arte contaminata, processo in continua evoluzione (Piano; 2005). Il laboratorio itinerante pensato da Piano - fisicamente una sorta di cubo con una tenda di copertura - può essere spostato e modificato in base alle funzioni che deve svolgere trasformandosi in un vero e proprio luogo di incontro per la popolazione che, sotto la struttura della tenda, può per esempio discutere sulle proposte da attuare sul quartiere o avere delle consulenze rispetto ai lavori di manutenzione ordinaria della propria abitazione. In questo modo gli abitanti vengono coinvolti nelle diverse fasi del progetto di riqualificazione e recupero del centro storico: dalla diagnostica alla progettazione, dal laboratorio operativo alla memorizzazione, tutte le attività li coinvolgono mettendo così in gioco la partecipazione, la comunicazione delle azioni progettuali e l’arte dell’ascolto. Secondo una prospettiva nella quale la conoscenza della storia clinica e non solo dei sintomi di un luogo diventano centrali, trasformando la figura del progettista in quella di un architetto condotto aperto alla collaborazione sia con i cittadini che con tutti i professionisti raccolti intorno al progetto. Ad Otranto, per esempio, Piano gestisce l’intera esperienza insieme a diversi collaboratori di altissimo livello: l’impresa di Gianfranco Dioguardi che gestisce i lavori; il giornalista Mario Fazio che aiuta l’architetto ad impostare la metodologia del processo partecipativo; il regista Giulio Macchi che cura la raccolta dei resoconti di storia orale; il fotografo Gianni Berengo Gardin che si occupa di documentare le varie fasi del progetto e Magda Arduini che predispone i testi per i film. Oltre ai cittadini. La necessità di garantire attraverso un sistema di regole la correttezza del gioco e l’obiettivo sempre più chiaro di trattare la conflittualità come un valore generano cioè progressivamente un ampliamento del team progettuale contribuendo a sviluppare un processo di trasformazione dell’idea di democratizzazione che, sempre più lontana dall’immagine definita dalla figura di De Carlo, sembra prima di tutto porre nuove domande all’esperto. Richiedendo, anche a livello istituzionale, che il prodotto architettonico non derivi più solo dalla descrizione scientifica della cultura e della società studiate dall’architetto, ma diventi il risultato di una negoziazione di significati che si svolge nelle mutevoli contingenze del lavoro sul campo, tra le personalità, il bagaglio culturale e i ruoli assunti dall’architetto e le diverse personalità e bagagli e ruoli degli interlocutori con cui entra in relazione (Nicolin; 2011). L’esperienza di Otranto rappresenta infatti un modello d’atteggiamento, sia per i progettisti che per le istituzioni, destinato a diffondersi nei decenni successivi. Significativa, in questo senso, è, per esempio, la storia della scuola-villaggio di Gelsenkirchen in Germania. La situazione in questo ex-quartiere industriale della Ruhr era particolarmente complessa: nato attorno ad una miniera di carbone verso la fine dell’Ottocento, esso si era espanso grazie all’arrivo di molti lavoratori turchi negli anni sessanta, rimasti tutti disoccupati vent’anni dopo, alla chiusura della miniera, creando una forte situazione di degrado in tutta l’area: non conoscendo il tedesco, infatti, molti ragazzi avevano difficoltà ad evitare il circolo vizioso della povertà prima e della depredazione dopo. Preso atto della situazione critica, la chiesa protestante - che procura scuole in Germania come quella anglicana le procura in Inghilterra - pensa di indire un concorso per la realizzazione di una scuola multiculturale, chiamata a diventare un catalizzatore per un nuovo sviluppo del quartiere. Un concorso che Peter Hübner e il suo studio vincono grazie ad un racconto che l’architetto, incapace di pensare ad una progettazione completamente definita dell’edificio, allega ad un suo schizzo. In particolare, narrando la storia di un fruitore immaginario, il progettista spiega come progetterebbe la scuola e cosa succederebbe al suo interno: gli allievi progetterebbero le classi attraverso disegni e plastici; dei professionisti ne realizzerebbero le fondamenta per poi coordinare insegnanti, studenti e altri volontari del paese nella realizzazione della struttura in legno; il tetto verde sarebbe costruito mediante una catena umana che trasporterebbe la terra sui tetti e, una volta terminato l’edificio, ogni classe si occuperebbe della manutenzione di una delle sue parti. A far vincere il progetto di Hübner non sono cioè tanto le indicazioni formali o funzionali relative all’edifico, quanto l’ideazione di un processo alternativo di costruzione, gestione e manutenzione dello stesso. L’istituzione sceglie cioè quasi all’unanimità di scommettere sul processo di democratizzazione come mezzo con il quale non solo realizzare l’edificio ma provare a risolvere i profondi conflitti sociali presenti nell’area, influenzando gli stili di vita dei suoi abitanti. Con la definizione di un punto di vista in cui il ruolo del progettista viene ancora una volta ridefinito con la costruzione di nuove figure professionali, chiamate a mediare e a gestire il processo più che a predisporre soluzioni. Sia dal livello istituzionale, che dalle istanze provenienti dal basso. Se infatti oggi il primo ciclo di democratizzazione - alimentato da un approccio ideologico - appare definitivamente chiuso almeno nelle intenzioni, lo scenario attuale sembra caratterizzato dalla permanenza in varie forme dei due cicli successivi e dall’apertura di un quarto ciclo che si affianca ai precedenti, presentando tuttavia specificità diverse. Da un lato, come sottolinea Luigi 9 Bobbio , la richiesta di democratizzazione dei processi decisionali viene avanzata dalle istituzioni con l’obiettivo di risanare quel gap culturale e ideologico sempre più evidente fra i cittadini e il sistema politico-rappresentativo: le amministrazioni danno cioè vita a processi partecipativi perché si rendono conto che le istituzioni della democrazia rappresentativa sono spesso insufficienti; perché si trovano di fronte a una società civile reattiva che insorge quando si profilano scelte pubbliche che vengono percepite come minacciose; perché capiscono che il rattrappimento dei partiti politici ha aperto un vuoto che va colmato o perché hanno spesso a che fare con politiche pubbliche che possono essere concretamente realizzate solo se si verifica un contributo attivo da parte dei cittadini destinatari (Bobbio; 2007). Dall’altro, si sta tornando prepotentemente ad una mobilitazione dal basso ideologicamente connotata, ma nell’ambito di un’idea di politicità che è completamente diversa da quella dei movimenti degli anni settanta. Come allora e diversamente dai cicli seguenti, queste forme di mobilitazione sono capaci di esprimere una forte progettualità, ma non chiedono ad altri di fornire risposte: fanno da sole. E mentre fanno denunciano proprio l’assenza delle istituzioni, senza tuttavia rifiutare il contributo delle competenze tecniche che spesso, invece, vengono mobilitate in varie forme. Abbandonato l’aspetto puramente ideologico e grazie anche all’emergere sempre più insistente del dibattito sulla sostenibilità - per il quale, come abbiamo già detto [Link_La storia della sostenibilità in architettura], la rilevata insostenibilità dello sviluppo non deriva solo dalla crisi dei sistemi ambientali e delle reti ecologiche, ma anche da una progressiva riduzione della complessità del territorio e del tessuto urbano, che continua ad estendersi come mera espressione delle reti economiche e funzionali - oggi il tema della definizione di strategie progettuali capaci di gestire realmente il territorio e tutti i conflitti presenti al suo interno e di stimolarne lo sviluppo torna ad essere assolutamente centrale nella definizione dell’idea di democratizzazione. Anche per punti di vista distanti e contrastanti. Il processo di empowerment. Declinazioni sociali. Negli ultimi decenni esperienze come quelle condotte da progettisti anche molto differenti fra loro come, per esempio, 10 11 Alejandro Aravena e Giancarlo Mazzanti in Sud America o 12 13 Carin Smuts e Diébédo Francis Kéré in Africa mostrano, in particolare, l’introduzione di forme di progettazione flessibili e adattabili al contesto in cui operano, orientate non tanto ad una rapida risoluzione delle problematiche rilevate, quanto ad avviare un processo maieutico con gli attori delle trasformazioni. Un processo volto a sviluppare le loro capacità di espressione e attivare un reciproco scambio di conoscenza, necessario alla definizione di soluzioni più efficaci e durature nel tempo. Con la determinazione di un nuovo punto di vista secondo il quale l’idea di democratizzazione supera la riduzione al concetto di autocostruzione - che rischiava di diventare oppressivo - per definire come questione centrale del tema quella del controllo del potere decisionale, concretizzando le affermazioni avanzate da Turner già nel 1976 (Turner; 1976). Fondato nello stesso anno in cui Frederik De Klerk - nuovo presidente della repubblica sudafricana - ha iniziato la lunga marcia che nel 1994 pone finalmente fine all’apartheid, lo studio di Carin Smuts lavora costantemente per le comunità nere, escluse dallo sviluppo e private della loro cultura tradizionale, con l’obiettivo di rinnovare le township. Edifici d’abitazione a basso costo, magazzini, scuole, centri d’arte, sale polivalenti vengono progettati e realizzati a partire da un’immersione nei problemi sociali, sanitari e razziali del Sudafrica mediante la definizione di un metodo profondamente ancorato nel terreno storico dell’apartheid e modellato dall’impegno quotidiano con la gente. L’attenzione della progettista sudafricana non si rivolge cioè tanto alla forma architettonica quanto all’organizzazione del processo di progettazione e costruzione attraverso il quale, a suo avviso, l’architetto deve farsi inventore di un microsviluppo capace di modernizzare e restituire un futuro ai quartieri più poveri del suo paese. Secondo un modello di atteggiamento per cui l’architettura è azione sociale e il vero elemento sostenibile è la popolazione, non la struttura. A Karoo, per esempio, il sito per la realizzazione del Centro Multifunzionale Dawid Klaaste viene scelto attraverso una commissione di gestione del progetto composta da membri della comunità, del consiglio comunale e della regione e l’idea progettuale matura nel corso di seminari collettivi che affrontano argomenti assolutamente diversi quali il ricco habitat locale, il ricordo delle alluvioni del 1981, la storia locale del ‘grillo gigante’, il ruolo del mulino a vento e del treno nella storia e nell’immaginario del paese. A partire da queste discussioni poi la Smuts decide di costruire il centro mediante la trasformazione dei capannoni di lamiera e del mulino a vento già presenti sul luogo prescelto e di trasformare un vecchio vagone merci in ristorante. 9. Luigi Bobbio è autore e ricercatore di scienze politiche presso l’Università di Torino. Esperto di analisi delle politiche pubbliche, Bobbio ha come propri interessi di ricerca temi strettamente correlati all’idea di democratizzazione: la democrazia deliberativa; i processi consensuali per la risoluzione di conflitti ambientali e territoriali; le politiche territoriali contrattualizzate; i governi locali e la multi-level governance. Cfr. Bobbio; Amministrare con i cittadini; Rubettino; Soveria Mannelli; 2007. 10. Alejandro Aravena è un giovane architetto cileno che nel 2000 ha fondato, con l’ingegnere Andrès Iacobelli e l’architetto Pablo Allard, Elemental Team, una squadra che lavora sia come studio di architettura che come ufficio di edilizia pubblica e centro di ricerca sull’impoverimento urbano con l’obiettivo di contribuire, attraverso un’ingegneria ed un’architettura d’avanguardia, a migliorare la qualità della vita in Cile. Seguendo il principio di fare il mas con lo mismo lo studio ha elaborato una tipologia abitativa aperta per la definizione della quale il coinvolgimento diretto degli abitanti è condizione imprescindibile. Cfr. Aravena; Alejandro Aravena. Progettare e costruire; Electa; Milano; 2007. 11. Giancarlo Mazzanti è un architetto colombiano che lavora da anni per il suo stato e la sua città, Bogotà. La sua esperienza professionale comprende diversi interventi pubblici di grande scala, come centri congressi, biblioteche, scuole, parchi e infrastrutture, ma anche abitazioni private e sociali che lavorano tutti verso un obiettivo comune: quello di I vecchi tetti vengono riutilizzati per i rivestimenti verticali e il centro viene dipinto in rosso brillante in ricordo delle vittime dell’alluvione del 1981; i capannoni vengono abbelliti da arnesi agricoli recuperati sul posto e dai lavori in ferro battuto preparati dagli artigiani locali, mirando così alla definizione di un’architettura decisamente figurativa, perché capace di svolgere un ruolo forte sia in termini di identificazione che di formazione. Se cioè per diversi decenni si era pensato che il processo di generazione del senso di appartenenza ai luoghi dovesse essere attribuito al diretto coinvolgimento degli abitanti nella progettazione e nella costruzione degli edifici - e quindi alla difesa del loro personale prodotto creativo e delle loro idee intorno agli anni novanta gli stessi architetti che avevano lavorato con questa convinzione iniziano a credere che esso sia soprattutto dovuto alla forza degli edifici stessi di sviluppare un proprio racconto, portando traccia di un’idea e di un processo di progettazione e costruzione forte capace di essere fatta propria anche da chi non vi ha partecipato direttamente. In questo senso, dopo prime esperienze fortemente incentrate sul tema dell’auto-costruzione, Peter Hübner giustifica secondo questa prospettiva il fatto che i nuovi abitanti dei suoi edifici non ancora nati al momento della costruzione - continuino ad auto-definirsi come costruttori degli stessi (Hübner; 2007), mentre le opere e gli scritti di architetti come appunto Carin Smuts e Françis Kéré dimostrano come anche nei paesi del Terzo Mondo si stia passando dall’attribuire ai processi di democratizzazione un significato profondamente radicato nella politica coloniale - un’idea cioè mirata al raggiungimento di un efficiente governo coloniale attraverso decisioni prese dall’alto e implementate dal basso - ad una definizione basata sul concetto di trasformazione della consapevolezza delle persone come guida verso un processo di auto-realizzazione e di empowerment. Empowerment inteso, secondo la definizione di Cook, come il fattore cruciale che rende lo sviluppo sostenibile (Cook. Cit. in Marschall; 1998). In una prospettiva che ha, ancora una volta, delle implicazioni cruciali per il ruolo dell’architetto e del team professionale. Il fatto di porre questo aspetto come punto focale sollecita infatti un’ulteriore ridefinizione dei ruoli che chiede all’architetto di assumere un impegno diretto non solo nella gestione di un processo di interazione, ma anche nella promozione di un’ipotesi di trasformazione e di strutturare un processo intervenendo sui contenuti, costruendo cornici di riferimento, interpretando i territori, innescando, attraverso la proposizione di scenari, forme di progettazione fondate sull’interazione sociale, traducendo pratiche informali nel linguaggio delle politiche. A Gando, per esempio, Dibedo Françis Kéré fonda il ‘Schulbausteine für Gando’, un’associazione nata con l’obiettivo di progettare edifici capaci di sostenere gli abitanti del Burkina Faso nel loro sviluppo. Seguendo il motto Aiuta ad aiutarsi l’approccio progettuale di Kéré è completamente rivolto alle persone secondo un punto di vista per cui occorre costruire per soddisfare un bisogno, con materiali locali e tecniche semplici e, aspetto più importante, per e con gli abitanti. Per il progettista africano l’educazione potrebbe essere la pietra angolare su cui fondare lo sviluppo del proprio paese e per questo egli non si limita a fornire il proprio apporto progettuale ed a trovare i fondi con i quali costruire una scuola, ma si procura il supporto del governo per l’addestramento degli artigiani locali all’utilizzo delle nuove tecniche, assicurandosi che i metodi costruttivi vengano assimilati dalla comunità locale e contando enormemente sul forte senso di solidarietà solitamente presente in questi villaggi per il coinvolgimento di tutti i suoi abitanti. E infatti la costruzione della scuola è stata in larga parte portata a termine grazie al lavoro di uomini, donne e bambini del villaggio che, una volta terminato l’edificio, hanno iniziato a realizzare delle case per gli insegnanti e un presidio medico seguendo, in modo autonomo, gli stessi principi. Il modo in cui la comunità si è organizzata grazie all’aiuto di Kéré è cioè diventato un esempio non solo per la comunità stessa, ma anche per i villaggi vicini - alcuni dei quali, a loro volta, si sono dotati delle proprie scuole mediante uno sforzo cooperativo - e le autorità stesse che, riconosciuto il valore del progetto, hanno finanziato gli insegnanti e si sono impegnate ad assumere i giovani addestrati in questo contesto per la realizzazione di progetti pubblici. Trasformando quest’esperienza in una denuncia emblematica della richiesta sia da parte dei cittadini che da parte delle istituzioni di pensare ai processi di democratizzazione come reali occasioni di apprendimento. Come processi appunto di empowerment capaci di considerare la complessità dei processi e di coinvolgere e mettere in tensione una molteplicità di competenze, temi e attori diversi per orientare scelte non solo di natura formale, ma anche politiche, economiche e sociali. Secondo un nuovo appello alla democratizzazione dei processi decisionali che ha come obiettivo il raggiungimento di quel senso di proprietà e di orgoglio che fa sì che l’ampiezza alla quale la comunità si identifica con il progetto determini la probabilità che l’intervento risulti poi riuscito sotto molteplici punti di vista. In una prospettiva in cui il coinvolgimento della comunità non solo nello stabilirne le direttive e i compiti, ma anche nel progetto e nel infrastrutture, ma anche abitazioni private e sociali che lavorano tutti verso un obiettivo comune: quello di migliorare le condizioni di vita costruendo anche la percezione del cambiamento da parte della comunità. Per Mazzanti gli edifici devono diventare un mezzo di inclusione sociale all’interno di un più ampio progetto politico in cui l’educazione degli abitanti viene individuata come pilastro della trasformazione sociale. Cfr. Mazzanti; L’architettura nella trasformazione sociale di Medellin; in ‘Lotus International’, n. 145; marzo 2011; p.24-37. 12. Carin Smuts è un architetto sudafricano che da anni lavora in una sola area e per un solo committente: gli abitanti delle comunità nere del Sudafrica. Nata in una famiglia di politici ed intellettuali - il suo prozio, Jan Christiaan Smuts, è uno dei fondatori del pensiero olistico - la Smuts consiedera l’architettura come un mezzo attraverso il quale gli abitanti delle township sudafricane possono riassumere il controllo di loro stessi e per questo lavora con loro per aiutare le cose a ‘maturare’ non tanto attraverso la definizione del prodotto finale quanto mediante la definizione del programma di intervento. Per lei l’architetto deve essere un riferimento per un processo di microsviluppo che egli stesso deve proporre. Cfr. Contal, Revedin; Progettare la Sostenibilità. I maestri di una nuova architettura; Edizioni Ambiente; 2009. 13. Figlio di un capo-villaggio del Burkina Faso, Diébédo Francis Kéré è un architetto che, dopo aver studiato in Germania, sta lavorando nella sua terra con un approccio progettuale processo di gestione e costruzione sembra cioè essere la sola strada verso un’architettura di espressione della stessa e di uno sforzo comune. Una prospettiva in funzione della quale l’attenzione deve progressivamente spostarsi dall’edificio come prodotto e risultato finale, all’edificio come processo e il progetto architettonico non deve più soddisfare uno scopo preciso o procurare un semplice servizio, ma è chiamato al coinvolgimento del maggior numero possibile di membri della comunità - ognuno secondo i propri interessi e le proprie capacità - in modo tale che essi guadagnino più fiducia in loro stessi e quel senso di affermazione personale necessario affinché anche un singolo edifico abbia la possibilità di riqualificare i propri dintorni, fungendo, in questo modo, da vero e proprio motore sociale. Il progetto come ‘Trading Zone’ per la costruzione di immagini condivise La richiesta proveniente dalla riflessione sull’idea di democratizzazione di pensare ad una diversa dimensione del progetto e l’analisi di alcune esperienze che negli ultimi anni hanno provato a dare una risposta a questa domanda costituiscono quindi una buona base a partire dalla quale sviluppare le riflessioni teoriche della prassi progettuale per pensare non solo ai suoi eventuali sviluppi, ma anche al possibile valore aggiunto del progetto architettonico e urbano all’interno di questo panorama. In particolare, può risultare interessante provare a confrontare questi temi con alcuni concetti teorici elaborati negli ultimi negli ultimi cinquant’anni in campi diversi come quello delle scienze politiche, della filosofia e dell’epistemologia. Alessandro Balducci, per esempio, propone di tornare a Charles Lindblom (Lindblom; 1959. Lindblom; 1979) per legare il suo pensiero alle più recenti teorie dei Boundary Objeects e delle Trading Zones elaborate rispettivamente da James Griesemer e Susan Star (Griesemer, Star; 1989) e da Peter Galison (Galison; 1997. Galison, Thompson; 1999). Per Lindblom, uno degli esponenti più noti del pensiero incrementalista, vista l’impossibilità di avere un corpo di governo centrale privo di conflitti interni, la struttura dei modelli decisionali non può che essere quella del mutual partisan adjustament: chi decide non è mai un soggetto singolo e unitario, ma sono tutti i portatori di interesse - ciascuno con i propri interessi di parte – ma all’interno di una condizione di mutua interdipendenza, perché solo attraverso la contrattazione e il compromesso ognuno potrà raggiungere i propri obiettivi. Secondo l’autore, questo non è solo il modo più realistico di descrivere un processo, ma anche un approccio capace di esprimere l’intelligenza della democrazia, approfittando appunto del conflitto come risorsa per raggiungere il risultato più razionale, quello che provoca meno conseguenze negative e limitate e, quindi, migliore per tutti. Per Lindblom, cioè, non è rilevante se si condividono o meno, in termini generali, i valori della propria controparte: l’importante è che si sia capaci di raggiungere un accordo rispetto ad una decisione concreta. A questo pensiero, definito già a partire dagli anni sessanta, è in qualche modo riconducibile la teoria dei Boundery Objects elaborata, vent’anni più tardi, dal filosofo James Griesemer e dalla sociologa Susan Star. Per i due, a supporto degli accordi, vi possono essere dei cosiddetti oggetti di confine, da un lato flessibili e plastici abbastanza da adattarsi ai bisogni locali e alle costrizioni delle diverse parti che li impiegano, dall’altro, robusti e coerenti a sufficienza per mantenere un’identità comune anche attraverso siti o interessi diversi. Degli oggetti che, pur cambiando significato in contesti differenti, hanno una struttura di base così definita da renderli comunque riconoscibili e utilizzabili proprio come mezzi di traslazione capaci di consentire a diversi mondi sociali non solo di raggiungere un accordo ma di cooperare. Una cooperazione della quale, recentemente, si è anche occupato lo storico della scienza Peter Galison che, introducendo il concetto di Trading Zones, ha offerto nuovi sguardi all’interno di questo dibattito. In particolare, studiando l’interazione tra diverse comunità scientifiche, l’americano ha messo in evidenza la loro abilità nel generare le condizioni necessarie a sostenere un’interazione reciproca dei differenti gruppi di scienziati, sebbene ciascuno di questi fosse caratterizzato da metodologie, procedure e obiettivi specifici. Interessi di parte - se riprendiamo il linguaggio di Lindblom - spesso né compresi, né tantomeno condivisi in modo unitario. Per Galison, gli oggetti di confine descritti da Griesemer e Star come Boundary Objects sembrano essere rappresentati dalle matrici semantiche e dalle pratiche materiali condivise fra le diverse sottocomunità scientifiche. Da quegli elementi comuni, che lui chiama Trading Zones, capaci a suo avviso di favorire un dialogo proficuo e, quindi, di generare scambi di conoscenza e servizi fra differenti sistemi di pensiero o di interesse. Delle ‘infrastrutture’ locali, temporanee e contingenti, di concetti e strumenti condivisi, all’interno delle quali questioni complesse possono essere trasformate in thin descriptions, accordi parziali necessari per ottenere degli scambi di informazioni. che, dopo aver studiato in Germania, sta lavorando nella sua terra con un approccio progettuale completamente rivolto alle persone e mirato all’inclusione delle competenze tecniche e tradizionali culturali del suo paese. Tra i suoi progetti più conosciuti la Scuola Primaria in Gando (1998-2001). Cfr. Kéré; Diébédo Françis Kéré: fare architettura in Africa; Foschi; Forlì; 2010 Che cosa succederebbe quindi se noi provassimo a reinterpretare la contrattazione e la ricerca di un compromesso di Lindblom in termini di locali Trading Zones fra gli stakeholders che rappresentano differenti sistemi di significati e di valore? E, soprattutto, quali implicazioni potrebbe avere l’assunzione di questo punto di vista nella cultura progettuale architettonica? Cosa significherebbe provare a cogliere la sfida lanciata da questi concetti per provare a definire il progetto come una zona di scambio all’interno della quale ogni parte coinvolta abbia la possibilità di comprendere e di appropriarsi delle questioni messe in campo per poi inserirsi nell’arena? In questo senso, la nuova dimensione progettuale richiesta dall’introduzione dell’empowerment come fattore cruciale per lo sviluppo sostenibile potrebbe giocare un ruolo centrale all’interno del dibattito, grazie al suo riferimento esplicito ad un’idea di progetto morfologico orientato all’organizzazione della decisione e capace, prima di tutto, di coinvolgere e mettere in tensione competenze diverse per poi dirigerne il dialogo. Un progetto con una forte funzione relazionale e strategica, secondo un punto di vista che non sembra così distante da quello di Griesemer e Star. Sarebbe infatti così sbagliato pensare al progetto architettonico come ad un progetto di un Boundary Object, di un telaio, di un’armatura capace, da un lato, di adattarsi alla complessità e alla molteplicità dei punti di vista propri della realtà contemporanea e, dall’altro, di fornire un riferimento sufficientemente solido e stabile alle trasformazioni? Non si potrebbe pensare alla costruzione della forma e della morfologia territoriale come alla definizione di una Trading Zone fra differenti strategie di attori all’interno della quale questi, dialogando, abbiano l’opportunità di definire e comprendere problemi, obiettivi condivisi e modalità relazionali? Analizzando, fra le altre, esperienze come quelle dell’indiano Balkrishna Doshi, prima, e del cileno Alejandro Aravena, poi, si direbbe proprio di sì. Nel recupero della baraccopoli di Iaquine, per esempio, il sistema della costruzione aperta ideato dall’architetto cileno e dal suo studio per superare il conflitto generatosi fra gli abitanti della baraccopoli, l’amministrazione comunale e i proprietari del’area – ciascuno con i propri interessi - ha costituito una vera e propria Trading Zone sia dal punto di vista formale che da quello sociale, economico e politicoamministrativo. Qui nel 2003 il programma governativo Chile-Barrio chiede all’Elemental Team di cui Aravena è fondatore di sviluppare un progetto per Quinta Monroy, l’ultimo insediamento irregolare della città di Iaquine, nel deserto cileno: si tratta di studiare una soluzione abitativa per ospitare le cento famiglie che da trent’anni occupano abusivamente un’area di mezzo ettaro nel pieno centro della città, utilizzando un sussidio di diecimila dollari a famiglia, destinato a coprire i costi del terreno, le infrastrutture e la progettazione. La logica dello sviluppo ovviamente vorrebbe la distruzione di quella baraccopoli, così che il quartiere venga ricostruito e occupato da nuovi abitanti dotati di mezzi economici sufficienti a comprare un’abitazione, mentre i vecchi residenti costruirebbero una nuova baraccopoli nella periferia della città, ma Aravena, cosciente dell’importanza rivestita dalla rete di opportunità costruite in trent’anni intorno al sito e rappresentate da trasporti, lavoro, educazione pubblica e strutture sanitarie migliori rispetto a quelle di altri quartieri popolari situati in periferia, si oppone fermamente a questa ipotesi ponendo come priorità assoluta del progetto il fatto che gli abitanti della baraccopoli restino sul posto. Ponendosi un problema progettuale piuttosto complesso: un programma pubblico fornirebbe infatti un sussidio alle famiglie indigenti in modo da farle accedere ad un alloggio, ma, una volta acquistato il terreno, con un costo tre volte superiore a quanto i programmi di edilizia sociale possono normalmente pagare, il budget rimasto consentirebbe soltanto la costruzione parziale degli alloggi. Dopo aver tentato diverse alternative - dagli alloggi di gruppo ai piccoli condomini - senza risolvere il problema, lo studio rovescia la questione usando il problema come soluzione e lavorando a un nuovo sistema: il sistema della costruzione aperta, di case semi-costruite che gli abitanti completano da soli. Secondo questa logica, conseguenza diretta del principio mas con lo mismo, il team elabora quindi una tipologia abitativa aperta, definita con gli elementi essenziali per un’unità minima - il tetto, l’involucro, le stanze con l’acqua corrente – e con il vuoto di uno spazio non costruito, suscettibile di essere riempito dagli abitanti che devono quindi essere posti nelle condizioni di capire il significato dell’operazione. Dopo un incontro iniziale in i progettisti spiegano i motivi di quell’intervento, vengono quindi organizzati diversi workshop con l’obiettivo di spiegare le regole del gioco: tutti i componenti della famiglia vengono chiamati a realizzare modelli, disegnare e scrivere, mentre ogni capofamiglia è tenuto a disegnare l’ampliamento e il progetto di trasformazione delle facciate in modo tale da capire la fattibilità del tutto. In questo modo, un anno dopo la consegna, sono riempiti, trasformando il progetto complessivo in una convincente dimostrazione dell’effetto prodotto da un’idea di democratizzazione fortemente incentrata sulla leva sociale e dal potenziale di reversibilità di un modello progettuale fondato su questa. Se, infatti, la struttura di mattoni e cemento fisicamente realizzata nel quartiere di Quinta Monroy potrebbe essere essa stessa interpretata come uno scheletro, un’infrastruttura capace, grazie alla sua chiarezza e solidità, di accogliere ed assorbire al proprio interno gli ampliamenti estemporanei e la loro complessità in modo tale da costituire un supporto adeguato per lo scenario incerto delle espansioni fisiche future, il suo merito principale è certamente quello di dimostrare il potere della morfologia - e qui sta, forse, il valore aggiunto del progetto architettonico e urbano nel riconoscere valori, nel fissare connessioni fra gli attori e nell’ordinare esigenze, bisogni e aspettative talora anche contrastanti. In questo caso, infatti, la forma scelta dal progettista è chiaramente figlia di riflessioni sociali - non allontanare gli abitanti della baraccopoli dal luogo - ed economiche - come realizzare architetture di qualità con i pochi soldi rimasti dopo l’acquisto del terreno -, oltre che formali ed era probabilmente l’unica attraverso la quale accogliere e quindi far dialogare tutte le parti. Gran parte del lavoro svolto da Aravena - ma lo stesso potrebbe dirsi di esperienze fatte da Carin Smuts o da Giancarlo Mazzanti - è quindi consistito nella definizione del programma. Il prodotto finale sarà un’opera architettonica ma l’impegno del progettista si è spinto ben oltre la definizione di un’idea formale e, per questo, è iniziato in una fase molto precedente - lavorando con gli abitanti per aiutare le cose a ‘maturare’ - e si conclude in una fase decisamente successiva. La gente sa - racconta Carin Smuts descrivendo il proprio lavoro – come definire i propri bisogni ma non come articolarli in un programma. Prima di progettare qualcosa ascoltiamo a lungo, a volte anche due anni, in modo da definire al meglio il programma […] Inoltre, la gente deve poter contare sempre sul nostro aiuto; per esempio quando le strutture hanno dei problemi o devono essere ampliate. Se necessario torno sul posto per inoculare un’idea o per aiutare nella costruzione. (Smuts. Cit in Contal, Revedin; 2009) Con l’assunzione di un punto di vista che potrebbe veramente portare l’architettura ad offrire il proprio linguaggio e i propri strumenti come mezzo per la costruzione di immagini comuni su cui dialogare, mediante la definizione di un processo progettuale volto allo sviluppo più che alla crescita. Un processo progettuale capace di generare qualità ambientale come fattore di sviluppo sociale e culturale e di restituire, quindi, all’architettura la sua dimensione politica, ovviando, così, a tutta una serie di rischi nei quali la nostra ‘disciplina’ finisce spesso per incorrere. Uno degli aspetti più interessanti che emerge dalla lettura trasversale di diversi progetti che hanno provato ad assumere un punto di vista simile a quello dell’architetto cileno è che ciò che li accomuna e che li rende in qualche modo simili non è affatto un’estetica condivisa, ma un analogo pragmatismo: una volontà comune di definire progetti o infrastrutture flessibili capaci di sanare conflitti, soddisfare necessità e interessi molteplici - fisici, ma anche economici e sociali - con l’obiettivo, spesso, di generare nuovi modi di vita. Uno scopo, questo, per il raggiungimento del quale la trasformazione fisica e il suo aspetto formale non necessariamente rappresentano il nodo centrale. Basti pensare all’esperienza del Voralberg, in Austria [Link_Tecnologia] o a quella della città di Medellín, in Colombia. Se nella piccola regione austriaca la ricerca progettuale, nonché l’impegno politico e sociale dei suoi architetti sono riusciti a trasformare la crescita economica dell’area in sviluppo della stessa - con ricadute fondamentali a livello sociale ed identitario , la città sudamericana rappresenta oggi un importante modello di trasformazione sociale in cui l’architettura svolge un ruolo sostanziale come parte di un più ampio progetto politico capace di integrare politiche sociali, economiche e progetti pubblici. Spronate dalla volontà di ridare agli abitanti la dignità persa nella guerra del narcotraffico, durante gli anni ottanta e novanta, le ultime amministrazioni della città hanno infatti avviato un percorso finalizzato alla conversione di Medellín in un centro ugualitario, socialmente e culturalmente inclusivo, capace di costruire un futuro diverso proprio a partire dalle criticità più profonde della città. Secondo l’immagine di una cultura urbana aperta di cui ogni elemento che la costituisce - e quindi anche l’arte e l’architettura - deve farsi portatore. Il progetto - intitolato Medellín è la più educata - propone un intervento integrale nel quale l’architettura è chiamata a rappresentare una nuova visione della città e a proporre progetti capaci di generare inclusione sociale: costruire edifici in zone degradate non sarebbe sufficiente; occorrono progetti in grado di attivare nuove forme d’uso e di trasformare il senso di appartenenza e accrescere quello di orgoglio da parte dell’intera comunità. Una scommessa riuscita. Negli ultimi anni Medellín ha infatti cambiato la sua fisionomia non solo attraverso aspetti istituzionali e provvedimenti sociali, ma anche mediante la realizzazione di architetture attuanti, pensate più per le loro capacità performative che non per le loro qualità visive. Architetture - come sostenuto da Giancarlo Mazzanti, progettista direttamente coinvolto dal programma - interessanti per le loro prestazioni sociali e culturali, più che per la loro forma. Edifici che lavorano, oltre che sulle funzioni, anche sulla percezione del cambiamento da parte della comunità. Negli ultimi sette anni a Medellín - ma un discorso simile potrebbe essere fatto per molti dei progetti di Carin Smuts o dello stesso Aravena, piuttosto che di Kaufmann o del Rural Studio [Link_Tecnologia] per spostarci a nord del mondo - interventi pubblici come parchi-biblioteche, scuole, centri culturali, centri di sviluppo tecnologico, zone pedonali e piazze sono stati realizzati come luoghi di trasformazione della società. Architetture pregnati - capaci di far percepire agli abitanti il senso di appartenenza ad una società più giusta e ugualitaria - spesso non del tutto definite funzionalmente per far sì che le comunità possano appropriarsene e moltiplicarne l’uso iniziale. Luoghi che rendono sempre più evidente la necessità di pensare all’architettura come ad una pratica che non può più nascere dal mestiere in modo autonomo, ma può solo costituirsi attraverso sguardi diversi, mediante il confronto con altre forme di pensiero. In questo senso, se vogliamo provare a tracciare le linee generali di un possibile progetto di riferimento, le esperienze analizzate sembrano dirci che queste non risiederanno tanto in principi o indicazioni formali, ma, al contrario, nell’idea che pensare al progetto come ad un mezzo significhi proprio impedire prima di tutto quella progressiva autonomizzazione dell’aspetto fisico e compositivo rispetto agli altri aspetti del processo di trasformazione del territorio a cui stiamo assistendo sempre più frequentemente, perché il compimento di un disegno formale costruito a tavolino non sembra più poter essere il solo obiettivo di progetto. All’interno dello scenario prospettato, infatti, lo sguardo progettuale deve complessificarsi, abbandonando un punto di vista frammentato e settoriale a favore di una visione allargata e partecipata, capace di intrecciare aspetti e dati diversi - spesso contradditori e conflittuali - per poi pensare ad una risignificazione complessiva del territorio nella sua interezza. Secondo un punto di vista che certamente aiuterebbe a prendere definitivamente distanza dall’idea che il solo modo di mettere ordine nei nostri paesaggi sia quello di affidarsi ad un progetto dato, fisso e stabile in grado di costruire gerarchie chiare fra i diversi elementi, lasciando spazio ad una sorta di estetica del conflitto colma di vitalità e di varietà e capace di rispecchiare la ricchezza molteplice delle situazioni. Un’estetica in grado di definire una nuova dimensione del progetto morfologico nella quale esso venga visto come un percorso condiviso in cui l’architetto, senza rinunciare al proprio ruolo di definizione morfologica dello spazio, sia pronto a defilarsi per poi proporre scenari nei quali il conflitto diventi una risorsa e le condizioni al contorno un dato positivo, un agente attivo del fare progettuale (De Rossi, 2010). E’ chiaro, tuttavia, che l’assunzione di un simile punto di vista necessiterebbe non solo un ripensamento radicale, ma soprattutto un indebolimento epistemologico forte del progetto. I linguaggi della disciplina dovrebbero aprirsi, spingersi oltre i propri limiti e mettersi in gioco, rinunciando al proprio valore autonomo, estetico ed espressivo, per farsi strumenti politici e rendersi continuamente falsificabili. Uno sforzo ingente che potrebbe portare a chiedersi se tocchi veramente alla nostra ‘disciplina’ compierlo. Siamo, cioè, preparati a pensare al progetto come a un mezzo più che come ad un fine? Siamo pronti a deformare il nostro ruolo per proporre la dimensione morfologica come Trading Zone nella quale definire delle connessioni di senso tra ambiti separati, specialisti non comunicanti, interessi conflittuali? Abbiamo una preparazione adeguata per assumere la funzione di decostruzione e raffigurazione che, nello scenario prospettato, gli architetti potrebbero esercitare nei consessi decisionali? Forse no, ma la sfida lanciata sembra essere troppo importante e troppo stimolante per non essere comunque colta. Soprattutto in un momento in cui il ruolo, i confini e i compiti dell’architettura sono già fortemente messi in discussione. Non solo. Pensando alla definizione dei Boundary Objects data da Griesemer e Star, il ruolo del disegno, in tal senso, potrebbe veramente essere strategico. Perché niente come un’immagine può rappresentare uno strumento allo stesso tempo chiaro e flessibile, in grado di tenere insieme rappresentazioni differenti forse inconciliabili mediante l’argomentazione verbale - e quindi di innescare un dialogo proficuo fra attori diversi per il raggiungimento di un accordo almeno parziale. Il ruolo della forma fisica può quindi essere centrale. E a chi tocca metterlo in gioco, se non a noi che siamo preparati per determinarla? Forse, in questo momento iniziale, non avremo tutte le competenze necessarie a gestire questa diversa dimensione del progetto, ma non entrare nell’arena, non proporre il progetto morfologico come supporto e come strumento del dibattito, sarebbe, forse, una scelta molto più pericolosa. D’altronde da sempre questioni urbane differenti hanno richiesto all’architettura di confrontarsi con dispositivi spaziali nuovi. E non ci si è mai tirati indietro. Autodefinizioni architettoniche Visioni, trascrizioni, declinazioni Se l’analisi presentata nei capitoli precedenti delle trasformazioni di alcune idee-chiave rispetto al dibattito sulla sostenibilità - come quella di natura, tecnologia e democratizzazione - ha provato ad analizzare il continuo confronto dell’architettura con altre discipline coinvolte nello stesso - l’ecologia, l’economia e gli studi relativi ai modelli decisionali -, il lavoro di ricerca intende chiudersi cercando di rispondere alle questioni dalle quali si è mossa utilizzando la sovrapposizione delle mappe dei valori ottenute per tornare alla visione complessiva e complessa richiesta dal tema. E’ cioè possibile, al termine della ricerca, individuare le reali implicazioni dell’idea di sostenibilità sulla cultura del progetto? Lo studio si è aperto con un tentativo di ricostruzione della storia della stessa che, grazie ad un confronto costante con il dibattito interdisciplinare e il panorama politico e culturale internazionale, ha portato all’individuazione di tre possibili fasi di sviluppo che, pur sovrapponendosi e confondendosi, si distinguono chiaramente per il loro modo di interpretare il tema della sostenibilità e, di conseguenza, per le strategie e gli strumenti politici, ma anche progettuali, utilizzati per indirizzare la questione: la crescente importanza dell’idea - da concetto marginale per piccoli gruppi di interesse occidentali a tema chiave del dibattito internazionale -, la transizione dall’idea di protezione ambientale e risparmio energetico a quella di sostenibilità e il passaggio da filosofie politiche e progettuali top-down, alla decentralizzazione e a strategie multi-settoriali e integrative basate sulla comunità sono i macrocambiamenti messi in evidenza. Quali sono state, tuttavia, le ricadute progettuali di questi cambiamenti generali e complessi sulle retoriche, ma anche sulle modalità con cui la nostra disciplina si autodefinisce verso l’esterno, sui modi con cui essa concettualizza il suo rapporto con la società? L’analisi trasversale dei capitoli centrali della ricerca sembra far emergere modalità relazionali profondamente differenti attraverso le quali individuare uno scarto metodologico importante rispetto alle riflessioni e alle pratiche attuali. Se si provano a raccogliere i valori e gli obiettivi progettuali individuati per ogni questione-chiave in ogni singola fase è infatti possibile individuare un percorso che, sebbene labile e ricco di contraddizioni, sembra far emergere alcuni punti d’accordo comuni capaci di affiancare ai cambiamenti generali già individuati anche tre diverse auto-definizioni architettoniche sintetizzabili nei tre concetti-azione di visione, trascrizione e declinazione. Osservando quella che Longhi individua come la prima ondata del progetto sostenibile, si può per esempio vedere che, al di là dei modelli di atteggiamento assunti dai progettisti e dei relativi risultati morfologico-spaziali, il confronto diretto con la sostenibilità in questa fase conduce prevalentemente alla definizione di visioni - spesso individuate come utopie - attraverso le quali l’architettura viene proposta come soluzione ai problemi introdotti dall’idea. Arcosanti è un organismo estetico miniaturizzato proposto come idealisticamente desiderabile da un architetto-maestro; i meccanismi quantitativi di Fuller rappresentano alternative spaziali ideate da un comprehensive designer capace di colmare i vuoti della politica; gli edifici efficienti dei primi anni settanta di Van der Ryn vengono presentati come risposte universalmente valide alla questione delle risorse. E anche le retoriche su cui si fondano atteggiamenti progettuali apparentemente più aperti ad un confronto con il ‘reale’ nei fatti rappresentano la falsa percezione di scelte profondamente ideologiche, ideali o praticabili, frutto della fede incondizionata in un percorso al quale spesso viene attribuito un valore morale. In questa fase, cioè, l’idea di sostenibilità viene colta da alcuni pionieri senza una messa in dubbio dei suoi presupposti ed elevata a questione centrale sulla quale fondare un’alternativa salvifica quasi completamente determinata e generalizzabile che, se suggerisce molti stimoli, corre però il rischio di non funzionare appena entra in contatto con la realtà. Iniziato poi il processo di istituzionalizzazione dell’idea, nella cosiddetta fase-ponte, la forza anticipatrice e visionaria presente nelle proposte dei decenni precedenti si smorza a favore di trascrizioni formali o processuali del concetto che, spesso prive di una convinzione reale, ne introiettano i principi rappresentandone i suoni ma con sistemi di scrittura diversi. I camouflage naturalistici e gli edifici pensati come organismi; la mera riproduzione di forme o tecnologie ‘tradizionali’ e i tentativi di internalizzazione delle esternalità; i processi istituzionalizzati di negoziazione dei significati e le proposte di processi progettuali alternativi come contro-misure in questo senso rischiano di rappresentare trascrizioni elaborate da chi non conosce realmente la lingua che sta ascoltando, ma si limita a riportarne i suoni più evidenti senza preoccuparsi del fatto che questi possano rappresentarne anche i più superficiali. La rappresentazione dell’idea diventa l’obiettivo da perseguire, senza che le questioni sulle quali essa si fonda tocchino realmente la cultura del progetto che resta fondamentalmente auto-referenziata e poco aperta al confronto. Ma è proprio a partire da alcune conseguenze discutibili di questo atteggiamento che l’idea di sostenibilità inizia veramente ad essere messa in questione, declinata e resa flessibile in modo da adattarla alle varie funzioni ed ai vari significati che essa può assumere. La natura pensata come ecosistema e componente attiva; la definizione di tecnologie quotidiane e l’idea di sviluppo autodeterminante; la democratizzazione definita come processo maieutico in funzione dell’idea di empowerment sono tutti concetti che conducono ad atteggiamenti progettuali che, nelle loro molteplici sfaccettature e differenze, condividono una definizione dell’architettura nella quale questa non è più rappresentata come protagonista indisturbata e diretta soluzione ai problemi, ma come complice attiva, aperta al confronto ma anche consapevole e critica rispetto allo stesso. Possibile elemento di risignificazione e credibile leva economica e sociale. L’analisi trasversale delle metamorfosi semantiche che all’interno del dibattito sulla sostenibilità hanno interessato l’idea di natura, tecnologia e democratizzazione sembrano cioè raccontare la storia di un concetto estremamente complesso che, entrando in contatto con ambiti differenti, viene contaminato perdendo progressivamente la sua univocità a favore di una moltiplicazione di significati, che, se da un lato genera disorientamento, dall’altro genera possibilità. Una storia che sembra mettere in evidenza il fatto che, laddove le prese di posizione e le definizioni rigide sono state superate e le idee e i valori sono state prima compresi e poi interpretati, le contaminazioni sono state proficue, che laddove il concetto è stato declinato e contestualizzato la sua applicazione ha assunto un senso. Con la definizione volutamente labile di modalità relazionali efficaci, ma anche di prospettive e obiettivi comuni che potrebbero diventare la base per un’agenda di nuovi indirizzi progettuali in grado di orientare nuovi scenari di sviluppo. Prospettive rinnovate e strategie utili nell’indirizzare lo ‘spirito’ della ricerca progettuale verso la definizione di una migliore qualità sociale e di stili di vita capaci di rispondere alle nuove condizioni generali, con forti ricadute potenziali sia sulle retoriche di progetto che sulla strutturazione e sulla morfologia del territorio. Antologia Natura Paolo Soleri Arcology: the city in the image of man MIT Press, Cambridge, 1969 Nel 1969, quando inizia l’avventura costruttiva di Arcosanti, l’architetto italo-statunitense Paolo Soleri scrive il saggio sulla Arcologia quale «città a immagine dell’uomo» ovvero riportata a quella condizione umana che a suo avviso la metropoli post-moderna ha condotto verso l’aberrazione tecnologica e la distruzione esistenziale. Per Soleri il criterio di ridefinizione radicale dei sistemi urbani può essere ritrovato nella «miniaturizzazione» delle risorse e degli spazi insediativi considerando come importanti fattori costruttivi del benessere dell’uomo l’«equità», la «congruenza» e il rispetto per la natura. Nell’interpretazione soleriana la realtà è cioè considerabile come un bulbo che si sviluppa a strati successivi, ognuno necessario a quello superiore e alimentato dal precedente, che per essere trasformata secondo le effettive necessità umane deve venire strutturata sulla interazione delle parti geologica, vegetativa e riflessiva, le cui alterazioni di rapporto correttamente combinato creano invece disagio e distruzione. L’incongruenza delle città attuali sta così nel fatto di sostituirsi ai processi naturali, espandendosi anziché contraendosi e la confusione tra questi processi genera lo squilibrio ecologico, al cui riassestamento dovrebbe provvedere la neo-natura definita dall’Arcologia. La mappa della disperazione La crescita della popolazione e l’affluenza hanno suggerito ai progettisti una disposizione dei sistemi urbani e suburbani così estensiva da coprire nel tempo una elevata percentuale di suolo terrestre utilizzabile. Questa è una mappa della disperazione e richiama alla mente uno di quei moltiplicatori di cellule patogene che intaccano i tessuti sani circostanti. Questo rapporto di crescita sbilanciato, su un pianeta che quindi si rimpicciolisce, ucciderà la biosfera della terra e l’uomo che ne è parte. Né è necessaria l’uccisione. Sarà sufficiente un livello meno estremo di squallore e desolazione a uccidere il genere umano. Utopia La vita è sostanzialmente negata quando la megalopoli e i quartieri suburbani vengono assunti come parte preponderante dell’ambiente. La possibile condizione di equità in essi raggiungibile non trova conferma nella condizione ecologica di congruenza. Nell’attuale tessuto metropolitano, l’assenza dell’implosione di miniaturizzazione rende l’organismo sociale poco adatto alla sopravvivenza e ancor meno allo sviluppo. L’ambiente dell’uomo contemporaneo è un’utopia statistica conquistata dal gioco del ‘laissar-farire’. Come tale, essa tende a rendere l’uomo astratto. Il bulbo della realtà Il reale organizza se stesso come gli strati del bulbo di una cipolla. Ciascuno di questi è un fine in se stesso e contemporaneamente un mezzo per qualcosa di maggiore complessità e portata. Qualunque sia lo strato, qualsiasi movimento verso una nuova sintesi (o strato) è fondato sul sostegno dello strato precedente: se non ci fosse lo strato vegetale ad alimentarlo, il mondo della carne sarebbe inconcepibile. Così la specie umana è indispensabile senza il precedente strato animale. Ogni nuovo strato è sostenuto dal precedente, non è una sua mera escrescenza. Per sostenere lo stadio successivo nello sviluppo della vita sensibile e riflessiva (la ‘noosphere di Teilhard de Chardin), l’uomo dovrà mettere ordine allo stato che gli appartiene; egli deve strutturare il suo ambiente. Il secondo stadio sarà l’ultrastruttura che egli creerà fuori da tale ambiente e da se stesso. Per strutturare il proprio ambiente egli deve definire una neonatura, un substrato fisico-materiale che sia in grado, dal momento che la natura non lo è, di rendergli servizi specifici ed esclusivamente umani. Questa neonatura, necessariamente radicata nel biologico (biosfera), deve essere coerente con l’orientamento generale dell’evoluzione, così da essere uno dei suoi artefici. Essa deve quindi possedere, per forza di cose, un carattere miniaturizzante. L’utopia astratta con la sua mappa della disperazione è la sola alternativa. Il geologico è compatto. Il vegetativo è estensivo. Il riflessivo è intensivo. Non c’è alcuna ‘performance’, vera e propria ‘performance’, al di fuori della disciplina definita da tali strutture. Dimenticare quelle regole significa separare il mondo dell’uomo dall’insieme delle cose. Ed essere così dissociati significa essere messi totalmente da parte. Questo è quanto abbiamo imparato sulla forza vettoriale del mondo. La doppia ottusità (lo sviluppo incontrollato e l’inquinamento) che noi, il mentale, interponiamo tra il vegetativo che avvolge il geologico e il sole, suo principio vitale, come se l’estensivo appartenesse all’intensivo, sta soffocando la biosfera, quello strato che rende possibile il mentale. Con questa prepotente intromissione nella ‘performance’ del vegetativo, noi non solo compromettiamo il futuro della specie, ma al tempo stesso non strutturiamo il mentale attraverso la miniaturizzazione della neonatura, restando così ad uno stadio elementare della riflessione. Se non affronta imo quei limiti, noi semplicemente rimuoviamo ogni traccia di compassione nei confronti di noi stessi, e lo stupido errore della nostra specie non verrà neppure avvertito nonostante il suo immenso sanguinare nel corso di tutta la sua breve storia. […] Arcologia, la città a immagine dell’uomo Il carattere ecologico della vera architettura si può affermare solo qualora si arresti quell’utopia di ecumenopoli. L’interezza della neonatura dipende dall’interezza della natura. Entrambe devono muoversi all’interno della sfera della confluenza secondo la struttura a cui esse appartengono: l’estensività per la natura, l’intensività per la neonatura. L’archeologia è intensivamente ecologica e per il suo auto contenimento è in grado di essere integralmente accetata dall’ecologia naturale. E’ una appartenenza di ‘performance’, non una appartenenza di parassitismo. Tredici domande sull’arcologia L’arcologia (architettura e ecologia) è il nome adottato per identificare una struttura che è (in qualche modo) un paesaggio o una topografia tridimensionale. In essa, non su di essa come per un paesaggio «naturale», si organizzano le istituzioni pubbliche e private che formano ogni centro urabno degno di questo nome. Le arcologie sono organismi architettonici di tale carattere e dimensioni da essere ecologicamente rilevanti. […] La miniaturizzazione non è il restringimento di un letto o di un armadio, né il rimpicciolimento di un soggiorno o di un terrazzo. Essa è l’espulsione di quegli elementi che finiscono per castigare il paesaggio urbano e punire i suoi abitanti, come i divari spazio-tempo presenti nel meccanismo sfidarisposta di ogni organismo rappresentano una punizione esistenziale impostagli […] La miniaturizzazione come imperativo etico, ben lungi dall’essere paradossale o assurda, è semplicemente la necessità di impiegare consapevolmente l’universo della materia e dell’energia, da parte del fenomeno vivente, nell’unico modo che possa conferire e mantenere in esso la sopravvivenza e i tratti evolutivi. L’espansione su una terra desolata da parte di un’anima socialmente e culturalmente arida difficilmente significa «crescita». E’ una presa più ferma della sub-pianificazione negli affari dell’uomo. In termini ontologici è il fato che prende il comando (guidato statisticamente) del nucleo della vita (urbana). E’ nuovamente la saggezza della natura a indicare la strada. L’idoneità di ogni sistema vivente è strettamente calibrato alla sua dimensione. Tratto da Paolo Soleri; Kathleen Ryan (a cura di); Itinerario di architettura: antologia degli scritti; Jaca Book; Milano 2000; pp. 43-69 Richard Buckminster Fuller Operating Manual for Spaceship Earth 1969 Pubblicato per la prima volta nel 1969, Operating Manual for Spaceship Earth è uno dei testi più conosciuti di Fuller. Sintetizzando la sua visione del mondo egli investiga le grandi sfide che l’umanità dovrà affrontare e i principi che a suo avviso devono essere seguiti per evitare l’estinzione e mettere in pratica delle azioni capaci di condurre l’umanità al successo. Come può sopravvivere l’umanità? Come possiamo utilizzare le nostre risorse in modo più «efficace» per cancellare la povertà? Per Fuller le risposte ai nostri problemi vanno tutte cercate attorno a noi, nel bellissimo progetto che ha generato l’universo e nei «principi generali» che lo governano. La natura, se guardata attentamente, ci rivela cioè lo stato dell’arte nel progetto e nella tecnologia e solo aumentando l’efficienza generale della nostra infrastruttura globale – facendo più con meno come la natura fa costantemente – possiamo realizzare il drammatico potenziale del successo comprensivo per tutta l’umanità. Quella di Fuller è cioè una visione fondata sul principio dell’efficienza quantitativa nella quale l’idea di natura viene ricondotta a quella di energia e, appunto, dei principi generali che la governano. Pianeta Terra La Terra è stata inventata e progettato così straordinariamente che per quanto ne sappiamo gli umani l’hanno abitata per due milioni di anni senza sapere di essere a bordo di un’astronave. E questa astronave è disegnata in modo così superbo da permettere alla vita di rigenerarsi nonostante l’esistenza del fenomeno per cui tutti i sistemi fisici locali perdono energia, l’entropia. […] E’ perciò paradossale ma strategicamente spiegabile, come vedremo, che fino ad ora noi abbiamo utilizzato in modo scorretto, abusato ed inquinato questo straordinario sistema chimico di scambio energetico per rigenerare con successo tutti i sistemi viventi del nostro pianeta. Una delle cose per me più interessanti della nostra astronave è che essa è un veicolo meccanico, come lo è un’automobile. Se si possiede un’automobile, si realizza come sia necessario alimentarla con benzina o gas, mettere l’acqua nel radiatore e prendersi cura dell’intero veicolo. Si inizia a sviluppare una piccola consapevolezza termodinamica. Si comprende che o la macchina viene mantenuta in buono stato o essa avrà dei problemi e non funzionerà più correttamente. Noi non abbiamo pensato alla Terra come ad una macchina integralmente progettata che per funzionare sempre correttamente deve essere completamente compresa e servita. Ebbene c’è un aspetto molto importante che riguarda la Terra, ossia che essa non è dotata di un manuale di istruzione. Io credo che sia molto significativo il fatto che non vi sia un manuale di istruzione per operare correttamente sul nostro pianeta. Vista l’infinita attenzione a tutti gli altri dettagli del nostro pianeta, il fatto che un manuale di istruzioni sia stato omesso deve essere considerato come una scelta voluta e finalizzata. […] Questa mancanza ci ha costretti ad utilizzare il nostro intelletto, che è il nostro talento principale, per ideare procedimenti sperimentali e per interpretare efficacemente il significato dei risultati sperimentali. Così per via della mancanza di un manuale di istruzioni noi stiamo imparando come anticipare le conseguenze del numero crescente di alternative per ampliare in modo soddisfacente la nostra sopravvivenza e la nostra crescita – sia dal punto di vista fisico che metafisico – senza correre rischi. Tutti gli esseri viventi sono completamente indifesi al momento della nascita. I bambini restano indifesi più di quanto non facciano i cuccioli di ogni altra specie. A quanto pare è caratteristica dell’uomo che egli sia tenuto a rimanere completamente indifeso entro alcune fasi antropologiche e che, quando inizia ad essere capace di cavarsela meglio,sia chiamato a scoprire alcuni principi fisici moltiplicatori insiti nell’universo così come molte risorse non scontate a sua disposizione che potrebbero moltiplicare ulteriormente la sua capacità di rigenerazione e i sistemi di nutrimento. Voglio dire che il sistema pensato nell’ambito della ricchezza totale della Terra è stato un grande fattore di sicurezza che ha permesso all’uomo di rimanere ignorante per molto tempo fino a quando ha accumulato abbastanza esperienza attraverso la quale estrarre progressivamente i sistemi di principi generali che governano l’aumentare dei vantaggi di gestione energetica rispetto all’ambiente. L’omissione volontaria di un manuale di istruzioni rispetto al modo di operare e di mantenere la Terra e i suoi complessi sistemi di supporto e rigenerazione della vita hanno obbligato l’uomo a scoprire in retrospettiva quali siano la sue più importanti capacità. Il suo intelletto deve scoprire se stesso. L’intelletto deve capitalizzare la sua esperienza. Una revisione complessiva dei fatti esperiti da parte dell’intelletto ha permesso l’accrescimento della consapevolezza dei principi generali che stanno alla base di tutte le esperienze. L’utilizzo oggettivo di questi principi generali nel riassettare le risorse fisiche dell’ambiente sembra condurre verso un successo definitivo dell’umanità e alla capacità di far fronte ai sempre più vasti problemi dell’universo. […] Solo quando ha imparato a generalizzare i principi basilari dell’universo fisico l’uomo ha effettivamente imparato ad utilizzare il suo intelletto. […] La teoria dei sistemi generali Come possiamo usare le nostre capacità intellettuali per avere maggiori vantaggi? […] Nell’organizzare la nostra grandiosa strategia prima dobbiamo scoprire dove ci troviamo adesso; cioè qual è il nostro punto di navigazione attuale nello schema di evoluzione universale. Per fissare la nostra posizione a bordo della Terra per prima cosa dobbiamo riconoscere che l’abbondanza delle risorse immediatamente consumabili, sicuramente desiderabili o totalmente essenziali è stata fino ad ora sufficiente al nostro sostentamento nonostante la nostra ignoranza. Essendo però in realtà risorse esauribili, esse sono state adeguate solo fino al raggiungimento di questo momento critico. Quest’ancora di salvezza per la sopravvivenza e la crescita dell’umanità fino a questo momento è stata fornita come all’uccellino all’interno dell’uovo viene fornito il nutrimento per svilupparsi fino ad un certo punto. Ma poi è stabilito che il nutrimento si esaurisca quando il pulcino è grande abbastanza da muoversi con le sue gambe. E così quando il pulcino becca il guscio alla ricerca di maggior nutrimento inavvertitamente lo rompe. Uscendo dal suo santuario iniziale, il piccolo uccello si deve ora foraggiare con le sue zampe e e con le sue ali per scoprire la fase successiva del suo sostentamento rigenerativo. La mia descrizione dell’umanità oggi ci trova appena dopo la rottura del guscio. Il nostro nutrimento dentro al guscio si è esaurito. Ci stiamo confrontando con una relazione nuova rispetto all’universo. Dobbiamo aprire le ali del nostro intelletto e volare o periremo; dobbiamo cioè provare immediatamente a volare grazie ai principi generali che governano l’universo e non attraverso le regole rettificate dei riflessi superstizioni e erroneamente condizionati validi fino a questo momento. E non appena ci sforzeremo di pensare in questo modo inizieremo immediatamente a reimpiegare il nostro metodo innato di una comprensione comprensiva.[…] Così io credo che sia appropriato che noi assumiamo il ruolo di pianificatori e iniziamo a pensare alla più ampia scala possibile. Iniziamo evitando il ruolo degli specialisti che operano solo per parti. Diventando intenzionalmente espansivi, anziché tendere a contrarsi, ci chiediamo, «Come pensiamo in termini di intero?» […] Uno degli strumenti di grande vantaggio intellettuale è lo sviluppo di quella che viene chiamata la teoria generale dei sistemi. Utilizzandola iniziamo a pensare a sistemi più ampi e comprensivi possibili, cercando di fare questo scientificamente. […] L’universo è, deduttivamente, il sistema più grande. Se noi potessimo iniziare con l’universo, potremmo automaticamente evitare di escludere ogni variabile strategicamente critica […] L’universo è l’aggregazione di tutte le esperienze coscientemente apprese e comunicate con le sequenze di eventi non-simultanei, non-identici e solo parzialmente sovrapposti, sempre complementari, quantificabili e non quantificabili, sempre in trasformazione. […] L’universo è uno scenario evolutivo senza inizio o fine, poiché la parte mostrata viene continuamente trasformata chimicamente in una pellicola frasca e riesposta al continuo processo auto-riorganizzativo delle ultime realizzazioni escogitate che devono continuamente introdurre nuovi significati nella rinnovata descrizione fisica degli eventi in continua trasformazione prima di unire ancora il film per la sua prossima fase di proiezione. Il principio dell’indeterminismo di Heisenberg riconosce la scoperta sperimentale del fatto che l’atto della misurazione altera sempre quello che viene misurato ribaltando l’esperienza in uno scenario evolutivo continuo e mai ripetibile. Una rappresentazione dello scenario riguardante la fase di bruco non comunica la sua trasformazione nella fase di farfalla, ecc. La domanda, «Chissà cosa c’è fuori all’esterno dell’universo?» è una domanda per una singola rappresentazione di uno scenario di trasformazioni ed è una domanda insitamente non valida. E’ come guardare un dizionario e chiedersi, «Che parola è il dizionario?». E’ una domanda priva di senso. E’ caratteristico di ‘tutti’ i modi di pensare – di tutti i sistemi concepiti – che tutte le linee di interrelazione studiate a fondo devono ritornare ciclicamente su se stesse attraverso una pluralità di direzioni, come fanno varie grosse circonferenze attorno alle sfere. In questo modo possiamo comprendere in modo correlato il gruppo – oppure il sistema – di esperienze prese in considerazione. In questo modo possiamo comprendere come l’economia specifica dimostrata dal sistema specifico considerato rivela anche le leggi generali di conservazione dell’energia dell’universo fisico. Per uccidere un’anatra in volo un cacciatore non spara all’uccello quando lo vede, ma prima di lui, così che l’uccello e il proiettile si incontrino l’un l’altro in un punto non in linea fra il cacciatore e l’uccello al momento dello sparo. La gravità e il vento spingono anche il proiettile verso due differenti direzioni che in modo diverso impartiscono un leggero spostamento a spirale della traiettoria alla pallottola. Due aeroplani in un combattimento notturno della Seconda Guerra Mondiale sparavano l’un l’altro con proiettili traccianti e fotografati da un terzo aereo mostrano chiaramente le traiettorie a spirale quando uno colpiva l’altro. Einstein e Reiman hanno dato il nome di linee geodetiche alle linee curvilinee e più economiche di interrelazione fra due eventi che si muovono indipendentemente – gli eventi in questo caso erano i due aeroplani. Una grande circonferenza è una linea formata sulla superficie della sfera dall’intersezione di un piano passante per il centro della sfera. Circonferenze minori vengono formate sulla superficie delle sfere da piani che attraversano le sfere senza passare nel loro centro. Quando una circonferenza minore viene sovrapposta su una maggiore essa taglia la minore in due punti, A e B. La distanza fra A e B sull’arco minore della circonferenza grande è minore di quella dell’arco minore della circonferenza più piccola. Le circonferenze grandi sono linee geodetiche perché forniscono la distanza più economica (dal punto di vista energetico e degli sforzi) fra due punti sulla superficie di un sistema sferico; perciò, la natura, che utilizza sempre le relazioni più economiche, deve utilizzare quelle grandi circonferenze che, diversamente dalle linee a spirale, ritornano sempre su se stesse nel modo più economico possibile. Tutti i percorsi del sistema devono essere interrelati topologicamente e circolarmente per una comprensione concettualmente definitiva, localmente trasformabile, poliedrica per essere raggiunta nei nostri pensieri spontanei – dunque, più economici – geodeticamente strutturati. Tratto da Richard Bukminster Fuller; Operating manual for spaceship earth; Lars Müller; Baden 2008 Emilio Ambasz Architettura & Natura/Design & Artificio Electa, Le descrizioni progettuali presentate in Architettura & Natura/Design & Artificio fanno emergere la costante ricerca di Emilio Ambasz verso ipotesi progettuali in cui il naturale e l’artificiale si fondono e coesistono armonicamente attraverso la costruzione di situazioni iper-naturali pensate come risarcimento ambientale, come «compensazioni» proposte al cittadino per un mondo che diventa sempre più ‘innaturale’. In una recente auto-intervista – Ambasz intervista Emilio – l’architetto avanza quindi esplicitamente l’idea di una riconciliazione urbana fra natura e artificio, fra edificio e giardino, ottenuta attraverso l’idea del «verde sul grigio», della «restituzione» cioè da parte del primo dell’intera area occupata al secondo. Secondo un punto di vista per il quale la natura deve essere trasportata nell’astrazione e il concetto di contrapposizione tra creazione umana e naturale va superato a favore di una definizione più architettonica dell’architettura in cui questa viene intesa come componente integrale della natura e in cui la natura è concepita non solo come difesa dell’uomo, ma anche come sua creazione. Schlumberger Research Laboratories, 1982 Situato ai margini di Austin, Texas, il sito destinato ad accogliere il centro di ricerca era apprezzato dagli abitanti delle zone limitrofe per la sua bella area verde. Poiché il luogo meritava un progetto capace di entrare in armonia con il paesaggio anziché emergervi per contrasto, la struttura è stata divisa in una serie di piccoli edifici che opportuni rialzi di terra aiutano ad integrare nel verde esistente, riducendo al contempo i costi energetici. In tal modo si offre alla vista un gradevole paesaggio creato dall’uomo anziché un’edilizia intrusiva. Gli edifici e le strutture ricreative sono disposti casualmente attorno ad un lago artificiale, come in un giardino all’inglese. Grazie ai terrapieni l’architettura si fonde nel paesaggio, creando una piacevole atmosfera per il personale dei laboratori che desidera godere del panorama. L’area destinata ai laboratori comprende un ampio spazio indifferenziato dove gli uffici dei ricercatori – sorta di unità mobili appartate – possono essere disposti secondo le configurazioni più diverse. Le unità possono infatti essere spostate rapidamente e con facilità in risposta ai cambiamenti dimensionali delle équipe di ricerca e per agevolare il dialogo fra i singoli gruppi e al loro interno. I laboratori sono stati progettati in maniera tale da coniugare le migliori caratteristiche dell’open space – flessibilità e facilità di comunicazioni – con quelle dell’ufficio tradizionale: riduzione dell’inquinamento acustico, controllo individuale dell’ambiente e privacy. Fukuoka Prefectural International Hall, 1990 La città giapponese di Fukuoka aveva urgentemente bisogno di una nuova sede per gli edifici pubblici, ma l’unico sito disponibile era un vasto parco situato in centro. La notizia che la nuova struttura avrebbe potuto sorgere proprio sull’ultima area verde rimasta in città suscitò le proteste degli abitanti. Il progetto di Ambasz ha ottenuto la commessa per aver saputo conciliare con successo due esigenze conflittuali: raddoppiare le dimensioni del parco e al contempo fornire alla città di Fukuoka una struttura potentemente simbolica che sorgesse al suo centro. Una serie di giardini terrazzati si arrampica sulla facciata dell’edificio restituendo ai cittadini quasi tutto il verde che la struttura avrebbe sottratto. Immediatamente approvato, il progetto è stato realizzato senza incontrare alcuna opposizione da parte della comunità e senza i tipici ritardi che questa avrebbe prodotto. Tratto da Emilio Ambasz, Terence Riley (a cura di); Architettura e Natura/ Design & Artificio; Electa; Milano 2010 […] Non ti sei sentito solo e emarginato quando hai iniziato a sviluppare il tuo concetto architettonico “il Verde sopra il Grigio”? Sì, e per un bel pezzo. Ma ora, a trent’anni di distanza, ho generato figli, nipoti e non pochi bastardi. Vedere Renzo Piano, Jean Nouvel, Tadao Ando e molti altri utilizzare materiali di origine vegetale nei loro progetti mi fa capire che la mia missione sta dando i suoi frutti. Sentire alcuni di loro vantare la paternità di queste idee mi fa sentire un personaggio mitologico, ma so che è solo un caso di predestinazione freudiana. Si direbbe che ami le piante. C’è del druido in te? Adoro gli alberi. Nel mondo occidentale se c’è un albero è perché qualcuno l’ha piantato o ce l’ha lasciato. Un nuovo giardino fatto dall’uomo si è presto sostituito a quello che ci era stato dato in origine. Ora dobbiamo trovare una nuova definizione filosofica di Natura, che comprenda l’architettura come uno dei suoi elementi inscindibili. Solo così si potrà stabilire un patto sempre rinnovato di riconciliazione dell’Architettura con una Natura in continua evoluzione. […] Credi nella teoria Gaia? Gaia non è una teoria, ma un’ipotesi poetica; ed io tifo per la poesia. È universale il soggetto della tua architettura? Ho sempre pensato all’architettura come a un atto dell’immaginazione creatrice di miti. Credo che il vero compito dell’architettura inizi dopo che sono stati soddisfatti i bisogni funzionali e comportamentali. Non è la fame, ma l’amore e la paura – e talvolta lo stupore – che ci fanno creare. Il contesto culturale e sociale dell’architetto cambia sempre ma il suo compito è sempre lo stesso: dare forma poetica al pragmatico. Il tuo lavoro è intensamente pastorale. Hai qualche speranza per il futuro dell’urbanismo? O per dirla chiaramente: hai qualche idea urbanistica “verde”? Fukuoka dimostra che si può avere ‘il Verde e il Grigio’ – uno sull’altro – e al tempo stesso si può restituire alla comunità il 100% della terra coperta dall’impronta dell’edificio sotto forma di giardini accessibili a tutti dal piano terra. Per me, questo edificio è la prova tangibile del fatto che il concetto dominante secondo cui le città sono per gli edifici e la periferia per i parchi è un’idea sbagliata e malsana. L’edificio Fukuoka dimostra, una volta per tutte, che si può avere un edificio e un giardino, il 100% dell’edificio e il 100% del verde che gli abitanti dell’edificio e i loro vicini desiderano. Senti, provocatore: se cerchi delle idee urbanistiche verdi nel mio lavoro guarda i progetti proposti per l’ENI, l’Aia e anche le Monument Towers di Phoenix sono un esempio di urbanismo verde, sebbene non sia evidente visto che non ci sono piante perché friggerebbero bensì una “pelle” che protegge il palazzo dal calore intenso dell’Arizona. L’edificio è raffreddato dall’aria che parte da sotto la falda acquifera e sale al centro dell’edificio grazie all’effetto Venturi. Tutte le prese d’aria ‘raccolgono’ il sole. Trova la tua collocazione nel contesto della produzione architettonica attuale. Jim Wines? Ken Yeang? Michael Reynolds? Molti anni fa, quando Peter Eisenman e Michael Graves mi promossero alla Graduate School quando ero solo studente di primo anno a Princeton University, Peter mi disse – mentre ci trovavamo in uno di quei corridoi delle università dove gli eunuchi accademici sognano il potere – che ora che ero diventato studente a tutti gli effetti lui avrebbe fatto di me il suo studente ‘modello’. Mi si aprì la bocca e, come in preda a uno spirito interiore, mi sentii dire: «Non posso essere il tuo modello, Peter, perché sarò il padre di una nazione». Ero più stupito delle mie parole di quanto non lo fosse Peter che, per una volta in vita sua, rimase ammutolito. So che può sembrare presuntuoso, ma ho la pretesa di essere il precursore dell’attuale produzione architettonica che s’interessa di problematiche ambientali. Tutta la forza delle mie idee architettoniche, sempre che ne abbiano, viene proprio dalla mia ferma convinzione che l’architettura non debba solo essere pragmatica ma che debba anche commuovere. E per coloro che professano il mio credo architettonico, non mi interessa se coprono di insalata le loro opere ma se le loro opere riescono a suscitare emozioni. Se un’opera verde non parla al cuore, che senso ha? È soltanto una costruzione come tante. Credi che la Natura sia benigna? Partiamo dall’inizio. Se la Natura ci avesse dovuto accogliere con l’aspetto che abbiamo, non avremmo avuto bisogno di costruirci nessun riparo. Credi che io cerchi di sollevare l’angolo di un praticello erboso per coprirmi come se fosse una coperta magica? Che così facendo io cerchi di addomesticare la Natura? Credo che nel nostro tentativo di controllare la Natura-che-abbiamo-trovato abbiamo creato una seconda Natura-fatta-dall’uomo, in un intricato rapporto con la Natura-data. Dobbiamo ridefinire l’architettura come un aspetto della nostra Natura-fatta-dall’uomo, ma per farlo dobbiamo prima ridefinire il significato contemporaneo di Natura. Forse una nuova Accademia Filosofica è quel che serve. Vogliamo chiamare un’istituzione di questo tipo Universitas, cioè il tutto? […] Ti interessano i recenti progressi nella tecnologia ambientale e ti avvali di tali innovazioni nei tuoi progetti più recenti? Mi interessa moltissimo qualsiasi tipo di tecnologia. Infatti sono uno di quegli architetti che non si limita a progettare nel dettaglio le proprie opere in scala 1:1 ma so anche come produrre in massa quei dettagli. Naturalmente questo è dovuto al fatto che mi occupo anche di design industriale. Progetto, ingegnerizzo e risolvo ogni genere di problema di produzione presentino i prodotti che invento. Credo che il solo modo di risolvere davvero i problemi che la tecnologia può porre alla società consiste nell’utilizzare la tecnologia. Il problema della società tecnologica sta nel fatto che è analfabeta in materia e quindi, alla mercé della malia della tecnica e dei dettami dei suoi alti sacerdoti. Ma l’uso della tecnica non andrebbe confuso con l’architettura. Come molti architetti, padroneggi la retorica e parli con eloquenza. Ma che cosa hai realizzato negli ultimi 30 anni? Ho passato gli ultimi 30 anni della mia carriera a proporre e creare degli edifici che restituiscono alla comunità quanto più verde possibile. In alcuni casi sono riuscito a restituire quasi tutto il terreno sotto forma di giardini restituendo alla comunità la stessa superficie che occupa l’edificio. (Ne è un esempio il mio progetto del Centro Atletico e Culturale Mycal a Shin-Sanda, Prefettura di Hyogo, Giappone). In tutti i miei progetti ho cercato di restituire alla comunità, sotto forma di giardini collettivamente fruibili, quanto possibile se non tutta la terra che occupa la pianta del mio edificio. L’edificio di 1.000.000 di piedi quadrati destinato a uffici, teatro, spazi espositivi che ho progettato a Fukuoka in Giappone dimostra come ci si possa riuscire anche in un contesto densamente urbanizzato. Il progetto per l’ENI a Roma dimostra come è possibile creare dei Giardini Verticali nei piccoli spazi di terreno di un edificio alto. Il mio progetto per il grande ospedale da 600 letti a Mestre (Venezia) ora in costruzione, è stato acclamato come il primo ‘giardino della salute’, un fattore attivo del processo di guarigione. Mi impegno a cercare di progettare degli edifici strettamente legati alla natura, accessibili e fruibili dalla comunità intera intesa in senso lato, così come sono accessibili e fruibili dagli enti economici che li hanno finanziati. La mia formula architettonica del ‘Verde sopra il Grigio’ o del ‘morbido sopra il duro’ rappresenta un modo molto semplice ma incisivo di creare edifici che non estranino i cittadini dal regno vegetale ma al contrario creino un’architettura inestricabilmente intessuta nel verde, nella natura. Tratto da Emilio Ambasz; Ambasz intervista Emilio; in ‘House Living and Business’; giugno 2010. Disponibile sul sito http://www.immobilia-re.eu/mi-domando-ambasz-intervista-emilio/ James Wines Ventidue domande a James Wines president of SITE CLEAN, 1999 Se nel suo testo De-Architetture James Wines presenta una prospettiva di ripensamento di alcune premesse dall’architettura, partendo dalla descrizione della crisi di comunicazione che per l’architetto è propria di molta architettura contemporanea e auspicando il ritorno all’integrazione del costruito al contesto a cui appartiene attraverso «architetture sensibili» ai cambiamenti sociali e ambientali, nell’intervista rilasciata a Fulvia Angrisano egli rilegge le sue posizioni focalizzando l’attenzione sui temi introdotti dal movimento ecologico. Citando numerosi scrittori di saggi sull’ambientalismo come Rachel Carson e Arne Naess, Wines descrive la natura come «unica fonte di simbolismo totalmente universale nell’arte» e gli edifici come «sistemi integrati» capaci di fondersi con il contesto; con la topografia, la vegetazione, la «terra». «Estensioni estetiche» di iniziative ambientaliste ed elementi iconografici portatori dei più importanti ed universali messaggi dei loro tempi. Per l’architetto gli elementi dell’ambiente naturale, così come le nuove tecnologie ambientali, diventano parte integrante dell’architettura con l’obiettivo di tradurre i messaggi lanciati dall’ecologia in linguaggio estetico. Credere, Obbedire, Combattere: tre ideali per l’architettura? Credere in cosa? Obbedire a che cosa? Combattere con chi, con che cosa? Per rispondere alla prima domanda la mia prima risposta è essa stessa una domanda. Se gli architetti dell’era della macchina potessero forgiare nuovi convincenti paradigmi per costruire al di là dei piuttosto limitati meccanismi di produzione industriale, ci si deve chiedere quali incredibili visioni di habitat emergeranno, in risposta all’idea ispirata invece dalla natura. Credere in qualcosa consiste ora nel supportare il concetto di una architettura veramente ambientale – che non solo rispetti l’ecologia e preservi le risorse, ma anche un’architettura che traduca questi preziosi obiettivi in un linguaggio estetico. Troppo spesso il problema della cosiddetta ‘architettura del verde’ è il conflitto tra l’avere un forte senso della missione e un ammirevole uso della tecnologia conservativa, contro una posizione morale eccessiva e un fallimento nel convertire in arte i suoi nobili obiettivi. Senza l’arte, l’intera idea di ‘sostenibilità’ fallisce; perché mai la gente vorrà tenersi un edificio noioso nei paraggi, non importa quanto esso sia ben rifornito di vetri a taglio termico, di celle fotovoltaiche e di materiali a emissione zero. Considerando la premessa su fatta, sono convinto che l’architetto dell’era dell’Informazione della Ecologia debba obbedire alla natura e a quei parametri di sensibilità che rendono la sua funzione altrettanto bene. Riguardo ciò, gli edifici possono diventare estensioni estetiche, sia di iniziative ambientaliste sia di flussi di comunicazione rappresentati dalla tecnologia dei computers e dai mass-media. L’architettura oggi può essere vista come il prodotto di ‘sistemi integrati’. Proprio come la forma e la funzione delle industrie, dei ponti, delle turbine, dei motori a combustione e degli aeroplani divennero la fonte di idee per i progettisti degli anni ’20, così l’energia idrologica, geologica, vegetale, topografica, dei sistemi digitali e delle comunicazioni può influenzare la forma degli edifici nell’anno 2000. Combattere in architettura significa ora ingaggiare una guerra filosofica ed estetica contro l’irresponsabilità a livello ambientale, stilisticamente derivata e contro un agglomerato di progetti che ancora dominano il sistema architettonico, formalmente obsoleti. Verso quali direzioni punta l’architettura oggi? All’inizio di questo secolo le fonti di ispirazione nell’arte del costruire erano consequenziali all’era dell’Industria e della Tecnologia. Ora ci troviamo nell’era dell’Informazione e della Ecologia. Lo spirito e le motivazioni dei nostri tempi sono cambiate; ma il linguaggio figurativo e la direzione nell’architettura sono rimaste sostanzialmente le stesse. L’estetica dell’era della Macchina ancora prevale e le influenze stilistiche del Modernismo e del Costruttivismo (chiaramente le nostre versioni attuali di Beaux Arts) ancora dominano la professione dell’architettura. Da un punto di vista creativo ciò risulta molto problematico, poiché limita le fonti d’ispirazione. In maniera più approfondita, la devastazione ambientale risultante da una ossessione tecnologica a cui Credere corrisponde una inosservanza delle leggi ecologiche, è diventata il cancro della terra e un pericolo per la sopravvivenza umana. La costruzione della dimora umana consuma 1/6 del rifornimento d’acqua, ¼ del raccolto di legname e 2/5 del combustibile fossile e dei materiali manufatti. Perciò l’architettura è diventata una dei target primari di riforma ecologica. Mentre Le Corbusier, nel 1929 salutava il potere ispirazionale della macchina come «…un flusso che rotola attraverso la sua predestinata fine, approviggionandoci con nuovi strumenti adatti a questa nuova epoca, animata da un nuovo spirito…», la realtà oggi è che la terra è ora la nuova macchina e la più grande fonte di idee per una architettura rivoluzionaria. Quali autori hanno contribuito alla Sua formazione, tra gli antichi, tra i moderni, tra i contemporanei? […] sono stato influenzato da numerosi scrittori di saggi sull’ambientalismo, come Theodore Roszak (psicologo ambientalista), Lewis Munford, Rachel Carson, Frank Lloyd Wright, Carl Jung, e Arne Naess (leader del movimento della Deep Ecology) […] Ma la sua architettura a chi o a che cosa si avvicina di più? La mia architettura, sin dall’inizio, è stata sempre molto più collegata all’arte visiva e all’ambiente, che alla forma e alla struttura tradizionale del Modernismo e del Costruttivismo. Originariamente, le mie intenzioni erano focalizzate su commenti sociali, psicologici e contestuali (per esempio durante il periodo degli edifici della Best Products). Attualmente i miei lavori sono connessi con la fusione degli edifici, con la topografia, con la vegetazione, la scienza della terra e, come sempre, con alcuni aspetti della pittura e della scultura. […] L’arte che mi ha ispirato, tratta commenti sul contesto culturale, comunicazione di valori che in qualche modo sembrano incarnare un’intera epoca, che ha molteplici e stratificati livelli di significato e in alcun modo pura. In altre parole preferisco il lavoro che diventa ibrido dell’arte, spettacolo, letteratura, architettura, paesaggio etc. In architettura preferisco i lavori in cui diventa difficile distinguere dove inizia l’edificio e dove il contesto si ferma. […] Nel codice linguistico di un architetto che parte ha l’espressione individuale e quanto è influenza del contesto, delle mode, delle correnti? Siamo alla fine (per fortuna) di un periodo storico di esagerata ampollosità scultorea e irresponsabilità ambientale in architettura. L’intera premessa, oggi di progetto high-end è basato su principi egocentrici in opposizione agli eco-centrici. La dimensione attuale della conquista architettonica sembra essere fondata sull’uso della progettazione attraverso il computer, per creare versioni esagerate delle strategie formali di Costruttivismo, appropriandosi secondo me in modo spropositato di quelle idee che non potevano essere realizzate dai pionieri originari, poiché essi non possedevano nel 1920 i vantaggi dei computers e della costruzione tecnologica. Comunque ciò dipende da cosa si intende per espressione individuale. A mio avviso ciò significa originalità, coraggio delle proprie convinzioni, esplorazione dei nuovi territori, la volontà di sacrificarsi per quello in cui si crede e per quanto riguarda l’architettura nel creare lavori che sono sia rivoluzionari alla vista, sia ‘ambientalmente responsabili’. Ciò rimanda alla mia originaria premessa di base. Sento profondamente che la chiave per l’invenzione dell’architettura nel futuro sta nella fusione di una sensibile consapevolezza terrena, di una progressiva tecnologia ambientale e di una invenzione estetica che non è schiavizzata dai principi progettuali dell’età della macchina. Voglio dire che le influenze culturali, mentre da una parte possono essere importanti, d’altra parte non dovrebbero dominare la produzione artistica semplicemente perché sono di moda. Per costruire un edificio sculturalmente dinamico che fa titoli e che abbellisce tutte le copertine delle riviste, ma che non è, allo stesso tempo, una parte preponderante della rivoluzione ecologica, rende all’istante questa struttura irresponsabile e irrilevante. Secondo Lei cosa deve dire un’opera di architettura all’osservatore casuale? Pensa che il messaggio che egli coglie dovrebbe essere lo stesso dell’osservatore competente? Chiaramente i messaggi del costruito variano con il tempo, con il contesto culturale, con il livello educativo del pubblico e di molti altri fattori che determinano il livello di gradimento. In generale credo che lo spettatore profano presta poca attenzione agli edifici, poiché (non certamente dall’avvento del modernismo) i messaggi trasmessi non fanno parte di una iconografia universale. Una cattedrale gotica parlava alla gente attraverso un unanime linguaggio religioso. Una struttura contemporanea, che si basi su celebrare funzione, efficienza, e i rapporti esoterici del progetto formale, non può ricevere un ampio consenso di pubblico. Intanto, la gente del mondo moderno ha fatto troppa esperienza di funzioni e di un ordine (da grandi interessi sociali); ciò ha portato ad una ribellione contro questi valori espressi negli edifici. Allo stesso tempo gli interessi degli architetti, in termini di qualità di forma, sono così pieni di pregiudizi che l’intera progettazione mondiale è bloccata dal suo stesso punto di vista ermetico interprofessionale. Esprimendo questa critica non sto difendendo un banale e popolarizzato marchio di architettura (Disney fa tuto ciò molto bene), ma sto facendo rilevare che gli edifici possono essere fortemente iconografici ed essere portatori dei più importanti ed universali messaggi dei loro tempi, senza però sacrificare la qualità artistica. Certamente la causa ambientale è uno dei messaggi più significativi e più profondamente condivisi del nostro tempo e gli edifici – come punto chiave dell’arte pubblica – hanno un’unica opportunità, cioè di essere simboli del movimento ecologico. Ciò suggerisce una nuova ricchezza di immaginario che rende gli elementi dell’ambiente naturale una parte dell’architettura, proprio come la muratura, l’acciaio, il calcestruzzo e il vetro. «…La natura: qualcosa da sottomettere e imbrigliare nella tradizionale visione occidentale; qualcosa con cui vivere in armonia secondo la filosofia e la cultura orientale…». Dove deve cominciare e dove deve finire l’artificio dell’uomo? Per rispondere a questa domanda ho utilizzato l’intera intervista. La situazione ambientale si riduce a se si possa tendere ad una inversione definitiva del concetto folle di ‘conquistare la natura’ o se invece la razza umana è destinata all’estinzione a causa della sua stessa stupidità ambientale. Virtualmente, ogni cultura storica che abbia dato prova di un attento equilibrio tra il costruire un habitat, conservare l’agricoltura e rispettare la natura, è stata facilmente sostenibile. E’ stato solo durante il periodo industriale che molte delle società fragili e non aggressive (generalmente gli Aborigeni e le culture degli Indiani nativi) furono distrutte per imporre la pazza ‘conquista della natura’, di cui tutta l’umanità è stata minacciata. Sono state scritte numerose sceneggiature per aiutare a prevenire un qualsiasi inevitabile giorno del giudizio, per esempio costringendo le industrie a dichiarare i loro profitti solo in relazione all’impatto ambientale e poi tassandoli conformemente al loro consumo di risorse e al loro livello di inquinamento. Da un punto di vista filosofico, l’illusione del conquistare la natura deve essere universalmente rifiutata. Dovrebbe invece essere rimpiazzata da una ‘strada realmente ecologica’ e da un monitoraggio internazionale delle condizioni della terra e dell’atmosfera, al fine di incoraggiare una massiccia inversione di tutte quelle linee di condotta politicamente ed economicamente distruttive che minacciano l’interesse collettivo della sopravvivenza. Quali regole dovrebbe allora avere oggi l’architettura? Le regole dell’architettura ora dovrebbero essere definite da una risposta intelligente all’ambiente naturale. Se i sistemi di regole deriveranno da questo impegno, ho la sensazione che ssi saranno motivati da un nuovo senso di consapevolezza della scienza terrestre e del futuro benessere dell’umanità. Le interpretazioni artisiche saranno infinitamente flessibili – certamente non gravate da codici primari di questo secolo. […] In quali lavori si sente maggiormente rappresentato? Sento che il ‘Museum of Islamic Art’ nel Quatar è tra i miei lavori migliori, perché fonde con successo l’architettura, il paesaggio, la topografia regionale, la tecnologia ambientale e le mostre orientate al cyberspazio e al multimediale. E’ un gran buon esempio della mia concezione di ‘pensiero ambientale’ in architettura, di nozione di edifici e di contesto come prodotto di ‘sistemi integrati’ (tratto dalla struttura ecologica della natura). Come vede il futuro dell’architettura relazionata allo sviluppo di una filosofia basata sull’ambiente? Come conclusione a questa intervista, e come risposta a quest’ultima domanda mi piacerebbe includere un passaggio dall’ultimo paragrafo del mio prossimo libro, dal titolo ‘L’Arte dell’architettura nell’era dell’Ecologia’. Penso sia appropriato al contesto della nostra discussione, poiché riassume i miei sentimenti sul futuro dell’architettura. «La natura è primitiva, metaforica e infinitamente ambigua. E’ ricca nelle associazioni e l’unica fonte di simbolismo totalmente universale nell’arte. E’ una fonte rigenerativa di contenuto che elimina le ridondanze e costantemente rivela nuove informazioni. Attraverso al sua infinita complessità, la natura è dotata di una forza istruttiva e ispirazionale che può avanzare il linguaggio dell’architettura e confermare l’inalienabile diritto dell’umanità per cercare di salvare un posto su questo pianeta prima che sia troppo tardi. La missione ora nell’arte dell’edificare, come in tutti gli sforzi umani, consiste nel recuperare questi fragili fili di connessione con la terra che sono stati persi da molti secoli a questa parte. La chiave di una architettura sensibile all’ambiente per il prossimo millennio, significa la creazione di ponti che uniscono la conservazione tecnologica, l’ecologia basata su idee filosofiche, e la loro incarnazione nella visione di un nuovo linguaggio». Tratto da James Wines, Fulvia Angrisano (a cura di); Ventidue domande a James Wines president of SITE; CLEAN; Napoli 1999 Ugo Sasso Quarantasette domande a Ugo Sasso. Speciale Bioarchitettura CLEAN, 2003 Attraverso le domande di Giovanni Galanti, Ugo Sasso fornisce la sua definizione di ‘bioarchitettura’. Per l’architetto italiano essa non è né puro strumento tecnico per tentare di affrontare la crisi ambientale, né metodologia codificata, né una filosofia nell’accezione comune, ma è «visione» e «previsione», guidata da una grande tensione umanistica che colloca l’uomo nel suo ambiente vitale. E’ cioè architettura mirata ad integrare le attività dell’uomo alle preesistenze ambientali ed ai fenomeni naturali per migliorarne la qualità della vita. Secondo un punto di vista per il quale il termine dialettico di riferimento non è più «uomo/natura», ma «naturale/culturale» e compito del nostro tempo è la conquista della consapevolezza che il nocciolo della questione ambientale non sta nel proteggere il verde, «nei materiali, nelle singole scelte o nella tecnologia quanto piuttosto nel recupero di prospettive, significati, orizzonti». Perché il piano ambientale assume significato solo se messo in relazione con quello sociale e culturale e la qualità ecologica è imprescindibilmente connessa alla qualità sociale del vivere di una persona, facendosi così prima di tutto sociale, economica e politica. Tra natura e artificio Ci pare di intendere che a suo parere il progetto contemporaneo dominante non sarebbe in grado di interpretare la via del fare ecologico e del rispetto di quelle esigenze, da lei ritenute fondamentali e indispensabili, per la creazione di una prospettiva di un mondo migliore. Dobbiamo sicuramente migliorare la qualità del costruire ma al contempo chiederci perché e per chi costruiamo. […] Per un verso o per l’altro, nonostante le spettacolari foto che riempiono le riviste specializzate, l’edilizia ed il design degli ultimi decenni non rispondono più all’idea di casa che custodiamo sepolta nella memoria: gli edifici, i quartieri i mobili moderni ci appaiono mal costruiti, con materiali impropri e spesso scadenti, denunciano una mancanza complessiva di qualità in cui l’aspetto estetico non è altro che una delle molteplici angolazioni insoddisfacenti. Da una parte, attraverso i processi di industrializzazione, abbiamo perso riferimenti a regole stratificate durante i millenni, legate alla creatività ed alla sapienza collettiva, che erano state presupposto per lo sviluppo della cultura materiale nata con la civiltà contadina. Dall’altra parte ci si rende sempre meglio conto che nella trasformazione dei processi produttivi – seguita alla diffusione di nuovi materiali e nuove tecniche costruttive – non ha trovato spazio una simultanea evoluzione delle regole del costruire; né è stato ancora rinvenuto un nuovo equilibrio tra invenzione, creatività, esperienza e cultura diffusa. Così gli aspetti teorici, scissi dagli ambiti empirici del procedere progettuale, hanno prodotto stili – negati uno dopo l’altro – in cui gli elementi architettonici ed i particolari decorativi risultavano applicati più per simboleggiare l’aggiornamento che per un rapporto logico con la tecnica, la forma, lo spazio, il contesto. Si badi bene: non sto proponendo un più stretto legame tra forma e funzione, che anzi ritengo uno degli stratagemmi attraverso cui è dilagata la speculazione; sto dicendo che siamo in una situazione totalmente diversa dal passato lontano e recente. Fino a ieri il processo costruttivo era integrato con la realtà, oggi è avulso da essa né ci è dato riconquistare tale perduta innocenza. L’unica possibilità è conquistare nuovi parametri culturali. E questo passa attraverso una più chiara consapevolezza circa gli obiettivi del nostro agire. Anche se l’architettura pare oggi assumere come unico riferimento dialettico i valori e l’estetica della modernità, non si può disconoscere al progetto contemporaneo di essere erede delle speranze di una nuova, più razionale, più giusta organizzazione della società […] Lei tuttavia sembra indicare la necessità di intraprendere un’altra strada ancora, di porsi altri obiettivi, di inventare un altro modo di agire: insomma, qual è secondo lei il senso del progetto? Si, c’è l’urgenza di reinventare l’architettura. Ogni agire assume in sé concetti di spazio e tempo: la non possibilità di recuperare quello che avrebbe potuto essere, il non poter rimpiangere le occasioni perse, l’obbligo di ricominciare l’avventura dell’esistenza tramite il progetto. Questo vale soprattutto per gli uomini che chiamiamo progettisti, deputati ad ideare luoghi, pensare case, disegnare percorsi. Ad essi è affidato il compito sociale di programmare i limiti di spazio, il futuro delle percezioni, gli sviluppi della città, la definizione dell’ambiente (il quale non può che essere il ‘nostro’ ambiente) ordinato sempre secondo un ‘qui’ più vicino, a cui appartiene il mondo di ciò che possiamo vedere, toccare, amare, ed un ‘là’ più lontano in cui si muove in maniera più o meno indistinta, l’altro. Ma l’ambiente, così inteso, possiede anche uno spessore proprio: la terra, il mare, la luce, lo spazio contengono e avvolgono senza poter a loro volta essere contenuti o posseduti. E’ possibile navigare il mare, usare il vento e l’acqua, ritagliare il suolo ma, non avendo essi una forma che li contenga compiutamente, non riusciamo a trasformarli in cose. Possiamo allora soltanto ipotizzare di aver vinto gli elementi confinandoli in un ‘domicilio’ che conferisca loro una sorta di extraterritorialità. Ecco: dobbiamo capire che gli atti da noi compiuti (coltivare i campi, tagliare gli alberi, pescare nel mare, segnare i confini di un lotto, edificare un volume) si riferiscono ‘solamente’ ad un domicilio. Dobbiamo anche capire che quando ci confrontiamo con le specificità di un luogo su cui interveniamo, con le urgenze, ogni percepita necessità di modificazioni – di dare cioè nuova definizione allo spazio – inevitabilmente si rifà delle idee che ci guidano, alla comprensione delle azioni e dei comportamenti di ciò che ci circonda, alla nostra lettura del mondo. Detto in altre parole, al futuro che scegliamo ogniqualvolta tracciamo una linea di progetto. Chiedo allora: quale futuro scegliamo? Scusi se insito, ma anche il progetto moderno ha vissuto una forte tensione al futuro, fondata su criteri oggettivi e sull’ipotesi di un perfetto controllo dell’ambiente in cui viviamo. E’ probabile che tale atteggiamento mostri oggi smagliature e inadeguatezze. Ma è proprio sicuro che sia indispensabile superare il sistema da cui è sorto per portare il progetto a conciliarsi con l’uomo e con la natura? Del resto non è semplice e chiara neppure la distinzione tra naturale e artificiale. Ritengo che abbia centrato uno dei lati del problema. La scienza copia la natura, vi si adegua oppure le impone le leggi ad essa estranee? E cos’è la natura, qualcosa che sta dentro o fuori di noi? Sicuramente definiamo naturale ciò che è rimasto estraneo all’intervento umano, come le foreste dell’Amazzonia o i fenomeni meteorologici; eppure, a riflettere, leggiamo come ‘naturale’ anche lo sbocciare sul balcone di un fiore selezionato nel tempo con abili artifizi. Per altri versi, non esiste probabilmente nulla, dai ghiacci dell’Antartide alla profondità degli Oceani, che sia rimasto totalmente e semplicemente estraneo agli effetti dell’azione umana. Detto in altre parole, appare incongruente distinguere l’uomo da tutto ciò che lo circonda, negando la ricca continuità che lega il nostro vivere al mondo (se la nostra più profonda essenza non fosse naturale, potremmo davvero – ed impunemente – superare il bisogno di ogni contatto con il mondo esterno). Tuttavia, dall’altro lato, pare difficile anche guardare l’uomo come essere integrato nei processi (se così fosse, se tutto ciò che facciamo fosse ‘naturale per definizione’, non sarebbe possibile una nostra uscita dai binari dell’equilibrio). Purtroppo o per fortuna, così non è. In effetti l’uomo, pur facendo parte del mondo, se ne distacca e lo guarda utilizzando una griglia di comportamenti e di interpretazioni sociali, politiche, religiose, etiche, artistiche. Nella lunga storia della Terra, il fattore uomo appare come del tutto nuovo in quanto capace di inventare, innovare e cambiare per rendere a sé più vantaggioso il rapporto con l’ambiente. Capacità che ci distinguono dall’intorno fornendoci il privilegio di intervenire su di esso, sulla materia (vedi la chimica) e perfino sulla stessa evoluzione biologica (vedi gli organismi geneticamente modificati). Si tratta di acquisizioni che le generazioni ed i gruppi si trasmettono dando luogo a quel fenomeno antropologico definito cultura. Per cui il termine dialettico, la tragica contrapposizione di cui siamo spettatori e attori, non è tanto Uomo/Natura, bensì tra ciò che è naturale (cioè segue leggi intrinseche) e ciò che è culturale (quindi frutto di elaborazioni e scelte umane). Solo che oggi la cultura pare come assorbita, risucchiata nella tecnica. Dunque ci stiamo sempre più allontanando dai processi naturali e dalle autentiche esigenze antropologiche e questo è pericoloso? Detto in altre parole, che i processi non sono, come sintetizza la nostra ottica ‘culturale’, sempre lineari e reversibili? Ascolti: si prende un seme, si sotterra, si aspetta e spunta una piantina. Oppure si prende farina, burro, uova, si mescola, si cuoce e si ottiene biscotti. In entrambi i casi qualcosa di totalmente diverso dagli ingredienti di partenza. Né tali processi appaiono reversibili: è impossibile smontare il risultato o comunque tornare indietro, dalla pianta al seme o dal biscotto alle uova. Abbiamo in effetti partecipato a generare un unicum, una struttura integrata, un organismo. Sono queste le esperienze concrete che per migliaia di anni hanno accompagnato l’uomo e ne hanno disegnato la coscienza, determinato le domande sul proprio ruolo nel mondo: la nascita e la morte, il bene ed il male. Poi Cartesio e Galileo, con la riduzione del conoscibile a questioni di quantità e di metodo, hanno rivoluzionato scienza e cono-scienza spostandole su dimensioni spaziali e temporali esterne all’esperienza quotidiana e quindi dai connotati sempre più ‘contro-intuitivi’. Per cui la ‘speranza tecnologica’ che permea la cultura del progetto moderno, si sarebbe dispersa negli imperativi imposti dalla tecnologia alla cultura, e quindi all’etica e alla capacità di prefigurare il futuro da parte delle comunità umane? Giustissimo. Ecco evidenziato un ulteriore polo dialettico: Scienza e Tecnologia, tanto da non riuscire oggi a concepire una ricerca scientifica senza la sua finalizzazione applicativa. E’ questo un fatto del tutto moderno, mentre in passato (pensiamo all’idraulica dei Romani, all’agopuntura dei Cinesi, agli usi botanici dei popoli primitivi) la tecnica si fondava sull’osservazione empirica, sulla lettura dell’esperienza, senza bisogno di rispondere e inquadrarsi in costruzioni teoriche. Erano i tempi in cui la scienza era finalizzata alla comprensione del mondo e non – come nella modernità – a carpirne segreti da sfruttare. Difficile dire come andrà a finire. Al nostro tempo tocca la conquista della consapevolezza (è tanto? E’ poco?) che il nocciolo del problema non sta nel proteggere il verde, nell’organizzare il traffico o nell’usare il sughero al posto della lana di roccia; cioè che la possibilità di stabilire un nuovo equilibrio non sta nei materiali, nelle singole scelte o nella tecnologia quanto piuttosto nel recupero di prospettive, significati orizzonti. Oltre all’accennato recupero dei valori essenziali della cultura materiale, quali possono essere i fondamenti di quella architettura capace di mostrare la svolta da lei auspicata nel rapporto tra comunità e ambiente? Vi sono tentativi riusciti in tale direzione e dove si possono vedere gli edifici, sotto il suo punto di vista, ecologici? Va detto: non accettare da subito le due grandi categorie di bio-compatibilità ed eco-sostenibilità che tengono in piedi l’idea ecologica, è irresponsabile. Non possiamo più permetterci di produrre ambienti che attentano alla nostra salute invece che difenderci, così come non ci è consentito continuare a utilizzare male le risorse disponibili. Tengo però a ribadire come l’essenza della qualità ecologica spaziale, prima che urbanistica ed architettonica, sia sociale, economica, politica. In questo senso esperimenti, ipotesi, suggerimenti che qua e là sorgono a dimostrare la strenua volontà di superare il malessere dell’impotenza, il rifiuto di una condizione edilizia priva di ogni anelito, per certi versi sono e rimangono – ahimè – ancora poca cosa: il villaggio sperduto risanato da gruppetti di disadattati, la casa che pateticamente ‘gira con il sole’, la villetta del medico condotto, la scuola costruita secondo i disegni degli scolari, il condominio ‘fiore al’occhiello’ dell’Amministrazione che spera di far dimenticare come abbia perso mille altre vere opportunità. La casa ecologica, in un rimando continuo che non può essere elusione delle proprie quotidiane responsabilità ma atto di consapevolezza programmatica, sta nel quartiere ecologico e questo nella città ecologica che a sua volta è inserita in un territorio che sotto il profilo ecologico e sociale è riuscito a trovare un proprio equilibrio. Molto più utili e urgenti delle stranezze professate dai taluni bio-eco-architetti, appaiono gli esperimenti di concertazione e partecipazione tentati all’interno dei Contratti di quartiere; la convinzione espressa da qualche Ufficio Urbanistica che il Piano Regolatore possa davvero essere, più che uno spaventapasseri antiabuso, uno strumento capace di innescare processi di riqualificazione orientando le stesse dinamiche di mercato; oppure in alcune borgate esempi di partecipazione di base coagulata intorno all’utilizzo di oneri di urbanizzazione derivati dal condono edilizio; o ancora la riqualificazione di interi pezzi urbani secondo un’ottica percettiva complessiva, come sta insegando lo sguardo acuto di alcuni investitori privati. Insieme e sopra a questo, la percezione che sta lentamente maturando, di quanto preziosa sia per tutti e di come vada strenuamente difesa la sopravvivenza di quelle città (o almeno di quegli ambiti urbani) vivibili, in cui il tessuto di rapporti, di relazioni, di economie, di strade e di memorie è riuscito quasi miracolosamente a sopravvivere. Tratto da Ugo Sasso, Giovanni Galanti (a cura di); Quaratasette domande a Ugo Sasso; CLEAN; Napoli 2003 Sim Van der Ryn Design for life 2005 Nominato ‘Architetto di Stato’ della California, negli anni settanta Sim Van der Ryn introduce i primi progetti di edifici governativi efficienti dal punto di vista energetico, aprendo la strada alla definizione di progetti sensibili alla questione ambientale. Se però nei primi decenni della sua carriera la sua visione si traduce nell’adozione di severi standard energetici e di accessibilità, l’architetto americano sposta progressivamente la sua attenzione dalla definizione di ambienti più efficienti - sensibili al clima e al luogo - verso quella di ambienti che rispondano anche ai bisogni umani più profondi, in grado di essere di sostegno sia ai sistemi ecologici che alla qualità della vita. In testi più recenti, come Design for life, egli parla degli edifici come di «organismi integrati» capaci di mostrare la connessione fra i flussi e i cicli di vita della natura e l’ambiente costruito. Per Van der Ryn, l’obiettivo che oggi deve essere perseguito in modo comune è il cambiamento della visione dominante del mondo dal «mecccanico e preciso universo della macchina, all’ordine a rete intricato ed interconnesso che sottostà al mondo vivente a tutte le sue scale». Dov’è finita la bellezza? Fin dalla nostra comparsa come specie, gli uomini hanno costruito luoghi e spazi. Li abbiamo progettati in tutti gli ultimi tremila anni. Tutta questa pratica ci ha resi migliori nel produrre più cose materiali e nel produrle più velocemente e in modo meno costoso. I nostri progressi nel campo della scienza e della tecnologia hanno fornito la conoscenza e gli strumenti che ci hanno permesso di modellare in modo incredibile il mondo materiale. Ma abbiamo perso la nostra capacità di creare luoghi belli, confortevoli e duraturi adatti sia al mondo naturale che alla natura umana. L’architettura esprime volumi propri della cultura da cui nasce. E’ la manifestazione fisica di valori, idee, speranze e sogni. L’architettura è l’habitat umano, l’ambiente creato dall’uomo, la pelle che ci separa dal mondo naturale. E’ anche una serie di muri – fisici e materiali – che divide in comparti la nostra percezione del mondo. Non dovrebbe esserlo. In alcuni momenti durante l’ultimo secolo, l’architettura ha perso la sua anima. La cultura moderna ha sviluppato la ricchezza, il potere e la tecnologia per ideare strutture che una volta sarebbero sembrate impossibili. Mentre i grattacieli più grandi del naturale e le fredde strutture postmoderne del nostro tempo ispirano un senso distaccato di timore reverenziale e di meraviglia, pochi di questi hanno qualità che ci toccano veramente. Gli edifici che noi amiamo veramente sono edifici duraturi. Nelle nostre città moderne, ci sono pochi edifici amati. La bellezza e l’anima erano necessari per i lavori delle culture e dei tempi antichi. Oggi a Baly gli abitanti dicono ancora: «Non abbiamo arte, facciamo solo tutto bene». Quando è stata l’ultima volta in cui ti sei emozionato per via di un edificio, o in cui non volevi lasciare un luogo perché ti aveva toccato ad un livello profondo? Quando è stata l’ultima volta in cui sei rabbrividito – entusiasta – di fronte ad un luogo costruito dall’uomo per la sua capacità di smuovere qualcosa di profondo in te? Viaggiamo intorno al mondo per conoscere i grandi lavori d’architettura e le città del passato, ma l’architettura in cui trascorriamo la maggior parte delle nostre vite ci lascia vuoti. I nostri edifici, i nostri sobborghi e la maggior parte delle nostre città sono freddi, senza vita e lontane dalla gente. Sono insipide. Ispirare significa respirare la vita al loro interno. Come possiamo costruire gli edifici che fanno parte della vita quotidiana in modo che questi si adattino alle esigenze umane più profonde? Possiamo progettare ambienti che ispirino e nutrano le nostre anime, portando l’architettura ad una più profonda connessione con il nostro intimo. Come possiamo riconnettere gli edifici e le città ai cicli ed ai flussi del mondo naturale che sono la base della vita sulla terra? L’industria che si occupa della costruzione degli edifici e dei sistemi che li supportano – energia, acqua, rifiuti, strade – è la più grande industria degli Stati Uniti e del mondo industrializzato. E’ la più grande utilizzatrice di energia, materiali e suolo ed è il soggetto inquinatore più significativo di aria, acqua e suolo. Noi stiamo ancora progettando come se le risorse fossero illimitate senza considerare i rifiuti e l’inquinamento causato dal costruire gli edifici e le infrastrutture necessarie per supportarli. Chiunque non sia completamente inconsapevole e non assuma una posizione di negazione sa che gli umani stanno rapidamente cambiando il nostro pianeta e il nostro ambiente secondo modalità pericolose. La nostra cavalcata libera sulle spalle della natura è finita. I nostri figli, i nostri nipoti e le future generazioni fronteggiano sfide sconfortanti. La storia umana si trova ad un punto di svolta critico. Le nostre capacità di astrarre un pensiero e prove simboliche, di costruire idee e piani così come oggetti materiali e strumenti e la nostra abilità di tradurre idee progettuali in realtà ci hanno fatti evolvere all’interno di mondi e realtà senza precedenti. Fino in tempi recenti, il mondo naturale ed i suoi processi erano incontrollabili e forzavano le culture ad adattarsi per sopravvivere. Adesso la tecnologia è diventata la forza incontrollabile che influisce sui sistemi e sui processi che supportano la vita del pianeta come il clima, l’atmosfera, la diversità biologica e sull’integrità dei processi biochimici della stessa come la produzione di ossigeno, l’isolamento del carbonio, la depurazione dell’acqua e la creazione del suolo. La tecnologia sta rapidamente cambiando le condizioni di supporto della vita umana, la cultura umana e la natura dell’idea di cosa significhi essere umani. Oggi nessun luogo, nessuna ecologia sulla terra – né materiale né remota – è indifferente alle conseguenze delle attività umane. La maggior parte delle cose che facciamo hanno conseguenze chimiche, fisiche e biologiche involontari e imprevedibili. Più per caso che in modo progettato, la civilizzazione umana controlla le condizioni di vita dell’intera biosfera. Cinquant’anni fa la biologa Rachel Carson rese consapevole il mondo della legge delle conseguenze involontarie grazie alla pubblicazione del testo ‘Silent Spring’ all’interno del quale collegava la diminuzione della quantità di uccelli e del loro canto al diffuso utilizzo del biocida DDT, che produce cambiamenti genetici che riducono la riproduzione degli uccelli. La storia è diventata tristemente familiare perché ogni giorno nuove tracce connettono il danneggiamento ambientale alle attività umane, spesso attraverso una rete complessa che connette eventi molto lontani nello spazio e nel tempo. La crescente evidenza del danneggiamento ai sistemi basilari di supporto alla vita del pianeta portano a mettere in dubbio le visioni comuni di come gli uomini e la natura siano connessi. Nessuno conosce come la storia andrà a finire. L’architettura e il progetto urbano possono diventare integrati nella rete della vita, nei suoi cicli e nei suoi flussi. Louis Sullivan, il grande architetto del diciannovesimo secolo, afferma: «La forma segue la funzione». Io suggerisco: «La forma segue il flusso». Gli edifici non sono oggetti statici: sono organismi. Le città non sono insiemi di componenti meccaniche, sono ecosistemi. Attraverso il progetto ecologico i nostri edifici e le nostre città possono diventare più integrati con la natura. Come organismi, essi possono produrre la loro energia, e consumare e riciclare i loro stessi rifiuti senza inquinare. Il progetto può mostrarci la connessione fra i cicli di vita della natura e l’ambiente costruito. La scienza e la tecnologia più progredite possono essere utilizzate con lo scopo di legare attentamente la natura e la cultura per un loro mutuo beneficio. La natura non può vivere senza il mondo umano, ma gli umani non possono vivere senza natura. L’architettura può rendere evidente questa verità e permetterci di esprimerla ad un livello più profondo. Noi non diamo abbastanza importanza al costo di funzionamento e di manutenzione degli edifici progettati in modo mediocre – un costo che, nell’arco della vita media degli edifici, è quattro volte maggiore del costo iniziale. Non diamo abbastanza importanza a come progettare edifici che si possano adattare a cambiamenti funzionali, che possano accogliere nuove tecnologie ed essere disassemblati facilmente in modo tale che i loro componenti possano essere riutilizzati e riciclati. Dobbiamo iniziare a pensare a queste conseguenze. L’obiettivo degli edifici verdi e del progetto sostenibile è di ricondurre l’architettura e la pianificazione urbana alle nostre vite ed ai flussi e cicli della natura. Noi dobbiamo riconnettere gli edifici alle loro radici per quanto concerne il clima, la terra, il posto e le nostre esigenze genetiche devono essere connesse all’ambiente naturale vivente. Prendiamo il polso della nostra architettura e abbassiamo il suo metabolismo riducendo il consumo e la quantità di rifiuti osceni e irragionevoli in nome del progetto. Produciamo gli interi edifici attraverso un progetto intelligente e di buon senso che incorpori tecnologie capaci di migliorare la vita. Il nostro lavoro comune è quello di cambiare la nostra visione dominante del mondo dal meccanico e preciso universo della macchina, all’ordine a rete intricato ed interconnesso che sottostà al mondo vivente a tutte le sue scale. Tratto da Sim Van der Ryn; Design for life; Gibb Smith Publisher; 2005 Renzo Piano Giornale di bordo. Nouméa 1991. Passigli, Firenze, 1997 Il Giornale di bordo è il volume in cui Renzo Piano raccoglie genesi e realizzazione delle sue opere dal 1966 all’anno di pubblicazione del testo. Per l’architetto italiano l’architettura è un’arte di frontiera, «continuamente contaminata da mille cose» e progettare è un po’ come esplorare, è «l’avventura del pensiero»: vai, giri il mondo, scopri nuove terre, nuove culture, nuove tradizioni e, allora cerchi di capire; prendi dall’ambiente che ti circonda, dalla natura, dai suoi elementi. Attraverso la descrizione di esperienze come quella in Nuova Caledonia Piano, in particolare, si fa promotore di un atteggiamento che implica rispetto non solo per l’ambiente naturale, ma anche per la cultura che in esso si esprime. Per lui l’aspirazione dell’architettura è e deve essere universale, perché le emozioni lo sono, ma la sua definizione è locale: in rapporto al luogo, all’ambiente dove si colloca e a quella cultura. E, se è necessario lavorare in «analogia» con il contesto e i processi naturali, il rapporto che l’architetto prova ad instaurare con la natura è un «rapporto intelligente», nel quale ogni elemento da cui si attinge deve essere trasformato in qualcosa di nuovo. Generando anche un certo grado di tensione fra suolo e manufatto, fra ambiente e costruito e tra locale e universale. Un mestiere antico Quello dell’architetto è un mestiere d’avventura: un mestiere di frontiera, in bilico tra arte e scienza. Al confine tra invenzione e memoria, sospeso tra il coraggio della modernità e la prudenza della tradizione. L’architetto vive per forza in modo pericoloso. Lavora con ogni sorta di materie prime: e non intendo dire solo il calcestruzzo, il legno, il metallo. Parlo di storia e geografia, matematica e scienze naturali, antropologia ed ecologia, estetica e tecnologia, clima e società. Tutte cose con cui si misura ogni giorno. L’architetto fa il mestiere più bello del mondo. Perché, su un piccolo pianeta dove tutto è già scoperto, progettare è ancora una delle più grandi avventure possibili. Come esploratori del mondo fisico, siamo stati fregati dai nostri antenati. Colombo, Magellano, James Cook, Amundsen hanno già scoperto tutto. A noi resta l’avventura del pensiero. Che dà ansia, smarrimento, paura come una spedizione nei ghiacci. Che è soggetta agli assalti degli indiani come una diligenza nel Far West. Progettare è un’avventura: un viaggio, in un certo senso. Si parte per conoscere, per imparare. Si accetta l’imprevedibile. Se ti spaventi e cerchi subito riparo in un portone – nell’antro caldo e accogliente del già visto, del già fatto – quello non è un viaggio. E come andare a Bombay e mangiare in un ristorante italiano. Se invece hai il gusto dell’avventura, non ti nascondi, ma vai avanti. Ogni progetto è una storia che ricomincia, e tu sei in una terra inesplorata. Sei un Robinson Crusoe dei tempi moderni. […] Ma la casa non è solo protezione: a questa sua funzione fondamentale l’architetto ha sempre associato una tensione estetica, espressiva, simbolica. Nella casa, fin dai primordi, si manifesta una ricerca di bellezza, di dignità, di status. Con la casa si esprime una volontà di appartenenza o un desiderio di trasgressione. L’atto di costruire non è e non può essere solo un gesto tecnico, perché è carico di significati simbolici. Questa ambiguità è solo la prima fra molte che marchiano il mestiere di architetto. Cercare di sciogliere l’ambiguità non è l’inizio della soluzione, è l’inizio della rinuncia. Numéa. Centro Culturale J.M. Tjibaou I Kanak sono una etnia diffusa nel Pacifico, in particolare nella Nuova Caedonia. L’isola, capitale Nouméa, è territorio francese avviato verso una pacifica autonomia. Durante le trattative per l’indipendenza, le autorità locali chiesero e ottennero dal governo di Parigi il finanziamento di un grande centro culturale dedicato alla cultura Kanak. Il Centro, intitolato a Jean Marie Tjibaou, il loro leader drammaticamente scomparso nel 1989, aveva un programma molto ampio: ospitare mostre permanenti dedicate alla tradizione della comunità, ma anche eventi che la facessero rivivere. Per esempio, nella cultura Kanak è molto importante la danza. E ancora, il centro doveva fare da ponte tra tradizione e modernità, tra passato e futuro del popolo Kanak. Per realizzare questo progetto fu indetta una gara internazionale a inviti. Così cominciò la mia avventura in Nuova Caledonia. Quando diciamo ‘cultura’, intendiamo la nostra: una nobile zuppa fatta di Leonardo e Freud, Kant e Darwin, Luigi XIV e Don Chisciotte. Nel Pacifico non è solo diversa la ricetta, sono proprio diversi gli ingredienti. Alla loro zuppa possiamo accostarci con distacco, portando le posate da casa; o possiamo cercare di capire come nasce, perché si sviluppa in certe direzioni, che tipo di filosofia di vita la anima. Vinsi questa gara forse proprio per questo: perché non portai le posate da casa, portai solo la competenza mia e del Building Workshop nel creare spazi e nel costruire edifici. La mia proposta si era sforzata di nascere lì, pensando Kanak. Lavorare agli antipodi, con una popolazione splendida ma di cui quasi ignoravo l’esistenza pochi mesi prima, era davvero una bella scommessa. In più non dovevo fare un villaggio turistico, dovevo dar vita a un simbolo: il Centro culturale dedicato alla vita Kanak. Il luogo che l’avrebbe rappresentata di fronte agli stranieri, che ne avrebbe tramandato la memoria ai nipoti. Nulla avrebbe potuto essere più carico di aspettative simboliche. Lo spirito del pacifico è effimero, e le costruzioni della tradizione Kanak non fanno eccezione. Nascono all’unisono con la natura, usando i materiali deperibili che essa offre; perciò la continuità del villaggio nel tempo non è legata alla durata del singolo edificio, ma alla conservazione di una topologia e di uno schema costruttivo. Nel formulare il progetto, lavorammo su entrambi i piani. Cercammo un legame forte con il territorio che scolpisse il Centro culturale nella geografia dell’isola; rubammo alla cultura locale gli elementi dinamici, la tensione che avrebbe legato il costruito alla vita degli abitanti. Il Centro culturale Jean Marie Tjibaou sorge su un promontorio a est di Nouméa, in uno scenario naturale di grande bellezza. Espressione di una tradizione millenaria di rapporto con la natura, il Centro non è (non poteva essere) racchiuso e concluso in una sede monumentale. E infatti non è un edificio singolo: è un insieme di villaggi e spiazzi alberati, di funzioni e percorsi, di pieni e vuoti. Circondato ai tre lati dal mare, il sito è coperto da una fitta vegetazione, in mezzo alla quale si snodano i percorsi pedonali e si sviluppano i villaggi: grappoli di costruzioni fortemente legate al contesto, che con la loro presenza a semicerchio definiscono spazi collettivi aperti. In questi spazi sono esposte testimonianze della vita dei Kanak, e vengono periodicamente rievocate antiche cerimonie. Lungo il crinale del promontorio, una passeggiata coperta leggermente arcuata collega le parti del complesso. Il legame visivo tra queste e i tradizionali villaggi Kanak è molto esplicito: non solo per la disposizione, ma anche per la forma delle costruzioni. Si tratta infatti di strutture curve simili a capanne, fatte di listelli e e centine in legno: gusci dall’apparenza arcaica, all’interno dei quali l’ambiente è dotato di tutte le opportunità offerte dalla tecnologia contemporanea. Questi dieci grandi spazi monotematici si aprono improvvisamente sulla strada interna del Centro offrendo un drammatico passaggio: da uno spazio compresso a uno spazio espanso e inatteso. Le doghe del rivestimento esterno sono di larghezze differenti e spaziate in modo disuguale: l’effetto ottico di leggera vibrazione così ottenuto accresce l’affinità con la vegetazione mossa dal vento. Il legno scelto è l’iroko, che richiede poca manutenzione e, nel modo in cui l’abbiamo usato, evoca le fibre vegetali intrecciate delle costruzioni locali. Una delle caratteristiche del progetto è la ricerca sulla grana dei materiali. Abbiamo infatti usato legno laminato e legno naturale, calcestruzzo e corallo, fusioni di alluminio e pannelli di vetro, corteccia d’albero e acciaio inossidabile: sempre ricercando la ricchezza e la complessità del dettaglio. Pur nella omogeneità del modello base, gli spazi ricavati possono avere un carattere molto differente. Le capanne che ospitano mostre sono rivestite di pannelli con la faccia interna bianca, quelle adibite ad aula scolastica incorporano scaffali per libri e così via. Dove la funzione della capanna lo richiede, il tetto e le superfici laterali sono trasparenti. I pannelli di vetro sono schermati da lucernari esterni. Grazie alla forte analogia formale con la vegetazione e gli insediamenti tradizionali del luogo, le capanne sono l’elemento che unifica il progetto. Sono anche l’elemento dominante: ben dieci di dimensioni diverse. Alcune piuttosto piccole, altre addirittura in scala con gli alberi ad alto fusto circostanti. La più grande si impone nel paesaggio con i suoi ventotto metri di altezza, come una casa di nove piani. Queste costruzioni esprimono la relazione armoniosa con l’ambiente che caratterizza la cultura Kanak. Il legame non è solo estetico, ma anche funzionale: sfruttando le caratteristiche del clima della Nuova Caledonia, le capanne sono state dotete di un sistema di ventilazione passiva molto efficiente. Ancora una volta è stata realizzata una doppia copertura: l’aria circola liberamente tra due strati di rivestimento in legno laminato. L’orientamento delle aperture nel guscio esterno è stato studiato per sfruttare i monsoni provenienti dal mare, o per indurre le correnti di convezione desiderate. I flussi d’aria vengono regolati mediante lucernari. In condizioni di leggera brezza, questi si aprono per favorire la ventilazione; all’aumentare del vento si chiudono, a partire da quelli più in basso. La soluzione è stata progettata con l’aiuto del computer e sperimentata nella galleria del vento grazie a modelli in scala. Questo sistema di circolazione dell’aria dà anche ‘voce’ alle capanne. Tutte insieme fanno un particolare rumore, un suono; che è quello dei villaggi Kanak o delle loro foreste, o se volete, per i naviganti, un porto di mare in una giornata di vento. […] La rappresentazione che i Kanak fanno dell’evoluzione umana si avvale di metafore tratte dal mondo naturale. La creazione è vista come un giglio d’acqua circondato da alberi fioriti. L’agricoltura è simboleggiata dalle tipiche colture terrazzate locali, dove crescono patate dolci e altre piante alimentari. Analogamente vengono descritti temi come l’ambiente, la morte e la rinascita. Accettare davvero la scommessa insita nel programma richiedeva coraggio: bisognava spogliarsi della forma mentale dell’architetto europeo e immergersi nel mondo degli uomini del Pacifico. In un salotto di antropologi sembra una cosa semplice, e quando lo dite vi fa anche fare bella figura. Provate ad esprimere lo stesso concetto con parole vostre a u banchetto Kanak, nel momento in cui nulla vi è familiare: né la lingua, né il rituale, né il cibo, né il modo di assumerlo. Il progetto per il Centro Culturale Tjibaou, sviluppato assieme a Paul Vincent, è stata la più avventata tra le mie molte invasioni di campo. La paura di cadere nel rifacimento folcloristico, nel kitsch, nel pittoresco mi ha accompagnato per tutto il lavoro come un incubo. A un certo punto ho espressamente voluto smorzare la similitudine tra le ‘mie’ capanne e quelle della tradizione locale, riducendo la lunghezza degli elementi verticali e dando ai gusci una forma più aperta: nella versione definitiva, infatti, le doghe non si incontrano più sulla sommità, come inizialmente era previsto. La galleria del vento mi ha dato ragione, mostrando che così si otteneva un migliore effetto di aerazione dinamica. Mi ha sempre sorretto una grande simpatia, una grande comprensione: gli abitanti hanno interpretato le capanne come un sincero tentativo di lavare i panni nell’Oceano Pacifico, di recare omaggio alla civiltà locale. I Kanak, convinti della bontà del progetto, mi hanno aiutato a perfezionarlo: Marie Claude Tjibaou (la vedova di Jean Marie) e Octave Tonga sono stati infaticabili compagni di lavoro. Bisogna dire che al di là delle buone intenzioni, del rifiuto di ogni forma di colonialismo, del rispetto dovuto alle altre culture, non c’erano alternative. Una proposta basata sui nostri modelli, a Nouméa semplicemente non avrebbe funzionato. Non si poteva offrire un prodotto standard di architettura occidentale, solo mimetizzandolo: avrebbe fatto l’effetto di un’auto blindata coperta di foglie di palma. Un malinteso concetto di universalità mi avrebbe portato ad applicare le mie categorie mentali di storia e progresso fuori dal contesto in cui sono nate. Sarebbe stato un grave errore. Ancora una volta: l’universalità vera in architettura si realizza solo attraverso il legame con le radici, la gratitudine per il passato, il rispetto del ‘genius loci’. Tratto da Renzo Piano; Roberto Brignolo (a cura di); Giornale di bordo; Passigli; Firenze 1997; pp. 1997 Jan Kaplinky Green Questionnaire Architectural Design, 2001 Se all’interno di testi come For inspiration only e Confessions Jan Kaplinky illustra la sua personale prospettiva professionale rispetto al futuro dell’architettura e le sue riflessioni sulla società, il progetto, la politica e la bellezza individuando nel mondo che ci circonda un’infinita fonte di ispirazione, all’interno del Green questionnaire pubblicato da ‘Architectural Design’ egli concentra la propria attenzione sull’idea di progetto sostenibile. Per l’architetto la questione centrale è l’autosufficienza energetica degli edifici secondo un punto di vista per il quale l’interesse si sposta verso la «scelta dei materiali» e le «performance» quantitative. Senza tuttavia rinunciare alla questione della forma. Kaplinky sostiene infatti che il progetto si debba muovere verso la ricerca di una forma appropriata per l’architettura verde, determinata da elementi fondamentali per la sua definizione del progetto sostenibile – come i flussi d’aria e la ventilazione – ma, più in generale, da un confronto costante con la natura pensata come modello non solo di efficienza ma anche formale. Superando la definizione di high-tech, attravrso quella di «modernismo organico». Qual è la sua definizione di progetto sostenibile? Gli aspetti principali del progetto sostenibile sono la scelta dei materiali e le performance di un edificio una volta che questo è stato costruito. Gli edifici devono essere auto-sufficienti dal punto di vista energetico – per l’80% od oltre. Adesso è persino possibile restituire energia alla rete elettrica durante le ore notturne. Tuttavia le performance a lungo termine sono molto difficili da quantificare. Non c’è ancora nessuna reale unità di misura. L’energia deve essere considerata anche durante la costruzione dell’edificio: quanto si consumerà durante la costruzione e ancora prima nella produzione dei materiali. Questo significa anche che per la prima volta la quantità e il peso dei materiali devono essere seriamente considerati. Meno materiali un edificio utilizza più questo risulta verde – meno risorse ed energia sono usate per produrlo. Quali sono le sue parole d’ordine come progettista interessato alla sostenibilità? I materiali hanno assolutamente la priorità. L’impatto che la sostenibilità sta per avere sul design, tuttavia, sarà più rivoluzionario. Al momento, le persone stanno provando a pretendere che il bisogno di produrre architettura sostenibile non avrà alcun effetto sulla forma degli edifici. E’ come quando le macchine erano appena state inventate e imitavano la forma delle carrozze trainate dai cavalli. E’ necessaria una cera quantità di tempo perché assuma la propria forma. L’architettura verde non deve tanto essere solo appropriata, ma deve trovare la propria forma. I flussi d’aria e la ventilazione, per esempio, dovranno avere un impatto importante sulla forma degli edifici. Come giudica il successo di un edificio nell’ ‘epoca verde’? Non ci sono ancora edifici veramente verdi. Gli edifici che vengono costruiti attualmente non sono ancora prototipi di un’età verde. Sono solo sforzi minori verso la sostenibilità. La legge così come è nata non determina cambiamenti importanti, specialmente nel Regno Unito e negli USA. C’è una stanza molto piccola per l’architettura verde nelle scuole di architettura. In una scuola molto conosciuta degli stati Uniti recentemente un docente americano l’ha descritta semplicemente come una moda. E’ evidente come sia necessario un modo di pensare completamente nuovo. L’automobile non esisteva prima del introduzione del motore. Gli edifici intelligenti non esistono ancora. Come usa la natura come guida? La natura può essere usata come modello su diversi livelli. Per esempio i termitai hanno due pelli con una ventilazione naturale. Nelle strutture naturali c’è una luminosità che non si trova attualmente nelle costruzioni fatte dall’uomo. Queste strutture sono molto più leggere di quelle fatte dall’uomo e in modo comparabile molto più forti. Il filo di una ragnatela, per esempio, è due volte più forte dell’acciaio. C’è così tanto da imparare dall’uso efficiente dei materiali . In generale, le forme organiche sono più efficienti di quelle umane. Tratto da Jan Kaplicky; Green questionnaire: Jan Kaplicky of Future System; in ‘Architectural Design’;v. 71; n.4; luglio 2011; pp. 34-35 Ken Yenag The Green Skyscraper Prestel, Londra 1999 Dopo essersi dedicato al tema della biodiversità come riscoperta del locale e delle sue relazioni attraverso testi come Tropical urban regionalism, Ken Yeang indirizza la sfida del progetto ecologico verso la costruzione di edifici ad alta densità, come il grattacielo. In The Green Skyscraper egli prova a costruire una cornice generale attraverso cui guardare al progetto ecologico, esaminandone le premesse generali e il modo con cui queste possono essere applicate al progetto di grandi edifici. Per l’architetto il progetto sostenibile può essere definito come un progetto ecologico che si integra senza soluzione di continuità con i sistemi ecologici della biosfera per il suo intero ciclo di vita, assumendo non tanto un atteggiamento passivo e «in ritirata» quanto un approccio attivo capace di innescare una dinamica co-evolutiva positiva di «riparo», «restaurazione» e «rinnovamento» dei sistemi naturali. A diventare centrale è l’idea di ecosistema secondo la quale i designer dovrebbero diventare consapevoli dell’interconnessione di tutti i sistemi naturali e artificiali e la «connettività» presente in natura dovrebbe essere imitata pensando ai sistemi costruiti come ecosistemi mimetici. Progetto verde o ecologico qui significa costruire con un impatto ambientale minimo e, dove possibile, costruire per ottenere l’effetto opposto; cioè creare edifici con effetti positivi, riparativi e produttivi per l’ambiente naturale, integrando nello stesso tempo la struttura costruita con tutti gli aspetti del sistemi ecologici (ecosistemi) della biosfera nel suo intero ciclo di vita. […] Per evitare confusioni fra il progetto bioclimatico e quello ecologico, dobbiamo metterne in chiaro le differenze. Generalmente, il progetto bioclimatico è un approccio che si basa sul progetto passivo a basso impatto energetico che fa uso delle energie ambientali del clima del luogo per generare condizioni di confort per gli utilizzatori dell’edifico. Inizialmente, nei nostri primi lavori sul progetto di edifici alti abbiamo usato i principi del progetto bioclimatico per produrre forme alternative al grattacielo convenzionale. Questo tipo di struttura lavora diversamente dai grattacieli convenzionali in primo luogo come una struttura passiva a basso impatto energetico. Come un’emergente forma costruita bioclimatica, essa fornisce un’alternativa fattibile al grattacielo esistente e costituisce un nuovo genere di edificio; tuttavia, deve essere chiaro che il progetto bioclimatico non rappresenta il progetto ecologico nella sua interezza, ma solo uno stadio intermedio in questa direzione. Il progetto ecologico costituisce uno sforzo molto più complesso e può essere differenziato chiaramente dagli approcci progettuali degli altri architetti. Le idee e le teorie di questo lavoro devono essere distinte dalle altre espressioni di ‘progetto ecologico’. L’enfasi qui viene posta sull’interdipendenza e interconnessione nella biosfera e nel suo ecosistema. Si asserisce che la caratteristica principale del progetto ecologico è la connessione fra tutte le attività, sia naturali che umane; questa connessione significa che nessuna parte della biosfera è inalterata dalle attività umane e che tutte le attività si influenzano a vicenda. Questa proprietà è resa esplicita ed inevitabile nella ‘Matrice teorica delle interazioni’ esposta nel capitolo 3 e nella ‘legge del progetto ecologico’. Detto semplicemente, tutti i sistemi costruiti devono avere una relazione reciproca con il loro ambiente locale e con il resto della biosfera (Behling & Behling; 1996). Questa proprietà di interconnessione è assente nella teoria e nella pratica del progetto ecologico di molti architetti. Per esempio, alcuni architetti definiscono il progetto ecologico (o ESD – Progetto ambientalmente sostenibile) come «un progetto che minimizza l’uso di energia e acqua, che produce la quantità minima di rifiuti, che massimizza i benefici sulla salute umana e promuove la biodiversità». Questa definizione è in parte corretta: tutti questi fattori contribuiscono al progetto ecologico. Ma se non vengono considerati l’interdipendenza e la connessione tra questi fattori e il sistema naturale nella biosfera, allora questo approccio è incompleto e per questo non corretto dal punto di vista ecologico, e può essere ecologicamente azzardato. Va anche aggiunto che sebbene qui vengano mostrati o discussi esempi di grattacieli e di sistemi operativi costruiti, dobbiamo allo stesso tempo aggiungere che il progetto ecologico è ancora ai suoi primi esordi, e che nessuno degli esempi tecnici mostrati può affermare di essere completamente ‘verde’, così come di essere la panacea. Che cos’è il progetto ecologico? Connettività: architettura come ecologia applicata Progettare in modo responsabile dal punto di vista ecologico richiede una visione fondamentalmente differente delle nostre relazioni e della nostra collocazione nell’ambiente naturale; richiede di partire dai limiti delle scienze attuali e dal contesto sociale, politico ed economico che implicitamente valorizzano le attività umane come dominanti su una natura essenzialmente indipendente. Il progetto ecologico richiede all’architetto di prestare attenzione e comprendere l’ambiente come sistema naturale funzionante e di riconoscere la dipendenza dell’ambiente costruito da questo. Questo senso di interdipendenza dell’ambiente costruito e dell’ambiente dato (per esempio ‘naturale’) può essere chiamata ‘connettività’. Prima di procedere con la descrizione della nostra strategia di progetto verde per edifici ad alta densità, dobbiamo non solo prima definire e capire che cosa costituisce il progetto verde, ma anche capire le sue premesse, perché può essere contro produttivo per il progettista gettarsi nel progetto verde senza capire e condividere principi basilari come la connettività. Centrale per il progetto ecologico è certamente il concetto stesso di ‘ecosistema’, che richiede una comprensione analitica dell’ambiente – e, nello specifico, del particolare sito in questione – come composto di componenti biotici e componenti abiotici che agiscono come un insieme. Questo è cruciale per il nostro approccio ecologico. Per esempio, un uso meccanico di software per analizzare la conservazione dell’energia, i flussi d’aria, i fattori acustici e la temperatura che non tiene in considerazione i componenti biologici (per esempio la flora e la fauna) o i fattori edafici del luogo può difficilmente essere definito come progetto ecologico. In modo analogo, se un approccio progettuale non prende in considerazione gli aspetti olistici dell’ambiente, non è certamente ecologico. Detto semplicemente, nel progetto ecologico, dobbiamo valutare le conseguenze delle seguenti decisioni: se costruiamo, dove costruiamo, cosa costruiamo, come costruiamo. La pratica del progetto ecologico è essenzialmente ‘ecologia applicata’ o l’applicazione pratica dell’ecologia all’intrusione umana nell’ambiente naturale (nel quale l’attività del costruire è semplicemente una delle molteplici attività umane che incidono sull’ambiente). Per questo la comprensione dei concetti sistemici basilari dell’ecologia e la loro applicazione costituisce un prerequisito del progetto ecologico. Questa è necessaria per consentire al progettista di vedere come i suoi sforzi, come interventi umani nell’ambiente (in ambito agricolo, nello sviluppo edilizio, nella costruzione delle strade, e così via), possano essere sviluppati in modo tale da integrarsi con i sistemi naturali (per esempio, con la minima distruzione dell’ecosistema, con l’uso prudente delle risorse terrestri non rinnovabili, e con le attività associate a sistemi progettati simbioticamente compatibili con i processi degli ecosistemi). Per l’approccio ecologico è cruciale raggiungere questi obiettivi. Sviluppo sostenibile La continua degradazione della biosfera dovuta al sovra-sfruttamento e all’abuso non solo diminuisce la sua capacità di produrre risorse essenziali ma anche quella di compensare questo tipo di abusi. Un prerequisito della sostenibilità è il mantenimento dell’integrità funzionale dell’ecosfera in modo tela che questa possa mantenersi elastica rispetto agli stress indotti dalle attività umane, così come biologicamente produttiva. Le risorse non rinnovabili, come risorse finite, devono essere usate e trasformate in modo tale che rimangano utilizzabili e accessibili dalle generazioni future. Vista sotto questa luce, la base del concetto di ‘progetto ecologico’ non è quella che esso rappresenti una battaglia (nemmeno una sconfitta) in ritirata, che cerca costantemente di minimizzare gli impatti sull’ambiente naturale e di ritardare la degradazione. Piuttosto, il progetto ecologico può essere visto come produttivo e benefico dal punto di vista ambientale, come un contributo positivo all’ambiente naturale. In aggiunta, il progetto ecologico potrebbe essere un’azione positiva di riparo, restaurazione e rinnovamento dei sistemi naturali dell’ambiente. Io sostengo che l’architettura verde come architettura sostenibile sia il progettare con la natura in modo responsabile dal punto di vista ambientale, così come secondo un contributo positivo. Raggiungere attraverso il progetto questi due obiettivi simultaneamente è probabilmente la principale sfida che spetta oggi al progettista ecologico. Tutti gli sforzi progettuali in relazione ai sistemi ecologici terrestri si riferiscono certamente al futuro, essi perciò possono e devono essere prognostici e anticipatori. Per esempio, gli edifici dovrebbero essere disegnati con un’attenzione prioritaria rivolta alla recuperabilità , al riuso e alla riciclabilità dei materiali e dei componenti che li costituiscono. Questo è esemplificato nel concetto di sostenibilità, che è descritto come ‘soddisfare i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i loro’ (Brundtland, 1987). Questo rende il concetto di sostenibilità un concetto complesso e per questo coinvolge le decisioni soggettive così come quelle oggettive (per esempio quantitative) che influiscono il benessere umano sia presente che futuro. Più nello specifico, il progetto ecologico coinvolge letteralmente i migliaia di modi in cui un sistema costruito e i suoi utilizzatori si connettono al mondo naturale. L’ecologia riguarda i legami, l’adattamento interdipendente e creativo come opposto alla causalità divisa in compartimenti. Per questo il progetto ecologico può essere visto come una connessione olistica, che implica la gestione prudente dell’energia e dei materiali all’interno del sistema costruito negli ecosistemi della biosfera; questo includerà sia gli sforzi progettuali che riducono l’impatto dannoso di questa gestione sull’ecosistema sia quelli che cercano di integrarsi positivamente con l’ambiente naturale. Inoltre, il soddisfacimento di questi obiettivi non è un’occasione unica, ma deve essere gestito e monitorato lungo l’intero ciclo di vita del sistema costruito. Questa complessità è dinamica, estesa nel tempo […] La questione dello sviluppo sostenibile (di cui il progetto sostenibile è un elemento) a livello globale sta iniziando ad essere seriamente indirizzata da molti governi nel mondo, così come da molte agenzie intergovernative . A scala personale, ciò le questioni che riguardano l’ambiente hanno guidato alcuni verso la ricerca di stili di vita ‘verdi’ alternativi. A livello del progettista professionista, ciò che può essere letto come un lento ma graduale processo di inverdimento dell’architettura ha già raggiunto alcuni risultati, come la definizione di requisiti termici più stringenti per gli edifici (per esempio il BREEM nel Regno Unito), le eco-etichettature dei materiali e dei prodotti da costruzione (in particolare in Germania ed in Canada), l’intenzione di alcuni progettisti di rendere verde il processo costruttivo e progettuale, il crescente monitoraggio delle performance energetiche degli edifici in uso (da parte di molti architetti ed ingegneri in Europa ed negli Stati Uniti) e una maggior consapevolezza dei fattori ecologici presenti in sito e dell’importanza della biodiversità. Nel progetto ecologico, dobbiamo sapere che la maggior parte dei sistemi ecologici e dei processi terrestri sono troppo complessi per essere quantificati e rappresentati nella loro totalità. Ciononostante, il progetto ecologico, come mostrerò, resta un’affermazione complessa e coinvolge la determinazione di un ampio numero di considerazioni rispetto ad interazioni multiple (o rettifiche). Gli architetti, i progettisti, gli ingegneri e tutti il cui lavoro influenza l’ambiente devono in qualche modo prendere delle decisioni progettuali ogni giorno. Essi devono compiere delle azioni decisive sulle questioni ogni giorno sulla base dell’informazione ambientale che è disponibile in quel momento. E’ per questo vitale l’inadeguatezza dello stato attuale della conoscenza ambientale non venga utilizzato come giustificazione per l’elusione dell’approccio ecologico (che include azioni preventive e correttive) e l’eluzione di responsabilità per l’impatto ambientale dei progetti degli edifici. Tratto da Kan Yeang; The Green Skyscraper. The basis for designing sustainable intensive; Prestel; Londra 1990; pp. 9-15, 31-35 Agance Babylone Natura Attiva 2008 L’interesse verso l’ecologia guida studi come l’Agence Babylone verso la definizione e lo sviluppo di nuove sinergie tra città e natura. Con questo obiettivo, nel 2008 i fondatori dello studio hanno definito il concetto di «Natura Attiva», un concetto basato sulla fiducia nel fato che la natura abbia le capacità di soddisfare tutte le necessità di una città e dei suoi abitanti e possa quindi essere utilizzata come «motore urbano» integrato in tutti gli aspetti della vita. Il progetto Natura Attiva presentato in occasione del concorso per l’area di Saclay in particolare applica questo concetto organizzando un territorio di complementarietà fra città, agricoltura e natura la cui superficie, determinata in base al numero degli abitanti, permette di stabilire un equilibrio sostenibile fra risorse, bisogni e rifiuti. L’obiettivo è quello di ridurre al minimo l’impatto della nuova città sull’ambiente valorizzando il ruolo della natura come «macchina» attiva che, producendo energia e trasformando la materia, rigenera e rivitalizza tutti i sistemi sottostanti. L’idea che emerge è quella di una città ecologica in grado di gestire risorse e bisogni attraverso il ricorso ad «alte tecnologie naturali» inserite nel cuore della città. Babylone è conosciuta come una città unica, la città estrema e il simbolo dell’armonia ideale fra città e natura. Oggi, questa armonia è un interesse globale. Il nostro futuro è strettamente legato alla nostra pianificazione urbana, obbligandoci a inventare una sinergia fra i processi urbani e naturali. I nostri progetti sono un’elaborazione e un’espressione di questa simbiosi tra natura e città, attraverso l’interconnessione e lo sviluppo dei migliori aspetti di entrambi. Noi perciò immaginiamo autentiche «città viventi», creando nuovi paesaggi e nuovi modi di vivere ad ogni scala. Questo è il sogno che guida il nostro lavoro. Abbiamo strutturato il nostro modo di pensare attorno al concetto consolidato di «natura attiva», che considera la natura come un motore per la città. Confidiamo su innovative tecniche naturali che rendano possibile soddisfare le principali esigenze di una città in termini di acqua, aria, energia, cibo e materiali. Per scegliere i migliori strumenti e materiali per i nostri propositi e per valutare il loro impatto in modo preciso, abbiamo elaborato un concetto ambientale. L’ambiente è al cuore dei nostri interessi, del nostro approccio per progettare ed indirizzare l’implementazione. Il concetto di «natura attiva» è un concetto basato sull’enorme capacità produttiva della natura di soddisfare tutte le necessità di una città e dei suoi abitanti in termini di acqua, aria, cibo, energia, materiali e biodiversità… Ognuna di queste necessità può essere gestita secondo una modalità meno o non inquinante, grazie a semplici tecniche naturali; messe insieme e riorganizzate, le loro capacità vengono decuplicate. Il nostro approccio ambientale identifica e razionalizza le varie tecniche, consultando un considerevole sistema di gestione dei dati che supporta ogni fase di ogni progetto. Persuasi che la reale efficacia ambientale deve essere vasta e comprensiva, noi elaboriamo sistematicamente i nostri progetti con questi fondamenti in mente. Concetto ecologico Nel 2008, l’Agence Babylone ha definito il concetto di Natura Attiva per guidare il lavoro dei suoi progetti. Il suo obiettivo è quello di identificare chiaramente strumenti operativi che rispettino l’ambiente. Decisamente concreto, il concetto sostenibile di Natura Attiva è fondato su una considerevole raccolta di dati. Esso indicizza ed analizza vari strumenti e processi, diminuendo in questo modo l’impatto ambientale delle nostre costruzioni paesaggistiche. Gli strumenti sono elementi semplici; la scelta e l’uso dei materiali e delle piante. I processi sono invece sistemi complessi […] Il nostro lavoro permette di valutare precisamente l’impatto dalla loro realizzazione, al loro compimento fino al loro utilizzo nel corso del tempo. Questa visione multi-criteriale comprensiva comprende i vari aspetti d’impatto dei nostri progetti. Viene prodotto un sommario dei punti principali per ogni strumento e processo selezionato. La nostra raccolta di dati viene aggiornata in modo costante in modo tale da riflettere la realtà e i rapidi progressi della scienza in questo campo. Scheda dello strumento Gli ‘strumenti’ sono elementi basilari che costituiscono le nostre costruzioni paesaggistiche. Alcuni esempi degli strumenti che noi consideriamo sono: i materiali del suolo (cemento, materiali vegetali, legno…); le piante (di copertura del terreno, perenni, alberi e arbusti, siepi…); le attrezzature (panchine,illuminazione, recinzioni, spazi per i fiori… Per ogni strumento, definiamo una scheda tecnica nella quale dettagliamo le sue caratteristiche ed i suoi impatti in funzione dei nostri criteri. In questo modo è possibile avrere immediatamente una visione globale delle caratteristiche di uno strumento: i suoi aspetti, il perfezionamento, i costi, il mantenimento e l’arco di vita… ognuni di questi aspetti descrive il suo impatto ambientale. Queste schede ci forniscono una conoscenza dettagliata di ogni strumento, rendendo le nostre scelte razionali, ottimali e compatibili con i nostri principi. Scheda del processo I processi sono sistemi complessi che implicano una successione di interazioni tra vari elementi per ottenere un risultato (la produzione di energia, il riciclo…). Come macchine viventi, essi sono attivi spazialmente ed adempiono un ruolo funzionale e conveniente per gli abitanti. Esempi dei processi che consideriamo sono: fitodepurazione (acque grigie, acque nere…); solare (fotovoltaico, pannelli solari…); vento (elettrico, idrauico…); riduzione a concime organico;… Queste schede forniscono anche velocemente dati importanti quando si stanno prendendo scelte rilevanti per i nostri progetti. La loro caratteristica particolare è quella di trasmettere una visione globale completa del processo, enfatizzando le sue qualità (produzione di elettricità…), tanto quanto i suoi svantaggi (difficoltà di riciclo o eccesivi costi di produzione dell’energia…). Scheda riassuntiva Abbiamo anche raggruppato queste informazioni all’interno di una tavola generale, che riassume le performance relative allo ‘Sviluppo sostenibile’ di ogni strumento e processo. Questa raccolta di dati ci rende capaci di fare scelte più adatte alle questioni di ogni sito. Deve essere sottolineato che la nostra raccolta di dati viene continuamente aggiornata con nuovi materiali e processi innovativi. Progetto Natura Attiva Si tratta di un sistema che unisce l’ambiente naturale, il terreno agricolo e la città. Sfrutta i processi naturali per soddisfare tutte i bisogni della città e dei suoi abitanti: per produrre aria e acqua pulita, per fornire energia e cibo, per aumentare la biodiversità e per trasformare i rifiuti in una merce preziosa. Relazione di progetto tratta da Agance Babylone, www.agancebabylone.fr Tecnologia Richard Buckminster Fuller Approaching the benign environment Collier-Macmillian, 1970 Approaching the benign environment è un testo che raccoglie gli interventi di Buckminster Fuller, Eric Walter e James R. Killan in occasione di un ciclo di lezioni dedicate alla memoria di John Leonars Franklin. La Auburn University, in particolare, invitò i tre scienziati chiedendo loro di esprimersi rispetto alla questione generale di come gli uomini avrebbero potuto salvare l’umanità e i suoi ideali in una società scientifica e tecnologica in rapido sviluppo. Seguendo ognuno il proprio punto di vista, essi esprimono la loro speranza in idee creative capaci permettere all’uomo di migliorare la vita su questo pianeta attraverso la costruzione di un «ambiente favorevole». L’attenzione è rivolta verso una rivoluzione progettuale, di approccio ai problemi, incentrata sull’ottimizzazione delle risorse, sul contenimento quantitativo e sull’idea del fare «more with less». Una rivoluzione nella quale la tecnologia diventa uno strumento in grado di sostituirsi alla politica e scienziati e ingegneri sono chiamati a farsi «comprehensive designer», consiglieri e «decision makers» per aiutare la società a risolvere molti dei problemi sociali ed economici che le tecnologie stesse hanno generato. Education for comprehensivity […] Stiamo tutti lavorando nella convinzione che l’uomo sia destinato al fallimento. Io dico che l’uomo è abbastanza chiaramente simili ad un atomo di idrogeno: progettato per essere un successo. E’ un fantastico pezzo di design; è completamente sbagliato pensare che sia tenuto a fallire. Io ipotizzo che sia destinato al successo che egli debba usare la sua mente per avere successo; e per comprendere cose come la ricchezza e […] quei principi generali e per realizzare che quando si utilizzano questi non si sta consumando niente dell’universo. Si sta semplicemente utilizzando quello che l’universo è – volgendolo a proprio favore. E questo è quello che si è chiamati a fare per dimostrare il successo dell’uomo. Nel 1927 ho detto: sto per dedicare il resto della mia vita ad esplorare l’intera questione del fare «more with less» e cercare che cosa potrebbe accadere se prendessimo il tipo di tecnologia che è stata applicata solo in mare e in cielo e la applicassimo alla terra dove le persone hanno costruito tutti quegli edifici pesanti. Fino ad ora ho parlato alle associazioni architettoniche di quasi tutti i paesi del mondo, e differenti stati e città. Chiedo sempre a chi mi ascolta se qualcuno mi può dire che cosa sono intermini di peso gli edifici. E dico: «Nessuna mano alzata?». Nessuna mano alzata. Dico «Me lo dite solo approssimativamente facendo riferimento ad un centinaio di tonnellate?» Nessuno mano alzata. Così dico «Ditemelo approssimativamente in riferimento ad un milione di tonnellate» Nessuna mano alzata. E’ abbastanza chiaro che le persone, architetti inclusi, non conoscono il peso degli edifici. Se non si conosce quanto pesa un edificio, certamente non si conosce qual è la sua performance per sterlina. Se non si conosce il peso, non si sta certo cercando di fare di più con meno. Cerchiamo di essere efficienti nel progettare le macchine dentro al nostro edificio, ma gli edifici stessi non sono certo pensati in questo modo. Il fatto che, nella nostra situazione economica, potessimo tenere una fantastica andatura mi è diventato perfettamente chiaro molto tempo fa; e questa realizzazione mi ha condotto a sperimentare le cupole geodetiche. Ora io ne ho realizzate cinquemila in cinquanta stati. Migliaia di queste cupole sono abbastanza leggere, abbastanza forti e abbastanza adeguate da essere portate dall’aria. Esse pesano solo il tre percento rispetto ad un edificio tradizionale grande uguale. Esse sono resistenti ai terremoti e a piuttosto resistenti al fuoco (per un certo periodo di tempo, determinato dalle norme). Esse resistono ai carichi di neve delle zone artiche e agli uragani. Stanno facendo queste cose solo al tre per cento del peso delle migliori alternative tradizionali conosciute per costruire. […] Le mie ricerche hanno reso perfettamente chiaro che cosa potesse significare sotto l’aspetto economico l’aumento del rendimento delle risorse utilizzate. Casualmente, dal 1900 ad oggi, in due terzi di un secolo la percentuale di persone che vivono a standard elevati è aumentata da meno dell’uno per cento a più del quaranta percento. Nello stesso periodo l’aumentare delle risorse disponibili per ogni uomo è continuamente diminuita, così ovviamente non possiamo realizzare degli alti standard di vita come risultato del fatto che abbiamo più risorse da utilizzare. Questo può essere il risultato solo della filosofia progettuale del fare «more with less». Ora è abbastanza chiaro che i politici non conoscono niente di tutto questo. Gli attuali standard di progetto potrebbero solo occuparsi del 44 per cento dell’umanità, condannando la maggior parte delle persone ad una vita molto brave e a un grave dolore lungo la strada. Ma non vi è nulla nell’attività politica che si occupi di questo eccetto che del fatto di come farne a meno o come prendere dagli uni per dare agli altri. Questo è quello che i sociologi e i politici si sforzano di fare. Essi dicono ancora che può solo essere una scelta: o a me o a te. Non c’è una reale consapevolezza fra i politici di tutto il mondo che il principio del fare di più con meno potrebbe rendere possibile utilizzare le risorse a nostra disposizione per occuparsi di tutti – e con standard molto più alti di quanto nessuno abbia desiderato. Ma la scienza adesso dice che è perfettamente possibile. Questo ha a che fare con qualcosa chiamato «engineering efficency» - la quantità di lavoro fatto da una macchina al di là dell’energia che essa consuma. […] L’efficienza complessiva delle macchine che l’uomo sta usando in tutto il mondo oggi è solo del 4 per cento. In ingegneria è realizzabile con alte probabilità raggiungere un 12 per cento globale; e se lo facessimo, potremmo occuparci di tutta l’umanità. Parlando di pura fattibilità ingegneristica, è considerevolmente chiaro agli scienziati che il lavoro deve essere fatto. Ma tutti questi dicono anche che questo non si può fare con nessuna delle restrizioni nazionali che proteggono le nazioni. Ogni nazione sta pensando che deve essere il suo stato a trarne vantaggio. Ognuno dipende dalla protezione. Ma per fare questo lavoro l’uomo deve avere un’assoluta libertà di relazioni e di accesso alla distribuzione delle risorse che si trovano in tutto il mondo. Dobbiamo avere a che fare con il nostro pianeta, la Terra, come con una macchina, che è ciò che è. […] Logicamente, i giovani di oggi diventano esasperati e chiedono: «Perché non possiamo far lavorare il mondo?». Tutto questo controsenso è la conseguenza della tendenza esausta e ignorante dei vecchi programmatori. Ho detto uniamo le forze e facciamo le cose giuste. Processioni di pesone, studenti chiedono che i loro leader politici facciano dei passi per portare la pace e l’abbondanza. La fallacia di questo sistema giace nella loro assunzione vecchia ed errata che il problema sia una riforma politica. Il fatto è che i politici stanno affrontando un vuoto, e non si può riformare un vuoto. Il vuoto è l’apparente condizione di non aver a disposizione abbastanza per muoversi […] E’ ancora una situazione di «o io o te condannati a morte» che conduce da un impasse all’altra arrivando alla fine a una resa dei conti con le armi. Così, sempre più studenti in tutto il mondo stanno venendo a conoscenza della nuova e sorprendente alternativa alla politica – la rivoluzione della scienza del progetto che da sola può risolvere il problema […] Gli studenti possono imparare la seguente cosa: l’evoluzione tecnica ha questo fondamentale modello di comportamento. Per prima cosa, come ho spiegato, c’è la scoperta scientifica di un principio generale, che emerge come una realizzazione soggettiva da indagini sperimentali dell’uomo. Poi vi è l’impiego oggettivo di questo principio in un’invenzione speciale apposita. Poi l’invenzione viene tradotta in pratica. Questo dà agli uomini un vantaggio tecnico sull’ambiente fisico. Se risulta avere successo come strumento della società, esso viene usato in applicazioni quotidiane sempre maggiori e più rapide […] Mentre tutte le precedenti curve di incremento e di decadimento dell’evoluzione tecnica delle dell’armamento si sono verificate, è anche avvenuta, senza che l’ambito militare se ne accorgesse, una vasta ricaduta delle tecnologie difensive nell’ambito delle tecnologie domestiche basate sul principio di effimerizzazione del fare più con meno. Come ho sottolineato, in due terzi di un secolo questo risultato poco evidente ed innavertito ha convertito più del quaranta percento dell’intera umanità dal possedere nulla ad un alto standard di vita rendendo chiaro che il solo modo con il quale l’intera umanità possa essere elevata a questo vantaggio è sicuramente l’accelerazione di questa rivoluzione tecnologica. E’ evidente come la richiesta mondiale di pace possa solo essere realizzata attraverso una rivoluzione tecnologica, che farà molto di più con molto di meno per ogni funzione come finalmente produrre abbastanza per supportare tutta l’umanità. […] Se il desiderio di eliminare la guerra è quello da cui sono mossi, essi dovranno spostare i loro sforzi da mere agitazioni politiche alla partecipazione nella rivoluzione tecnologica-progettuale. Tratto da Richard Bukminster Fuller, Eric A. Walker, James R. Killian; Approaching the benign environment; Collier-MacMillian; Londra 1970 Hassan Fathy Architecture for the Poor The University of Chicago Press, 1973 Pubblicato in un’edizione limitata dal Ministero della Cultura del Cairo nel 1969, Architecture for the Poor conquista l’attenzione internazionale nel 1973 quando viene pubblicato sia negli Stati Uniti che in Gran Bretagna diventando un testo di riferimento importante per movimenti come l’‘Intermediate Technology Movement’. Descrivendo nei dettagli l’esperienza relativa alla progettazione e alla realizzazione del villaggio di New Gourna, Fathy diviene infatti fautore di un atteggiamento progettuale fondato sull’uso di forme e tecnologie appropriate, «consapevoli» e «rispettose» in grado di stimolare il coinvolgimento degli abitanti e di risvegliare in loro l’orgoglio per la cultura nazionale. Quella che l’architetto propone è la configurazione di «alcuni legami solidi» con antichi principi legati all’esperienza degli uomini; la sostituzione del Magistero Sperimentale con quello Esperenziale, a favore di un’idea di tecnologia capace di modificare le proprie funzioni e la propria struttura per «inserirsi naturalmente» e corrispondere alle condizioni contestuali, relazionarsi alla storia, ai singoli individui, alle comunità. Elemento di espressione permanente del carattere di una comunità. Cambiamento con perseveranza Io voglio evitare a tutti i costi l’atteggiamento troppo spesso adottato dagli architetti e dai pianificatori professionisti quando si confrontano con una comunità contadina, l’atteggiamento per cui la comunità contadina non ha alcun valore nella considerazione dei professionisti, per cui tutti i suoi problemi possono essere risolti attraverso l’importazione di un sofisticato approccio urbano al costruire. Se possibile vorrei fare da ponte al golfo che separa l’architettura del popolo da quella degli architetti. Io voglio fornire alcuni legami solidi e visibili fra queste due architetture nella forma di figure, comuni ad entrambi, in cui i villaggi possano trovare un punto di riferimento da cui ampliare la loro comprensione del nuovo, e che gli architetti possano usare per testare la veridicità del proprio lavoro rispetto alle persone e al luogo. L’architetto si trova nella posizione privilegiata di rianimare la fede del contadino nella propria cultura. Se, come un critico autorevole, mostra ciò che è ammirevole nelle forme locali, e va così oltre da utilizzarle lui stesso, allora i contadini immediatamente iniziano a guardare ai loro prodotti con orgoglio. Quello che prima era ignorato o anche disprezzato all’improvviso diventa qualcosa di cui vantarsi, e per giunta, qualcosa di cui il contadino si può vantare consapevolmente. In questo modo l’artigiano locale è stimolato ad utilizzare e sviluppare le forme locali tradizionali, semplicemente perché le vede rispettate da un vero architetto, mentre il contadino comune, il cliente, si trova sempre più nella posizione di capire ed apprezzare il lavoro dell’artigiano. Ma, per arrivare ad una decisione positiva rispetto al tipo di architettura da utilizzare nel nuovo villaggio, era necessaria un’ulteriore indagine. Oltre all’ambiente di Gourna costruito dall’uomo, con il quale il nuovo villaggio deve armonizzarsi, c’è l’ambiente naturale del paesaggio, della flora e della fauna. Un’architettura tradizionale dovrebbe collocare per molti secoli in questo ambiente naturale, sia visivamente che praticamente. Il nuovo villaggio dovrebbe intonarsi con questo ambiente fin dall’inizio e i suoi edifici devono essere costruiti in modo tale da sembrare il prodotto di secoli di tradizione. Dovevo provare a dare ai miei disegni l’apparenza di essersi sviluppati a partire dalle forme che hanno gli alberi dell’area. Dovrebbero inserirsi naturalmente nel contesto dei campi come fanno le palme da dattero. I loro abitanti dovrebbero vivere al loro interno naturalmente, come se si trattasse dei loro vestiti. Ma era un compito molto pesante per un solo uomo, potevo pensarmi nell’esperienza di generazioni di muratori del villaggio, o concepire nella mia testa tutti i lenti cambiamenti causati dal clima e dall’ambiente? Tuttora noi possiamo cercare l’aiuto dei nostri anziani per ottenere questa conoscenza. Gli antichi egizi hanno penetrato l’anima di questa terra ed hanno rappresentato il suo carattere con un’onestà che ci ha trasportato nei millenni interposti. Nei loro disegni – semplici linee pitturate sui muri delle tombe – essi comunicano più del carattere essenziale della natura di quanto non facciano le più elaborate miscelazioni di colori, luce ed ombra elaborate dai più celebri esponenti dei moderni movimenti pittorici europei. Poiché i piani di un architetto sono tutti disegni, ho pensato che potessi mettere sullo sfondo dei miei disegni i disegni della flora e della fauna dell’area, disegnate semplicemente, come nei disegni degli Antichi Egizi, ed ero certo che queste rappresentazioni delle palme e delle mucche come venivano mostrate nelle tombe dei nobili avrebbero mostrato l’onestà o smascherato la falsità degli edifici. Ho sottoposto tutte le rappresentazioni a test rappresentativi come questo; evitando attentamente l’astuzia professionale di molti progetti architettonici che spesso distorcono le forme naturali con l’obiettivo di adattare il contesto agli edifici, non ho provato a produrre l’effetto della profondità, e non ho nemmeno provato ad includere querce adatte a bilanciare le masse, ma ad eseguire i miei disegni attraverso linee piane e inserendo nei loro dintorni schizzi degli animali e degli alberi e degli elementi naturali di Gourna. Erano questi: la collina sopra Gourna, che, con la sua piramide naturale in cima, è sempre stata considerata una roccia sacra; la mucca, poiché il dio della mucche Hathor era il protettore dei defunti di Gourna, e Gourna si trovava in un’area in cui c’erano molte mucche e nella quale l’onnipresente bufalo egiziano non era frequente; i due alberi, la palma da dattero e un’alta palma, poiché questi sono gli alberi caratteristici della parte settentrionale dell’Egitto; un certo carattere mostrato nelle parti massicce di alcune case del vecchio villaggio di Gourna, con le loro logge collocate nella parte alta degli edifici. Ho messo tutte queste forme sullo sfondo del mio primo tentativo, della mia rappresentazione esplorativa, perché funzionassero come standard di riferimento. Sentivo che a Gourna era nostro dovere costruire un villaggio che non fosse falso per l’Egitto. Lo stile delle persone doveva essere riscoperto; o, piuttosto, riacquisito dalla scarsa evidenza dell’artigianato locale e dal carattere locale. Conoscevamo una tecnica proveniente dalla Nubia; non potevamo costruire qui un edificio nubiano. Rimanere fedeli ad uno stile, secondo la definizione che io do a questa parola, non significa la riproduzione fedele della creazione di altre persone. Non è abbastanza copiare anche il miglior edificio di un’altra generazione o di un’altra località. La modalità costruttiva può essere utilizzata, ma occorre spogliare da questo metodo tutta la sostanza derivante da un carattere e un dettaglio particolare, e scacciare dalla propria mente la rappresentazione delle case che appagano così meravigliosamente i tuoi desideri. Occorre iniziare nel modo giusto sin dal principio, lasciando che i nuovi edifici nascano dalla vita quotidiana delle persone che vivranno al loro interno, modellando la casa in funzione delle canzoni popolari, intessendo il modello di un villaggio come se questo venisse costruito su un telaio, consapevole degli alberi e delle colture che vi cresceranno, rispettoso dello skyline e modesto prima delle stagioni. Non ci devono essere tradizioni contraffatte né falsi aspetti moderni, ma un’architettura che dovrà essere l’espressione permanente e visibile del carattere di una comunità. Ma questo non significa nient’altro che un’architettura totalmente nuova. Il cambiamento arriverà sicuramente a Gourna in ogni caso, perché il cambiamento è una condizione di vita. I contadini stessi vogliono cambiare, ma non sanno come farlo. Esposti come sono all’influenza degli appariscenti edifici presenti nelle città provinciali dei dintorni, essi probabilmente seguirebbero questi cattivi esempi. Se non potessero essere salvati, se non potessero essere indotti a cambiare verso delle migliori soluzioni architettoniche, essi cambierebbero verso il peggio. Spero che Gourna possa almeno accennare ad una strada che porti verso l’inizio di una rianimata tradizione del costruire, che altri più tardi possano prendere ad esempio questa esperienza sperimentale, estenderla, e alla fine stabilire una barricata culturale per arrestare lo spostamento verso un’architettura falsa e senza senso che viene raccolta velocemente in Egitto. Il nuovo villaggio può mostrarci come un’architettura costruita solo con le persone sia possibile in Egitto. Tratto da Hassan Fathy; Architecture for the Poor; The University of Chicago Press; Chicago 1973; pp.43-45 Paolo Soleri Technology and cosmogenesis Paragon House, 1985 Pur definendo sin dai suoi primi scritti il contesto strumentale come ambito di appartenenza delle strutture tecnologiche, è con la pubblicazione nel 1985 del testo Tecnologia e Cosmogenesi che Paolo Soleri tratta esplicitamene del conflittuale rapporto ideologico-costruttivo fra tecnologia e suo uso creativo, fra tecnologia e uomo. Per l’architetto italo-americano il conflitto tra spiritualità e materialismo si rivela nella opposizione di armonia superiore e predominio tecnocratico, ovvero nel conflitto tra finalità e strumentazione e se il «disordine» della tecnocrazia imperante nella città attuale conduce inevitabilmente alla morte, esso deve venire superato dal proprio rovescio, la «frugalità» operativa, idoneo «supporto» strumentale tramite cui raggiungere la «minima massa ecologica» necessaria agli intenti complessi della istituzione urbana. Tale «città di privazione» non sostiene tuttavia una sorta di impauperimento carente, bensì promuove una programmata «effimerizzazione», una riduzione cioè provocata e accettata che opponendosi alla semplificazione si dispone verso la qualità comportamentale della parsimonia regolata, affinando il senso di compiutezza dell’uomo, soddisfacendone le esigenze spirituali e migliorandone la qualità della vita. Quattro anni fa scrissi: «Se la scienza ha stabilito correttamente che la terra è composta dalla medesima sostanza che costituisce il cosmo, e se la vita è la tecnologia attraverso cui tale sostanza diventa animata, allora la vita, che ora sembra essere l’eccezione alla regole all’interno del cosmo fisico, potrebbe diventare, alla fine, la regola. Se, oltre a essere fattibile, questa potenziale animazione del cosmo è anche desiderabile, allora la responsabilità della vita giace nella trasfigurazione di un fenomeno fisico immensamente potente in uno immensamente amorevole, spirituale. Un imperativo escatologico. Ci sarà una rinnovata inquietudine religiosa, causata dalla sonda spaziale, che metterà a fuoco questioni escatologiche che abbracceranno preoccupazioni sociali, ambientali, culturali, etiche ed estetiche. Tutte operano direttamente sulla con..ne umana in uno con le questioni di salute e conservazione genetica. Ma la preoccupazione escatologica sarà ampiamente taciuta e intenzionalmente celata dietro fatti concreti e imperativi tecno-politici. E ancora, le poste in gioco sono terribilmente alte; noi dobbiamo affrontare tutto ciò che noi siamo intendendo pianificare e realizzare. Sotto la pressione del ‘progresso’ scientifico e tecnologico stimolato dall’avventura nello spazio, la preoccupazione escatologica darà azione a nuovi modelli teologici pseudo-nuovi. Allora, a mio parere, la prova della ….nello spazio non è, fondamentalmente, un problema tecnologico, politico, o cosmico, ma un problema teologico. E le implicazioni escatologiche dela colonizzazione dello spazio sono fondamentali e critiche». […] Ma potrebbe ben essere che il fenomeno vivente sia ordine che si insinua nel circolo relativamente inerziale delle cose fisiche. Il ventre molle della realtà rivelazionale è che essa vuole, ha bisogno, di vedere ordine nel preordinato, la natura provvidenziale dell’animismo. Quindi, non si tratta di un insinuarsi dell’ordine nella natura, ma solo il palesarsi (rivelazione) dell’ordine al contesto umano. La natura ordinata della realtà animistica respinge il processo. La cessazione del processo ogni volta congela l’instabilità della creazione e la sua imprevedibilità. Per l’animista la realtà è, è stata e sempre sarà uguale a se stessa, e se il tempo non fa altro che svelarla proprio come si possono svelare delle cose ammassate in una soffitta puntando qui e là epocalmente la luce di una torcia elettrica. Ma la soffitta è alla fine un … , la meno ordinata di tutte le cose, dal momento che ogni oggetto là è una conchiglia vuota, svuotata di volontà, disordinata – di fatto, è disordine come tale. Io scarterei il modo animistico-rivelazionale perché per esso tutte le cose, grandi e piccole, sono fatalmente predefinite, incluse la città del cielo. Se per le piccole cose si può mettere da parte la dimensione escatologica, allora per le città del cielo la dimensione scatologica la attraversa completamente. Senza un fine in vista, un traguardo irriducibile, la città del cielo è solo un altro congegno, un capriccio tecnocratico e per di più costoso. L’assunto della città del cielo, come l’assunto di tutti gli habitat, consiste o ricade nella sua capacità di creare-spirito (e generazione di entropia). Là, almeno in termini evolutivi, sta il dilemma della città del cielo. Quanto disordinato (di per sé) in senso antropico può divenire un habitat? Ogni città fantasma può dirlo. Ma esiste un genere perfino più mortale di disordine: il disordine tecnocratico. E’ così perché la tecnocrazia si sta muovendo sempre più e in maniera convulsa, accumulando intorno a sé il disordine fisico e dentro di sé il caos spirituale. Quello che la città del cielo deve temere di più in una tale condizione è il disordine fisico prodotto dall’alta tecnologia (seconda legge della termodinamica) e il nulla che si annida facilmente nella sua struttura contorta. Alla fine, le città del cielo simboleggeranno la frugalità attraverso la minima massa ecologica di cui esse avranno bisogno come supporto. Ma esse saranno un organismo (un’associazione di creature legate indissolubilmente) galleggiante in un … ecologico. Cioè l’emblema di un nuovo organismo che importa, da distanze galattiche, la massa-energia per trasformala in vita. Abituati come sono gli organismi all’immensa varietà di questo pianeta e alle infinite articolazioni che tale varietà offre, la città del cielo sarà una ‘città di privazione’, un cugino povero della città frugale. Forse la risposta – pericolosa – sarebbe porre le menti senza corpo nella città del cielo per eguagliare i dintorni senza ecologia della città del cielo. Una … cosa sarebbe come un’esaltata sonda spaziale senza equipaggio, fino al giorno in cui i cervelli (organi fisiologici) potranno essere isolati dal corpo (come noi …). Questo significherà una dis-infestazione della complessità ecologica della città del cielo. Se noi sapessimo un po’ di più sulla effimeralizzazione, noi forse potremmo essere meno cupi nei nostri pronostici. Dal momento in cui sottopongo i miei frammenti alla effimeralizzazione, io accetto la città del cielo, ma solo nel caso in cui il paradigma di complessità-miniaturizzazione-durata venga realmente osservato e praticato. Per ora noi chiamiamo pseudo-effimeralizzazione, quel genere di efficienza riprodotta attraverso una semplificazione, una diretta conseguenza della mente analitica che prevale sulla mente sintetizzante. La tecnologia, così come noi la esercitiamo ora, è figlia della semplificazione. Nipote è la pseudo-effimeralizzazione, la nemesi potenziale della città del cielo. Come si può vedere, io non sto ancora parlando di fattibilità, perché a mio parere, il nostro comportamento non sarebbe dettato dalla fattibilità ma deve essere dato dalla desiderabilità. Il senso di città del cielo deve essere chiaro prima che noi ci immergiamo nella sua creazione. Il flagello della tecnologia è la presa magica che essa ha su una fantasia che non è ancora stata frenata dal senso. Da quanto il cervello umano ha iniziato ad anticipare, astrarre e pianificare, la separazione tra fattibilità e desiderabilità è stata il problema numero uno. E’ sufficiente dire che il conflitto è spesso presente quando e dove la fattibilità non ha sostenuto la desiderabilità (come un ‘bene dell’umanità), ma ha incoraggiato le costrizioni, l’ego di questa persona o gruppo. L’abisso tra la desiderabilità e la fattibilità è laddove il consumismo proietta la sua ombra scura: la sua iniquità. Se la città del cielo come prototipo, può tenersi fuori da tali ombre con la sua appartenenza al regno della protodesiderabilità, la città del cielo come una entità da mercato, dovrà avere a che fare con la sua propensione per la fattibilità ‘esplosiva’ e con tutta l’arroganza e irragionevolezza che essa comporta. Cito ancora me stesso: «La sperimentazione urbana dovrebbe essere la priorità principale per una società coinvolta. E’ nel benessere urbano e nella sua vivacità che si trovano le frontiere di una società onesta, equa, civilizzata, una società con un futuro. Il rifiuto della sperimentazione, oltre ad essere antidemocratico, un rifiuto a priori di possibili libertà, è anche arrogante e intollerante, e nasce dall’autoregolazione, ‘ragionevole’ e immodesto atteggiamento di mediocrità, l’altra ‘minaccia’ della democrazia». Noi dobbiamo riconoscere che non c’è sforzo integrato realmente implicato con il futuro; cioè con noi e la nostra discendenza. Noi dobbiamo riconoscere l’imperativo che impone di seguire quello sforzo per tenere aperte delle alternative per il futuro della vita, la nostra inclusa. Noi dobbiamo riconoscere che la natura non focalizzata dell’attacco tecnologico sta travolgendo amici e nemici. Allora sembra che, nonostante l’esistenza di molte strategie, sia necessario svilupparne un’altra ancora: la dichiarata, intenzionale, determinata ricerca di idee esotiche che offrano ora l’opportunità di verificare e valutare e stimare teorie, sistemi e situazioni che possano bene divenire norme nel prossimo secolo, nei prossimi vent’anni o così via» Tratto da Paolo Soleri; Kathleen Ryan (a cura di); Itinerario di architettura: antologia degli scritti; Jaca Book; Milano 2000; pp. 261-280 Yona Friedman L’architettura di sopravvivenza. Casterman, 1978 Dopo aver pubblicato la prima edizione de L’architecture de survive nel 1978, Yona Friedman decide di ripubblicare il testo riassuntivo del suo percorso progettuale venticinque anni dopo con l’intento di proporre soluzioni progettuali e tecnologiche che rispettino le condizioni di sopravvivenza della specie umana. Di fronte agli attuali problemi di impoverimento e di esaurimento delle risorse Friedman si fa sostenitore di un’architettura «povera» e di una controrivoluzione tecnologica fondata sul ritorno a forme di vita più elementari, capace di riscoprire i valori naturali e tecnologie compatibili con un modo di vita più sobrio. Esigenze alle quali, secondo l’architetto ungherese, risponde «l’architettura di sopravvivenza». Essa, a differenza dell’architettura classica che mira a cambiare il mondo per renderlo favorevole all’uomo, cerca di limitare le trasformazioni, conservando solo quelle necessarie a migliorare e render abitabili gli ecosistemi esistenti. In altre parole, l’architettura classica trasforma le cose per adeguarle all’uso umano, mentre l’architettura di sopravvivenza prova a modificare il modo in cui l’uomo si serve delle cose. Gli sconvolgimenti, le rivoluzioni ecc. si producono non in seguito all’improvvisa scoperta di un’ingiustizia, ma quando si prende coscienza del fatto che le scorte sono ‘esauribili’ (ed è questo il motore dell’attuale rivoluzione ecologica) o, ancora, in seguito ad una rottura dell’equilibrio delle forze di pressione (motore dell’odierna rivolta sociale). Oggi quando si parla di «sopravvivenza», sono possibili due interpretazioni, che vanno entrambe nella direzione delle riflessioni appena fatte. Si tratta della sopravvivenza che deve essere garantita nonostante la diminuzione delle scorte, o della sopravvivenza che deve diventare egualitaria. Beninteso, la diminuzione delle riserve e la crescente tendenza all’uguaglianza conducono alla crisi. La soluzione di queste crisi si può trovare (visto che se ne conoscono le cause) in due modi diversi: - trovare come aumentare le scorte da distribuire; - trovare come soddisfare la volontà di uguaglianza. Queste due possibili soluzioni non sono indipendenti l’una dall’altra: l’esigenza di un razionamento «giusto», egualitario, è normalmente più forte in caso di penuria, cioè quando le scorte non possono più aumentare. Una giusta ripartizione dei diritti e dei beni è più facilmente realizzabile in una società ricca o in una povera? Personalmente , propendo per l’ipotesi che la disuguaglianza (o l’ingiustizia sociale) sia molto più frequente in una società ricca (che accumula bottino) che in una povera. L’indipendenza politica, si sa, è legata alla non dipendenza economica. Eppure il povero, che è economicamente nondipendente, in generale è politicamente dipendente, suo malgrado: perché questa non dipendenza (che non è altro che abbandono) gli assicuri l’indipendenza, occorrerà che egli «improvvisi», si inventi da solo dei mezzi di sopravvivenza. Una società ricca crede nella «inesuribilità» delle scorte necessarie alla sopravvivenza e spesso attribuisce la povertà dei poveri alla pigrizia e all’incompetenza. Così i ricchi tranquillizzano la propria coscienza con la convinzione che vi siano risorse sufficienti per tutti, che i poveri siano solo in ritardo e che recupereranno più tardi (nessuno realizza che «più tardi» le risorse le scorte saranno esaurite). Questa argomentazione fallace non è facile da sradicare, tranne che in caso di penuria. Il credo di questo libro è che la penuria è la madre dell’innovazione sociale o tecnica. La società povera esige l’uguaglianza e, spinta dalla necessità, dispiega un’ingegnosità tecnica eccezionale. E’ la società del mondo povero che sta inventando l’architettura di sopravvivenza […] La mia intenzione non è stata quella di idealizzare la bidonville , né i poveri, né il popolo. Ciò che spero, invece, è di rilanciare con questo libro l’idea di razionamento, vale a dire la convinzione che le scorte sono limitate, e l’idea di un razionamento giusto, che dunque deve essere deciso da chi ne subirà le conseguenze. Considero l’architettura di sopravvivenza – disciplina da reinventare – uno strumento fondamentale per raggiungere questo obiettivo. L’architettura di sopravvivenza è quindi essenzialmente uno strumento di sopravvivenza (in condizioni molto particolari); un tempo tutta l’architettura è stata, non dimentichiamolo, architettura di sopravvivenza, ma ha perduto il proprio ruolo di strumento diventando disciplina. Proviamo a ritrovare questo ruolo dimenticato. […] Soluzioni tecniche […] Bisogna infatti riconoscere che è molto più frequente incontrare ambienti costruiti gradevoli e unitari che sono frutto del caso, nati semplicemente in funzione degli obiettivi e dei gusti personali degli abitanti: quante volte lo constatiamo ammirando certi villaggi e certe città antiche (e questo vale per qualunque civiltà). Questa unitarietà e questa gradevolezza sono quasi sempre il risultato del limite insito nella tecnica costruttiva utilizzata, che è sempre relativamente semplice. Questa tecnologia relativamente semplice (e dunque costruibile e realizzabile da artigiani o anche dall’abitante stesso) è il vero garante della libertà di concezione del pianificatore. Essa genera diversità (eterogeneità degli oggetti), pur dando la sensazione di un’unitarietà che dipende dalla povertà della tecnica applicata. Traiamo, da questa riflessione, l’indicazione del percorso che potrebbe condurre alla realizzazione dell’autopianificazione: una certa povertà dei mezzi tecnici di costruzione garantisce le regole pratiche ed estetiche che permettono una grande diversità. […] Grazie alle tecniche di costruzione, si realizzano infatti da un lato la struttura (estensione del suolo), dall’altro gli involucri da questa sostenuti (tetto, pareti-schermi). Questi ultimi possono essere rimovibili, come dei mobili. Chiamiamo le estensioni del suolo «infrastruttura» e gli elementi rimovibili «tamponamenti dell’infrastruttura». Un errore della disposizione dei mobili non è irreversibile per chi prova ad ammobiliare la propria casa; allo stesso modo, un errore dell’autopianificatore non sarà catastrofico se riguarda solo gli elementi rimovibili, i tamponamenti dell’infrastruttura. Dunque, dopo il ripristino della comunicazione tra l’abitante e, diciamo, la sua futura abitazione (questa comunicazione è più importante di quella che l’abitante avrebbe potuto avere con l’architetto, ed è questo il vero fine del metodo che ho voluto illustrare), l’abitante diventa auto pianificatore, e sappiamo che tutte le tecniche che producono una separazione tra l’infrastruttura rigida e i tamponamenti mobili possono condurre concretamente all’autopianificazione. Questo è il concetto essenziale di ciò che tempo fa ho definito «architettura mobile». […] L’industrializzazione non può mantenere le sue promesse Quando si parla della nuova povertà si trova sempre un contraddittore che prova a rassicurarci affermando che presto o tardi la povertà sarà eliminata grazie allo sviluppo della nostra tecnologia (tecnologia dell’industrializzazione). Questa fede nel nostro potenziale tecnologico sembra incrollabile, sia nella parte già industrializzata del mondo sia in quella che non lo è ancora. (La prima si considera «sviluppata», la seconda «in via di sviluppo»). Questa credenza è così solida, così radicata nelle nostre abitudini, che merita di essere esaminata sul piano pratico e su quello del suo impatto nell’ambito dell’architettura (che rimane l’argomento ufficiale di questo libro). La teoria industriale del XIX secolo era relativamente semplice: nel mondo esiste una quantità limitata (ma non troppo nell’immediato) di materie necessarie alla sopravvivenza dell’umanità: l’aria, l’acqua, il cibo e le materie prime dell’industria. Queste materie non costano nulla o, meglio, costano solo il lavoro indispensabile per estrarle o raccoglierle e per trasformarle in prodotti utilizzabili direttamente. Il loro prezzo dipende dunque più dalla quantità di lavoro necessaria che dalla loro rarità. Ammesso ciò, da quando questo lavoro può essere svolto solo dalle macchine, che lo fanno più velocemente, in maggiori quantità, abbassandone il costo, la povertà non può che scomparire rapidamente. Il nostro secolo ci ha riservato alcune sorprese che hanno fatto vacillare l’ipotesi secondo cui l’industrializzazione condurrebbe alla fine alla povertà. Abbiamo scoperto a poco a poco che questa ipotesi, che pareva valida al di sotto di un certo limite quantitativo non poteva più esserlo al di sopra di tale limite. In effetti, oggi ci sono imposti dei limiti che sembrano insuperabili. Ormai ognuno sa che le materie necessarie alla nostra sopravvivenza, soprattutto le risorse non rinnovabili, sono insufficienti rispetto ai bisogni di un’umanità in costante crescita. Peraltro, questo consumo massiccio non fa che esaurire le risorse e produce sempre più rifiuti, in gran parte non riciclabili. Infine, si sa anche che l’invenzione e la messa in opera di nuove tecnologie che utilizzano meno risorse non rinnovabili e producono meno scarti richiedono tempi lunghi e che, a quel punto, l’esaurimento di alcune risorse indispensabili e l’inquinamento dovuto alla sovrapproduzione di rifiuti avranno acquistato un buon vantaggio. Messa in dubbio la fede nella tecnologia, ne appare una nuova: è la fiducia nella possibilità di una organizzazione – politica o economica – che ci potrà aiutare ad attraversare i magri anni che ci aspettano. In altre parole, siccome la tecnologia industriale non è bastata a far scomparire la povertà, lo farà l’organizzazione politico-industriale. E’ molto bello, ma purtroppo è totalmente falso. Un’organizzazione, qualunque essa sia, si fonda prima di tutto sulla comunicazione. Un sistema composto di elementi con funzioni specializzate (organi) non può funzionare correttamente se non è garantita la comunicazione (a doppio senso) tra i diversi organi. Ogni organismo vivente, ogni sistema materiale, per funzionare dipende da «messaggeri». Ora, la trasmissione effettuata dai messaggeri non può che avvenire entro certi limiti. (Soltanto una quantità limitata di messaggi può essere trasmessa in un dato tempo: così il tempo, insieme ad altri fattori, impone dei limiti al funzionamento dei messaggeri). Questa limitazione nell’ambito della comunicazione costituisce dunque il limite per l’organizzazione di cui essa deve assicurare il funzionamento. Non si può rimediare a questo limite della capacità del messaggero mettendo a servizio un gran numero di messaggeri, perché ciò causerebbe inevitabilmente degli «ingorghi» colossali. Non ci si può nemmeno accontentare di abituarsi all’idea che i messaggeri lavorano lentamente, perché non siamo in grado di imporre le date-limite (dell’esaurimento di certe risorse o dell’inquinamento, per esempio). Queste date-limite ci sono imposte da un meccanismo inesorabile. Le organizzazioni – i governi, i consigli dei saggi ecc. – sono impotenti di fronte a questa evoluzione, non possono fare altro che frenare il processo di industrializzazione riconoscendo di non essere in grado di far scomparire la povertà, o continuare secondo la linea attuale e ritrovarsi a breve scadenza di fronte ad un nuovo impoverimento. In un modo o nell’altro, l’organizzazione e la tecnologia non possono averla vinta sulla povertà, e le promesse di governi, di ideologie e di sistemi economici che pretendono di generalizzare il modo e il livello di vita dei paesi industrializzati a tutta l’umanità, sono inattuabili nei termini che si sono fissati e la loro realizzazione appare improbabile anche sul lungo periodo. E’ infatti evidente che nessuno oggi ha la minima idea di come si potranno assicurare a quattro miliardi di esseri umani una casa all’occidentale (anche rudimentale), un’automobile (o anche solo una bicicletta), la quantità di cibo abituale nei paesi industrializzati, il tutto grazie ai metodi industriali. Sapendo che in tutto il corso della storia non si è ancora raggiunta una produzione di un miliardo di vani abitabili, né di un milardo di biciclette, ci si può domandare se l’intera infrastruttura industriale esistente nel mondo sarebbe in grado di farlo ora senza interrompere ogni altra produzione per mezzo secolo. Inoltre, supponendo che ciò sia possibile per quattro miliardi di abitanti, non bisogna dimenticare che in mezzo secolo l’umanità conterà un numero di individui ben più consistente. Le promesse dell’industrializzazione non possono dunque essere mantenute, soprattutto nei due ambiti vitali della casa e del cibo. […] La natura abitabile: un ecosistema migliorato Se l’architettura classica si definiva come una disciplina che permette la produzione di certi oggetti o costruzioni, l’architettura di sopravvivenza può essere definita come una disciplina che cerca di produrre degli ecosistemi artificiali o, meglio, di migliorare e rendere abitabili quelli esistenti. Esistono molti ecosistemi che sono fin da ora abitabili e vi sono molte civiltà che li utilizzano. La stessa immagine del giardino dell’Eden non è nient’altro che un ecosistema abitabile senza sforzo di adattamento. Il paradiso si presenta infatti come un’immagine dell’abitazione umana perfetta. La protezione climatica qui non è necessaria, e quindi nessuna costruzione, nessun lavoro per produrre cibo, nessuna necessità di difesa. E’ un’immagine che continua ad avere successo, dai giardini imperiali dell’Oriente al Club Méditerranée. Ma il giardino dell’Eden è un’istituzione fragile: è sufficiente introdurvi un nuovo oggetto, una nuova conoscenza, o usare in modo nuovo gli oggetti esistenti (per esempio la foglia di fico), e il processo di deterioramento ha inizio. Ed è del tutto escluso prevedere un’espansione: nel giardino dell’Eden l’esplosione demografica conduce solo all’espulsione. Il giardino dell’Eden è dunque un ecosistema abitabile prima del peccato originale. In seguito all’intervento umano esso diventa un ecosistema migliorato ma questo miglioramento è, allo stesso tempo, la prima tappa di un processo di decadimento. Non si migliora un ecosistema (sul piano dell’«abitabilizzazione») senza pagare un prezzo, quello dell’accelerazione del processo di distruzione di tale sistema […] Allora come si può abitare un ecosistema senza distruggerlo? Come farlo a prezzo di uno sforzo minimo? Come può una comunità raggiungere questo obiettivo? Qual è l’ecosistema che richiede l’intervento minore? […] Abbiamo appena scoperto qui una delle leggi fondamentali dell’habitat umano e dell’architettura di sopravvivenza: le soluzioni da considerare devono obbedire in primo luogo all leggi di comunicazione tra umani, e solo in seguito a quelle della natura. L’autoconservazione della natura o il suo degrado non sono altro che la risposta dell’ecosistema alle nostre azioni, le quali seguono le leggi dell’organizzazione sociale. Il dialogo uomo-natura inizia dunque dall’uomo. Immaginiamo, per esempio, un sistema di irrigazione la cui manutenzione richieda un’organizzazione sociale troppo complessa, quindi impossibile da realizzare (a causa di certe regole sociologiche). Questo sistema, privo di appropriata manutenzione, si deteriorerà e danneggerà l’ambiente (provocando, per esempio, la salinificazione del suolo come in Mesopotamia). La natura è abitabile a condizione che si sappia come abitarla e che si sia capaci di comportarsi secondo le sue esigenze. […] La natura abitabile: un ecosistema migliorato Quanto alla scelta dell’architettura classica, essa consiste nel trasformare il mondo per renderlo favorevole all’uomo, mentre quella dell’architettura di sopravvivenza consiste nel cercare di limitare le trasformazioni, conservando solo le più necessarie perché l’uomo sia in grado di sopravvivere in condizioni sufficientemente favorevoli (queste trasformazioni permettono l’adattamento dell’uomo e del suo ambiente a una «coesistenza pacifica»). In altre parole, l’architettura classica trasforma le cose per adeguarle all’uso umano, mentre l’architettura di sopravvivenza prova a trasformare il modo in cui l’uomo impiega le cose esistenti (il che potrebbe cambiare la mentalità e il comportamento umano). In questo contesto è interessante confrontare l’esempio di Robinson Crusoe con quello dei soldati giapponesi che dopo la guerra sono sopravvissuti nella giungla. Robinson Crusoe è un colonizzatore che trasforma la sua isola (piante, animali e prodotti vari) per renderla il più possibile simile al suo paese d’origine: è vestito di pesanti pellicce (come si una in Inghilterra), mangia pane e per questo coltiva il grano, lo macina per farne farina, anziché cibarsi dei prodotti commestibili naturali dell’isola. Per conservare le sue abitudini e la consuetudine del suo comportamento – e questo a prezzo di gradi sforzi – egli distrugge la sua isola. Robinson Crusoe è, senza saperlo, un architetto. I soldati giapponesi che dopo la guerra sono stati nascosti nella giungla per decine di anni, non erano degli eroi della letteratura. Essi cercavano solo di sopravvivere, senza per questo voler mantenere le loro abitudini (a meno che le abitudini giapponesi possano essere salvaguardate senza violare l’ambiente). Si sono nutriti della giungla, l’hanno abitata, hanno trasformato se stessi per potervi vivere. Questi soldati giapponesi perduti erano, senza saperlo, degli architetti della sopravvivenza. Tratto da Yona Friedman; L’architettura della sopravvivenza. Una filosofia della povertà; Bollati Boringhieri; Torino 2009; pp. 12-14, 21-25, 62-64, 82-91 Renzo Piano La responsabilità dell’architetto Passigli La responsabilità dell’architetto è il volume che raccoglie il racconto-intervista dell’architetto Renzo Piano con il giornalista Renzo Cassigoli. Attraverso il tono colloquiale di quella che non è un’intervista formale ma un’amichevole conversazione nella quale la domanda non è mai fine a se stessa e dalla risposta scaturisce sempre un nuovo interrogativo, Piano commenta i suoi lavori avanzando riflessioni più generali sulla sua professione, sul rapporto fra architettura e arte, sul peso della memoria, sulla responsabilità dell’architetto. In particolare, riflettendo sul tema della tecnologia egli definisce quest’ultima come uno «strumento» da utilizzare con discrezione e declinare localmente, mentre nel capitolo dedicato al concetto di architettura sostenibile l’architetto si schiera apertamente contro l’idea di crescita senza limiti e contro la fiducia incondizionata verso il tema del progresso scientifico e tecnologico auspicandosi che quest’ultimo inizi ad essere interpretato in funzione di quello etico e morale, provando così a colmare quello «spaventoso divario» fra i due – inarrestabile il primo e inesistente il secondo – che si regista nella nostra modernità. Tecnologia Piano - […] L’architetto lavora con gli strumenti del suo tempo. E’ come l’autobus, se ti serve lo prendi, se ti porta da un’altra parte da quella dove vuoi andare, non ci Sali. Non serve oscillare fra la condanna e l’esaltazione della tecnologia. La tecnologia va utilizzata con discrezione, non va ostentata. Questo è un mestiere in bilico fra tecnica e arte. Se lo separi, o cadi da una parte o cadi dall’altra. Quindi, in bilico deve restare. A Punta Nave si incontrano artigianato ed alta tecnologia. E’ dannoso pensare che tecnica e arte appartengano a due universi separati. Poi, se uno è sciocco, resta uno sciocco. E bisogna essere molto sciocchi per farsi fregare da un computer. Ma guardali nel video questi stupidi attrezzi. Magari c’è qualcuno che in questo momento si sta sintonizzando con gli uffici che abbiamo a Sidney, ma perché questo dovrebbe limitarmi nella mia fantasia? […] L’architettura sostenibile Cassigoli - In ‘Giornale di bordo’ tu hai scritto: «Se rispetto dell’ambiente significa mettersi le ciabatte per camminare su un prato, allora non mi interessa». Poi hai spiegato: «E’ giusti invece parlare di sostenibilità dell’architettura: significa capire la natura, rispettare la fauna e la flora. Collocare correttamente edificio e impianti, sfruttare la luce e il vento». Ciò che colpisce in questa dichiarazione è che, per quel che ne so, Renzo Piano è l’unico a parlare di ‘architettura sostenibile’ alla fine di un secolo e di un millennio in cui si è costretti a fare i conti con la sostenibilità di uno sviluppo (che non è infinito) in diretto rapporto con la salvezza del pianeta e delle specie che lo abitano. E ciò che colpisce ancora di più è che tu non solo ne parli ma, sfidando l’Utopia a farsi luogo possibile per l’uomo, metti in pratica il concetto con le opere realizzate in paesi e continenti diversi. In questo senso, porti gli esempi dei due progetti realizzati nel Pacifico: il Centro culturale Kanak a Noumea in Nuova Caledonia e la torre di Sidney, ma potremmo citare molte altre opere, dal museo della fondazione Bayeler a Basilea, al Lingotto di Torino Una scelta che implica rispetto non solo per l’ambiente, ma anche per la cultura che in esso si esprime. Un rapporto intelligente con l’ambiente che, hai scritto, «come tutti i rapporti di intelligenza, comporta anche un certo grado di tensione tra il costruito e la natura». Ma come si arriva a concepire l’‘architettura sostenibile’? Piano – Come si arriva? Una bella domanda. Io posso dirti che ci sono arrivato pian piano imparando. Perché, come tu sai, nella vita non si smette mai di imparare. Io ho iniziato il mio mestiere giocando, poi, come sempre avviene, piano piano sono cresciuto. E crescendo impari abbastanza rapidamente che le parole ‘modernità’ e ‘progresso’ sono due trappole infernali e che nel loro nome continuano a fregarti. Così come continuano a fregarti con un’altra parola che è stata fondamentale in questo Paese e in Europa: la parola a cui mi riferisco è ‘crescita’, un’altra trappola, insomma. Cassigoli – Ma la crescita non può essere in-finita. E’ questo che ti ha fatto pensare ad un’‘architettura sostenibile’? Piano - E’ questa idea di crescita senza limiti che ha fatto esplodere le nostre città ed ha fatto costruire le peggiori periferie, fatte di mura ma senza le strutture nelle quali una società si organizza e vive. Ecco come si arriva a riflettere su una ‘architettura sostenibile’. Nel secondo dopoguerra e fino agli anni sessanta le città sono esplose rubando spazio alla campagna e ai comuni vicini dando vita ad una sosta di conurbazione continua. Alla fine oggi, dopo aver tanto peccato, cominciamo a capire che la crescita non può essere che sostenibile. E allora, per esempio, abbiamo cominciato a ragionare fin dagli anni ottanta su come abbiamo costruito ed a riflettere sul fatto che, invece di farle esplodere, queste città dovevamo cercare di farle implodere, dovevamo cercare di riassorbire i vuoti urbani provocati dal processo di deindustrializzazione; dovevamo cercare di recuperare quei ‘buchi neri’, provocati dalle aree industriali che si andavano liberando man mano che la città, crescendo, rendeva necessario lo spostamento delle attività produttive. Del resto, cos’era Potsdamer Platz se non il ‘buco nero’ di Berlino? Si trattava di affrontare un processo complesso che portava ad occuparsi dei centri storici. Prendevamo coscienza, insomma, della necessità di recuperare le aree rimaste intrappolate dalla crescita a dismisura delle città. Questo vuol dire che, forse, la città comincia a rigenerarsi, comincia a rimarginare le sue ferite? Certo, ma i tempi ahimè, sono lunghi e non è detto che l’esito sia scontato. Sarà necessario assecondare il processo evitando di ripetere errori già commessi. Fondamentale sarà la lezione delle città antiche. Che sono state capaci di estendersi e di adeguarsi, sopravvivendo così nei secoli per giungere fino a noi. Bisognerà fare molta attenzione perché il nostro secolo ha fatto degenerare la città: questa grande invenzione dell’uomo. Ne ha inquinati i valori positivi, ha alterato la miscela delle funzioni che ne è alla base; la stessa socialità, che ne è il carattere distintivo e poi, anche la qualità architettonica. La qualità del costruito, eredità di un tempo che fu e che oggi sopravvive a stento, soffocata e snaturata nei nostri centri urbani. Insomma, invece che continuare a farle esplodere, dovremmo invece completare il tessuto della città. E questa è già un’idea più interessante ed accettabile del concetto di una ‘crescita’ senza fine: l’idea della ‘crescita sostenibile’, attraverso la quale le periferie possono trasformarsi in città. E’ questa la nostra vera, grande scommessa per i prossimi cinquant’anni. Cassigoli – Una completa inversione di rotta. Piano – Ecco, un’inversione di rotta. Negli ultimi cinquant’anni, dalla fine della guerra in poi, abbiamo fatto esplodere le città e abbiamo creato periferie invivibili, vediamo se nei prossimi cinquant’anni potremo trasformare queste periferie in città. Cassigoli – Ma come? Non basterà un impulso dall’alto, sarà necessaria una nuova stagione culturale che agisca nel profondo della società, modificando radicate abitudini con l’iniezione di nuove sensibilità. Quando parli di un lavoro di lunga lena è a questo che ti riferisci? Piano – Bisogna riuscire a far sbarcare anche in periferia quella ricerca che tende a costruire una ‘città felice’. Dov’è scritto che la città per essere vera, deve essere triste? La ‘città felice’ è un concetto da far sbarcare anche nelle periferie trovando così la strada per uscire dall’inganno, dalla trappola infernale in cui ci siamo cacciati facendo dei quartieri periferici, talvolta anche degnamente costruiti, dei luoghi dove sia possibile vivere e non solo dei dormitori. Perché fino a quando saranno dormitori non saranno città, ma luoghi nei quali più facilmente può annidarsi la delinquenza, rendendo tutto sempre più difficile. Come vedi, questo concetto della ‘crescita’ è figlio del concetto di ‘progresso’; figlio, a sua volta, della ‘modernità’.Tutti grandi temi sui quali ci hanno fregato. Ma ti rendi conto che siamo all’anno Duemila? Come ci faceva sognare il Duemila, quando eravamo ragazzi! Ti ricordi? La fantasia non aveva freni. Caro, Cassigoli, ci hanno fregato! Te lo do io il Duemila. Altro che, se ci hanno fregato. Hanno tolto il tram dalle città per darci gli autobus, che erano più moderni, dicevano. Ti ricordi? Sembra un secolo fa e sono passati solo pochi anni. Altro che la modernità dell’autobus. Il tram non inquina, è economico, è razionale ai fini del traffico, non ha bisogno di corsie preferenziali, perché ha le rotaie, è affidabile. E’ un mezzo di trasporto più moderno dell’autobus, anche se ha cent’anni. Ma cos’è veramente moderno? Ce lo siamo mai chiesti? Facciamo spesso l’errore di pensare solo in termini di attualità e così essere moderni è come cambiare un vestito, seguire la moda. Che grande malinteso. Come se dovessimo considerare il cemento armato più moderno del legno o dei mattoni solo perché esistono i pannelli prefabbricati in cemento che, come sappiamo, rendono l’ambiente più rigido rispetto alle funzioni. Occorre guardarsi da queste trappole. E’ successo tutto così in fretta, che non abbiamo pensato che la modernità vera può risiedere nel materiale, nella tecnica costruttiva, nell’idea più antica. Siamo cascati nella trappola della ‘modernità’ e ci siamo fregati da soli. Ci siamo autosuggestionati, non è così? Cassigoli - Il grande tema del progresso. Anders ne ‘L’uomo antiquato’ osserva: «Cambiare il mondo non basta. Lo facciamo comunque. E, in larga misura, questo cambiamento avviene persino senza la nostra collaborazione. Nostro compito è anche interpretarlo. E ciò, precisamente per cambiare il cambiamento. Affinché il mondo non continui a cambiare senza di noi. E, alla fine, non si cambi un mondo senza di noi». Se per cambiamento possiamo intendere progresso, possiamo dire, quindi, che anche il progresso va interpretato. Piano - Per cercare di interpretare, o meglio, di capire il tema del ‘progresso’, basta riflettere un attimo su una cosa molto, ma molto semplice: l’etica. Basta chiedersi: sì, c’è stato un grande progresso tecnico e scientifico in questo secolo che ci sta lasciando, ma è stato altrettanto il progresso etico e morale? Purtroppo la risposta è «no»! Lo scarto è proprio questo. Quella è la terribile differenza che corre tra progresso scientifico e tecnico e consapevolezza etica e morale. Ma tu pensa che disastro. Rifletti su questo grande tema, così caro al vecchio Bobbio (a cui facciamo tanti, tantissimi auguri). Ecco il grande tema per i prossimi anni: cominciare a colmare lo spaventoso divario che si registra nella nostra crescita, nella nostra modernità. Il divario tra un progresso scientifico e tecnologico (che indubbiamente c’è stato) e un progresso etico inesistente. Casigoli - «Il fine giustifica i mezzi» scrive Bobbio ne ‘L’elogio della mitezza’. E poi si chiede: «Ma chi giustifica il fine? Forse che il fine a sua volta non deve essere giustificato?». Il grande filosofo, a questo punto, aggiunge una lunga, pressante serie di interrogativi: «Ogni fine che si proponga è un fine buono?». «Non deve esservi un criterio ulteriore che permetta di distinguere i fini buoni dai fini cattivi? E non ci si deve domandare se i mezzi cattivi non corrompano per avventura anche i fini buobi?». Insomma, incalza ancora Bobbio: quella che conta «è l’etica dei risultati e non dei principi? Ma di tutti i risultati? E se si vuole distinguere risultato da risultato non occorre ancora una volta risalire ai principi». Ecco, proprio gli interrogativi di Bobbio ripropongono il nodo che tu poni alla riflessione a proposito del rapporto tra il progresso e l’etica. Le regole, quindi, non per la scienza, ma per la tecnologia e i suoi usi. Piano – Un concetto chiarissimo in Bobbio. Basta pensare a quel che è accaduto a Timor qualche mese fa e a quel che sta accadendo ancora in giro per il mondo e, prima ancora, nel Kosovo e a Sarajevo, o a quel che è accaduto e continua ad accadere in Africa o in America Latina: le guerre etniche e tribali (magari per conquistare terre povere e altre terre ricche di petrolio o di diamanti); la fame che uccide centinaia di migliaia di bambini. Tu, adesso, mi provochi su questo grande tema dell’architettura sostenibile. Ma come si può non essere sensibili ad una critica nei confronti del grande tema del progresso, della fiducia ottimista e incondizionata verso il tema del progresso, della crescita e della modernità? Come si fa a viverla in maniera così spensierata e irresponsabile visto che poi, in ogni momento, scopri che di fronte a quella finta crescita (perché è stata finta!) tutto è rimesso in discussione? Ed è rimesso in discussione perché non siamo cresciuti, ma siamo semplicemente ‘esplosi’. Le città sono esplose ed abbiamo fatto dei disastri spaventosi. Nulla è successo di quello che pensavamo accadesse quand’eravamo ragazzini negli anni quaranta e cinquanta. Gli anni Duemila: «T’el chi il Duemila»! Ci hanno fregato. E, allora, a questo punto ti giro la domanda: come potresti essere se non così? Come potresti essere diverso da quello che sei di fronte a ciò che accade nelle città e nel mondo? Tratto da Renzo Piano; La responsabilità dell’architetto. Conversazione con Renzo Cassigoli; Passigli Editori; Firenze 2004; pp. 24-29, 34-43 Democratizzazione Renzo Piano Giornale di bordo. Otranto 1978. Passigli, Firenze, 1997 Nella presentazione dei suoi lavori nel Giornale di bordo Piano definisce l’architettura come un’arte socialmente pericolosa, perché imposta a tutti, che deve quindi essere pensata come un mestiere di «servizio», di artigiani che lavorano non come artisti e demiurghi ma per la gente. In questo senso, il compito del progettista diventa quello di avviare un processo rivolto alla definizione di «cantieri infiniti» e opere «im-perfette», capaci di dare sostanza all’idea di architettura come arte contaminata. Ad Otranto, per esempio, l’architetto avvia, con il patrocinio dell’Unesco, un programma di riabilitazione dei centri storici pensando ad un progetto di democratizzazione dei processi decisionali come mezzo attraverso il quale far rinascere l’orgoglio di vivere nella città antica. Piano, in questo caso, va alla ricerca di un rapporto diretto con i «fatti della vita», dedicandosi all’«arte dell’ascolto» secondo una prospettiva nella quale la conoscenza della «storia clinica» e non solo dei sintomi di un luogo diventano centrali, trasformando la figura del progettista in quella di un «architetto condotto» aperto alla collaborazione sia con i cittadini che con tutti i professionisti raccolti intorno al progetto. Una professione in crisi Ho sempre parlato di un temuto tramonto della professione di architetto. Ho detto che quello dell’architetto è un ruolo in via di sparizione, come il lampionaio o il rabdomante. E’ una provocazione, naturalmente: l’architettura è sempre necessaria, ora più che mai. L’incompetenza, l’irresponsabilità, la presunzione, il poco amore per il mestiere, sono queste le cose che sminuiscono e vanificano il nostro lavoro. Credo che a questa professione vada data una nuova dignità. Per fare questo, occorre tornare alle origini. In primo luogo, chi è l’architetto? L’architettura è un servizio: questa è una lezione di sobrietà che dovremmo tenere a mente tutte le volte che la nostra disciplina si perde nei meandri delle mode, degli stili, delle tendenze. Non è moralismo, forse è solo senso del pudore, un modo di restituire alle cose la loro giusta dimensione. In secondo luogo, l’architetto è chi sa fare le cose per la gente. Conosce i materiali e le strutture, studia la direzione del vento e l’altezza delle maree. Governa il suo processo produttivo e gli strumenti con cui è chiamato a lavorare – in altre parole, sa perché e come si costruiscono le case, i ponti, le città. In ogni crisi c’è una forma di autocompiacimento. Alcuni architetti si crogiolano nella loro inutilità sociale, vera o presunta. E’ un classico atteggiamento auto razzista. In questo modo diviene un pretesto per rifugiarsi nella pura forma, talvolta nella pura tecnologia. Rifiutano la loro dimensione di artigiani per promuoversi artisti, e così scivolano rapidamente nell’accademia. Lo so, non si può generalizzare, e difatti non generalizzo. […] L’impegno dell’architetto L’architettura è un’arte socialmente pericolosa, perché è un’arte imposta. Un brutto libro si può non leggere; una brutta musica si può non ascoltare; ma il brutto condominio che abbiamo di fronte a casa lo vediamo per forza. L’architettura impone un’immersione totale nella bruttezza, non dà scelta all’utente. E questa è una responsabilità grave, anche nei confronti delle generazioni future. Non è un’osservazione mia, ma ci serve per una riflessione più allargata. Qual è allora l’impegno dell’architetto? Dice Neruda che quando uno fa il poeta, quello che ha da dire lo dice in poesia, non ha un altro modo di spiegarlo. Io, architetto, la morale non la predico: la disegno e la costruisco. Cercando di mantenere il senso profondo del nostro mestiere, l’architettura come servizio, come progetto di convivenza. Anche in questa progettualità l’architetto può diventare pericoloso. La sua utopia, diversamente da altre utopie, è destinata, è condannata a materializzarsi. La visione del mondo dell’architetto diventa mondo. Allora può credersi un demiurgo, può credersi investito dal compito di inventare il futuro; o può accettare, più modestamente, il fatto di aver avviato un processo. Io credo che la nostra opera sia sempre un oggetto non finito, perché è nella natura delle relazioni umane (quindi anche delle città) essere un processo in continua evoluzione. L’architetto fa partire qualcosa; ma il futuro, naturalmente, gli sfugge. A maggior ragione, saldo deve essere il punto di inizio, perché nel determinarlo l’architetto afferma i suoi valori e la sua moralità. Otranto. Laboratorio di quartiere In un certo senso, Beaubourg è il lavoro che un architetto sogna a trentacinque anni: grande, prestigioso, visibile. Però dopo Beaubourg ci fu un momento di vero affaticamento. L’esperienza era durata sei anni, una full immersion in un lavoro e in una città: nonostante l’enorme successo di questo edificio, essa ci segnò fortemente, anche nel senso che diede, a Richard e me, l’esperienza forte di un lavoro di équipe. Faccio questa premessa per dire che ci fu una specie di reazione, subito dopo. I rapporti con Pontus Hulten, con Pierre Boulez, con Luciano Berio mi avevano fatto scoprire dimensioni e discipline che non avevo incontrato né durante la mia formazione universitaria, né durante la mia vita professionale precedente. Essa era stata una grande lezione sul piano umano, che mi aveva dato stimoli e curiosità nuove. Avevo scoperto le enormi possibilità aperte dal conoscere le esperienze degli altri. Ancora: Beaubourg era stata la fabbrica di una cattedrale, a diretto contatto con la Cultura e la Politica, iniziali maiuscole. A quel punto avevo voglia di tornare ad un rapporto più diretto con i fatti della vita, voglia di riimmergermi nella realtà di un cantiere meno gigantesco. Non so se fosse una forte nostalgia del mio passato genovese, ma (paradossalmente) un aspetto che mi era mancato durante i sei anni passati a Parigi era il rapporto con la città antica. Così quando Wolf Tochtermann dell’Unesco ci profilò la possibilità di sviluppare un intervento ad Otranto, mi sembrò esattamente la cosa giusta da fare. Mi riportava infatti a lavorare su un tema a me caro: l’attualità dei centri storici. Se tu ti guardi in giro e ti chiedi: «Quali sono oggi i grandi temi per un architetto?», almeno in Europa non ci sono dubbi: il recupero degli edifici storici, la riqualificazione delle aree degradate, la qualità dell’ambiente domestico. E questi erano i problemi che affrontammo nell’esperienza di Otranto. Fu un’avventura modesta per dimensioni e durata, ma estremamente interessante. A Otranto sviluppammo un laboratorio di quartiere che si basava sulla collaborazione totale degli abitanti. Insieme si faceva il progetto; insieme si sceglievano, si mettevano a punto, qualche volta si sperimentavano gli strumenti di intervento; insieme si attuava anche il cantiere. Si operava sul territorio come un buon medico condotto opera sulla salute: con un approccio globale, basato sulla conoscenza della storia clinica e non solo dei sintomi. Avevamo creato in un certo senso la figura dell’‘architetto condotto’. La nostra metodologia di approccio prevedeva di ridurre al minimo gli sconquassi e di lavorare nel quartiere senza impedire agli abitanti di viverci. Usando tecniche diagnostiche non distruttive (in qualche caso prese a prestito dalla medicina) realizzammo un cantiere che, invece di spaccare tutto, cercava di capire quando un intervento era davvero necessario. Il ragionamento era: se il muro non è pericolante, perché buttarlo giù? Sembra una banalità, ma andava contro tutta la prassi precedentemente seguita nel recupero dei centri storici. Complice un’osservazione fatta in proposito dal filosofo Gianni Vattimo, che in un articolo definì la nostra esperienza di Otranto un ‘cantiere debole’, cioè un cantiere dal tocco ‘leggero’. Questo esperimento ebbe una eco interessante che andava al di là della sua portata materiale: ciò avvenne anche grazie ad alcune collaborazioni di altissimo livello. L’impresa che gestiva i lavori era quella di Gianfranco Dioguardi; il giornalista Mario Fazio ci aiutò a impostare la metodologia del processo partecipativo; il regista Giulio Macchi curò la raccolta dei resoconti di storia orale; il fotografo Gianni Berengo Gardin si occupò di documentare le varie fasi del progetto e Magda Arduino, la mia prima moglie, predispose i testi per i films. L’intervento si divideva in quatto fasi, cui corrispondevano altrettanti settori: la diagnostica, la progettazione, il laboratorio operativo, la memorizzazione. Tutte le attività coinvolgevano gli abitanti del quartiere. Nel laboratorio entravano in gioco con forza gli aspetti della partecipazione e della comunicazione. Per noi fu una immersione in quella che chiamo ‘l’arte dell’ascolto’. Recentemente il sindaco di Napoli Bassolino mi ha fatto un’osservazione molto sottile: in questi casi il processo partecipativo serve soprattutto a far rinascere l’orgoglio di vivere nella città antica. In questo senso, di Otranto, ricordo momenti molto belli. Alcuni nostri esperimenti erano diventati un’attrazione: come la macchina fotografica per i rilievi aerofotometrici, che avevamo appeso a un pallone pieno di elio. Tutte le volte che lanciavamo questa piccola mongolfiera e la riportavamo sulla piazza, era una festa. E poi, naturalmente, le assemblee con la popolazione: centinaia di persone attente e interessate, riunite la sera intorno alla nostra tenda a parlare di storia, di materiali, di architettura. Tratto da Renzo Piano; Roberto Brignolo (a cura di); Giornale di bordo; Passigli; Firenze 1997; pp. ???? Alejandro Aravena Elemental Electa, 2007 Alejandro Aravena. Progettare e costruire è la prima monografia che presenta il pensiero e i lavori dell’architetto cileno e dell’Elemental Team, il laboratorio progettuale che Aravena ha fondato, insieme all’ingegnere Andrès Iacobelli e all’architetto Pablo Allard, con l’obiettivo di progettare e realizzare interventi di edilizia sociale pubblica. L’introduzione al testo e le relazioni progettuali presentate mettono in evidenza un approccio basato sulla volontà di definire architetture «irriducibili» fondate sul principio del fare «mas con lo mismo» e capaci di pensare alla popolazione come ad una risorsa. Il sistema della costruzione aperta ideato dallo studio si spinge infatti oltre il tema dell’autocostruzione, proponendosi come elemento infrastrutturale capace di riconoscere valori, fissare connessioni fra gli attori e ordinare bisogni e aspettative talvolta anche contrastanti. Secondo un’idea di democratizzazione fortemente incentrata sulla leva del sociale e sulla consapevolezza che il progresso reale di ciascun gruppo dipende prima di tutto dalla capacità di ogni progettista di leggere le informazioni indispensabili per supportane le dinamiche interne sin dall’inizio del lavoro progettuale. Dell’irriducibilità Quando pensavo che una sedia non potesse essere meno di questo [rappresentazione elementare di una sedia]…Ho visto questo [rappresentazione di un indiano seduto a terra su un pezzo di pelle]… Tre cose si possono dire sulla sedia che avvolge questo indiano della tribù Ayoreo. Primo: quest’uomo non si può permettere altra sedia che questo modesto pezzo di stoffa. E’importante saper progettare con scarsità di mezzi. Secondo: quest’uomo è un nomade; quindi, anche se potesse permettersela, nessun altro tipo di stoffa avrebbe senso per lui. Il progetto deve anche essere preciso. Terzo: il pezzo di stoffa è il limite ultimo prima che il nome (sedia) diventi puro verbo (sedersi). Il progetto deve aspirare all’irriducibilità. Mi impegno perché il mio approccio al progetto risponda alla seguente equazione: il pezzo di stoffa sta alla sedia come X sta all’architettura. Cerco sempre di conferire a X un valore che sia il più possibile irriducibile. Lo specchio e il mantello Faccio sempre del mio meglio per ottenere che i miei lavori possiedano la doppia valenza di specchio e mantello. Da un lato, l’opera di architettura dovrebbe essere un oggetto capace di resistere ad uno sguardo attento, capace, se interrogata in qualità di oggetto artistico, di rispondere coerentemente fino al punto di riuscire a riflettere un momento nel tempo, il livello di sviluppo di una cultura, di una società o di un sistema di valori. Dall’altro, l’opera architettonico dovrebbe comportarsi come un luogo, riuscire a scomparire nella coda dell’occhio, a dissolversi in silenzio, lasciandoci fare senza problemi ciò che facciamo normalmente: lavorare, riposare, studiare, dormire, cucinare, mangiare, insomma vivere. Come una finestra: da un lato, essa dovrebbe essere vista e giudicata come un elemento costruttivo, come un vocabolo di un linguaggio architettonico, e dovrebbe riuscire a corrispondere a quel tipo di disamina; ma, da un altro lato, il suo fine ultimo è scomparire e lasciare che lo sguardo e l’aria l’attraversino, consentendoci di concentrarci su tutto ciò che non è la finestra […] Elemental I tre complessi residenziali illustrati nelle pagine seguenti – Iaquine, Renca e Lo Espejo – fanno parte del programma Elemental, un ‘Do Tank’, associato alla Pontificia Università Cattolica del Cile e a Copec (la Compagnia Petrolifera Cilena), la cui finalità è progettare e realizzare interventi urbani di edilizia sociale pubblica. Per innescare un significativo innalzamento della nqualità degli alloggi, Elemental opera all’interno delle condizioni di mercato. Negli ultimi decenni il Cile ha sviluppato una politica abitativa efficiente e apprezzata, che ha permesso di ridurre sistematicamente la carenza di case nel paese. In termini generali, si tratta di una politica basata sulla domanda, che vede l’industria edilizia privata (non lo Stato) costruire quartieri residenziali destinati alla proprietà, in cui gli alloggi non sono affittati ma ceduti dallo Stato ai beneficiari. Questo modello ha portato, nel decennio trascorso, alla realizzazione, sull’intero territorio nazionale, di un milione di abitazioni popolari ad un costo medio di 12.000 dollari per unità, per un investimento totale di 12 miliardi di dollari: un risultato che si può definire straordinario per un paese con 15 milioni di abitanti e circa 5 milioni di famiglie. In tale contesto si è deciso di operare nell’ambito del nuovo programma VSDsD – Vivienda Social Dinamica sin Deuda, varato dal Ministero per la Casa e l’Urbanistica nel marzo 2001 e rivolto specificatamente alle fasce maggiormente disagiate della popolazione, vale a dire a quei soggetti che non hanno la possibilità di rimborsare un mutuo. Il programma prevede una sovvenzione fiscale di 9700 dollari, che, sommata a una certa quota di risparmi familiari quantificata in 300 dollari, deve coprire i costi sia dell’acquisto del terreno sia delle infrastrutture e del progetto. Considerando i valori attuali del mercato immobiliare cileno, 10.000 dollari sono sufficienti a realizzare appena una trentina di metri quadri. Ciò significa che gli assegnatari, pur non dovendo pagare nulla, sono però costretti a costruire per proprio conto e rapidamente ciò che serve a trasformare la soluzione abitativa iniziale in un vero alloggio 8di qui il nome del programma). Coordinate progettuali. Il mercato dell’abitazione sociale è più simile a quello delle automobili che non a quello delle case. Se, quando si acquista un’abitazione o si investe nel settore immobiliare, ci sia attende che il capitale iniziale si incrementi nel tempo, nel caso dell’edilizia popolare, invece, accade esattamente il contrario: ogni giorno che passa, il valore di una percentuale intollerabilmente alta di unità realizzate attraverso questa politica diminuisce, proprio come accade per le automobili. Nel programma Elemental è stata indicata una serie di requisiti progettuali che possono consentire agli alloggi popolari di acquistare valore con l’andare del tempo, diventando quindi, per le famiglie beneficiarie e per il governo, un investimento proficuo invece del costo sociale che rappresentano attualmente. Localizzazione. Il fattore che una famiglia non potrà mai cambiare, per quanto denaro, tempo o energia profonda, è la localizzazione della casa, che è anche il dato più influente nella determinazione del valore della proprietà. A fronte di costi per la costruzione e le infrastrutture più o meno oggettivi, l’unico bene sul quale il mercato cerca di ricavare profitto è il terreno. Ecco perché l’edilizia popolare tende a individuare aree che costino il meno possibile, in genere distanti dalle opportunità di lavoro e dai servizi (scuola, mezzi di trasporto, strutture sanitarie) offerti dalle città. Questa dinamica speculativa ha sempre indotto a situare gli interventi di edilizia popolare in uno ‘sprawl’ periferico impoverito, creando cinture di risentimento, conflitto sociale e ingiustizia. In tutti e tre i progetti qui documentati si è cercato di acquistare aree convenientemente integrate nei rispettivi contesti urbani. Per sopperire alla spesa ragguardevole derivante dall’acquito di lotti posizionati strategicamente si è dovuto ricorrere a una densità isediativa che permettesse di ripartire tale onere tra il maggior numero possibile di famiglie. La progettazione ha svolto un ruolo chiave nell’evitare che l’alta densità si traducesse in sovraffollamento. Spazio comunitario. In secondo luogo, si è valutato che la disponibilità di uno spazio fisico nel quale si potessero instaurare relazioni di solidarietà e collaborazione del tipo ‘famiglia allargata’ avrebbe costituito una risorsa essenziale nel migliorare il bilancio economico dei nuclei familiari più poveri. Tra spazio pubblico e privato, è stato pertanto introdotto uno spazio collettivo concepito per circa venti famiglie: si tratta di una proprietà comune, con accesso limitato, pensata per promuovere livelli intermedi di associazione che consentono di sopravvivere in condizioni sociali precarie. Autocostruzione. In terzo luogo, poiché si prevedeva di realizzare il 50% del volume di ogni unità abitativa in una seconda fase, ricorrendo all’autocostruzione, occorreva predisporre un tessuto edilizio sufficientemente poroso da consentire ad ogni alloggio di ampliarsi entro i propri confini. La struttura di base fornisce dunque un supporto non vincolante, capace di evitare gli eventuali effetti negativi che l’autocostruzione può indurre nel tempo sull’ambiente urbano, ma anche di agevolare il processo di espansione. Taglio degli alloggi. Infine, si è deciso di studiare i 30 metri quadri consentiti dal budget, non come una casa minima, ma come il nucleo di partenza di un’abitazione di taglio medio. Questo ha significato progettare cucine, bagni, scale, muri divisori e tutte le componenti più complesse della casa pensando allo scenario finale di un alloggio di 72 metri quadri. In definitiva, se i fondi assegnati bastano solo per metà della casa, il problema sostanziale è da quale metà partire. Si è scelto di partire dalla metà che una famiglia non è di solito in grado di costruire da sola. Grazie a tutte le caratteristiche elencate, i tre progetti eleborati intendono offrire un contributo, utilizzando gli strumenti dell’architettura, alla soluzione di problemi non architettonici: nello specifico, alla sconfitta della povertà. Quartiere di abitazione Elemental Quinta Monroy Nel 2003, il programma governativo Chile-Barrio ha chiesto a Elemental di sviluppare un progetto per Quinta Monroy, l’ultimo insediamento irregolare della città di Iaquine, situata nel deserto cileno. Si trattave di studiare una soluzione abitativa per ospitare le 100 famiglie che da trent’anni occupavano abusivamente un’area di mezzo ettaro nel pieno centro della città, utilizzando un sussidio di 10.000 dollari per famiglia, destinato a coprire i costi di terreno, infrastrutture e progettazione. Sebbene vi fossero condizioni ambientali e di vita pessime (il 60% delle baracche era privo di illuminazione e ventilazione dirette e vi erano notevoli problemi di delinquenza e spaccio di stupefacenti favorito dalla struttura labirintica dell’insediamento), la priorità assoluta del progetto è stata permettere a quelle persone di restare sul posto. Tale volontà nasceva dalla conoscenza dell’importanza rivestita dalla rete di opportunità costruite in trent’anni intorno al sito e rappresentate da trasporti, lavoro, educazione pubblica e strutture sanitari e migliori rispetto a quelle di altri quartieri popolari situati in periferia. Del resto, tale vicinanza ai servizi urbani e alle occasioni di impiego si rifletteva in un costo del terreno tre volte superiore a quanto normalmente i programmi di edilizia sociale possono pagare. Nell’affrontare il progetto, il primo passo è stato ribaltare il problema e non pensare al miglior prototipo abitativo realizzabile con 10.000 dollari, da moltiplicare poi per 100 volte, ma piuttosto al miglior edificio costruibile con 1 milione di dollari, da suddividere fra 100 famiglie, offrendo a ciascuna la possibilità di un’eventuale espansione futura del proprio alloggio. Gli edifici, però, di solito precludono gli ampliamenti, salvo che al piano terra e all’ultimo. Per questa ragione si è deciso di sviluppare una struttura composta solo da un piano terra e ultimo: in altre parole, una casa su ciascun lotto con sopra un’unità duplex. Si è definita tale configurazione ‘edificio parallelo’. In questo modo, collocando due famiglie per lotto, si è raddoppiato l’indice di sfruttamento del terreno ancora prima di iniziare il progetto. In sintesi, la proposta di Elemental per la Quinta Monroy è consistita nella ripartizione del terreno in lotti 9x9, sui quali sono stati costruiti volumi di 6x6x2,5 metri, contenenti bagno, cucina e un locale loft. Sopra a questi, appoggiati ad una soletta di cemento definita ‘parete divisoria orizzontale’, sono stati disposti alloggi duplex di 6x6x5 metri, realizzando, nella fase iniziale, solo metà del volume (3x6x5 metri), comprendente anch’esso cucina, bagno e ambiente loft a doppia altezza. Tutte le unità hanno accesso individuale diretto allo spazio comune. In termini costruttivi, il duplex è stato pensato come una struttura a ‘C’ di sette pieni: il muro divisorio verticale per tutta la sua altezza ed entrambe le facciate. Ciò dovrebbe garantire il necessario isolamento acustico e creare una barriera antincendio tra le proprietà, ma anche rappresentare un supporto sufficientemente solido per le previste espansioni spontanee e recinzioni ‘low-tech’ larghe 3 metri. Il quarto lato del duplex è in lamiera ondulata: una parete non rigida, quindi, che può essere facilmente asportata in caso di ampliamenti e servire anche come rivestimento per coprire il vuoto tra i moduli residenziali. La prima fase di incremento dell’alloggio dovrebbe, tuttavia, avvenire suddividendo la doppia altezza interna e perciò è stata definita ‘impansione’. L’ampliamento della casa al piano terra dovrebbe invece svolgersi inizialmente sotto la soletta, raggiungendo facilmente i 54 metri quadri, e utilizzare poi la corte retrostante – conservando un vuoto centrale che continuerebbe a fungere da cortile – per arrivare a un’estensione massima di 72 metri quadri così organizzati: 4 camere da letto 3x3 metri con zona giorno da 3x6 metri più cucina e bagno. Alla scala urbana, il fattore chiave per migliorare le condizioni economiche dei nuclei famigliari disagiati è stato identificato nella creazione di uno spazio fisico nel quale possano svilupparsi forme di cooperazione e solidarietà da ‘famiglia allargata’. Gli stessi utenti hanno chiesto di essere distribuiti attorno a 4 piazze collettive con accesso controllato, studiate per 20 famiglie circa ciascuna. Tratto da Alejandro Aravena; Alejandro Aravena. Progettare e costruire; Electa; Milano 2007. Giancarlo Mazzanti L’architettura nella trasformazione sociale di Medellin Lotus International, 2011 Negli ultimi anni la città di Meddelín ha cambiato la sua fisionomia e la sua immagine attraverso politiche sociali ed economiche e con la realizzazione di molti progetti pubblici che, coinvolgendo gli interessati nel processo progettuale e costruttivo e sensibilizzando la comunità in un processo culturale emancipativo, hanno contribuito al programma politico sperimentando approcci economici ed innovativi nei quali il contatto diretto con i referenti è elemento centrale. Giancarlo Mazzanti, ideatore del metodo progettuale sperimentato a Medellín, in particolare esprime l’intento di migliorare le condizioni di vita degli abitanti di alcune aree difficili del suo paese attraverso la costruzione di servizi e infrastrutture che lavorano, oltre che sulle funzioni, anche sulla percezione del cambiamento da parte della comunità. L’idea è quella di sviluppare processi progettuali democratizzati capaci di generare «inclusione sociale» attraverso architetture «attuanti», capaci di stimolare nuovi comportamenti e nuovi rapporti tra gli abitanti. «Architetture pregnanti» derivate non solo dalla descrizione scientifica della cultura e della società studiate dall’architetto, ma da una negoziazione di significati in grado di favorire la partecipazione e migliorare la qualità della vita. La città di Medellín è oggi un modello di trasformazione sociale in cui l’architettura svolge un ruolo fondamentale come parte di un più ampio progetto politico intrapreso dalle ultime amministrazioni. Un progetto che si è dato come obiettivo quello di diminuire le disuguaglianze sociali dando forma allo slogan “Medellín è la più educata” e riconoscendo così all’educazione il ruolo di pilastro della trasformazione sociale. Il progetto intende ridare agli abitanti la dignità persa nella guerra del narcotraffico, negli anni 80 e 90, avviando un percorso finalizzato alla conversione di Medellín in una delle città più ugualitarie, socialmente e culturalmente inclusiva, e rispettosa delle sue tradizioni nonostante la ricostruzione guardi al futuro. L’architettura dunque riassume e riflette questo nuovo programma. Questo progetto politico-sociale, culturale e urbanistico, ha permesso che la moda, l’arte culinaria, la musica, la grafica, l’arte e anche l’architettura si siano convertite alla rappresentazione di una cultura urbana aperta, trasformata da queste nuove forme del pensiero e dell’azione politica. In questi ultimi sette anni Medellín ha cambiato la sua fisionomia e il giudizio che su di lei esprimono i suoi abitanti. Sono stati realizzati molti progetti: cinque parchi-biblioteche concepiti come i luoghi di trasformazione della società e della città, liberi e gratuiti; più di venti nuove scuole, asili nido, centri di sviluppo tecnologico, zone pedonali, piazze e parchi. In questi spazi si accederà al sapere, all’educazione, alla cultura e a nuovi modi di tempo libero, all’impresa e allo sport. Questi progetti si strutturano come PUI, unità di azione urbanistica, in grado di proporre un intervento integrale che comprende aspetti istituzionali, fisici e sociali, avendo come caratteristica comune la partecipazione nelle decisioni delle comunità coinvolte. Come architetti la sfida è di sviluppare progetti che siano capaci di generare inclusione sociale: il problema non risiede, infatti, unicamente nel costruire edifici in zone degradate, ma in come lo si fa affinché questi ultimi siano capaci di attivare nuove forme di uso, di senso di appartenenza e di orgoglio da parte della comunità. Il valore dell’architettura non si fonda soltanto su se stessa ma su chi la produce. Per poter meglio definire questi temi è necessario spingere il nostro sguardo oltre la stessa architettura: se allarghiamo il nostro sguardo, possiamo trovare nuovi modi di operare, più resistenti e meglio dotati per rispondere alle condizioni attuali. Ogni giorno si fa sempre più necessario capire che la pratica dell’architettura si costruisce attraverso diversi sguardi e che non nasce dal mestiere in modo autonomo; siamo obbligati a conoscere e lavorare con altre forme di pensiero e di organizzare il mondo. Le tradizionali forme di progettazione ogni giorno diventano meno efficaci per capire le realtà complesse ed è per questo che si è reso necessario il trasferimento di conoscenze da altre professioni nonostante siano diverse, poiché esiste una buona probabilità che esse ci permettano di trovare modi più efficienti e logici di operare sulla realtà e che ci portino a realizzare architetture più ‘attuanti’ (definite da ciò che fanno e non dalla loro essenza). Dopo una serie di interventi, siamo anche in grado di definire alcune strategie che abbiamo seguito nella costruzione di queste architetture nelle zone più degradate e che possano essere utilizzate in molteplici forme dai loro abitanti, cosicché queste opere possono soprattutto convertirsi in un elemento di trasformazione e di accrescimento del senso di appartenenza per le comunità dove esse vengono inserite. L’architettura in azione. Cerchiamo di sviluppare le capacità performative delle architetture che realizziamo, più che le capacità rappresentative o le qualità visive. E’ per questo che ci interessa un’architettura che possa essere definita da ciò che fa e non dalla sua forma («L’architettura non è fine a se stessa» Cedric Price). Ci interessa indurre, azioni, effetti, successi, ambienti. Tutto ciò ci permette di sviluppare forme, modelli e organizzazioni materiali che agiscono in modo diretto sulla materia e sullo spazio, come strumenti che inducono la costruzione di azioni sociali tra gli utenti. Ci interessa un’architettura capace di introdurre nuovi comportamenti e nuovi rapporti tra gli abitanti di queste zone abbandonate e degradate. Architettura aperta. Questo interesse ci porta a ricercare architetture aperte capaci di essere mutevoli e adattabili alle nuove sfide sociali e culturali. Ci interessano i sistemi di organizzazione composti da parti o moduli come meccanismi di organizzazione intelligenti che non siano né chiusi né finiti, e la loro capacità adattiva che consente loro di crescere o adeguarsi alle più variegate situazioni. Allo stesso tempo questo aspetto ci permette di sviluppare diversi modelli basati su identiche regole di organizzazione replicabili in luoghi diversi della città rendendo più economici e sostenibili i progetti. Moltiplicare l’uso. L’indeterminazione come strategia progettuale ci permette di pensare che l’architettura che facciamo sia capace di moltiplicare gli usi cui è inizialmente destinata (non come efficacia ma come propiziatrice di nuovi rapporti). Il modo di disporre e configurare gli edifici permette di lasciare luoghi non definiti funzionalmente, questo fa sì che le comunità possano appropriarsi e moltiplicare l’uso iniziale. Quando ci chiedono di progettare un asilo nido pensiamo quale altra destinazione d’uso potrebbero avere parti del programma, ed è così che un asilo nido si trasforma in una sala da pranzo comunale per servire cene ai più disagiati del settore, o in una piazza per kermesse, in una scena di un teatro ecc. Questo si raggiunge sempre se si lasciano parti non definite e ci siano aree disposte ad aprirsi alla città senza che interferiscano con l’uso iniziale proposto. Un’architettura pregnante. Con questo cerchiamo di trasferire condizioni della città consolidata alle zone di periferia e degradate dove agiamo. Gli edifici pubblici in queste zone devono essere identificabili dalle comunità come una presenza statale ed elementi di aiuto per la trasformazione sociale. E’ per questo motivo che cerchiamo di sviluppare architetture preganti, con disposizioni che favoriscano la partecipazione degli abitanti e che questi si sentano parte di una società più giusta e ugualitaria. Questo permette di accrescere il senso di appartenenza e l’orgoglio da parte delle comunità. Cerchiamo e crediamo che gli edifici proposti possano diventare un mezzo di inclusione sociale in grado di aiutare il miglioramento dei fattori della qualità di vita e della competitività economica delle zone degradate e disagiate della Colombia. In questo modo cerchiamo di promuovere benessere sociale e di costruire una società più giusta e sostenibile come fine ultimo dell’architettura. Tratto da Giancarlo Mazzanti; L’architettura nella trasformazione sociale di Medellín; in ‘Lotus International’; n.145; marzo 2011; pp. 24-37 Indice degli articoli 1984 1. 'Green City' in Auckland McNeill, Mark Landscape 20 (Jan 1984): 8-9. 2. Tomorrow's cities: Parasitic or sustainable? Davidson, Joan; MacEwen, Ann Transactions / Royal Institute of British Architects, 1984, v.3, no.2 (6), p.63-68 1987 3. Implementing the World Conservation stategy McKechnie, Ruth. 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