Pdf – 71,4 KB - Scuola San Carlo Borromeo
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IL COMPITO DELL’ADULTO NEL PROCESSO DI CRESCITA DEL BAMBINO Come possiamo essere liberi dall’esito scolastico per non intralciare il cammino del bambino? La scuola è un’esperienza totalizzante nella vita dei bambini e dei ragazzi. E’ il luogo dove il bambino quotidianamente e per tanto tempo sta con degli adulti significativi e con i compagni. E’ il luogo dove il bambino percepisce e vive che l’esperienza della separazione dalla mamma e dal papà ed è il luogo dove il bambino viene invitato a lavorare sulle sue potenzialità e sulle sue curiosità. Nel bambino tutto facilita questo a partire dal livello cognitivo: c’è un forte risveglio della curiosità del bambino verso la realtà con una facilitazione verso il cammino dell’apprendimento con un forte desiderio di conoscere, capire come funzionano le cose. Riconosce e apprezza molto le persone che se la cavano, che sono abili, che sanno padroneggiare quello che hanno davanti. Non per niente nella letteratura psicologica l’età della scuola elementare è identificata come l’età della produttività e dell’industriosità perché molto fattori nel bambino collaborano a questo, lo sviluppo delle capacità cognitive, di quelle sociali, di quelle relazionali….si creano cioè le condizioni per facilitare il cammino dell’apprendimento. Ma la possibilità di apprendere passa tramite la verifica di un desiderio positivo che investe la realtà, l’apprendimento è una possibilità buona per la persona perché corrisponde ad una sua esigenza di conoscere, di capire come vanno le cose, di diventare grandi e simili ai grandi che piacciono. Tutti i bambini desiderano apprendere (certo che ci sono contesti diversi di apprendimento) e questo corrisponde ad una loro esigenza vitale connessa al diventare grande, la scuola non fa altro che formalizzare questo desiderio, offrire dei contenuti, a condizione che anche noi adulti facciamo vedere la positività di quanto il bambino sta apprendendo e non solo delle performance che deve dare. E’ come se la scuola aiutasse il bambino a rispondere alla domanda: aiutami a pensare, a capire, a comprendere. Ma accanto all’esperienza della congruità che quanto viene proposto corrisponda alle potenzialità del bambino, si pone all’interno della famiglia un problema nuovo per quel bambino: quello della gestione dell’apprendimento e della valutazione e le inevitabili domande sulle reali capacità del bambino di essere in grado di corrispondere alle attese degli adulti tramite un percorso scolastico lineare, tranquillo, costellato da voti soddisfacenti, insomma da assenze di problemi. Questo è un problema che invece quando c’è, quando si vedono nel bambino difficoltà o lentezze mai sopite o nuove nel bambino, quando si vede una ritrosia verso quanto viene richiesto dalle maestre, il timore di sbagliare, o difficoltà nell’apprendimento, genera nell’adulto ansia e timore. Accade così frequentemente che la bontà di un impegno venga valutata dall’esito e non da quanto il soggetto ci guadagna, accade che vengono fatte sottolineature enfatiche dei risultati e non del guadagno che invece è il vero esito (che è l’utilizzazione, l’interesse…per quanto appreso). Questo genera nel bambino problemi di ansia da prestazione che non vuole essere diverso da quanto percepisce che desiderano i suoi genitori, ansia da prestazione che porta a far fatica nel voler essere il migliore, il primo o, al contrario, nel non volersi misurare con il compito. Ma la prestazione è qualcosa di ben diverso dalla dal commino dell’apprendimento che è il piacere della scoperta, del verificare linguaggi che hanno un codice che riesce a poco a poco ad essere svelato, che consentono un rapporto con la realtà anche dal punto di vista teorico come completamento ad un appoggio integrale alla realtà. Le prestazioni, le performance sono una visione molto riduttiva delle abilità di un bambino. Si creano così pensieri pericolosi per molti aspetti: primo perché è come se il figlio dovesse dare soddisfazione per quello che da e non per quello che è, secondo il bambino apprende (e lo apprende immediatamente) che questo è il nostro sistema di valutazione di quello che ci piace in lui e, visto che ci ama, lo assume per sé, terzo entra in gioco l’ansia di non essere come pensa che lo vogliano i suoi genitori e conseguente o competizioni con se stesso eccessive o al contrario non tenta neanche. Così ci sono bambini competitivi verso il sé ideale o bambini che preferiscono perdere perché si stimano poco o bambini che utilizzano la scuola per chiedere altro all’adulto (per esempio attenzione). Ma in realtà la scuola ha il compito, facendo leva sul pensiero del ragazzo ai fini dell’apprendimento, di promuovere contemporaneamente il suo pensiero stesso. Se vi è uno scollamento tra il momento del sapere e quello del pensare, tra il successo scolastico e il successo di un soggetto, non è più possibile parlare di scuola. Anziché di insegnamento si dovrebbe parlare di addestramento. Il bambino che entra nella scuola deve vedere trattato bene il suo desiderio di apprendimento (perché di questo si tratta) come deve essere trattato bene il suo pensiero cioè le ipotesi, i ragionamenti che fa su sé, sulla realtà, sulle relazioni e su noi. Pedagogicamente cambia tutto che si ritiene che non ci siano ignoranti da istruire ma soggetti che hanno una ricchezza che coltivano il pensiero già prima di andare a scuola e hanno numerose competenze. Ma attenzione: senza una valorizzazione de pensiero, cioè della persona il conoscere non da soddisfazione. Questo comporta che il compito dell’adulto è di facilitare questo processo che è fatto di pensiero e di lavoro sia per il bambino che per l’adulto che ha il compito di trasmettere il sapere, ma questo viene ostacolato quando c’è l’ansia dell’adulto, l’ansia che la prestazione del bambino non sia adeguata al desiderato. Ci si aspetta il bel voto che segnala l’assenza di problemi, si desidera un percorso lineare, tranquillo che ci dica che siamo bravi genitori che hanno fatto un bravo bambino. Sottolineo che il sospetto di incapacità è la prima pietra di inciampo per l’alunno, un atteggiamento dell’adulto che alla lunga induce all’incapacità del figlio. Le difficoltà di apprendimento e semplici incertezze scolastiche indicono spesso nei genitori una forte apprensione che in genere complica le cose invece che semplificarle. Il bambino già naturalmente, nei momenti in cui si trova in difficoltà, ha la fantasia/paura di poter deludere i propri genitori e di non essere più degno della stima e dell’affetto loro, se la difficoltà scolastica viene caricata di vissuti di insuccesso il bambino rischia di avere di sé solo una percezione negativa, che può esprimere con la depressione e con una finta tracotanza. Infatti molte volte il bambino maschera i suoi veri sentimenti affermando il contrario di quello che prova, perché possa comunicare i suoi sentimenti e le sue impressioni occorre che il clima sia contenuto dal punto di vista emotivo. Occorre che ci sia ascolto. Ascoltare significa cogliere nel bambino ciò che a lui piace, cosa guarda come cosa più importante, la sua attività che desiderio esprime. Quindi il primo elemento per poter lavorare è ascoltare. Va chiarito inoltre, che la possibilità di apprendere passa tramite la possibilità di fare degli errori di sbagliare, di verificare i propri limiti (l’errore dice al bambino che non è onnipotente ma non è neanche un perdente perché l’errore segnala un cammino). Ma molto dipende dalla autostima, anzi, più correttamente, dalla stima. Il ragazzo per poter apprendere deve avere la possibilità di sperimentare che è stimato in quello che sta facendo, che c’è qualcuno, ai suoi occhi importante, che crede che potrà riuscire ad apprendere: questo rinforza i suoi movimenti verso la realtà. Stimare non è valorizzare, ma ancor di più, “pensare bene”, avere considerazione. Quindi non si può stimare il risultato se no schiacciamo il bambino su delle performance, si stima la persona. Perché quello che manca a chi è in difficoltà, quello che rende insostenibile la situazione a chi fa fatica, è il pensiero della riuscita. Davanti alla difficoltà scolastica, perché l’apprendimento sia possibile occorre che il bambino sperimenti di essere stimato nelle sue capacità specifiche, quelle che sono in gioco in quelle situazione e quelle che possiede comunque normalmente. Senza stima di sé, delle proprie capacità, delle proprie possibilità, non è possibile l’apprendimento e la difficoltà diventa un insuccesso perché si passa da un “io non sono capace di” ad un vissuto di fallimento. Questo è allora il primo compito nei confronti del bambino: non rubargli l’idea della possibilità della riuscita, non negargliela, e questo avviene tramite l’esperienza della stima. Stimare vuol dire individuare delle possibilità realistiche, delle capacità che il bambino mette comunque in gioco, portare evidente alla luce del bambino quello che magari lui non vede neanche e che noi adulti dobbiamo vedere per capire per cogliere i suoi pensieri. Secondo punto: facilitare l’apprendimento, compito dell’adulto, significa non dimenticare che quando il genitore è accanto al figlio e collabora al suo successo non deve dimenticare che il protagonista dell’apprendimento è il figlio e che la responsabilità dell’esito scolastico è del bambino, che si tratti di un successo o di un insuccesso. Se il genitore si assume la responsabilità del processo e dell’esito, il figlio si sentirà svalutato e autorizzato a farsi da parte e attendere l’azione risolutiva del genitore. Ai genitori non è chiesto di sostituirsi agli insegnanti o alla scuola, ma di sostenere i bambini camminando sulla loro stessa strada e contribuendo a formare quei comportamenti mentali e quelli atteggiamenti psicologici che favoriscono l’apprendimento (es. favorire l’apprendimento e la scoperta di strategie). Un aiuto importante è nella gestione del tempo e nella pianificazione del lavoro che deve tuttavia rispettare i ritmi propri del figlio e il suo personale stile organizzativo. Molti bambini hanno bisogno della presenza concreta e rassicurante dell’adulto nel momento dello studio. Questo è importante quando il bambino ha bisogno di una guida strategica nel processo di elaborazione delle conoscenze (es. comprendere, memorizzare o trovare la soluzione di un problema). Il genitore può sostenere questo processo facendo emergere i paini mentali che il bambino adotta (ad esempio con l’invito di pensare a voce alta) o offrendo altri schemi mentali ma come suggerimento senza sostituirsi al bambino. Rispetto ai compiti scolastici comunque vorrei fare un’annotazione che svela quale un fattore in gioco importante nella scuola: il compito è un pensare con, è un lavoro che si fa in due. Non è che il bambino deve fare i compiti che gli hanno dato a scuola, è un lavoro che sta facendo con la maestra. Il compito è un lavoro che si fa in più tempi e a più mani, in un momento è il bambino che ne sta facendo un pezzetto, ma l’indomani la maestra ci metterà qualcosa. In altre parole questo vuol dire che il compito non è legato allo svolgimento di un dovere personale ma è un lavoro condiviso. Cioè non sono da solo a realizzare qualcosa ma sto realizzando con qualcuno, per cui più che eseguire bene il compito si tratta di fare la propria parte nel lavoro comune. Il bambino ha proprio in mente che lo fa con la maestra tanto è vero che dice all’adulto: la mia maestra lo vuole o non lo vuole così. Il compito è qualcosa di condiviso: è un lavoro in comune che parte da una relazione tra l’insegnante e i bambino. E’ sentirsi in questa relazione con l’insegnante che fa venire voglia, perché la voglia viene dalla relazione e dallo scoprire che piace poter padroneggiare quanto viene proposto. Un ultimo tema riguarda il nostro pensiero: ad insinuare il dubbio della riuscita siamo proprio noi più che il bambino che quando ce ne parla cerca alleati per un lavoro che deve fare. Apprendere non è sempre facile: ci sono delle fasi e degli ostacoli che a volte sono percepiti come insormontabili, ma tutto dipende dalla prospettiva con cui li guardiamo e dalla certezza della loro affrontabilità. Allora come sostenere il bambino in questo lavoro, in questo cammino? Le condizioni allora sono: 1. aiutare il bambino/aiutarsi a contenere l’emotività connessa alla fatica/difficoltà scolastica. Tutto quello che ci siamo detti è per darci delle “ragioni ragionevoli” per cui sia realistico la funzione di contenimento. Ricordo che la funzione dell’adulto è contemporaneamente promuovere e contenere, allora è proprio un compito dell’adulto contenere la propria emotività e quella del bambino, altrimenti il messaggio che arriva al bambino è fortemente disturbante. Attenzione contenere non è minimizzare. E’ più sopportabile l’arrabbiatura dell’ansia perché questa è connessa al dubbio e questo toglie il pensiero della riuscita; contenere è anche come detto prima aiutare ad organizzare la scuola. Il processo di apprendimento che non è solo legato alla scuola stessa: leggimi quella ricetta, copiami quella frase, raccontami il film che hai visto e dimmi perché ti è piaciuto, questo è un lavoro in cui anche l’adulto si mette in cammino con il bambino; 2. stimare il bambino con ragioni realistiche e aiutarlo a stimarsi anche negli aspetti legati alla questo significa vedere il bambino nella sua globalità valorizzandone le capacità di impegno sulla realtà; 3. sostenere la capacità progettuale del bambino, questo significa che davanti all’errore, alla difficoltà insieme si possono fare dei progetti, dei piani che aiutino il bambino, questo significa aiutare il bambino a vedersi con occhi buoni, cioè capaci di vedere i limiti ma anche le capacità; 4. creare, e questo è possibile solo se utilizziamo la funzione del contenimento, un clima in cui sia possibile per il bambino comunicare i suoi vissuti rispetto alla difficoltà scolastica; 5. sostenere la capacità di apprendimento, offrendo delle esperienze ma sopratutto valorizzare l’apprendimento scolastico come qualcosa che è connessa con la vita del bambino. 6. lavorare con le maestre che stanno lavorando con noi, sono una risorsa: sono occhi che ci aiutano a vedere, ascoltare e comprendere il bambino.