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In cammino su sentieri sterrati AUSTRALIA Viaggio nella terra degli “Antipodi” La scoperta e la conquista dell’Ultimo Continente La cultura più antica del mondo Situato praticamente agli antipodi geografici dell’Italia, il continente australiano è una delle terre più affascinanti del mondo, abitato dal popolo che più a lungo nella storia dell’umanità ha risieduto nello stesso luogo (60.000 anni) sviluppando quella che forse è la cultura più antica tra quelle note. L’Australia è stato l’ultimo continente ad essere “scoperto” dagli esploratori occidentali. L’esistenza di una terra simile, situata dall’altra parte del mondo, era stata già teorizzata da Aristotele e in seguito anche dal cartografo greco Tolomeo, come necessaria per bilanciare il peso del continente euro-asiatico sul globo terrestre. La mitica “Terra Australis Incognita” aveva assunto i contorni della leggenda nell’immaginario collettivo dell’età moderna, tanto da venire rappresentata nelle mappe geografiche dal XV al XVIII secolo, seppure ovviamente in modo approssimativo e solamente vagheggiato. In copertina, Uluru/Ayers Rock, la montagna sacra degli aborigeni. Qui sopra, The Olgas, formazioni rocciose anch’esse sacre, e qui a fianco un canguro selvatico. La colonizzazione europea La sua storia “recente” inizia con la colonizzazione europea, che risale alla fine del XVIII secolo. I primi sbarchi di occidentali sulle coste australiane erano avvenuti nel ‘600 si può dire quasi per sbaglio, dovuti ai forti venti che trascinavano le navi fuori dalle rotte classiche seguite per commerciare con le Indie Orientali, l’Arcipelago malese e in generale in sud-est asiatico. I primi navigatori a “scoprire” l’Australia provenivano da paesi come Olanda, Portogallo e Spagna. Lo scopo era come sempre quello di sviluppare commerci allargando la rete delle relazioni con altri popoli, ma l’effetto non fu quello sperato, almeno all’inizio. I primi incontri con gli aborigeni si risolsero infatti in un disastro e in una reciproca incapacità di comunicare. La cultura, il sistema economico e l’organizzazione sociale dei nativi erano totalmente diversi da quelli europei. Inoltre non vi era traccia di città, edifici di culto o simboli di potere. Tutto ciò fece nascere nei primi esploratori l’idea di una “terra nullius”, terra di nessuno pronta ad essere colonizzata, che avrebbe prodotto conseguenze devastanti per un intero popolo. Tranne poche eccezioni, non vi furono tentativi di stabilire un rapporto armonico con i nativi, né di comprenderne i costumi. William Dampier, il primo inglese a mettere piede sul nuovo continente nella costa occidentale, iniziò a intessere rapporti con i nativi dando ordine ai suoi uomini di catturarne un paio, che in seguito lui stesso descriverà come “gli uomini più miserabili del mondo”, praticamente privi di tutto, senza vestiti, senza ricchezze e anche senza “il minimo interesse per ciò che noi Europei consideriamo pregiato”. Nei suoi resoconti, gli Aborigeni occupavano il gradino più basso nella scala dell’umanità. James Cook, Capitano della Royal Navy Tra i pochi esempi di uomini inglesi aperti all’incontro armonico con gli aborigeni, fu il Capitano della Marina Britannica James Cook (1728-1779), figura fondamentale nella storia delle esplorazioni. Intellettuale, cartografo, pioniere delle spedizioni oceaniche, nel 1766 gli fu dato incarico di guidare una missione diretta a Tahiti. Scopo ufficiale della spedizione era compiere osservazioni astronomiche sul transito di Venere davanti al Sole. Ulteriore scopo era cercare nelle regioni meridionali del Pacifico segni della mitica “Terra Australis”. Dopo essere approdato a Tahiti, Cook proseguì verso ovest e raggiunse la Nuova Zelanda, in seguito anche la costa orientale dell’Australia, in precedenza ancora sconosciuta. Infine fece rotta verso nord, esplorando la Grande Barriera Corallina e proclamando la sovranità inglese sulle terre appena toccate. Nei suoi diari, lasciò note in cui descriveva gli incontri con i nativi apprezzando il coraggio che dimostravano a voler difendere le loro terre da ciò che vedevano come invasioni di navi nemiche, pur disponendo solo di lance e strumenti rudimentali che non potevano competere con le armi europee. Inoltre, Cook rimase colpito dalla felicità che leggeva sui volti degli aborigeni, “molto più contenti delle cose che avevano rispetto a noi Europei, che spesso ci affanniamo dietro all’inutile e al superfluo”. Le impressioni generalmente positive che il Capitano riportò di ritorno dal suo viaggio, furono per lo più ignorate dal potere ufficiale, molto più interessato a prospettive di conquista di terre nuove e di sottomissione di popoli considerati più deboli. Una ricostruzione dell’Endeavour, la storica nave di James Cook. Sotto, un ritratto del celebre navigatore inglese. Il Kings Canyon si staglia contro il cielo, nell’outback australiano. Nella pagina seguente, il profilo inconfondibile della Sydney Opera House. La colonia penale di Port Jackson e la figura di Bennelong Nel 1787 l’Inghilterra decise di creare una colonia penale a Sydney Cove, poco lontano da dove Cook con le sue navi era sbarcato nel primo viaggio di perlustrazione della costa est del nuovo continente. Le ragioni erano sgravare la madrepatria dal peso dei prigionieri, e dare una valvola di sfogo all’emigrazione verso altre parti del mondo. La “First Fleet” (Prima Flotta) del Capitano Arthur Phillips arrivò a destinazione il 26 gennaio dell’anno seguente. A bordo erano 290 tra marinai, soldati e ufficiali, e 717 condannati. Il territorio in cui i nuovi arrivati si insediarono, iniziando la costruzione di una cittadella che poi avrebbe dato vita a quella che è oggi Sydney, la città più famosa d’Australia, apparteneva alla tribù dei Gamaraigal da decine di migliaia di anni. L’anno dopo ancora (1789) lo stesso Capitano Phillips, nominato primo Governatore del New South Wales (Nuovo Galles del Sud, regione sud-est del continente australiano), decideva che era giunta l’ora di stabilire rapporti di amicizia e rispetto con gli aborigeni. A tal fine diede ordine ai suoi uomini di “catturare” alcuni nativi, per cercare di apprenderne i costumi e le usanze. I due aborigeni portati davanti a lui si chiamavano Bennelong e Colbee. Il primo di questi passò alla storia come esempio di “contaminazione culturale” positiva tra i due popoli. Bennelong infatti si dimostrò ben disposto ad imparare la lingua e le tradizioni inglesi, e venne perfino portato a corte come testimone vivente del successo della diplomazia britannica nelle nuove colonie. Nel 1790 venne eretta una piccola capanna a lui destinata, dove ora si trova il celeberrimo teatro della Sydney Opera House. Ancora oggi una placca commemora quel luogo, che vuole essere un invito alla conoscenza e alla valorizzazione reciproca delle culture di tutto il mondo… “Terra delle opportunità” Vedendo la propria terra invasa dai coloni bianchi, gli indigeni non credevano che questi nuovi arrivati sarebbero durati a lungo, senza conoscere il territorio e privi degli strumenti adatti a sopravvivere. Invece non solo durarono, ma stabilirono delle relazioni con gli aborigeni, finendo per trasmettere loro i vizi peggiori della vita di frontiera. Alcool, gioco d’azzardo, prostituzione si diffusero anche tra i nativi, costretti a cercare un difficile compromesso con l’ondata iniziale di un popolo che, a questo punto era chiaro, non se ne sarebbe mai andato. Il cui numero anzi continuava a crescere includendo anche molti contadini e allevatori emigrati dall’Europa, in cerca di una vita migliore in un paese ancora vergine. Col tempo nacquero le prime “farm”, le fattorie e le attività economiche di coltivazione della terra e allevamento. All’inizio dell’800 l’Australia non era più considerata la “galera dall’altra parte del mondo”, ma una terra di opportunità. I nuovi coloni cominciarono a espandersi anche in aree remote, prima troppo distanti per essere occupate dai bianchi. Si calcola che nel 1838 fossero già 3 milioni le pecore allevate nelle fattorie, mentre le aziende agricole e l’attività di estrazione dei minerali erano in piena espansione. Il decennio 1830-1840 vide complessivamente circa 170.000 europei lasciare il loro paese per imbarcarsi alla volta del nuovo mondo, così ricco di promesse e di terre ancora intatte, da occupare e rendere produttive. A spese dei popoli che da sempre le avevano abitate e dalle quali traevano le risorse per sopravvivere. . Il Parlamento di Canberra, la capitale australiana. “L’unico modo di restare in questo paese selvaggio era di mostrare ai nativi chi era il padrone” Ormai è un fatto ampiamente riconosciuto da tutti gli storici che si sono occupati seriamente della materia: senza il supporto degli aborigeni, che hanno mostrato loro come sopravvivere in un territorio desertico e immenso, privo di fonti d’acqua e di risorse vitali per enormi distanze, i bianchi non avrebbero mai potuto colonizzare il paese come hanno fatto. Mai. In alcuni casi i rapporti tra le due culture erano più armonici e distesi che in altre situazioni, al punto che qualche volta si instaurava uno scambio reciproco di conoscenze relative ad usanze e tradizioni, in uno spirito di rispetto condiviso. Altre volte, tuttavia, i coloni acquisivano dagli aborigeni le conoscenze necessarie a sopravvivere in ambienti duri e sconosciuti, dopodiché li cacciavano dalle loro terre, li sfruttavano come servi e se osavano opporsi li massacravano selvaggiamente. Polizia e farmers locali erano alleati in questa strategia, al punto che i contadini venivano reclutati o si offrivano volontari per proteggere i loro ranch dalla “razza inferiore”. Alla fine del ‘900, un giornale del lontano nord della Western Australia pubblicava la lettera di un contadino locale: “Sarebbe ora che il governo di questa parte del paese chiudesse gli occhi, diciamo per tre mesi, e lasciasse agli abitanti di qua il tempo di insegnare a questi negri la differenza tra mio e tuo… basterebbe dargli una lezione una volta sola, e fatto questo ci si potrebbe dimenticare in fretta di tutta la faccenda”. Sopra, aborigeni del bush nei murales di Redfern, a Sydney. Sotto: una veduta del Parlamento di Canberra. La rivolta dei Kalkatungu La reazione da parte delle tribù e dei singoli individui a questa situazione ormai insostenibile, in cui un popolo veniva espropriato delle sue terre e privato dei mezzi di sussistenza, era alle volte di contaminazione “soft” della cultura dominante (cercare di farsi accettare e di mettersi al servizio dei nuovi padroni), contro la quale in ogni caso non poteva esserci alcuna speranza di avere la meglio in caso di confronto armato. Altre volte invece si tentavano azioni disperate, in cui erano l’orgoglio e l’istinto di libertà a prevalere contro ogni speranza di cambiare in positivo l’attitudine del “più forte”. Gli episodi di resistenza armata degli indigeni furono per lo più abbastanza localizzati in specifiche aree, ma anche condotti con determinatezza. La reazione da parte dei coloni era immediata e durissima. Vennero reclutati corpi scelti di “Native Police”, Polizia Aborigena, uomini scelti di solito da tribù distanti per evitare legami con i gruppi da sottomettere, al comando di militari bianchi. La cosiddetta “pulizia del paese” era condotta con metodica brutalità, le rappresaglie contro attacchi indigeni non risparmiavano donne e bambini massacrati nei loro villaggi. In questo clima di odio e di vendetta, tuttavia, alcuni ex soldati della polizia indigena, ormai esperti nelle tecniche di guerra e nell’uso delle armi, decisero di ribellarsi contro i loro stessi comandanti e di fare finalmente giustizia delle atrocità subite. Un uomo in particolare, Tjandamara, ex “cacciatore di uomini” nei Native Corps, organizzò le tribù ribelli in un sollevamento di proporzioni significative, e per dieci anni (1874-1884) diede filo da torcere ai soldati bianchi. La battaglia finale della rivolta dei Kalkatungu vide contrapposti 600 aborigeni, volti dipinti dei colori di guerra e armi tradizionali in pugno, e 200 soldati equipaggiati come esercito professionale. Quasi tutti i ribelli morirono in quell’epico scontro. Pacificazione Per guadagnarsi da vivere, spesso gli aborigeni lavoravano nelle aziende agricole dei coloni. Concluso il periodo dello scontro armato, seguì infatti una fase di pacificazione, in cui i nativi non solo impararono le tecniche fondamentali per condurre piccole aziende ed essere quindi impiegati come manodopera, ma iniziarono in prima persona delle “avventure” imprenditoriali. Nell’arco di tempo di poco più di mezzo secolo, da inizio ‘900 agli anni ’60, circa 10.000 aborigeni lavoravano nell’allevamento di animali nel nord Australia. E ancora una volta, sembra che fossero sfruttati non ricevendo che compensi minimi, o addirittura venendo pagati con razioni di cibo o stecche di sigarette… Nel 1901 venne ufficialmente proclamata la federazione delle colonie australiane, con grandi cerimonie nella città di Melbourne. Gli aborigeni furono totalmente esclusi dal godimento dei diritti civili, ed esclusi dalla stessa comunità giuridica di “popolo australiano”, venendo considerati cittadini effettivi solo quelli di loro che avevano goduto del diritto di voto nei due anni precedenti. La quasi totalità dei nativi non era stata contata nel censimento, che prendeva in considerazione solo la popolazione bianca. Questa ulteriore ingiustizia non venne rimossa che nel 1967. La bandiera degli aborigeni. Il nero rappresenta il colore della pelle dei nativi, il rosso la terra ma anche il sangue versato nelle lotte per la libertà, il giallo il sole. L’Aboriginal Embassy di Canberra è uno dei segni più eclatanti della protesta dei nativi, che in molti casi ancora oggi si sentono cittadini australiani di serie B, o peggio... L’Ambasciata, costituita da un unico, minuscolo locale, è in stridente contrasto con la magnificenza dell’immenso Museo della Democrazia Australiana, che si erge proprio di fronte. “Stolen Generations”, le generazioni rubate Grosso modo dal 1890 agli anni ’70 del secolo scorso, si è consumato uno dei crimini più vergognosi della storia d’Australia. Atti ufficiali dei vari parlamenti degli stati federali del paese hanno autorizzato la società bianca a sottrarre forzatamente alle famiglie aborigene i loro figli. Li hanno letteralmente “rubati” per inculcare i valori della cosiddetta società “civile” nelle nuove generazioni di australiani. Il motivo ufficiale: gli aborigeni, in quanto “animali”, non erano in grado di badare ai loro figli, quindi era necessario separarli dalle famiglie “nel loro stesso interesse”. Bambini e bambine di pochi anni furono affidati a strutture governative, a missioni religiose o messi in riformatori, con lo scopo di distruggere la cultura aborigena e la memoria di un intero popolo. Ai giovani venne insegnata la lingua, la cultura e la religione praticata in Inghilterra, proibita qualunque espressione delle loro tradizioni antiche. Appena raggiunta un’età accettabile li aspettava il lavoro in fabbrica, nelle fattorie o come servi nelle famiglie bianche, in condizioni di precarietà facilmente intuibili. Il trauma delle “stolen generations” ha lacerato l’anima di molte migliaia di bambini di allora, separati per sempre dai propri genitori e costretti a vivere un’esistenza alienante. “We say sorry” (“Chiediamo perdono”) “40.000 anni sono un lungo tempo. Altri 40.000 sono gli anni che ho in mente”. Redfern, Sydney. Si può dire che solo oggi il governo australiano abbia fatto atto pubblico di pentimento, chiedendo scusa agli aborigeni di tutte le sofferenze causate. 13 febbraio 2008. Il Primo Ministro Kevin Rudd pronuncia davanti alla Casa dei Rappresentanti in Parlamento, uno storico discorso atteso dai nativi da molto tempo: “Per il dolore, la sofferenza e le offese recate alle Stolen Generations, ai loro discendenti e alle loro famiglie abbandonate, chiediamo perdono “Alle madri e ai padri, ai fratelli e alle sorelle, per la distruzione di famiglie e comunità, chiediamo perdono “Per gli atti di mortificazione e degradazione inflitti ad un popolo fiero e alla sua cultura, chiediamo perdono “Noi, il Parlamento d’Australia, chiediamo rispettosamente che questa atto di pentimento venga ricevuto nello stesso spirito in cui è offerto, come parte della riconciliazione del paese “Oggi compiamo questo primo passo riconoscendo il passato e ponendo le basi per un futuro che abbracci la totalità degli Australiani. Un futuro in cui gli Australiani, non importa di quale origine, sono cittadini uguali con le medesime opportunità nello scrivere il prossimo capitolo della storia di questo nostro grande paese”. Il discorso fu seguito da una folla numerosa fuori dalle mura del Parlamento, con molti degli ex “bambini rubati” in lacrime. Il leader dell’opposizione, Brendan Nelson, rispose alla mozione del Primo Ministro mettendo in guardia dal giudicare con la mentalità di oggi le azioni compiute in passato. Nelson commentò che “abbiamo la responsabilità di capire cosa è stato fatto in altri tempi nel nostro nome. La nostra generazione non ha commesso quelle azioni, né si deve sentire colpevole per ciò che, in molti casi, è stato fatto con le migliori intenzioni”… “Basta di negarci giustizia. Rispettate la nostra terra”. Fuori dall’Aboriginal Embassy di Canberra. Testo e foto: Michele Mornese